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Così ti avranno già indubbiamente raccontato come io dissi a Jones di portare quel mulo che non era suo, sul dietro, alla rimessa, e attaccarlo al nostro carrozzino mentre io mi mettevo cappello e scialle e chiudevo la casa. Non avevo altro da fare poiché ti avranno certo detto che non mi sarebbero serviti né baule né valigia poiché tutto il vestiario di mia proprietà, ora che gli indumenti avuti in fortunata eredità dalla gentilezza o fretta o distrazione di mia zia erano da tempo consumati, consisteva in ciò che Ellen di tanto in tanto si era ricordata di darmi, e ormai Ellen era morta da due anni; che io avevo solo da chiudere la casa e prender posto nel carrozzino e coprire quelle dodici miglia mai più percorse da quando era morta Ellen, accanto a quel bruto che fino alla morte di Ellen non aveva neppure il permesso di avvicinarsi alla casa dall'entrata principale - quel bruto progenitore di bruti la cui nipote doveva soppiantarmi, se non nella casa di mia sorella almeno nel letto di mia sorella a cui (così ti diranno) aspiravo - quel bruto che (bruto strumento di quella giustizia che presiede agli eventi umani, e accettata dall'individuo, corre liscia, non artiglio ma velluto: ma se disprezzata da uomo o donna, avanza come acciaio infocato e travolge giusti deboli e ingiusti forti, oppressore e vittima innocente, senza riguardo per il diritto stabilito e la verità) bruto che doveva non soltanto presiedere alle varie forme e incarnazioni del diabolico destino di Thomas Sutpen ma fornire da ultimo la carne femminile in cui potessero essere seppelliti il suo nome e lignaggio - quel bruto che manifestamente riteneva di aver assolto e compiuto il suo espresso fine urlando di sangue e pistole nella via davanti alla mia casa, che apparentemente riteneva troppo scarsa o blanda qualsiasi informazione avesse potuto darmi, troppo priva di importanza per giustificare l'abbandono della presa di tabacco che andava masticando, perché per tutte le dodici miglia successive non seppe nemmeno dirmi quel che era successo.
E come io percorsi quelle stesse dodici miglia ancora una volta dopo i due anni da quando Ellen era morta (o fu nei quattro anni da quando Henry era sparito o nei diciannove da quando io avevo visto la luce e respiravo?) senza sapere nulla, nell'impossibilità di apprendere nulla all'infuori di questo: uno sparo udito, fioco e lontano e perfino direzione e origine indeterminate, da due donne, due donne sole in una casa in sfacelo dove da due anni non echeggiava un passo d'uomo - uno sparo, poi un intervallo di esterrefatta congettura lì sopra la stoffa e gli aghi con cui stavano lavorando, poi passi, nell'atrio e poi sulle scale, di corsa, di fretta, passi d'uomo: e Judith appena in tempo a raccogliere di scatto l'abito non terminato e tenerselo da vanti mentre la porta si spalancava sul fratello, il selvaggio assassino che lei non vedeva da quattro anni e che credeva fosse (seppur c'era, se ancora viveva e respirava) mille miglia lontano: e poi loro due, i due figli maledetti sui quali era caduto proprio in quel momento il primo colpo del loro retaggio diabolico, fissi l'uno sull'altra sopra l'abito nuziale sollevato e non finito. Percorsi dodici miglia verso quella scena, accanto a un animale che poté piantarsi in mezzo alla strada davanti a casa mia e muggire placidamente alla solitudine popolosa e attenta che mio nipote aveva appena assassinato il fidanzato di sua sorella, eppure non poté permettersi di forzare a un'andatura più rapida del semplice passo il mulo che ci portava perché «non era mia la bestia e neanche sua e poi non aveva più avuto una foraggiata decente dopo il granturco di febbraio»; che, svoltando finalmente per entrare dal cancello, dovette fermare il mulo e, indicando con la frusta e, prima sputando, dire: «Era proprio lì». «Che cosa era proprio lì, balordo?» gridai, e lui: «Lì» fin quando io non gli levai la frusta di mano e sferzai il mulo.
Ma non possono dirti come percorsi il viale d'accesso oltrepassando le aiuole rovinate e inselvatichite di Ellen e raggiunsi la casa, il guscio, il (così pensavo) bozzolo-scrigno-letto nuziale della gioventù e del dolore e constatai di essere giunta, non già troppo tardi come avevo creduto, ma troppo presto. Portico in sfacelo e pareti in sgretolamento, stava lì, non saccheggiata, non invasa, non segnata da proiettile o tallone di ferro di soldato ma piuttosto come riservata per qualcosa di più: qualche desolazione più profonda della rovina, quasi in ferrea giustapposizione a ferrea fiamma, a un olocausto che si era trovato meno feroce e meno implacabile, non avventandosi ma piuttosto arretrato davanti all'inaccessibile e indomabile scheletro che le fiamme non osarono, nella crisi finale dell'istante, assalire; c'era perfino un gradino, un'asse marcia staccata che cedeva sotto il piede (o lo avrebbe fatto se non l'avessi toccata leggermente e in fretta) come io corsi nell'anticamera il cui tappeto era andato da un pezzo a fare bendaggi assieme alla biancheria da letto e da tavola e vidi la faccia di Sutpen e nell'attimo stesso di gridare: «Henry! Henry! Che cos'hai fatto? Che cosa ha cercato di dirmi quel balordo?» mi resi conto di essere arrivata, non già troppo tardi come avevo creduto, ma troppo presto. Perché non era la faccia di Henry. Era certamente una faccia Sutpen, ma non la sua; una faccia Sutpen certamente color caffè, lì nella fioca luce, e sbarrava la scala: e io che accorrevo dal luminoso pomeriggio nel silenzio rintronato di quella casa assorta dove a tutta prima nulla potevo vedere: poi a poco a poco la faccia, la faccia Sutpen che non si avvicinava, non emergeva nuotando dalla penombra, ma era già lì, rupestre e ferma e anteriore al tempo e alla casa e alla condanna e a tutto, piantata lì in attesa (oh sì, lui scelse bene; lui migliorò la scelta, creando a propria immagine il freddo Cerbero del suo inferno privato) - la faccia senza sesso o età perché non aveva mai posseduto né l'uno né l'altra: la stessa faccia di sfinge con cui era nata lei, che aveva guardato giù dal fienile quella notte accanto a quella di Judith e che lei ancora porta oggi a settantaquattro anni, guardandomi senza mutamento, senza alterazione alcuna, come se avesse previsto fino al minuto secondo il momento in cui dovevo entrare, avesse aspettato lì durante tutte quelle dodici miglia da me percorse dietro il mulo al passo e mi avesse osservata mentre mi facevo sempre più vicino ed entravo finalmente dalla porta come se avesse saputo (sì, forse decretato, poiché esiste quella giustizia il cui ventrepalato di Moloch non fa distinzione tra cartilagine, osso e carne tenera) che io sarei entrata. La faccia che mi bloccò di netto (non il mio corpo: esso avanzò ancora, proseguì la corsa: ma io, me stessa, quell'esistenza profonda che conduciamo, per la quale il movimento delle membra è solo un goffo e ritardato accompagnamento come altrettanti strumenti superflui suonati rozzamente e dilettantescamente fuori tempo sulla stessa aria) in quell'atrio deserto con le scale nude (anche quel tappeto sparito) che salivano nella buia anticamera del piano di sopra dove parlava un'eco non mia ma piuttosto di quel perduto irrevocabile avrebbe-potuto-essere che infesta tutte le case, tutte le pareti chiuse erette da mano umana, non per riparo, non per calore, ma per celare allo sguardo curioso e alla vista del mondo le svolte tenebrose che prendono le antiche giovani illusioni di orgoglio e speranza e ambizione (sì, e amore anche). «Judith!» dissi. «Judith!».
Non ci fu risposta. Non ne aspettavo alcuna; forse in quel momento stesso non mi aspettavo neppure che Judith rispondesse, proprio come un bambino, che prima di essere preso completamente dal terrore, chiama il genitore che sa benissimo (prima che il terrore distrugga qualunque forma di giudizio) non essere nemmeno a portata di voce. Io gridavo non già a qualcuno o qualcosa in particolare, ma (tentavo di gridare) attraverso qualcosa, attraverso quella forza, quel furioso eppure assolutamente granitico e immobile antagonismo che mi aveva bloccata - quella presenza, quella faccia familiare color caffè, quel corpo (i piedi nudi color caffè, immobili sul pavimento, la curva della scala proprio dietro di lei) non più grande del mio che, senza muoversi, senza alcuna alterazione di spostamento visibile (ella non distolse neppure lo sguardo dal mio per il fatto che non guardava me ma attraverso e oltre me, evidentemente ancora meditando sul sereno rettangolo di porta aperta che io avevo rotto) parve prolungarsi e prolungare in alto qualcosa - non anima, non spirito, ma qualcosa piuttosto di una profondamente attenta e pazza ascoltazione di o in attesa di qualcosa che io stessa non potevo udire e non si voleva udissi - una meditabonda consapevolezza e accettazione dell'inesplicabile non visto, ereditata da una razza più vecchia e pura della mia, che creava postulava e foggiava nell'aria vuota fra noi quanto credevo di esser venuta a trovare {anzi, dovevo trovare, sennò pur standomene lì ritta e respirante avrei negato di esser mai nata) - quella stanza da letto da tempo chiusa e muffita, quel letto senza lenzuola (quel giaciglio nuziale d'amore e dolore) col pallido cadavere insanguinato nella sua rappezzata e stinta uniforme grigia che arrossava lo spoglio materasso, la vedova reclina e non ancora sposa inginocchiata accanto - e io (il mio corpo) non ancora ferma (sì, per questo ci voleva la mano, il tocco) - io, sciocca semi-ipnotizzata ancora convinta che quanto doveva essere si sarebbe avverato, non poteva non avverarsi, altrimenti avrei dovuto negare la lucidità mentale e il respiro insieme, lanciata in corsa contro quell'imperscrutabile faccia color caffè, quella fredda implacabile ottusa (no, non ottusa: tutt'altro che ottusa: la volontà chiaroveggente di lui temperata all'inflessibile assoluto del male amorale dal nero sangue volitivo con cui egli l'aveva incrociata) replica della sua faccia, che lui aveva creato e destinato a presiedere alla sua assenza, come tu potresti osservare un uccello infuriato impazzito stregato dalla notte perdersi svolazzando nella bronzea lampada fatale. «Aspetta» disse lei. «Non salire». Ancora non mi fermai; ci voleva la mano; e io sempre in corsa, compiendo quegli ultimi pochi passi nello spazio attraverso il quale sembravamo fissarci non come due volti ma come le due astratte contraddizioni che in realtà eravamo, e nessuna di noi due alzava la voce, come se ci parlassimo libere dalle limitazioni e restrizioni del linguaggio e dell'udito. «Come?» dissi.
