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Da un po' dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l'ufficio perché così l'aveva chiamato suo padre - una buia stanza calda senz'aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand'era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l'aria mossa portassero calore e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all'interno come dalla forza del vento. C'era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell'estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell'eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta così eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell'aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell'udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell'offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa.
La sua voce non s'interrompeva, semplicemente svaniva. C'era, col suo odore di bara, la velata penombra dolce e stradolce di glicini due volte fioriti sul muro esterno, investiti distillati e iperdistillati dal calmo sole selvaggio di settembre, in cui irrompeva di quando in quando il sonoro nuvoloso frullio dei passeri come un piatto bastoncino flessibile schioccato da un ragazzo con nulla da fare, e l'acre odore di vecchia carne femminile da tempo asserragliata nella verginità mentre la smunta faccia stralunata lo scrutava di sopra il fioco triangolo di pizzo ai polsi e alla gola dalla sedia troppo alta dov'ella pareva un'infante crocifissa; e la voce che non cessava ma svaniva in lunghi intervalli riaffiorandone poi come un rivo, un filo d'acqua sgranato da un'isoletta all'altra di sabbia asciutta, e il fantasma meditava con umbratile docilità come se fosse stata la voce stessa il luogo delle sue apparizioni laddove un altro più fortunato avrebbe avuto per sé una casa. Balzava da un tacito tuono (uomo-cavallo-demone) in una scena pacifica e decorosa come un acquerello da premio scolastico, capelli abiti e barba ancor impregnati d'un debole puzzo di zolfo, con aggruppata alle sue spalle la banda di negri selvaggi simili a belve domate a metà, addestrate a camminare erette come uomini, in atteggiamenti selvaggi e rilassati, e ammanettato in mezzo a loro l'architetto francese con quella sua aria cupa, stravolto e lacero. Immobile, barbuto e a palma levata stava in sella il cavaliere; dietro di lui i negri selvaggi e l'architetto prigioniero facevan ressa in silenzio, portando in paradosso incruento le pale, i picconi e le asce della conquista pacifica. Poi nella lunga assenza di stupore a Quentin parve di vederli invadere di colpo le cento miglia quadrate di terra tranquilla e attonita ed estrarre violentemente dall'insondabile Nulla casa e giardini e sbatterli giù come carte su un tavolo sotto la mano levata, immobile e pontificale, in atto di creare Sutpen's Hundred, le Cento (miglia) di Sutpen, con il Siano le Cento di Sutpen come l'antico Sia la luce. Poi l'udire si riaffermava e a lui pareva ora di ascoltare due diversi Quentin - il Quentin Compson che si preparava per Harvard nel Sud, il profondo Sud morto fin dal 1865 e popolato da garruli spettri risentiti e impotenti, intento ad ascoltare, obbligato ad ascoltare, uno di quegli spettri che ancor più a lungo degli altri si era rifiutato di giacere in pace e gli raccontava di tempi andati, tempi di fantasmi; e il Quentin Compson ch'era ancor troppo giovane per meritare di essere uno spettro, ma con tutto ciò non poteva fare a meno di esserlo, nato e cresciuto com'era nel profondo Sud al pari di lei - con i due diversi Quentin che adesso si parlavano nel luogo silenzioso della gente irreale, nel linguaggio irreale, così: Sembra che questo demonio - si chiamava Sutpen - (colonnello Sutpen) - il colonnello Sutpen. Il quale sbucò dal niente e calò all'improvviso sulla terra con una banda di strani negri e creò una piantagione - (Strappò violentemente alla terra una piantagione, dice Miss Rosa Coldfield) - strappò violentemente. E sposò la sorella di lei, Ellen, e procreò un figlio e una figlia che - (Senza garbo li procreò, dice Miss Rosa Coldfield) - senza garbo. I quali avrebbero dovuto essere i gioielli del suo orgoglio e lo scudo e il conforto della sua vecchiaia, solo - (Solo che lo distrussero o quel che fu o lui distrusse loro o quel che fu. E morì) - e morì. Senza rimpianto, dice Miss Rosa Coldfield - (Tranne da parte di lei) Sì, tranne da parte di lei. (E di Quentin Compson) Sì. E di Quentin Compson.
«Allora te ne vai via, all'Università di Harvard, mi dicono» disse Miss Coldfield. «Così non credo che ritornerai qui a sistemarti come avvocato di provincia in una cittadina come Jefferson, giacché quelli del Nord han badato bene di metter le cose in modo che poco o nulla rimanga da fare nel Sud per un giovane. Così forse entrerai nella carriera letteraria come stanno facendo tanti signori e anche signore del Sud e forse un giorno ti ricorderai di questo e ci scriverai su qualcosa. Allora sarai sposato suppongo e forse tua moglie avrà bisogno di un abito nuovo o di una seggiola nuova per la casa e tu potrai scrivere tutto questo e proporlo alle riviste. Forse avrai anche un pensiero gentile per la vecchia che ti fece passare tutto un pomeriggio chiuso in casa ad ascoltarla parlare di gente e avvenimenti a cui tu avesti la fortuna di scampare quando avresti preferito startene fuori tra giovani amici della tua età».
«Sissignore» disse Quentin. Solo che non è sincera pensò. E perché vuole che lo si racconti. Era ancora presto. Aveva ancora in tasca il biglietto consegnatogli da un negretto poco prima di mezzogiorno con la richiesta di andare da lei - la bizzarra richiesta rigidamente formale che era in effetti una convocazione imperiosa, quasi da un altro mondo - lo strano arcaico foglietto di buona vecchia carta da annotazioni coperto della linda calligrafia sbiadita e fitta che a causa dello stupore per la richiesta rivoltagli da una donna tre volte più vecchia di lui e che conosceva sin da bambino senza aver avuto l'occasione di scambiare con lei cento parole in tutto, o forse per il fatto di aver solo vent'anni, gli impediva di riconoscere come rivelatrice di un carattere freddo, implacabile e perfino spietato. Obbedì subito dopo il pasto di mezzogiorno, percorrendo a piedi il mezzo miglio che separava la sua casa da quella di lei nel secco calore polveroso del primo settembre, e così entrò. La casa era anch'essa in qualche modo più piccola delle sue vere dimensioni - aveva due piani - senza intonaco e un po' trasandata, ma con un'aria, una qualità di caparbia tenacia quasi che al pari di lei fosse stata creata per inserirsi perfettamente a completare un mondo per ogni verso più piccolo di quello in cui si trovava. Qui nella penombra dell'atrio protetto dalle persiane dove l'aria era ancor più calda che non fuori, come se vi fosse stato imprigionato, quasi in una tomba, tutto il sospirare del lento tempo greve di calura ch'era ricorso durante quei quarantacinque anni, la figuretta in nero che non frusciava neppure, il pallido triangolo di pizzo ai polsi e alla gola, l'ombrato viso che lo scrutava con espressione pensosa, insistente e intenta, lo attendeva per invitarlo a entrare.
E perché vuole che lo si racconti, pensò lui, in modo che gente che lei non vedrà mai e i cui nomi non udrà mai e che non ha mai udito il suo nome o visto il suo volto possa leggerlo e sapere alfine perché Iddio ci fece perdere la Guerra: che solo col sangue dei nostri uomini e le lacrime delle nostre donne Egli poteva fermare questo demonio e cancellare dalla faccia della terra il suo nome e la sua stirpe. Poi quasi subito decise che nemmeno questa era la ragione per cui ella gli aveva mandato il biglietto, e perché poi mandarlo proprio a lui, giacché se avesse semplicemente voluto che lo si raccontasse, lo si scrivesse o magari anche stampasse, non avrebbe avuto bisogno di chiamare nessuno - una donna che fin dai tempi della giovinezza del padre di lui, Quentin, si era già imposta (anche se non affermata) come la poetessa laureata della città e della contea con la pubblicazione per la severa e scarsa lista degli abbonati del giornale locale di poesie, odi, canti celebrativi ed epitaffi, attingendo a qualche amara e implacabile riserva di rifiuto alla sconfitta; e questo da parte di una donna che in quanto a glorie militari di famiglia (come ben si sapeva in città e nella contea) poteva solo vantare un padre obiettore di coscienza per motivi religiosi che si era lasciato morir di fame nella soffitta di casa sua, ivi nascosto (o a detta di alcuni, murato) per sottrarsi alla polizia militare sudista e segretamente rifocillato di notte da questa stessa figlia che proprio a quell'epoca andava accumulando il suo primo in-folio in cui figuravano immortalati uno per uno i nomi degli sconfitti seguaci irremovibili della causa persa; e il nipote che dopo quattro anni di servizio nella stessa compagnia del fidanzato di sua sorella un bel giorno lo ferì a morte davanti al cancello di casa dove la sorella aspettava in abito da sposa alla vigilia delle nozze, e poi fuggì, sparì chissà dove.