«Non salire là, Rosa». Fu così che lo disse: così quieta, così tranquilla, e di nuovo fu come se non fosse stata lei a parlare ma la casa stessa che formulava le parole - la casa che lui aveva costruito, che qualche sua suppurazione gli aveva creato attorno così come il sudore del suo corpo avrebbe potuto produrre qualche (seppur invisibile) involucro complementare simile a bozzolo in cui Ellen aveva dovuto vivere e morire estranea, in cui Henry e Judith avrebbero dovuto essere vittime e prigionieri, o morire. Perché non era il nome, la parola, il fatto che lei mi avesse chiamato Rosa. Da bambini, mi chiamava così, come chiamava loro Henry e Judith; io sapevo che lei ancora chiamava Judith (e anche Henry quando parlava di lui) per nome. E lei avrebbe ben potuto naturalmente chiamarmi Rosa, giacché per tutti gli altri di mia conoscenza io ero sempre una bimba. Ma non era questo. Non era certo questo il suo intento; infatti, durante quell'attimo in cui rimanemmo faccia a faccia (quell'attimo prima che il mio corpo ancora in movimento potesse sfiorarla oltrepassandola e raggiungere la scala) ella mi rese più omaggio e rispetto di chiunque altro conoscessi; lo seppi dal momento in cui ero entrata, per lei fra tutti quelli che mi conoscevano io non ero una bambina. «Rosa?» gridai. «A me? In faccia?». Poi mi toccò, e allora mi arrestai di colpo. Forse anche allora il mio corpo non si fermò, perché mi parve di avvertire il suo urto cieco sempre contro il peso solido eppur imponderabile (lei non posseditrice: strumento; lo ripeto) di quella volontà decisa a sbarrarmi l'accesso alla scala; forse il suono dell'altra voce, l'isolata parola pronunciata dalla cima delle scale sopra di noi, era già insorta a separarci prima ancora che esso (il mio corpo) si fosse fermato. Io non lo so. So soltanto che tutto il mio essere parve lanciarsi a corpo morto in qualcosa di mostruoso e immobile, con un urto troppo prematuro e troppo rapido per essere semplice stupore e offesa a causa di quella nera mano che mi arrestava e per nulla timorosa sulla mia carne di donna bianca. Perché nel contatto della carne c'è qualcosa che abroga, taglia netto e diritto per le tortuose vie intricate dell'ordinamento decoroso, e nemici e amanti lo conoscono bene questo qualcosa perché esso li fa tali: - contatto, sì, contatto di quella che è la cittadella intima dell'Io sono centrale, privato: non spirito, anima; la mente liquorosa e indifesa è a disposizione di chiunque la voglia portare in qualsiasi buio corridoio di questa dimora terrestre. Ma che la carne tocchi la carne, ed ecco cadere tutto il particolarismo epidermico di casta e colore. Sì, mi fermai di colpo — non mano di donna, non mano di negra, ma briglia munita di morso per raffrenare e guidare la volontà furiosa e incrollabile - io, urlando non a lei, ma a quella cosa; parlando a quella cosa attraverso la negra, la donna, solo a causa dell'urto che non era ancora oltraggio perché sarebbe stato ben presto terrore, non aspettandomi né ricevendo nessuna risposta perché sapevamo entrambe che non a lei io parlavo: «Levami la mano di dosso, negra!».
Niente. Noi stemmo giusto lì — io immobile nell'atteggiamento e azione della corsa, lei rigida in quell'immobilità furiosa, entrambe congiunte da quella mano e braccio che ci teneva, come un feroce rigido cordone ombelicale, creature gemelle di quella spaventosa tenebra che aveva partorito lei. Da bambina più d'una volta avevo guardato lei e Judith e perfino Henry accapigliarsi, nei rozzi giochi che loro (forse tutti i bambini; non lo so) facevano, e (così ho sentito dire) lei e Judith dormivano anche assieme, nella stessa stanza ma con Judith sul letto e lei su un pagliericcio ostensibilmente per terra. Ma ho sentito dire come più d'una volta Ellen le trovasse entrambe sul pagliericcio, e una volta poi nel letto assieme. Ma io no. Fin da bambina, non volevo nemmeno giocare con gli stessi oggetti con cui giocavano lei e Judith, come se quella deformata solitudine spartana che io chiamavo la mia infanzia, che mi aveva insegnato (e ben poco all'infuori di ciò) ad ascoltare prima di poter comprendere e a capire prima ancora di udire, mi avesse insegnato anche non solo a temere istintivamente lei e ciò che lei era, ma a evitare gli oggetti stessi che lei aveva toccato. Stemmo lì così. E poi d'un tratto non fu oltraggio ciò che aspettavo, ciò che mi aveva fatto gridare istintivamente; non fu terrore: fu qualche cumulativa propaggine della disperazione stessa. Mi ricordo come mentre stavamo lì congiunte da quell'abulica (sì: anch'essa vittima senziente né più né meno di lei e me) mano, io gridai - forse non forte, non con parole (e non a Judith, bada: forse sapevo già, al momento stesso di entrare in quella casa e vedere quella faccia che era e più e meno di Sutpen, forse sapevo fin d'allora che cosa non potevo, volevo, dovevo credere) - gridai: «E anche tu? E anche tu, sorella, sorella?». Che cosa mi aspettavo? Io, sciocca autoipnotizzata, fare dodici miglia aspettandomi — che cosai Henry forse, che emergesse da qualche porta avvezza al suo tocco, la sua mano sulla maniglia, il peso del suo piede su un davanzale che conosceva quel peso: e così trovasse ritta nell'atrio una piccola semplice creatura spaventata che né uomo né donna aveva mai guardato più d'una volta, che lui stesso non aveva mai visto in quattro anni e ben di rado prima ma tuttavia avrebbe riconosciuto se non altro per la logora seta bruna che una volta si addiceva a sua madre e perché la creatura stava lì chiamandolo per nome? Henry emergere e dire: «Oh, ma è Rosa, la Zia Rosa. Svegliati, Zia Rosa; svegliati?». Io la sognatrice ancora aggrappata al sogno come il paziente si aggrappa all'ultimo tenue insopportabile estatico istante di agonia per acuire il gusto del cessato dolore, destandosi alla realtà, alla più che realtà, non all'immutato e inalterato tempo trascorso ma a un tempo alterato per adattarsi al sogno che, in un tutt'uno col sognatore, diventa immolazione e apoteosi: «Mamma e Judith sono nella stanza dei bambini, e papà e Charles passeggiano in giardino. Svegliati, Zia Rosa; svegliati?». O forse non era aspettativa, la mia, nemmeno speranza; nemmeno sogno perché i sogni non vengono a coppie, e non avevo forse fatto quelle dodici miglia non al tiro di un mulo mortale ma di qualche mostruosa creatura d'incubo? (Sì, svegliati, Rosa; svegliati - non da ciò che era, da ciò che soleva essere, ma da ciò che non era stato, non avrebbe mai potuto essere; svegliati, Rosa - non da ciò che avrebbe dovuto, potuto essere, ma da ciò che non può, non deve essere; svegliati, Rosa, dalla speranza, tu che credevi davvero ci fosse un decoro nel lutto anche se il dolore è assente; credevi ci fosse bisogno da parte tua di salvare non l'amore forse, non la felicità o la pace, ma ciò che rimaneva nella vedovanza - e trovasti che non c'era niente da salvare; tu che speravi di salvarla come avevi promesso a Ellen (non Charles Bon, non Henry: nessuno di questi due da lui o l'uno dall'altro) e adesso eri in ritardo, tu che saresti stata in ritardo quand'anche fossi appena uscita dalla matrice o ti fossi già trovata sul posto nel pieno forte capace apice mortale quando ella nacque; che facesti dodici miglia e diciannove anni per salvare ciò che non aveva bisogno di essere salvato, e invece perdesti te stessa) io non lo so, tranne che non trovai nulla. Trovai solo quello stato di sogno in cui fuggi senza muoverti da un terrore in cui non puoi credere, verso una salvezza in cui non hai fede, tenuta così non dalle malsicure sabbie mobili dell'incubo ma da un volto che era l'inquisitore della propria anima, una mano che era l'agente della propria crocifissione, fin quando la voce non ci separò, non ruppe l'incanto. Disse una sola parola: «Clytie», proprio così, con questa freddezza, con questa calma: non Judith, ma la casa stessa parlava ancora, sebbene fosse la voce di Judith. Oh, lo sapevo bene, io che avevo creduto nel decoro del dolore, lo sapevo come lei - Clytie - lo sapeva. Lei non si mosse; fu soltanto la mano, la mano sparita prima che io mi accorgessi che era stata tolta. Non so se lei la tolse o se io ne sfuggii il contatto. Ma era sparita; e anche questo non te lo possono dire: come io corsi, fuggii, su per le scale e trovai non già un'afflitta sposa vedovata ma Judith ritta davanti alla porta chiusa di quella camera, nell'abito di cotone striato che indossava tutte le volte che l'avevo vista dopo la morte di Ellen, reggendo qualcosa in una mano penzolante; e se dolore c'era stato o angoscia, li aveva messi da parte, completamente o no non saprei dire, insieme a quell'abito nuziale incompiuto. «Si, Rosai» disse, così, e io mi fermai proprio ancora a metà corsa quantunque il corpo, cieco insensibile carro di illusa argilla e respiro, avanzasse ancora: e come vidi che quel ch'ella teneva in quella mano abbandonata e incurante era la fotografia, il suo ritratto nella cornice di metallo che lei gli aveva dato, tenuto con indifferenza e dimenticato contro il fianco come un qualsiasi libro di lettura amena appena interrotto.
Ecco che cosa trovai. Forse è quello che mi aspettavo, che sapevo (anche a diciannove anni sapevo, direi, se non fosse per quei miei diciannove anni, i miei specialissimi diciannove anni) di dover trovare. Forse non avrei nemmeno potuto desiderare di più, non avrei potuto accettare di meno, io che anche a diciannove anni dovevo sapere che la vita è un attimo costante e perpetuo in cui il velo d'arazzo steso davanti al dover essere pende docile e perfino lieto al più lieve colpo nudo se avessimo osato, fossimo abbastanza coraggiosi (non abbastanza saggi: nessun bisogno di saggezza qui) da operare lo squarcio. O forse non è nemmeno mancanza di coraggio: non viltà che non affronti quella malattia annidata in qualche punto alle fondamenta prime di questo schema di fatti da cui l'anima prigioniera, distillatrice di miasmi, fluttua sempre verso l'alto, verso il sole, traina le sue tenui arterie e vene prigioniere e imprigionando a sua volta quella scintilla, quel sogno che, come il globale e completo attimo della sua libertà rispecchia e ripete (ripetei crea, riduce a una fragile sfera evanescente, iridescente) tutto quanto lo spazio e il tempo e la terra massiccia, abbandona la ribollente e anonima massa miasmatica che in tutti gli anni del tempo non ha appreso altro profitto dalla morte se non il modo di ricreare, di rinnovare; e muore, è sparita, svanita: nulla - ma è vera saggezza quella che sa comprendere che c'è un avrebbe-potuto-essere più vero della verità, svegliandosi dal quale il sognatore non dice «Ho dunque solo sognato?» ma piuttosto dice, accusa lo stesso cielo in persona con un: «Perché mai mi sono svegliato, dal momento che in questa veglia non ritroverò mai più il sonno?».
Ci fu una volta - noti come il glicine, investito dal sole su questo muro, distilla e penetra questa stanza quasi (non intralciato dalla luce) mediante un segreto procedere per attrito di granello in granello fra gli innumeri componenti dell'oscurità? Questa è la sostanza del ricordo - senso, vista, odorato: i muscoli con cui vediamo e udiamo e sentiamo non - non mente, non pensiero: non c'è una memoria: il cervello ricorda giusto quel che i muscoli cercano annaspando: niente di più, niente di meno: e la somma risultante è di solito sbagliata e falsa e degna del solo nome di sogno. - Vedi come la mano allungata nel sonno, toccando la candela a lato del letto, ricorda il dolore, scatta indietro liberandosi e intanto mente e cervello seguitano a dormire e di questo calore contiguo fanno qualche mito banale di fuga dalla realtà, nient'altro: o quella stessa mano dormiente, in sensuoso sposalizio con qualche superficie vellutata da quello stesso cervello e mente immersi nel sonno vien trasformata in quella stessa roba fittizia tratta per deformazione dall'esperienza. Sì, il dolore se ne va, svanisce; noi lo sappiamo - ma domanda ai condotti lacrimali se hanno disimparato a piangere. - Una volta ci fu (non possono averti detto nemmeno questo) un'estate di glicini. Fu una onnipresente fioritura di glicini (avevo allora quattordici anni) quasi composta di tutte le primavere ancora inviolate condensate in una primavera, un'estate: la primavera ed estate propria di ogni femmina che ha respirato sulla faccia della terra, contemplata da tutte le primavere tradite tenute in sospeso da tutto il tempo irrevocabile, ripercossa, rifiorita. Fu una buona annata di glicini: una buona annata è quella dolce congiunzione di radici fioritura e impulso e ora e clima; e io (io avevo quattordici anni) - non voglio insistere sulla fioritura, che nessun uomo doveva ancora guardare - né allora né mai - due volte, come non bambina ma meno ancora che bambina; come non più bambina che donna ma meno ancora di qualsiasi carne femminile. E non dico foglia - deformata amara pallida e accartocciata immatura sgomenta d'ogni pretesa al verde che avrebbe potuto trarla ai teneri giochi amorosi da infanzia di maggiolino o interrompere l'ultima lussuria delle rapaci vespe e api maschio. Ma radice e impulso sì, ci insisto e lo sostengo, poiché non avevo forse ereditato anch'io da tutte le Eve solitarie dal Serpente in poi? Sì, impulso sì: deforme crisalide di chissà quale seme perfetto: poiché chi mai potrà dire quale contorta radice dimenticata non potrebbe ancora fiorire con qualche fertilizzante granulare, più fertilizzante e più granulare ancora e virulento, perfetto, giusto perché la radice negletta fu piantata male e giacque non morta ma semplicemente dormì dimenticata?