Ci sarebbero volute altre tre ore per sapere il motivo di quella chiamata perché in parte, la prima parte, Quentin la conosceva già. Rientrava nel suo retaggio ventennale, fatto di aver respirato la stessa aria e di aver sentito suo padre parlare di questo Sutpen; parte del retaggio d'un ottantennio della città - di Jefferson - fatto della stessa aria che quell'uomo in persona aveva respirato tra questo pomeriggio di settembre del 1909 e quella domenica mattina del giugno 1833 quando a cavallo aveva fatto la sua comparsa in città emergendo da un passato ignoto e aveva acquisito la sua terra nessuno sapeva come e costruito la sua casa, la sua grande dimora, a quanto pareva dal niente e sposato Ellen Coldfield e messo al mondo i suoi due figli - il figlio che aveva reso vedova la figlia non ancor sposa - e così aveva percorso la sua parabola prestabilita sino alla sua violenta (almeno Miss Coldfield avrebbe detto, giusta) fine. Quentin ci era cresciuto, in quell'atmosfera; già i soli nomi erano intercambiabili e quasi miriade. La sua infanzia ne era piena; il suo stesso corpo era un salone vuoto echeggiante di sonori nomi sconfitti: lui non era un essere, un'entità, era una repubblica. Era una caserma stipata di cocciuti fantasmi retrogradi non ancora guariti, a ben quarantatré anni di distanza, dalla febbre che aveva ucciso la malattia, ancora intenti a destarsi dalla febbre senza neppure accorgersi che contro la febbre stessa si erano battuti e non contro la malattia, lo sguardo fisso con recalcitrante ostinazione oltre la febbre e nella malattia con vero rimpianto, spossati dalla febbre eppur liberi dalla malattia e ignari persino del fatto che tale libertà fosse quella dell'impotenza.
(«Ma perché poi dirlo a me?» disse a suo padre quella sera quando rincasò dopo che lei l'ebbe finalmente congedato facendosi promettere che sarebbe tornato a prenderla con il calesse. «Perché dirlo a me? Che me ne importa, a me, se la nostra terra o il mondo o che altro so io si stancò di lui alla fine e si rivoltò e lo distrusse? E che distrusse anche la famiglia di lei? Tanto si rivolterà e ci distruggerà tutti un bel giorno, che ci chiamiamo Sutpen o Coldfield o no».
«Ah» disse Mr. Compson. «Anni fa noialtri del Sud facemmo delle nostre donne altrettante dame. Poi venne la guerra e fece delle dame altrettanti spettri. E così che altro possiamo fare noi, da gentiluomini che siamo, se non ascoltare loro, da spettri che sono?». Poi soggiunse: «Vuoi proprio sapere perché ha scelto te?». Sedevano in veranda dopo cena, aspettando l'ora fissata da Miss Coldfield per l'appuntamento con Quentin. «È perché avrà bisogno di qualcuno che le stia a fianco - un uomo, un gentiluomo, ma ancor abbastanza giovane da fare quel che vuole lei, nella maniera che vuole lei. E ha scelto te perché tuo nonno era quel che di più simile a un amico ebbe mai Sutpen in questa contea, e lei probabilmente crede che Sutpen possa aver detto a tuo nonno qualcosa di lui e di lei, di quel fidanzamento che non vincolò, di quella promessa che mancò di impegnare. Potrebbe anche aver detto a tuo nonno la ragione per cui alla fine lei rifiutò di sposarlo. E questo, tuo nonno potrebbe averlo detto a me e io a te. E così in un certo senso, l'affare, qualunque cosa avvenga là fuori stasera, resterà in famiglia; lo scheletro (se scheletro è) sempre nell'armadio. Forse lei crede che se non fosse stato per l'amicizia di tuo nonno, Sutpen non avrebbe mai potuto prender piede qui, e non prendendo piede, non avrebbe potuto sposare Ellen. Così forse lei ti considera corresponsabile per eredità di ciò che è successo a lei e alla sua famiglia per causa sua»).
Qualunque fosse la ragione della scelta, fosse questa o un'altra, per arrivarci, pensò Quentin, ce ne voleva del tempo. Intanto, come in proporzione inversa alla voce vanente, l'invocato fantasma dell'uomo che lei non poteva né perdonare né far segno a vendetta cominciava ad assumere una qualità come di solidità, di permanenza. Esso stesso avvolgente e fasciato dal suo effluvio infernale, dalla sua aura di negata rigenerazione, meditava (meditava, pensava, pareva possedere sensibilità, come se, per quanto privato della pace - lui che comunque era impervio a ogni fatica - che lei gli ricusava, si trovasse nondimeno irrevocabilmente fuori portata dalla possibilità ch'ella aveva di nuocere o ferire) in quella forma pacifica e ormai innocua e neppur molto attenta - la figura d'orco che, proseguendo la voce di Miss Coldfield nel suo racconto, generava da dentro di sé sotto gli occhi di Quentin i due figli semiorchi, e tutti e tre insieme formavano uno sfondo umbratile alla quarta figura. Era questa la madre, la morta sorella Ellen: questa Niobe senza lacrime che aveva concepito dal demone in una specie d'incubo, che sin da viva s'era aggirata movendosi ma senza vita e aveva conosciuto l'ambascia ma non il pianto, che aveva adesso un'aria di tranquilla e inconsapevole desolazione, non di chi fosse sopravvissuta agli altri o premorta, bensì non mai vissuta. A Quentin pareva di vederli, tutti e quattro disposti nel convenzionale gruppo di famiglia dell'epoca, con un decoro formale e inanime, e visti ora così come si sarebbe vista la stessa fotografia vecchia e sbiadita, ingrandita e appesa al muro dietro e sopra la voce e della cui presenza qui la proprietaria della voce non s'accorgeva nemmeno, come se lei (Miss Coldfield) non avesse mai visto questa stanza prima d'ora - un quadro, un gruppo che anche per Quentin aveva una caratteristica strana, contraddittoria e bizzarra; non bene comprensibile, non (anche per un ventenne) proprio giusto - un gruppo il cui ultimo componente era morto da venticinque anni e il primo da cinquanta, evocato ora dalla penombra senz'aria di una casa morta fra il corrucciato e implacabile rifiuto di perdono d'una vecchia e la passiva renitenza d'un giovanotto di vent'anni che andava dicendosi finanche in mezzo a quella voce: Forse bisogna conoscere le persone tremendamente bene per amarle ma quando le si è odiate per quarantatre anni le si conosce tremendamente bene così forse è meglio, forse è bello allora perché dopo quarantatré anni non ti possono più sorprendere o darti molta contentezza o molta collera. E forse essa (la voce, il parlare, la stupefazione incredula e insopportabile) era stata una volta un grido alto, pensò Quentin, tanto tempo addietro quand'ella era fanciulla - di giovane e indomabile rifiuto al rimpianto, di accusa alla cieca circostanza e all'evento selvaggio; ma non ora: ora soltanto la vecchia carne solinga di femmina insoddisfatta asserragliata per quarantatré anni nel vecchio insoluto, nella vecchia negazione di perdono offesa e tradita da quell'affronto definitivo e totale che era stata la morte di Sutpen:
«Egli non era un gentiluomo. Non era neppure un gentiluomo. Se ne venne qui con un cavallo e due pistole e un nome che nessuno aveva mai sentito e nessuno gli conosceva come sicuramente suo, al pari del cavallo o anche delle pistole, del resto, in cerca di un luogo ove nascondersi, e la contea di Yoknapatawpha glielo fornì. Cercò la garanzia di uomini stimabili per battersi contro gli altri forestieri che venissero poi eventualmente a cercarlo a loro volta, e Jefferson gliela diede. Poi ebbe bisogno della rispettabilità, dello scudo di una donna virtuosa, per rendere la sua posizione inoppugnabile anche contro gli uomini che gli avevano accordato protezione, per quel giorno e ora inevitabili in cui anch'essi dovevano insorgere contro di lui in sdegno, orrore e oltraggio; e fu il padre mio e di Ellen a dargli questo. Oh, io non ho attenuanti per Ellen: cieca sciocca romantica che tutt'al più poteva avere come giustificazione la sua giovinezza e inesperienza; cieca sciocca romantica, poi in seguito cieca donna e madre sciocca quando non aveva più né la giovinezza né l'inesperienza a mo' di scusa quando giaceva moribonda in quella casa per la quale aveva barattato orgoglio e pace in un sol colpo, e non c'era nessuno presente tranne la figlia che era già tal quale una vedova senza esser mai stata sposa e doveva poi, tre anni dopo, diventare una vedova in piena regola senza mai essere stata nulla di nulla, e il figlio che aveva ripudiato financo il tetto sotto il quale era nato e a cui non sarebbe ritornato che una volta sola prima di sparire per sempre, e da assassino, anzi quasi da fratricida; e lui, demonio manigoldo e satana, a combattere in Virginia, dove più che in qualunque altra plaga sotto il sole c'eran buone probabilità che la terra si sbarazzasse di lui, eppure Ellen e io sapevamo entrambe che sarebbe ritornato, che fin l'ultimo uomo delle nostre armate avrebbe dovuto cadere prima che una pallottola o una granata imbroccasse lui; e soltanto io, una bambina, una bambina, bada bene, di quattro anni più giovane della stessa nipote che mi si chiedeva di salvare, solo io a raccogliere l'implorazione di Ellen: "Proteggila. Proteggi Judith almeno". Sì, cieca sciocca romantica, che non aveva nemmeno quelle cento miglia di piantagione che evidentemente colpirono nostro padre né quella grande casa e l'idea degli schiavi sotto i piedi giorno e notte che riconciliò, non dico certo convinse, sua zia. No: giusto la faccia di un uomo che in qualche modo riusciva a esser tracotante anche a cavallo - un uomo che per quanto se ne sapeva (compreso il padre che doveva dargli una figlia in sposa) o non aveva alcun passato o non osava rivelarlo - un uomo che dal nulla entrò in paese cavalcando con due pistole, un cavallo e un branco di bestie selvagge che aveva catturate da solo perché nella paura era ancor più forte di loro in quel qualsiasi posto sconsacrato donde se n'era fuggito, e quell'architetto francese che aveva tutta l'aria di esser stato cacciato e catturato a sua volta dai negri - un uomo che fuggì qui e si nascose, si celò al riparo della rispettabilità, dietro quelle cento miglia di terra prese a una tribù di indiani ignoranti, nessuno sa come, e una casa grande come un tribunale dove per tre anni abitò senza una finestra o una porta o un vero letto e con tutto ciò la chiamava Sutpen's Hundred come se fosse stata una concessione regale trasmessagli in perpetuità ininterrotta dal bisavolo - una casa, posizione: una moglie e una famiglia che, essendo necessaria al nascondiglio, egli accettò insieme al resto della rispettabilità così come avrebbe accettato il necessario disagio e anche il dolore fisico dei rovi e delle spine d'una macchina se la macchina avesse potuto dargli la protezione cercata.
«No: neanche un gentiluomo. A renderlo tale non bastava sposare una Ellen o diecimila Ellen.