Quella fu la malriuscita estate della mia giovinezza sterile che (per quel breve tempo, quella breve irripetibile primavera del cuore femminile) io vissi non da donna, da ragazza, ma piuttosto da quell'uomo che avrei forse dovuto essere. Avevo quattordici anni allora, quattordici anni se si potevano chiamare anni in quel corridoio non percorso che io chiamavo infanzia, che era non vivere ma piuttosto qualche proiezione dello stesso utero cieco; io in via di gestazione e completa, non pervenuta alla mia giusta età, solo in ritardo per via di qualche taglio cesareo, qualche forcipe freddo sulla testa, forcipe del tempo selvaggio che avrebbe dovuto liberarmi di colpo, io attendevo non la luce, ma quella condanna che noi chiamiamo vittoria femminile ed è: durare e poi durare, senza senso o ragione o speranza di compenso — e poi durare; io come quel cieco pesce sotterraneo, quella favilla isolata la cui origine il pesce non ricorda più, che pulsa e batte alla sua crepuscolare e letargica dimora pervasa dal vecchio prurito insonne che non ha altre parole per esprimersi se non «Questa si chiamava luce», quello «odore», quello «tatto», quell'altro qualcosa che non ha trasmesso nemmeno un nome per il suono dell'ape o dell'uccello o profumo di fiore o luce o sole o amore - sì, nemmeno intento a crescere e svilupparsi, a essere amato dalla luce e ad amarla, ma fornito soltanto di quella scaltra, quell'invertita formazione cancerosa della solitudine che sostituisce a tutti gli altri sensi quello onnivoro e irrazionale dell'udito: cosicché invece di passare le processionali e misurate pietre miliari del tempo infantile io me ne stavo acquattata, non percepita quasi che, fasciata dallo stesso umido e vellutato silenzio dell'utero, io non spostassi aria, non emettessi nessun suono che mi tradisse, dall'una all'altra porta chiusa e proibita e così acquistai tutto quanto sapevo di quella luce e spazio in cui la gente si muoveva e respirava come io (quella stessa bambina) avrei potuto formarmi un concetto del sole vedendolo attraverso un pezzo di vetro affumicato - quattordicenne, di quattro anni più giovane di Judith, quattro anni oltre quel momento di Judith che soltanto le vergini conoscono: quando l'intera delicata curva dello spirito è tutta un'anonima ambisessualità priva di culmine e un recesso nuziale inviolato — non quella vedovile e notturna violazione per opera dell'ineludibile e disdegnoso morto che è la ricompensa dei vent'anni e dei trenta e dei quaranta, ma un mondo pieno di vivente matrimonio come la luce e l'aria che ella respira. Ma non fu certo un'estate di pruriginosa insoddisfazione di vergine; nessun taglio cesareo dell'estate che avrebbe dovuto strapparmi, carne morta o anche embrione, dai viventi: oppure, mediante l'incanto operato dalla frizione sulla carne solcata dal maschio, anche armata e attrezzata da uomo anziché da concava donna.
Fu l'estate dopo quel primo Natale che Henry lo portò a casa, l'estate successiva ai due giorni di quella vacanza di giugno che lui passò a Sutpen's Hundred prima di proseguire a cavallo verso il fiume per prendere il battello diretto alla sua città, quell'estate dopo che mia zia se ne andò e mio padre dovette assentarsi per affari e io fui mandata a stare da Ellen (forse mio padre scelse Ellen quale rifugio per me perché a quell'epoca anche Thomas Sutpen era assente) in modo che lei potesse prendersi cura di me, nata troppo tardi, nata in qualche curiosa sconnessione della vita di mio padre e lasciata alle sue mani (ora due volte) vedove, io abbastanza abile da raggiungere uno scaffale in cucina, contare i cucchiai e orlare un lenzuolo e misurare il latte in una zangola ma a nient'altro, eppure ancora troppo preziosa per esser lasciata sola. Io non lo avevo mai visto (non lo vidi mai. Non lo vidi nemmeno morto. Sentii un nome, vidi una fotografia, aiutai a scavare una fossa: e fu tutto) sebbene lui fosse stato a casa mia una volta, quel primo Capodanno quando Henry lo portò per dovere di nipote, a parlarmi mentre si trovavano sulla via del ritorno a scuola e io non ero in casa. Fino allora non avevo neppure udito il suo nome, non sapevo che esistesse. Eppure quel giorno che mi recai laggiù per passarvi l'estate, fu come se quella sosta casuale alla mia porta avesse lasciato qualche seme, qualche minuta virulenza in questa mia terra cantina forse non pronta all'amore (io non lo amavo; e come avrei potuto? non avevo mai neppure udito la sua voce, l'unica garanzia dell'esistenza di quella persona era per me la parola di Ellen) e non pronta allo spiare quale tu indubbiamente lo chiamerai, che durante i sei mesi intercorsi fra quel Capodanno e quel giugno diede sostanza a quell'ombra con un nome emergente dalla vana e garrula follia di Ellen, quella forma senza nemmeno un volto perché ancora non ne avevo mai visto nemmeno la fotografia, riflessa nel segreto e stupefatto sguardo di una fanciulla: perché io che non avevo appreso nulla dell'amore, nemmeno l'amore dei genitori - quella tenera cara costante violazione d'intimità, quella stoltificazione del rigoglioso e incorreggibile io che è il compenso e la spettanza di ogni carne mammifera, divenni non amante, non amata, ma ancor più dell'amore stesso; divenni la sostenitrice androgina di tutto l'amore enciclopedico.
Doveva esserci qualche seme lasciato da lui, per far sì che la fiaba vacante di una bambina si destasse a vita in quel giardino. Perché io non spiavo quando la seguivo. Io non spiavo, anche se tu potrai dire che lo facevo. E anche se spiavo, non era gelosia, perché non lo amavo. (E come avrei potuto, non avendolo mai visto'?). E se anche lo amavo, non era come amano le donne, come lo amava Judith, o come noi credevamo che lo amasse. Se era amore (e io dico ancora, Come poteva essere?) era nel modo in cui ama la madre quando, castigando il bambino, non colpisce lui ma attraverso lui colpisce il bambino del vicino che il suo ha appena frustato o dal quale è stato appena frustato; carezza non il bambino ricompensato ma piuttosto l'innominato uomo o donna che diede il soldo sporco di sudore. Ma non come amano le donne. Perché io non gli chiesi mai niente, vedi. E più ancora: io non gli diedi niente, il che è la sostanza dell'amore. Ebbene, non sentivo nemmeno la sua mancanza. Non so nemmeno adesso se fui mai consapevole di non aver visto nulla del suo volto tranne quella fotografia, quell'ombra, quell'immagine nella camera da letto di una giovinetta: un'immagine casuale e incorniciata sopra un tavolo da toilette ancora ricoperto e adorno (o così pensavo) di tutte le vergini e invisibili rose bianche, perché prima ancora di vedere la fotografia avrei potuto riconoscere, anzi, descrivere, il volto stesso. Ma non lo vidi mai. Non mi risulta nemmeno per conoscenza diretta che Ellen l'abbia mai visto, che Judith l'abbia mai amato, che Henry l'abbia ucciso: dunque chi mi contraddirà se dico: «Perché non l'ho inventato, creato io?». -E io so questo: se fossi Dio, da questo ribollente tumulto che chiamiamo progresso inventerei qualcosa (una macchina forse) per adornare gli sterili specchi-altari di ogni semplice ragazza vivente con una cosa come questo - che è tanto poco dato che vogliamo tanto poco - questo volto ridotto a immagine. Non avrebbe nemmeno bisogno di un cranio dietro; quasi anonimo, abbisognerebbe soltanto della vaga induzione di un po' di carne e sangue ambulanti desiderati da qualcun altro anche se solo in qualche regno umbratile di apparenza illusoria. Un'immagine vista di soppiatto, a forza di guardingo insinuarmi (la mia infanzia m'insegnò questo invece dell'amore, e mi fu buon surrogato; che anzi, se mi avesse insegnato l'amore, l'amore non avrebbe potuto sostenermi così) nella camera deserta di mezzodì per guardarla. Non per sognare, giacché nel sogno appunto vivevo, ma per rinnovare, provare, la parte come il dilettante manchevole ma appassionato potrebbe spingersi alla chetichella verso le quinte in qualche pausa della scena per sentire la voce momentanea del suggeritore. E se era gelosia, non certo gelosia d'uomo, la gelosia dell'amante; nemmeno l'io dell'amante che spia per amore, che spia per osservare, gustare, toccare quell'illibato sogno di solitudine che è il primo assottigliarsi di quel velo che noi chiamiamo verginità; non scatenare, imporre quella vergogna che è tanta parte nel dichiararsi dell'amore, ma gongolare sul ricco istantaneo seno già roseo di caldo sonno sebbene la vergogna non abbia ancora bisogno di svegliarsi. No, non era questo; io non spiavo, io che passeggiavo per quei rastrellati e ghiaiosi sentieri del giardino e pensavo: «Quest'impronta era sua se non fosse stato per questo rastrello obliteratore, e anche a onta del rastrello c'è ancora e appartiene a lei accanto a essa in quel ritmo lento e reciproco in cui il cuore, la mente, non ha bisogno di sorvegliare i docili (sì, i volontari) piedi»; pensavo: «Quali sospiri delle anime anelanti alla fusione hanno ascoltato le mormoranti innumeri orecchie di questo rampicante o cespuglio appartato? Quale voto, quale promessa, quale rapido fuoco tenace ha coronato la pioggia lilla di questo glicine, lo sfacelo di questa rosa opulenta?». Ma meglio di tutto, molto meglio di questo, il vivere in quanto tale e la stessa carne sognatrice. Oh no, io non spiavo mentre sognavo all'indiscreto riparo del mio cespuglio o rampicante come credevo che lei sognasse sull'incavato sedile che serbava impronta invisibile delle cosce assenti di lui proprio come la sabbia obliteratrice, i milioni di nervature digitali di fronda e foglia, lo stesso sole e le costellazioni lunari che lo avevano guardato dall'alto, l'aria intorno, serbavano ancora in qualche luogo il suo piede, la sua figura di passaggio, il suo volto, la sua voce parlante, il suo nome: Charles Bon, Charles Buono, Charles Prossimo-marito. No, non spiavo, nemmeno mi nascondevo, abbastanza bambina da non aver bisogno di nascondermi, e la mia presenza non sarebbe stata una violazione quand'anche lui si fosse trovato accanto a lei sul sedile, eppure abbastanza donna da andare da lei col diritto di essere ricevuta (forse con piacere, gratitudine) in quella virginale confidenza scevra di vergogna in cui le giovanette parlano d'amore... Sì, abbastanza bambina da andare a lei e dirle: «Fammi dormire con te»; donna abbastanza da dire «Sdraiamoci insieme sul letto mentre tu mi dici che cos'è l'amore», eppure non lo feci perché avrei dovuto dire: «Non parlarmi dell'amore ma lasciatelo raccontare da me, che dell'amore so già più di quanto tu giungerai mai a sapere o ad aver bisogno». Poi mio padre tornò e venne a prendermi e mi riportò a casa e io ridiventai quell'imprecisabile creatura, bambina troppo alta eppure donna troppo bassa, negli abiti disadatti lasciati da mia zia, intenta a governare una casa disadatta, e non a spiare, a nascondermi, ma ad aspettare, a osservare, senza ricompensa e ringraziamento, e non lo amavo nel senso che noi diamo a questa parola perché non v'è amore di tale specie senza speranza; io che (se amore pur era) amavo in quella forma che si trova fuori dell'ambito dei libri ben scritti: quell'amore che dà quanto mai ebbe - quell'obolo che è tutto l'avere del donatore ma il cui peso infinitesimale non aggiunge nulla alla sostanza dell'amato - eppure io lo diedi. E non a lui, ma a lei; era come se le dicessi: «Ecco qua, prenditi anche questo. Tu non puoi amarlo come dovrebbe essere amato, e sebbene lui non possa certo sentire il peso di questo dono più di quanto ne sentirebbe mai la mancanza, potrà tuttavia giungere qualche momento nella vostra vita coniugale in cui egli troverà questa particella d'atomo come tu potresti trovare un contorto piccolo pallido virgulto nascosto in un'aiuola ben nota e fermarti e dire: "Da dove viene?"; non hai che rispondere: "Non lo so"». E poi tornai a casa mia e ci rimasi cinque anni, udii l'eco di uno sparo, corsi su per una scala d'incubo, e trovai...
Ma sì, una donna tranquilla in un abito di cotone a righe ritta davanti a una porta chiusa che non voleva lasciarmi varcare - una donna più estranea a me che a qualsiasi dolore per il fatto di esserne tanto meno partecipe - una donna che diceva «Sì, Rosa?» perfettamente calma bloccando la mia corsa che (lo so adesso) era cominciata cinque anni prima, sin da quando lui era stato anche in casa mia, e non vi aveva lasciato più traccia di quanta ne avesse lasciata in casa di Ellen, dove era stato soltanto una forma, un'ombra: non già di un uomo, di un essere, ma di qualche mobile esoterico - vaso o sedia o scrivania - che Ellen desiderasse, quasiché la stessa impressione (o mancata impressione) della sua persona sui muri Coldfìeld o Sutpen contenesse una portentosa profezia di quanto doveva avvenire. - Sì, un correre fuori da quel primo anno (quell'anno prima della guerra) durante il quale Ellen mi parlava di corredo (il mio corredo), da tutta l'onirica armatura di abbandono che era il mio abbandonarmi, io che avevo tanto poco da cedere in quell'abbandono che era tutto il mio avere perché c'è quell'avrebbe-potuto-essere che costituisce lo scoglio solitario a cui ci aggrappiamo nel vortice della realtà insopportabile. - I quattro anni in cui io credevo che lei aspettasse come aspettavo io, mentre il mondo stabile che ci avevano insegnato a conoscere si dissolveva in fuoco e fumo sin quando pace e sicurezza non furono sparite, e con esse orgoglio e speranza, e rimasero soltanto i veterani di un mutilato onore, e l'amore. Sì, ci dovevano essere in qualche modo, ci dovevano essere per forza amore e fede: appannaggio questo lasciatoci dai padri, mariti, innamorati, fratelli, i quali portavano l'orgoglio e la speranza della pace all'avanguardia dell'onore così come facevano con le bandiere; ci dovevano essere queste cose, sennò per quale causa combattono gli uomini? per che altro mai vale la pena di morirei Sì, morire non per la vuota causa dell'onore, né per l'orgoglio e nemmeno per la pace, ma per quell'amore e fede che si lasciarono dietro. Perché lui doveva morire; io lo so questo, questo lo sapevo come dovevano morire orgoglio e pace: altrimenti come provare l'immortalità dell'amore? Ma non l'amore, non la fede stessa, non queste cose in sé. Amore senza speranza forse, fede con ben esiguo motivo d'orgoglio: ma amore e fede almeno al di sopra della strage e della follia, per ricuperare almeno dalla polvere umiliata e accusata qualcosa del vecchio perduto incanto del cuore. Sì, la trovai ritta davanti a quella porta chiusa che non dovevo varcare (e che lei stessa non varcò più, a quanto ne so io, fin quando Jones e l'altro uomo non portarono la bara su per le scale) con la fotografia lungo il fianco e il viso assolutamente calmo, mi guardò per un attimo e alzò la voce quel tanto che bastava a farsi sentire nell'atrio sottostante: «Clytie. Miss Rosa starà qui a pranzo; faresti bene a preparare qualcosa di più»; poi: «Vogliamo scenderei Io devo parlare a Mr. Jones di certe assi e chiodi».
Tutto lì. O piuttosto, non tutto, poiché non c'è tutto, non c'è fine; non si tratta del colpo patito ma del suo tedioso affievolirsi in ripercussione, lo spregevole ingombro di conseguenze da spazzar via dalla soglia stessa della disperazione. Vedi, io lui non lo vidi mai. Non lo vidi nemmeno morto. Sentii un'eco, ma non lo sparo; vidi una porta chiusa ma non vi entrai: mi ricordo come quel pomeriggio quando trasportammo la bara dalla casa (Jones e un altro bianco che lui aveva tirato fuori, esumato da chissà dove la fecero con assi divette dalla rimessa; mi ricordo come mentre mangiavamo il cibo che Judith — sì, Judith: lo stesso viso calmo, freddo e tranquillo sopra il fornello - aveva cucinato, mentre mangiavamo nella stessa stanza al di sopra della quale era disteso lui, li udivamo martellare e segare nel cortile retrostante, e come vidi Judith una volta, con uno stinto cappellino da sole per intonarsi all'abito, dare istruzioni sul modo di farla; ricordo come per tutto quel lento pomeriggio di sole martellarono e segarono proprio sotto la finestra del salotto sul retro - il lento, ossessionante raspare, raspare, raspare della sega, i piatti decisi colpi di martello che avevano ciascuno l'aria di essere l'ultimo ma così non era, ripetuti e ripresi proprio quando la smussata attenuazione dei nervi stanchi, tesi oltre ogni potere di ricupero, si rilassava nel silenzio e poi doveva prorompere in altro urlo: finché da ultimo uscii (e vidi Judith nell'aia in mezzo a un nugolo di polli, il grembiule gonfio d'uova raccolte) e domandai a quella gente perché? perché proprio lì? perché doveva essere proprio lì? ed entrambi si fermarono abbastanza e più ancora che abbastanza da lasciare a Jones il tempo di voltarsi e sputare ancora e dire: «Perché così non c'è da far troppa strada con la cassa»: e come prima ch'io potessi voltar le spalle luì - uno di loro - soggiunse, per qualche intontito e incerto arzigogolare dell'inerzia, «Sarebbe ancora più semplice portarselo giù e inchiodargli le assi intorno, solo che forse a Miss Judy non andrebbe a genio»)... Mi ricordo come mentre lo portavamo giù per le scale e fuori sino al carro fermo in attesa io tentai di addossarmi tutto il peso della bara per dimostrare a me stessa che lui c'era davvero, lì dentro. E non ne ero sicura. Io ero una degli intimi, eppure non potevo, non volevo credere a qualcosa che pur sapevo non poter essere se non così. Perché io non lo vidi mai. Vedi? Ci accadono certe cose che l'intelligenza e i sensi rifiutano proprio come lo stomaco rifiuta quanto il palato ha accettato ma la digestione non può inglobare - casi che ci paralizzano quasi per qualche intervento impalpabile, come una lastra di vetro attraverso la quale osserviamo tutti gli eventi concatenati traspirare come in un vuoto sordo, e scolorirsi, svanire; sono spariti, ecco, lasciandoci immoti, impotenti, privi di risorse; fissi, tanto da poter morire. Così ero io. Io ero lì; qualcosa di me camminava in cadenza misurata sul cadenzato passo di Jones e del suo compagno, e Theophilus McCaslin che aveva risaputo la notizia chissà come in paese, e Clytie mentre portavamo l'ingombrante e scomoda cassa oltre la stretta svolta della scala mentre Judith, seguendoci, la raddrizzava da dietro, e così giù e fuori sino al carro; qualcosa di me aiutò a issare ciò che non avrebbe potuto sollevare da solo e che tuttavia non poteva credere, nel carro in attesa; qualcosa di me stette accanto alla terra sventrata nella cupa penombra dei cedri e udì il goffo rintocco delle zolle sul legno e rispose «No» quando Judith sul tumulo terminato disse: «Lui era un cattolico. Qualcuno di voi sa forse come i cattolici...» e Theophilus McCaslin disse: «Cattolico un accidente; lui era un soldato. E io posso pregare per qualsiasi soldato confederato» e poi gridò con la sua stridula aspra sonora cacofonica voce di vecchio: «Eeeeeeeeeh, Forrest! Eeeeeeeeeeh, John Sartoris! Eeeeeeeeeh!». E qualcosa percorse con Judith e Clytie la via del ritorno attraverso quel campo illuminato dal tramonto e rispose con qualche curiosa serena sospensione alla serena quieta voce che parlava di arare i campi di granturco e tagliare la legna per l'inverno, e nella cucina rischiarata da una lucerna aiutò stavolta a cucinare il pasto e aiutò anche a consumarlo nella stanza oltre il cui soffitto lui non giaceva più, e andò a letto (sì, prese una candela da quella mano ferma che non tremava e pensò «Lei non ha nemmeno pianto» e poi in uno specchio offuscato da una lampada fioca vide il mio volto e pensò «Ma nemmeno tu d'altronde») entro quella casa dove lui aveva soggiornato per un altro lasso breve (e stavolta definitivo) senza lasciar traccia di sé, neppure lacrime. Sì. Un giorno lui non c'era. Poi c'era. Poi non fu più. Fu una cosa troppo breve, troppo rapida, troppo svelta; sei ore di un pomeriggio estivo videro tutto - uno spazio troppo breve per lasciare perfino l'impronta di un corpo su un materasso, e il sangue può venire da ovunque - se sangue c'era, perché lui non lo vidi mai. Per quanto fu dato a me di sapere, noi non avemmo un cadavere; noi non avemmo neppure un assassino (di Henry non parlammo nemmeno quel giorno, nessuna di noi; io non dissi - la zia, la zitella - «Aveva l'aria di star bene o male?», io non dissi una delle mille cose banali grazie a cui l'indomabile sangue della donna ignora il mondo dell'uomo in seno al quale il consanguineo mostra coraggio o viltà, follia o libidine o paura, per cui i suoi compagni lo lodano o crocifiggono) che fosse venuto a sfondare una porta e gridare il suo delitto per poi sparire, che per il fatto di essere ancora vivo era giusto di quel tanto più umbratile dell'astrazione da noi inchiodata in una cassa - uno sparo udito solo nell'eco, uno strano cavallo magro e semiselvaggio, imbrigliato e con la sella vuota, le tasche della sella che contenevano una pistola, una camicia logora e pulita, un pezzo di pane duro come il ferro, catturato da un uomo quattro miglia più lontano e due giorni più tardi mentre tentava di forzare l'apertura della mangiatoia nella sua stalla. Sì, e più ancora; egli era assente, e c'era; tornò, e non fu più; tre donne misero qualcosa nella terra e la coprirono, e lui non fu mai esistito.