Non che volesse esserlo, o anche esser preso per tale. No. Ciò non era necessario, poiché a lui serviva semplicemente il nome di Ellen e di nostro padre su una licenza di matrimonio (o qualunque altra patente di rispettabilità) da metter sotto gli occhi alla gente proprio come avrebbe avuto bisogno della firma di nostro padre (o di qualunque altro uomo stimabile) su una cambiale perché nostro padre sapeva chi era suo padre nel Tennessee e chi era stato suo nonno in Virginia e i nostri vicini e le persone del nostro ambiente sapevano che noi sapevamo e noi sapevamo che loro sapevano che noi sapevamo e noi sapevamo che loro ci avrebbero creduto circa la sua origine e provenienza quand'anche avessimo mentito, proprio come a chiunque sarebbe bastato dargli uno sguardo per capire che lui avrebbe mentito sulla sua origine, provenienza e ragione di trasferimento, dal solo fatto che evidentemente era costretto a ricusare di rivelarle. E il solo fatto ch'egli avesse dovuto scegliere la rispettabilità quale riparo comprovava a sufficienza (se pur d'altre prove c'era bisogno) che ciò da cui fuggiva doveva essere qualche contrario della rispettabilità, troppo tenebroso per potersene parlare. Perché lui era troppo giovane. Aveva giusto venticinque anni e un uomo di venticinque anni non si sobbarca volontariamente alle durezze e ai sacrifici di dissodare terra vergine e creare una piantagione in un paese nuovo solo per il denaro: non certo un giovanotto privo di qualunque passato a cui tenesse di far cenno, nel Mississippi del 1833, con un fiume pieno zeppo di battelli carichi di idioti ubriachi coperti di diamanti e occupati a buttar via il loro cotone e i loro schiavi prima che il battello raggiungesse New Orleans, no certo, con tutta quella grazia di Dio a una semplice nottata di duro cavalcare, e il solo svantaggio o inceppo costituito dagli altri manigoldi o dal rischio di venire sbarcato su un banco di sabbia, e alla più lontana, da una corda di canapa. E poi non era un figlio cadetto inviato alla ventura da qualche vecchia contrada quieta come la Virginia o la Carolina coi negri in soprappiù a prendersi della terra nuova, perché di primo acchito si vedeva che quei suoi negri potevano sì provenire (come forse provenivano in realtà) da un paese molto più antico della Virginia o della Carolina, ma non da un paese quieto. E a chiunque bastava guardarlo in faccia per capire che lui avrebbe scelto il fiume e forse anche la certezza della corda di canapa anziché intraprendere quel che aveva intrapreso, anche se avesse saputo di trovare oro sepolto in attesa delle sue mani nella stessa terra da lui comperata.
«No. Non ho più attenuanti per Ellen di quante ne abbia per me. Per me poi anche meno, perché io ebbi vent'anni di tempo per osservarlo, mentre Ellen ne aveva avuti solo cinque. E nemmeno quei cinque per vederlo, ma solo per sentire di seconda mano quel che faceva, e non più di metà di quanto faceva, giacché una buona metà di quanto fece in realtà durante quei cinque anni rimase sconosciuta a tutti, e metà del resto nessuno l'avrebbe riferita a una moglie, tanto meno poi a una fanciulla in giovane età; lui se ne venne qui e mise su uno spettacolo riservato che durò cinque anni e Jefferson gli pagò il divertimento proteggendolo almeno fino al punto di non ridire alle sue donne quel ch'egli faceva. Ma io avevo tutta la vita per osservarlo, poiché a quanto sembra e per quale ragione lo sa soltanto il cielo, la mia vita era destinata a terminare un pomeriggio d'aprile di quarantatré anni fa, giacché chiunque avesse goduto anche solo quel po' di vita che mi toccò in sorte di fare fino a quel momento non chiamerebbe vita quella che ho condotto poi. Io vidi quel ch'era successo a Ellen, mia sorella. La vidi, quasi una reclusa, guardar crescere quei due figli segnati ch'ella non era in grado di salvare. Vidi il prezzo che aveva pagato per quella casa e quell'orgoglio; vidi le cambiali di orgoglio e soddisfazione e pace e tutte le altre a cui aveva apposto la sua firma entrando in chiesa quella sera, cominciare a scadere l'una dopo l'altra. Vidi proibire il matrimonio di Judith senza un'ombra di ragione al mondo; vidi morire Ellen con accanto solo me, una bambina, per raccogliere la sua implorazione di proteggere la creatura che le restava; vidi Henry ripudiare casa e diritti di nascita e poi tornare e praticamente scagliare il cadavere insanguinato dell'innamorato di sua sorella sull'orlo del suo abito nuziale; vidi tornare quell'uomo - la fonte e origine prima del male, sopravvissuta a tutte le sue vittime - che aveva procreato due figli non solo perché si distruggessero l'un l'altro e distruggessero il suo ceppo, ma il mio pure, e con tutto ciò acconsentii a sposarlo.