Ora tu mi domanderai perché mi fermai là. Potrei dire che non lo so, potrei addurre diecimila ragioni futili, tutte non vere, ed essere creduta - che mi ci fermai per poter mangiare, io che avrei potuto benissimo ripulire fossati e aiuole inselvatichite dalle erbacce, farmi e curarmi un orto a casa mia in paese così come laggiù, per non parlare dei vicini, amici la cui carità avrei potuto accettare, poiché la necessità ha un suo modo di cancellare dalla nostra condotta vari scrupoli delicati riguardanti onore e orgoglio; che mi ci fermai per l'alloggio, io che avevo un tetto mio in proprietà ora; o che mi ci fermai per la compagnia, io che a casa mia avrei potuto godere la compagnia di vicini appartenenti almeno alla mia stessa specie, gente che mi conosceva sin da bambina e anche da prima nel senso che pensava non solo come pensavo io ma come pensavano i miei antenati, mentre qui avevo per tutta compagnia una donna che, per quanto consanguinea fosse, io non capivo e, se era vero quanto la mia osservazione mi autorizzava a credere, non avevo nessun desiderio di capire, e un'altra così estranea a me e a tutto quel che io ero che noi avremmo potuto essere non solo di razze diverse (come in realtà eravamo), non solo di sesso diverso (come non eravamo), ma di specie diversa, parlanti lingue reciprocamente incomprensibili, e fin le semplicissime parole con cui eravamo costrette ad aggiustare reciprocamente i nostri giorni erano meno indicatrici di pensiero o intenzione degli stessi suoni che una bestia e un uccello potrebbero modularsi a vicenda. Ma io non adduco nessuna di queste ragioni. Io mi fermai laggiù e aspettai il ritorno di Thomas Sutpen. Sì. Tu dirai (o crederai) che fin d'allora io mi aspettavo di fidanzarmi con lui; se dicessi che non è vero, la crederesti una bugia. Ma io dico sul serio che non era così. Io lo aspettai né più né meno come lo aspettarono Judith e Cly tie: perché adesso egli era tutto quello che avevamo, tutto quello che ci dava una ragione per continuare a esistere, a mangiare e dormire e svegliarci e alzarci di nuovo: sapendo che lui avrebbe avuto bisogno di noi, sapendo bene (noi che lo conoscevamo) che lui si sarebbe subito messo a ricuperare quanto rimaneva di Sutpen's Hundred e rimetterlo in sesto. Non che volessimo servirci o avessimo davvero bisogno di lui. (Nemmeno per un attimo avevo pensato al matrimonio, nemmeno per un attimo mi ero immaginata di poter essere da lui guardata, vista, giacché non l'aveva mai fatto. Mi puoi credere, perché non ne farò mistero quando verrà il momento di dirti quando ci pensai). No. Non ci volle nemmeno il primo giorno della vita che cominciammo a trascorrere insieme per dimostrarci che non avevamo bisogno di lui, che non ci serviva un uomo fino a quando viveva o soggiornava lì Wash Jones - io che avevo tenuto la casa di mio padre e tenuto lui in vita per quasi quattro anni, Judith che aveva fatto la stessa cosa quaggiù, e Clytie che sapeva tagliare una catasta di legna o tracciare un solco meglio (o almeno più in fretta) dello stesso Jones. - E questo il fatto triste, uno dei più tristi: quello stanco tedio che avvertono il cuore e lo spirito quando non hanno più bisogno di ciò al cui bisogno essi (lo spirito e il cuore) sono necessari. No. Noi non avevamo bisogno di lui, nemmeno sostitutivamente, noi che non potevamo nemmeno unirci a lui nel suo furioso (quell'intento quasi pazzo che lui portò a casa con sé, che parve proiettarsi, irradiarsi davanti a lui prima ancora che smontasse da cavallo) desiderio di ricostituire il posto nel suo antico stato per il quale aveva sacrificato pietà e gentilezza e amore e tutte le tenere virtù - se pure le aveva mai avute da sacrificare, sentirne la mancanza, desiderare in altri. Nemmeno questo. Né Judith né io volevamo questo. Forse era perché non credevamo che si potesse fare, ma io ritengo che fosse più di questo: che noi esistessimo ormai in un'apatia che era quasi pace, come quella della stessa cieca insensibile terra che non sogna stelo o boccio di fiore, non invidia l'aerea solitudine musicale delle foglie germoglianti da essa nutrite.
Così lo aspettammo. Facevamo la vita laboriosa e monotona di tre monache in un convento sterile e misero: i muri che avevamo erano sicuri, abbastanza solidi, anche se ai muri non importava che noi mangiassimo o no. E amichevolmente, non come due bianche e una negra, non come tre negre o tre bianche, e nemmeno come tre donne, ma semplicemente come tre creature che possedevano ancora il bisogno di mangiare ma non ne traevano piacere alcuno, il bisogno di dormire ma non certo per la gioia della stanchezza o della rigenerazione, e nelle quali il sesso era qualche atrofia dimenticata come le branchie rudimentali che noi chiamiamo tonsille o i pollici tuttora opponibili alle altre dita per via dell'antico arrampicarsi. Tenevamo in funzione la casa, la parte in cui vivevamo; tenevamo la stanza a cui sarebbe ritornato Thomas Sutpen - non quella che lasciò da marito, ma quella a cui sarebbe ritornato da vedovo senza figli, orbato di quella posterità che indubbiamente doveva aver voluto lui, per essersi sobbarcato al fastidio e alla spesa di generare dei figli e alloggiarli fra mobili d'importazione sotto candelabri di cristallo - proprio come tenevamo la camera di Henry, o meglio come la tenevano Judith e Clytie, come se lui non si fosse precipitato su per le scale quel pomeriggio d'estate e poi giù di nuovo; noi coltivavamo e curavamo e raccoglievamo con le nostre mani il cibo che si mangiava, facevamo e sfruttavamo quell'orto né più né meno di come si cucinava e mangiava il prodotto ricavatone; nessuna distinzione fra noi tre quanto a età o colore ma solo riguardo a chi sapeva accendere questo fuoco o muovere questo recipiente o rassettare questo letto o portare al mulino questo grembiule pieno di granturco per farne farina col minor costo rispetto alla disponibilità generale di tempo o spesa per altre mansioni. Era come se fossimo un essere solo, intercambiabile e indiscriminato, che teneva quell'orto in produzione, filava e tesseva la stoffa per i nostri indumenti, cacciava e scovava e rendeva le magre erbe medicinali dei fossi per proteggere e garantire quello spartano compromesso che osavamo o avevamo il tempo di fare con la malattia, che a forza di petulanza e insistenza spingeva quel Jones a coltivare il granturco e tagliare la legna che dovevano essere il calore e il sostentamento del nostro inverno - noi tre, tre donne: io coscritta dalla circostanza in età troppo prematura al servizio di un'economia domestica tirata al soldo e concepibile giusto sullo scoglio isolato di un faro, che non mi aveva neppure insegnato a coltivare un'aiuola di fiori, figurarsi poi un orto, che mi aveva insegnato a considerare combustibile e carne come un qualcosa apparso di propria volontà in una cassa di legno o in uno scaffale della dispensa; Judith creata dalla circostanza (circostanza? cent'anni di accurato allevamento, forse non questione di sangue, nemmeno il sangue Coldfield, ma certo la tradizione in cui aveva scavato una nicchia la volontà spietata di Thomas Sutpen) a passare per le tenere isolate e illese fasi di bozzolo: bocciolo, regina prolifica e servita, indi potente e indulgente matriarca dalla vecchiaia serena, contenta e soddisfatta - Judith svantaggiata da quello che in me era l'ignoranza di pochi anni ma in lei dieci generazioni di proibizione ferrea, lei ignara di quel primo principio della penuria che sta nel lesinare e mettere da parte giusto per lesinare e mettere da parte, lei che (e spalleggiata da Clytie) cucinava il doppio di quanto noi si potesse mangiare e il triplo di quanto era nelle nostre disponibilità e lo dava al primo venuto, a qualunque estraneo in un paese che già cominciava a riempirsi di soldati isolati che si fermavano a chiederlo; e (non ultima nella graduatoria) Clytie. Clytie, non inetta, tutt'altro che inetta: perversa imperscrutabile e paradossale: libera, eppure incapace di libertà lei che non si era mai e poi mai autodefinita schiava, fedele a nessuno come il lupo o l'orso solitario e indolente (sì, selvaggia: metà sangue nero indomito, metà sangue Sutpen: e se «indomito» è sinonimo di «selvaggio», allora «Sutpen» è la silente insonne malizia della frusta del domatore) la cui falsa apparenza lo tien docile alla paura ma docile invece non e, e se questa è fedeltà, è fedeltà solo al primo principio fisso della sua stessa natura selvaggia; - Clytie che nella stessa pigmentazione della sua carne rappresentava quel crollo che aveva portato Judith e me a quel che eravamo e aveva fatto di lei (Clytie) quel che rifiutava di essere giusto come aveva rifiutato di essere ciò da cui era stato scopo emanciparla, quasiché presiedendo con distacco al nuovo ella deliberatamente restasse a rappresentare per noi il minaccioso significato dell'antico.
Eravamo tre estranee. Io non so che cosa pensasse Clytie, a che cosa portasse in lei la vita che il cibo da noi coltivato e cucinato all'unisono, il panno da noi filato e tessuto assieme nutrivano e riparavano. Ma questo me lo aspettavo perché lei e io eravamo nemici aperti, anzi onorati. Ma non sapevo neppure che cosa pensasse e sentisse Judith. Dormivamo tutte e tre nella stessa camera (e ciò non soltanto per risparmiare la legna da ardere che dovevamo portar dentro noi. Lo facevamo per sicurezza. L'inverno era alle porte e già cominciavano a tornare i soldati - gli isolati, non tutti vagabondi o manigoldi, ma uomini che avevano rischiato e perso tutto, sofferto oltre ogni potere di sopportazione e tornavano ora a una terra distrutta, non più gli stessi di quando erano partiti con i loro reparti, bensì trasformati - ed è questa la peggiore, l'estrema degradazione a cui la guerra porti lo spirito, l'anima - a immagine di quell'uomo che proprio per disperazione e pietà maltratta l'amata moglie o amante che in sua assenza è stata violentata. Noi avevamo paura. Davamo loro da mangiare; davamo loro quanto avevamo, tutto quanto, e avremmo volentieri preso su di noi le loro ferite per lasciarli sani e intatti, se avessimo potuto. Ma ne avevamo paura). Ci svegliavamo e adempivamo gli interminabili obblighi tediosi che comportava il puro tenerci in vita; sedevamo davanti al fuoco dopo cena, tutte e tre in quello stato in cui le stesse ossa e i muscoli sono troppo stanchi per riposare, quando lo spirito spossato e invincibile ha mutato e foggiato perfino la disperazione nel facile oblio di un abito smesso, e parlavamo, parlavamo di cento cose - le stanche ricorrenti banalità delle nostre vite quotidiane, di mille cose ma non di una. Parlavamo di lui, Thomas Sutpen, della fine della guerra (la vedevamo tutti ormai) e di quando lui sarebbe tornato, di quel che avrebbe fatto: come iniziare il compito erculeo che sapevamo si sarebbe assunto, a cui (oh sì, sapevamo anche questo) ci avrebbe indubbiamente trascinate con la vecchia spietata spregiudicatezza, volenti o nolenti; parlavamo di Henry, quietamente - quel normale inutile impotente preoccuparsi donnesco del maschio assente - riguardo a come se la passava, se aveva freddo o fame o no, giusto come parlavamo di suo padre, come se tanto loro due quanto noi si vivesse ancora in quel tempo che quello sparo, quei piedi in corsa pazza, avevano sigillato con un punto e poi cancellato, come se quel pomeriggio non fosse mai stato. Mai però, nemmeno una volta, si nominò Charles Bon. Ci furono nel tardo autunno due pomeriggi in cui Judith si assentò, ritornando all'ora di cena serena e calma. Io non le feci domande e non la seguii, eppure sapevo e sapevo che Clytie sapeva che lei era andata a ripulire quella tomba dalle foglie morte e dal vizzo, scarto bruno dei cedri - quel tumulo svanente a poco a poco nella terra, sotto il quale non avevamo sepolto nulla. No, non c'era stato nessuno sparo. Quel suono fu soltanto il secco e definitivo sbattere di una porta fra noi e tutto quel che era, tutto quel che avrebbe potuto essere - un retroattivo scindersi del fiume dell'accadere: un istante cristallizzato per sempre nel tempo imponderabile per opera di tre deboli eppure indomabili donne che, precedendo il fatto compiuto da noi non riconosciuto, rifiutato, derubarono il fratello della sua preda, privarono l'assassino di una vittima per il suo stesso proiettile. Ecco come vivemmo per sette mesi. E poi un pomeriggio di gennaio venne a casa Thomas Sutpen; qualcuno guardò là dove stavamo preparando l'orto per il cibo di un altro anno e lo vide risalire il viale a cavallo. E poi una sera io divenni la sua promessa sposa.
Mi ci vollero giusto tre mesi. (Tifa specie che io non dica lui, ma io?). Sì, io, giusto tre mesi, io che per vent'anni lo avevo guardato (quando mi capitava - mi toccava anche - di guardarlo) come si guarda un orco, una bestiaccia di favola per spaventare i bambini; che avevo visto la prole da lui generata nel corpo di mia sorella morta cominciare già a distruggersi a vicenda, eppure dovevo andare da lui come un cane al richiamo del fischio a quella prima opportunità, quel pomeriggio in cui lui che mi aveva visto per ben vent'anni doveva per la prima volta levare il capo e fermarsi a guardarmi. Oh, non ho attenuanti per me stessa che potrei (e vorrei; anzi, certo l'ho già fatto) darti mille speciose ragioni buone per le donne, dalla naturale incoerenza della donna al desiderio (o anche speranza) di eventuale ricchezza, posizione sociale, o anche il timore di morire senza conoscere uomo, che (così senz'altro ti diranno) hanno sempre le vecchie zitelle, o per vendetta. No. Io non ho attenuanti per me. Avrei potuto andarmene a casa mia e non lo feci. Forse avrei dovuto andare a casa mia. Ma non lo feci. Al pari di Judith e Clytie, me ne stetti là davanti al portico in rovina e lo guardai avvicinarsi su quel cavallo ossuto e sfinito sul quale non pareva sedere in sella ma piuttosto proiettarsi avanti come un miraggio, in qualche fiera dinamica rigidità d'impazienza che il magro cavallo, la sella, gli stivali, la giacca color foglia e lisa coi suoi alamari sbiaditi e svolazzanti che racchiudeva il guscio sensibile seppur snervato, che pareva precederlo quando smontò e dal cui seno disse «Bene, figliola» e si chinò e sfiorò con la barba la fronte di Judith, che non si era mossa, che non si mosse, che rimase rigida e immota nella persona e nel volto, e all'interno del quale guscio si scambiarono quattro frasi, quattro frasi di semplici parole dirette dietro sotto e sopra le quali io avvertii quello stesso rapporto di sangue comune che avevo sentito quel giorno mentre Clytie mi sbarrava la scala: «Henry non è...». «No. Non è qui». «Ah. E...?». «Sì. Henry lo ha ucciso». E poi scoppiò in lacrime. Sì, scoppiò, lei che non aveva ancora pianto, che aveva portato giù per la scala quel pomeriggio e sempre poi tenuto quella faccia fredda, calma, che mi aveva bloccato davanti a quell'uscio chiuso; sì, scoppiò, come se tutto quell'accumulo di sette mesi erompesse spontaneamente da ogni poro in un'evacuazione incredibile (e lei non si muoveva, non muoveva ciglio) e poi svanisse, sparisse istantaneamente come se la stessa aura fiera e arida in cui lui l'aveva racchiusa asciugasse le lacrime più presto di quanto sgorgassero: e lui sempre ritto con le mani sulle spalle di lei guardò Clytie e disse: «Ah, Clytie» e poi me - la stessa faccia che avevo visto l'ultima volta, solo un po' più affilata, gli stessi occhi spietati, i capelli un po' brizzolati adesso, e nessun accenno di riconoscimento nel suo viso finché Judith non disse: «È Rosa. La Zia Rosa. Adesso vive qui».
Tutto lì. Lui risalì il viale rientrando nelle nostre vite e non lasciò alcuna increspatura tranne quelle lacrime istantanee e incredibili. Perché lui stesso non era lì, non nella casa dove noi passavamo i nostri giorni, non si era fermato lì. Il guscio di lui era lì, e usava la stanza che gli avevamo tenuto e mangiava il cibo che noi producevamo e preparavamo come se non potesse né sentire la morbidezza del letto né far distinzione tra i cibi per qualità o gusto. Sì. Lui non era lì. Qualcosa mangiava con noi; noi parlavamo a questo qualcosa ed esso rispondeva alle domande; sedeva con noi davanti al fuoco la sera e, levandosi senza preavviso da qualche profonda e stupefatta inerzia completa, parlava, non a noi, le sei orecchie, le tre menti capaci d'ascoltare, ma all'aria, l'aspettante cupa sfacentesi presenza, spirito, della casa stessa, dicendo quel che suonava come la spacconata d'un pazzo che entro le stesse pareti della bara si crea le sue favolose incommensurabili Camelot e Carcassonne. Non già assente dal luogo, dall'arbitrario quadrato di terra che lui aveva chiamato Sutpen's Hundred, non certo questo. Lui era assente solo dalla stanza, e ciò perché doveva essere altrove, abbracciando una parte di lui ogni campo rovinato e palizzata abbattuta e parete pericolante di capanna o magazzino di cotone o granaio: lui diffuso e tenuto in soluzione da quella elettrica furiosa immobile urgenza e consapevolezza del poco tempo e del bisogno di fretta come se avesse appena preso fiato dandosi poi uno sguardo attorno e accorgendosi di essere vecchio (aveva cinquantanove anni) e si preoccupasse (non paura: preoccupazione) non già che la vecchiaia potesse averlo reso impotente a fare quanto intendeva fare, ma che potesse non restargli il tempo di farlo prima di dover morire. Noi avevamo ragione circa quello che lui si sarebbe prefisso di fare: che non si sarebbe nemmeno fermato a prender fiato prima di accingersi a restaurare la sua casa e la piantagione riportandole quanto più vicino possibile allo stato originario. Non sapevamo come avrebbe fatto, né credo che lo sapesse lui stesso. Non poteva certo saperlo, lui tornato a casa con niente, a trovar niente, quattro anni meno di niente. Ma ciò non lo fermò, non lo intimidì. La sua era quella fredda furia vigile del giocatore che sa di poter comunque perdere ma che basta un attimo di incertezza nella fiera costante volontà per dargliene la certezza: e si tiene al riparo da una cristallizzazione duratura col solo accanito manipolare carte o dadi fin quando vasi sanguigni e ghiandole della fortuna non ricomincino a scorrere. Non si riposò, non si prese quel giorno o due per dar modo alle ossa e alla carne cinquantanovenne di aver un ricupero - quel giorno o due in cui avrebbe potuto parlare, non certo di noi e di quel che avevamo fatto, ma di se stesso, dei quattro anni trascorsi (per quel che ce ne disse mai lui, poteva non esserci mai stata guerra, oppure esserci stata in un altro pianeta senza che da parte sua fosse rischiata alcuna posta, senza che la sua carne e il suo sangue ne avessero a soffrire) - quel periodo naturale durante il quale la sconfitta amara seppur indenne da mutilazioni avrebbe potuto esaurirsi in qualcosa come la pace, come la quiete nel rabbioso e incredulo riandare (che rende all'uomo sopportabile il vivere) quell'impalpabile equilibrio fra vittoria e disastro che rende insopportabile quella sconfitta che, volgendosi contro di lui, rifiutò peraltro di massacrare colui che, ancora vivo, non resiste però a viverci.
Non lo vedevamo quasi mai. Era via dall'alba al tramonto, lui e Jones e un altro uomo o due che aveva pescato da qualche parte e pagato in qualche modo, forse la stessa moneta con cui aveva pagato quell'architetto straniero - lusinga, promessa, minaccia, e infine la forza. Fu in quell'inverno che cominciammo a imparare che cosa volesse dire carpetbagger, cioè avventurieri, e la gente - le donne - serrava porte e finestre di notte e si spaventava a vicenda con storie di rivolte negre, mentre la terra rovinata, incolta e negletta da quattro anni giaceva ancor più inerte e intanto uomini con le pistole in tasca si radunavano giornalmente in ritrovi segreti nelle città. Lui non fu di questi; mi ricordo come una notte si presentò una deputazione, cavalcò per la mota del marzo precoce e lo mise alle strette, sì o no, con loro o contro di loro, amico o nemico: e lui rifiutò, declinò, offrì loro (senza alcun mutamento nella magra faccia spietata o nel tono della voce) sfida se sfida volevano, dicendo che se ciascuno nel Sud avesse fatto quel che stava facendo lui, cioè occuparsi del riassestamento della sua terra, la terra di tutti e il Sud si sarebbero salvati: e li fece uscire dalla sua stanza e dalla casa e se ne stette là tranquillamente all'ingresso reggendo la lucerna sopra la testa mentre il loro portavoce formulava il suo ultimatum: «Questo può significare guerra, Sutpen», e lui: «Ci sono abituato». Oh, sì, lo osservavo, osservavo la sua furia solitaria di vecchio che lottava adesso non già con la terra caparbia eppure lentamente trattabile come aveva fatto in passato, ma col peso poderoso dello stesso tempo nuovo come se egli tentasse di arginare un fiume con le nude mani e un'asse di legno: e ciò per la stessa spuria illusione di ricompensa che gli era venuta meno (venuta meno? tradito lo aveva: e stavolta lo avrebbe distrutto) una volta; vedo io stessa l'analogia ora: l'accelerantesi parabola fatale del suo spietato orgoglio, della sua smania di vana magnificenza, sebbene allora non la vedessi. E come potevo? io già ventenne, sì, eppure ancora bambina, ancora in quel corridoio uterino dove il mondo non giungeva nemmeno come eco vivente ma come ombra morta incomprensibile, dove col quieto e non allarmato stupore d'una bambina osservavo i grotteschi gesti da miraggio di uomini e donne - mio padre, mia sorella, Thomas Sutpen, Judith, Henry, Charles Bon - detti onore, principio, matrimonio, amore, perdita, morte; la bambina che osservandolo non era una bambina ma un elemento di quel complesso triunvirale donna-madre che formavamo noi tre, Judith, Clytie e io, che nutriva e vestiva e riscaldava il guscio statico e così dava sfogo e ragione d'essere alla fiera vana illusione e così diceva: «Finalmente la mia vita vale qualcosa, quantunque non faccia che proteggere e custodire la furia scomposta di un bambino matto». E poi un pomeriggio (io ero nell'orto con una zappa, là dove sboccava il sentiero della stalla) alzai gli occhi e lo scorsi intento a guardarmi. Mi vedeva da vent'anni, ma adesso mi guardava; stava lì sul sentiero e mi guardava, a metà del pomeriggio. Questo era il punto: che il fatto si verificasse a metà pomeriggio, quando lui non avrebbe affatto dovuto trovarsi vicino alla casa ma varie miglia lontano e invisibile in qualche posto tra le sue cento miglia quadrate che non si erano ancora dati la pena di cominciare a togliergli, forse nemmeno in questo o quel punto ma diffuso (non attenuato in rarefazione ma ingrandito, ampliato, sino ad abbracciare come in un prolungato e ininterrotto istante di sforzo tremendo, stringere e mantenere intatto quel quadrato lungo dieci miglia mentre dall'orlo del disastro, invincibile e intrepido, affrontava quel che doveva sapere sarebbe stata la sconfitta finale) ma invece se ne stava lì nel sentiero guardandomi con qualcosa di curioso e strano nel volto come se la stalla, il sentiero, al momento in cui mi aveva scorto fossero stati una palude da cui era emerso senza essere stato avvertito che stava per entrare nella luce, e poi proseguì - la faccia, la stessa faccia: non era amore; non dico questo, non gentilezza o pietà: solo un'improvvisa eruzione di luce, illuminazione, in lui che al sentirsi dire che suo figlio aveva commesso un assassinio ed era sparito, aveva detto soltanto: «Ah... Be', Clytie». Proseguì verso la casa. Ma non era amore: non sostengo questo; non ho attenuanti per me, non scuso il fatto. Io avrei potuto dire che lui aveva avuto bisogno di me, mi aveva usata; perché dunque ribellarmi adesso, giusto per il fatto che voleva usarmi di più? ma non lo dissi; lo potrei stavolta, non so, e direi il vero. Perché non so. Lui era sparito; io non lo sapevo neppure poiché c'è un metabolismo dello spirito non meno che delle viscere, in cui le tesaurizzate accumulazioni del tempo lungo bruciano, generano, creano e infrangono qualche verginità della carne smaniosa; sì, in un secondo - sì, perso tutto il particolaristico erompere del non posso, non voglio, non farò mai, nella fiera obliterazione di un unico rosso istante. Fu questo il mio istante, e io avrei potuto fuggire allora e non lo feci, io che mi accorsi della sua andata e non mi ricordavo quando se ne fosse andato, io che trovai la mia aiuola di abelmosco terminata senza ricordarmi di aver completato l'operazione, io che quella sera mi sedetti a tavola per la cena col familiare guscio di nuvola e di sogno a cui c'eravamo abituate (durante il pasto non mi guardò più; io avrei potuto dire allora: A quale lurido rigurgito di sogno ci tradisce la carne incorreggibile, ma non lo feci) e poi davanti al fuoco nella camera da letto di Judith sedetti come sempre si faceva finché lui non venne sull'uscio e ci guardò e disse: «Judith, tu e Clytie...» e smise, ancora in atto di entrare, poi disse: «No, non importa. Rosa non se ne avrà a male se lo sentite anche voi due, poiché abbiamo poco tempo e tanto da fare» e si accostò e si fermò e mi pose la mano sul capo e (non so dove guardasse mentre parlava, tranne che a giudicare dal suono della voce non guardava noi né altra cosa in quella stanza) disse: «Tu forse penserai che per tua sorella Ellen non sono stato un ottimo marito. Probabilmente pensi così. Ma anche se non puoi dimenticare che adesso sono più vecchio, credo di poter promettere che se non altro non farò peggio con te».