«No. Io non ho attenuanti per me stessa. Non adduco la giovinezza, giacché nel Sud quale mai creatura dal 1861 in poi, uomo, donna, negro o mulo, aveva avuto tempo o opportunità non solo di essere giovane, ma di aver sentito dire che cosa significasse essere giovane da chi lo era stato? Non adduco la vicinanza: il fatto che io, una donna giovane e in età da marito e in un'epoca in cui la maggior parte dei giovanotti che in circostanze ordinarie avrei conosciuto eran morti in sperduti campi di battaglia, io vissi per due anni sotto lo stesso tetto con lui. Non adduco le necessità materiali: il fatto che, orfana, donna e povera qual ero, mi rivolgessi naturalmente non per cercar protezione ma addirittura il pane ai miei soli parenti: la famiglia della mia defunta sorella: benché sfidi chiunque a farmene una colpa, a me orfana ventenne, giovane donna senza risorse, che desiderava non solo giustificare la sua situazione ma rivendicare l'onore di una famiglia in cui il buon nome delle donne non ha mai sofferto contestazioni, accettando l'onorevole profferta di matrimonio dell'uomo di cui era costretta a mangiare il pane. E soprattutto, non adduco me stessa: una giovane donna emersa da un olocausto che le aveva tolto genitori sicurezza e tutto, una donna che aveva visto tutto quanto poteva significare per lei la vita crollare a pezzi ai piedi di alcune figure dall'aspetto di uomini ma dal nome e statura d'eroi - una giovane donna, dico, gettata in contatto giornaliero, ora dopo ora, con uno di questi uomini che, ad onta di ciò che poteva essere stato in una data epoca e di ciò che sul suo conto poteva aver creduto o anche saputo lei, aveva combattuto per quattro onorevoli anni per il suolo e le tradizioni della terra dov'era nata lei. E l'uomo che aveva fatto questo, per fior di canaglia che fosse, doveva certo acquistare ai suoi occhi, non foss'altro che per associazione con loro, e figura d'eroe lui pure, emergendo poi anch'egli dallo stesso olocausto in cui aveva sofferto lei, e per affrontare quel che il futuro riservava al Sud null'altro che le mani ignude aveva e la spada non mai ceduta, oh sì, e l'encomio solenne del suo sconfitto comandante in capo. Oh, era valoroso. Questo non l'ho mai contestato. Ma che la nostra causa, la nostra stessa vita, le speranze future e il passato orgoglio, dovessero esser gettati sulla bilancia con uomini di quella fatta per sostenerla - uomini di valore e di forza ma senza pietà o onore. C'è da stupirsi che il cielo giudicasse la nostra sconfitta?».
«No certo» disse Quentin.