Quella fu la corte che mi fece. Lo sguardo scambiato in quel minuto in un orto, quella mano sulla testa nella camera da letto di sua figlia; un ukase, un decreto, una serena e florida vanteria come una sentenza (certo, e pronunciata con lo stesso atteggiamento) non da dire e udire ma da leggere incisa nella blanda pietra che incornicia un'effigie dimenticata e senza nome. Io non scuso il fatto. Io non pretendo nessuna attenuante, nessuna pietà, io che non risposi «Sono disposta» non perché non mi era stato richiesto ma perché non c'era posto, nicchia, intervallo per una risposta. Perché avrei potuto benissimo crearmene. Avrei potuto aprire con la forza quella nicchia se avessi voluto — una nicchia di foggia adatta non a un mite «Sì» ma al frenetico taglio inferto da qualche cieca disperata arma femminile la cui stessa ferita aperta avesse gridato «No! No!» e «Aiuto!» e «Salvatemi!». No, nessuna scusa, nessuna pietà, io che non mi mossi neppure, che rimasi seduta sotto quella dura dimentica mano da orco di fiaba e lo sentii parlare a Judith ora, sentii i piedi di Judith, vidi la mano di Judith, non Judith — quel palmo in cui vivevo come in una cronaca stampata l'orfana desolazione, l'asprezza, la perdita dell'amore; i quattro duri sterili anni di escoriante telaio, di ascia e zappa e tutti gli altri arnesi fatti per essere adoperati dagli uomini: e su dì esso posato l'anello che lui aveva dato a Ellen in chiesa quasi trent'anni prima. Sì, analogia e paradosso e anche pazzia. Io rimasi lì seduta e lo sentii, non guardai, infilarmi l'anello al dito a mia volta (adesso anche lui era seduto, nella sedia che chiamavamo di Clytie mentre lei stava giusto fuori portata dal riverbero del focolare a lato del camino) e ascoltai la sua voce come Ellen doveva averla ascoltata nell'aprile del suo spirito trent'anni prima: lui che parlava non di me o di amore o matrimonio, e nemmeno di se stesso e non a lucidi mortali in ascolto e non per sanità mentale, ma alle stesse buie forze del fato ch'egli aveva evocato e sfidato, attingendo a quel pazzo sogno da spaccone dove un'intatta Sutpen's Hundred che non aveva più esistenza reale ormai (e non l'avrebbe più riavuta) di quanta ne avesse la prima volta che Ellen ne sentì parlare, come se nella restituzione di quell'anello a un dito vivente egli avesse riportato indietro di vent'anni tutto il tempo e l'avesse fermato, congelato. Sì. Io rimasi lì seduta e ascoltai la sua voce e mi dissi: «Ma sì, è matto. Decreterà questo matrimonio per stanotte e compirà la sua cerimonia personale, facendo lui stesso da sposo e da sacerdote; reciterà la sua personale benedizione reggendo in mano la candela del capezzale: e io matta come lui, perché sarò acquiescente, soccomberò; lo asseconderò e precipiterò». No, io non ho attenuanti, non chiedo pietà. Se fui salvata quella notte (e salvata fui; il mio doveva essere un sacrifìcio più tardo e più freddo allorché noi – io – fossi libera da ogni scusa della sorpresa importuna carne traditrice) non fu colpa, non opera mia ma piuttosto perché, una volta consegnato l'anello, lui smise di guardarmi se non a quel modo che aveva fatto per i vent'anni prima di quel pomeriggio, come se per il momento avesse raggiunto qualche intervallo di sanità quali ne conoscono i pazzi, proprio come i sani hanno intervalli di pazzia per ravvivare la consapevolezza della loro sanità. Fu ancora più di questo. Per tre mesi ormai mi vedeva giornalmente sebbene non mi avesse mai guardata poiché io facevo semplicemente parte di quel triunvirato che riceveva la sua gratitudine di uomo burbero e taciturno per le spartane comodità che fornivamo, non al suo benessere forse ma almeno al sogno pazzo in cui viveva. Ma per i due mesi successivi non mi vide neppure. Forse la ragione era quella ovvia: era troppo occupato; che avendo compiuto il suo fidanzamento (ammesso che questo fosse il suo intento) lui non aveva bisogno di vedermi. Certo che non mi vide: non si era nemmeno fissata la data per le nozze. Era quasi come se quel pomeriggio non esistesse, non fosse mai stato. Io avrei potuto non esserci, in quella casa. Peggio: io avrei potuto andarmene, tornare a casa, e lui non avrebbe sentito la mia mancanza. Io ero (checché volesse lui da me — non il mio essere, la mia presenza: solo la mia esistenza, che fosse quanto Rosa Coldfield o qualsiasi altra giovane donna a lui non consanguinea rappresentava in quell'imprecisabile qualcosa ch'egli voleva - perché gli voglio fare questo credito: lui non aveva mai pensato nemmeno una volta a quel che mi chiese di fare sino al momento in cui me lo chiese, perché so che non avrebbe aspettato due mesi o anche due giorni per chiederlo) - la mia presenza era per lui soltanto l'assenza del nero acquitrino e della vite o pianta rampicante tarlata per quell'uomo che si era aperto la strada in una palude senza una guida o un mezzo - nessuna speranza, nessuna luce: solo qualche incorreggibilità di rifiutata sconfitta - e capitò alfine e senza preavviso in terra ferma e asciutta e sole e aria - seppure poteva esserci il sole per lui, se qualcuno o qualcosa poteva competere col bagliore bianco del suo sguardo di pazzia. Sì pazzo, eppure non tanto. Perché la cattiveria esige una praticità: il ladro, il bugiardo, perfino l'assassino, hanno regole più strette di quante ne abbia la virtù; e perché non anche la pazzia? Se lui era pazzo, era pazzo soltanto il suo sogno perentorio e non i suoi metodi: non era pazzo colui che a furia di contrattare e lusingare riusciva a ottenere duro lavoro da uomini come Jones; non era pazzo colui che si teneva alla larga dai lenzuoli e cappucci e cavalli notturnamente galoppati con cui uomini che un tempo erano suoi conoscenti se non anche amici scaricavano la cancerosa suppurazione della sconfitta; non era piano o tattica da pazzo quella che gli guadagnò al più basso prezzo possibile l'unica donna disponibile per lui come moglie, e mediante l'unico stratagemma che poteva assicurargli il successo - non pazzo, no: poiché certo c'è qualcosa nella pazzia, anche quella demoniaca, da cui Satana rifugge, atterrito dell'opera sua, e a cui Dio guarda con pietà - qualche scintilla, qualche briciola da far lievitare e redimere quella carne articolata, quel linguaggio vista udito gusto ed essere che chiamiamo uomo umano. Ma non importa. Ti dirò io che cosa fece e tu siine giudice. (O piuttosto tenterò di dirtelo, perché vi sono certe cose per le quali tre parole sono troppe, e tremila parole altrettante di meno del necessario, e questa è di tal genere. Si può dirla; io potrei prendere tante frasi, ripetere le parole audaci dirette nude e oltraggiose proprio come le pronunciò lui, e lasciarti solo quella stessa esterrefatta e offesa incredulità che conobbi quando capii che cosa intendeva; o prendere tremila frasi e lasciarti soltanto quel Perché? Perché? e Perché? che mi sono posta e ho ascoltato per quasi cinquantanni). Ma voglio che tu sia giudice e mi dica se non avevo ragione.
Vedi, io ero quel sole, o credevo di esserlo, convinta com'ero che ci fosse nella pazzia quella favilla, quella briciola che è divina, sebbene la pazzia stessa non abbia parole per il terrore o la pietà. C'era un orco della mia infanzia che prima della mia nascita si portò la mia unica sorella alla sua cupa dimora di orco e generò due figli semispettrali la cui compagnia non fui incoraggiata a cercare e non desideravo, come se la mia solitudine di nata tardi mi avesse insegnato a presentire quel funesto allacciamento, mi avesse avvertita di quella fatale acme aggrovigliata prima ancora ch'io conoscessi il nome di assassino - e io lo perdonai; c'era una figura che si allontanò a cavallo all'ombra di una bandiera e (demone o no) soffrì coraggiosamente - e io feci più che dimenticare soltanto: io lo uccisi, il fatto, perché il corpo, il sangue, la memoria in cui aveva abitato quell'orco ritornò cinque anni dopo e tese la mano e disse: «Vieni» come si potrebbe dirlo a un cane, e io venni. Sì, il corpo, la faccia, col nome giusto e la memoria, perfino il corretto ricordo di quanto e chi (tranne me stessa: e non era questa un'altra prova?) aveva lasciato a casa per poi ritornarvi: ma non l'orco; mascalzone, è vero, ma giusto un mascalzone mortale soggetto a sbagliare meno atto a suscitar paura che pietà: ma non un orco; pazzo, è vero, ma io mi dicevo: «Chi mi dice che la pazzia non sia pure vittima di se stessa?». O: «Perché non potrebbe essere non pazzia ma solitaria disperazione in conflitto titanico col solitario e segnato e indomabile spirito di ferro?». Ma non un orco, perché questo era morto, sparito, consumato chissà dove in fiamma e puzzo di zolfo forse in mezzo alle perdute vette scoscese della solitaria memoria della mia infanzia - o oblio; io ero quel sole, convinta che lui (dopo quella sera nella camera di Judith) non fosse dimentico di me ma soltanto inconscio e ricettivo come il pellegrino che liberato da una palude sente la terra e gusta ancora il sole e la luce e non è affatto consapevole di queste cose ma solo dell'assenza di tenebra e palude - io convinta che ci fosse nel sangue dissimile quella magia che noi chiamiamo col pallido nome di amore e che per lui sarebbe stata, avrebbe potuto essere un sole (quantunque io fossi la più giovane, la più debole) dove sia Judith sia Clytie non avrebbero gettato ombra; sì, io la più giovane là in mezzo eppure potentemente immune da età misurata e misurabile dato che io sola fra loro potevo dire: «O vecchio pazzo furioso, io non ho sostanza da adattare al tuo sogno ma posso darti arioso spazio e sfogo per il tuo delirio». E poi un pomeriggio - oh, c'era un destino in tutto ciò: pomeriggio e pomeriggio e pomeriggio: vedi? la morte della speranza e dell'amore, la morte dell'orgoglio e dei princìpi, e poi la morte di ogni cosa tranne la vecchia offesa ed esterrefatta incredulità che dura da quarantatre anni - tornò a casa e mi chiamò, gridando dalla veranda posteriore fino a quando non scesi; oh, ti ho detto che lui non ci aveva pensato fino a quel momento, quel prolungato momento che conteneva la distanza fra la casa e quel qualsiasi posto dove lui si trovava quando ci aveva pensato: e anche questa coincidenza: era proprio il giorno in cui seppe definitivamente e infine esattamente quanta parte delle sue cento miglia quadrate avrebbe potuto salvare e tenere e chiamar sua nel giorno della sua morte, che qualunque cosa potesse capitargli ora, lui avrebbe almeno tenuto il guscio di Sutpen's Hundred seppure adesso un nome più appropriato fosse Sutpen's One - mi chiamò, gridò fino a quando non scesi. Non aveva nemmeno aspettato di legare il suo cavallo; teneva le redini sul braccio (e niente mano sul mio capo stavolta) e pronunciò le nude parole oltraggiose proprio come se stesse consultandosi con Jones o qualche altro uomo a proposito di una cagna o mucca o giumenta.
Ti avranno detto come me ne tornai a casa. Oh sì, lo so: «Rosie Coldfield, perdilo, piangilo; ti eri presa un uomo ma non hai saputo tenerlo». Oh sì, lo so (e gentili anche; erano gentili): Rosa Coldfield, repressa, amareggiata, orfana ragazzotta di campagna di nome Rosa Coldfield, solidamente fidanzata infine e così via dal paese, dalla contea; te lo avranno detto: Come andai laggiù a viverci per sempre, vedendo nell'assassinio perpetrato da mio nipote un atto di Dio che mi abilitava ostensibilmente a obbedire alla richiesta in punto di morte di mia sorella, di salvare almeno uno dei due figli che lei aveva condannato con l'atto stesso di concepirli, ma in realtà lo scopo era di trovarmi in quella casa quando fosse tornato colui che, essendo un demone, sarebbe stato inaccessibile a pallottole e granate e dunque sarebbe ritornato; io lo attendevo perché ero ancora giovane (non avendo seppellito le mie speranze al suono delle trombe, sotto una bandiera) e pronta per il matrimonio in quel tempo e luogo dove per la maggior parte gli uomini giovani erano morti e tutti quelli vivi erano vecchi o già sposati o stanchi, troppo stanchi per l'amore; lui la mia migliore, la mia unica opportunità: un ambiente dove tutt'al più, e anche in mancanza di una guerra, le mie opportunità sarebbero state abbastanza tenui poiché ero solo una gentildonna del Sud la cui modesta origine e condizione non potevano non affermarsi palesemente poiché se fossi stata la figlia di un facoltoso piantatore avrei potuto sposare quasi chiunque volessi, ma essendo soltanto la figlia di un piccolo negoziante non potevo nemmeno permettermi di accettare fiori da nessuno quasi e così sarei stata condannata a sposare da ultimo un qualunque apprendista impiegato nell'azienda di mio padre. Sì, te lo avranno raccontato: una che fu giovane ed ebbe speranze segrete solo durante quella notte lunga quattro anni quando accanto a una tenue candela insonne imbalsamò la guerra e il suo retaggio di sofferenza e ingiustizia e dolore sul retro delle pagine di un vecchio libro mastro, imbalsamando cancellando dall'aria respirabile il velenoso effluvio segreto della concupiscenza e dell'odio e dell'omicidio - te lo avranno raccontato: figlia di un imboscato che doveva diventare un demonio, un farabutto: e perciò lei aveva a buon diritto odiato suo padre poiché se lui non fosse morto in quella soffitta lei non avrebbe dovuto andare laggiù a cercar cibo e protezione e alloggio e se lei non avesse dovuto contare sul pane e sul vestiario di lui (seppure aiutando in verità a coltivarlo e tesserlo) per tenersi in vita e ripararsi dal freddo, finché la pura giustizia poi esigeva che lei desse in cambio ogni possibile compenso da lui richiesto compatibilmente con l'onore, là non gli si sarebbe fidanzata e se non gli si fosse fidanzata non avrebbe dovuto starsene sveglia a letto di notte a domandarsi Perché e Perché e Perché come fa da quarantatré anni: come se fosse stata istintivamente nel giusto sin da bambina odiando suo padre e così questi quarantatré anni di risentimento impotente e insopportabile furono la vendetta esercitata su di lei da una sofisticata e ironica natura sterile per aver odiato quel che le aveva dato vita. Sì, Rosa Coldfield fidanzata infine, lei che, non fosse stato per il fatto che sua sorella le aveva lasciato almeno qualcosa come alloggio e parentado, avrebbe potuto diventare un peso per la comunità: e adesso Rosie Coldfield, perdilo, piangilo; avevi trovato un uomo ma non hai saputo tenerlo; Rosa Coldfield che aveva ragione, solo ragione, aver ragione non è abbastanza per le donne, che preferirebbero aver torto anziché soltanto questo; e vogliono che l'uomo che aveva torto lo ammetta. Ed ecco che cosa lei non gli può perdonare: non l'insulto, nemmeno il fatto di averlo respinto: ma il fatto che sia morto. Oh sì, lo so, lo so: come due mesi dopo seppero che lei aveva rifatto le valigie (cioè, rimesso scialle e cappello) ed era tornata in paese, a vivere sola nella casa dove i suoi genitori erano morti e sepolti e dove Judith veniva di quando in quando a portarle un po' del cibo che avevano a Sutpen's Hundred e che soltanto la dura necessità, l'ostinata volontà di vivere della bruta carne inesplicabile, la inducevano (lei, Miss Coldfield) ad accettare. E dura davvero: perché ora il paese - contadini di passaggio, servi, negri che andavano a lavorare nelle cucine dei bianchi - la vedevano prima dell'alba intenta a raccogliere erbaggi lungo recinti d'orto, a strapparli attraverso le staccionate poiché lei non aveva un orto, non sementi da piantarvi, non arnesi per lavorarne uno personalmente, anche se avesse saputo bene come, lei che in fatto di giardinaggio aveva al suo attivo soltanto un anno di apprendistato e indubbiamente non avrebbe lavorato un orto se ne fosse stata capace, lei che non si era mai arresa; allungare la mano attraverso la staccionata e raccogliere verdura anche se sarebbe stata senz'altro invitata a entrare nell'orto a prendervi quanto le serviva, e anzi i proprietari avrebbero pensato loro a raccogliere la verdura e a mandargliela, poiché c'erano varie persone oltre al giudice Benbotu che le lasciavano di notte cestini pieni di provviste sotto il portico. Ma lei non glielo permetteva e non adoperava nemmeno un bastone per raggiungere la verdura e tirarla dove poteva afferrarla, solo la portata del braccio senz'altro ausilio era il limite di brigantaggio da lei non mai oltrepassato. Non era l'intento di non farsi vedere a rubare che la spingeva a uscire prima che il paese fosse desto, perché se avesse avuto un negro lo avrebbe mandato fuori a foraggiare in pieno giorno, del dove poi non si sarebbe curata gran che, proprio come gli eroi di cavalleria sui quali scriveva versi avrebbero mandato i loro uomini. Sì, Rosie Coldfield, lo perdi, lo piangi; avevi trovato il tuo bello ma non hai saputo tenerlo; (oh sì, te lo diranno) aveva trovato il suo bello e fu insultata, qualcosa di udito e non perdonato, non tanto per le parole ma per il fatto di aver pensato così di lei dimodoché quando lei lo udì si rese conto in un lampo che questo pensiero doveva esistere nella mente di lui da un giorno, una settimana, perfino un mese forse, e lui la guardava ogni giorno con questo in mente e lei non lo sapeva neppure. Ma io lo perdonai. Loro te lo diranno a modo loro, ma lo perdonai. E perché non avrei dovuto farlo? Io non avevo niente da perdonare; non lo avevo perduto perché non lo possedetti mai: un certo pezzo di fango marcio entrò nella mia vita, mi disse ciò che non mi ero mai sentita dire prima e non sentirò mai più, e poi ne uscì; tutto lì. Io non lo possedetti mai; certo non in quel senso lurido che tu attribuiresti al termine e forse credi (ma ti sbagli) che io gli attribuisca. Ciò non aveva importanza. Non era neanche il nocciolo dell'insulto. Voglio dire che lui non era posseduto da nessuno e niente al mondo, non lo era mai stato, non lo sarebbe mai stato, nemmeno da Ellen, nemmeno dalla nipotina di Jones. Perché lui non era ben inserito in questo mondo. Era un'ombra ambulante. Era l'abbacinata immagine da pipistrello del suo tormento proiettata in alto dalla feroce lanterna demoniaca di sotto la crosta terrestre e di lì a ritroso, all'inverso; dal buio abissale e caotico al buio eterno e abissale completando la sua ellissi (noti la gradazione?) discendente, aggrappandosi, tentando di aggrapparsi con vane mani inconsistenti a ciò che sperava l'avrebbe tenuto, salvato, arrestato - Ellen (le noti?), me stessa, poi ultima di tutte quell'orfana figlia dell'unica creatura di Wash Jones che, così sentii dire una volta, morì in un bordello di Memphis - per trovare distacco (anche se non riposo e pace) infine nel colpo di una falce rugginosa. Anche di questo fui messa al corrente, informata, sebbene non da Jones stavolta ma da qualcun altro abbastanza gentile da prendermi in disparte e dirmi che lui era morto. «Morto?» esclamai. «Tu? Tu menti; tu non sei morto; il cielo non può, e l'inferno non osa averti!». Ma Quentin non ascoltava, perché c'era pure qualcosa che anche lui non poteva oltrepassare - quella porta, i piedi che correvano su per le scale oltre la porta quasi una continuazione dello sparo affievolito, le due donne, la negra e la ragazza bianca nelle sue sottovesti (fatte di sacchi di farina quando farina c'era stata, sennò di tendine di finestra) ferme, in atto di guardare la porta, l'ingiallita massa cremosa di vecchio intricato raso e pizzo stesa accuratamente sul letto e poi raccolta in fretta dalla ragazza bianca e tenuta davanti a sé mentre la porta si spalancava di colpo e il fratello stava lì, senza cappello, gli ispidi capelli accorciati con la baionetta, la magra faccia consunta non rasata, la rattoppata e scolorita giubba grigia, la pistola che gli pendeva ancora lungo il fianco: tutti e due, fratello e sorella, curiosamente simili quasi che la differenza di sesso avesse solo acuito il sangue comune in una terrificante, quasi insopportabile somiglianza, a parlarsi in brevi concise frasi staccate come schiaffi, come se si fossero trovati in un corpo a corpo intenti a colpirsi e assolutamente incuranti di parare i colpi.
Adesso non puoi sposarlo.
Perché non posso sposarlo?
Perché è morto.
Morto?
Sì. l'ho ucciso io.
Lui (Quentin) non riusciva a superare tutto ciò. Non l'ascoltava neppure; disse: «Signora? Come? Che cosa avete detto?».
«C'è qualcosa in quella casa». «In quella casa? È Clytie. Lei ci...». «No. Qualcosa che ci vive dentro. Di nascosto. Da quattro anni è laggiù, vive nascosto in quella casa».