«Ma che dovesse toccare proprio a nostro padre, mio e di Ellen, fra tutti quelli che lui conosceva, fra tutti quelli che andavan là fuori a bere e giocare con lui e guardarlo battersi con quei selvaggi di negri, gente di cui poteva anche aver vinto le figlie a carte! Che dovesse toccare proprio a nostro padre. Come avesse potuto lui avvicinare papà, per quale motivo; che cosa ci poteva essere stato oltre l'ovvia cortesia di due uomini incontratisi fortuitamente per via, fra un uomo che veniva da nessun posto o da dove non aveva il coraggio di dire e nostro padre; che cosa ci poteva essere stato tra un uomo come quello e papà - un cerimoniere metodista, un commerciante che non era ricco e non soltanto non avrebbe potuto far niente di niente per migliorare le sue fortune o prospettive ma nemmeno con uno sforzo d'immaginazione giunger mai a possedere un qualsiasi oggetto dei suoi desideri, quand'anche trovandolo per strada - un uomo che non possedeva né terra né schiavi tranne due domestiche da lui subito liberate non appena le ebbe, cioè le comperò, che non beveva né andava a caccia né giocava d'azzardo - che cosa ci poteva essere stato in comune fra un uomo che per mia sicura conoscenza non mise mai piede in una chiesa di Jefferson più di tre volte in vita sua - quando vide Ellen per la prima volta, quando fecero le prove della cerimonia nuziale, e quando la celebrarono - un uomo che a colpo d'occhio mostrava di essere abituato ad aver denaro, anche se evidentemente adesso non ne aveva, e di esser deciso a riaverne e senza scrupoli sul modo di procurarselo - proprio lui, scoprire Ellen in una chiesa! In chiesa, bada bene, come se ci fosse una fatalità e una maledizione sulla nostra famiglia e Iddio in persona si occupasse di farla compiere e di far vuotare il calice fino all'ultima goccia, fino alla feccia. Sì, fatalità e maledizione sul Sud e sulla nostra famiglia, quasi per il fatto che qualche nostro antenato avesse scelto di stabilire la sua discendenza in una terra riservata al Fato e già oppressa dalla sua maledizione, anche se non fosse stata proprio la nostra famiglia, i progenitori di nostro padre, i quali erano incorsi nella maledizione molti anni prima ed erano stati costretti dal cielo a stabilirsi nella terra e nell'epoca già maledetta. Cosicché perfino io, una bambina ancora troppo piccola per sapere altro che, quantunque Ellen fosse mia sorella e Henry e Judith miei nipoti, non dovevo neppure andarci se non quando c'erano con me mio padre o mia zia e che non dovevo giocare con Henry e Judith tranne in casa (e non già perché avessi quattro anni meno di Judith e sei meno di Henry: non fu forse a me che si rivolse Ellen prima di morire, con l'implorazione: "Proteggili"?) - perfino io mi chiedevo che cosa potevano aver commesso nostro padre o il padre suo prima delle nozze di nostra madre, che Ellen e io dovessimo espiare senza che una sola di noi due bastasse; quale delitto perpetrato sì da lasciar la nostra famiglia in balìa di una maledizione, quella di servire da strumenti non soltanto alla distruzione di quell'uomo, ma alla nostra».
«Sissignora» disse Quentin.
«Sì» disse la cupa voce calma da oltre l'immobile triangolo di pizzo velato dalla penombra; e ora, in mezzo ai fantasmi meditabondi e dignitosi Quentin credette di vedersi precisare la figura di una fanciulletta nelle agghindate gonnelle e mutande lunghe e con le agghindate lisce trecce dignitose di quell'epoca morta. Ella pareva starsene ritta, presenza nascosta, dietro il lindo steccato di un cortiletto o spiazzo inconfondibilmente da classe media, a guardare il qualsiasi mondo stregato di quella quieta strada di paese con l'aria tipica dei bambini nati troppo tardi nella vita dei loro genitori e condannati a contemplare tutta la condotta umana attraverso le complesse e inutili follie degli adulti - un'aria da Cassandra, seriosa e profondamente e severamente profetica in maniera del tutto sproporzionata all'età effettiva anche di una bambina che non era mai stata giovane. «Perché io nacqui troppo tardi. Nacqui con ventidue anni di ritardo - bambina per la quale, a forza di sentirne parlare gli adulti a loro insaputa, i volti di mia sorella e dei suoi figli avevano finito col diventare come le facce di un racconto d'orchi tra cena e letto già molto prima che avessi età o statura da ottenere il permesso di giocare con loro, eppure a quella bambina doveva ben rivolgersi da ultimo quella sorella sul letto di morte, quando uno dei figli era sparito e condannato a diventare un assassino e l'altra condannata a essere una vedova prima ancora d'essere stata sposa, e dirle: "Proteggi lei, almeno. Almeno salva Judith". Una bambina, eppure quale riconosciuto istinto di bimba poteva formulare quella risposta che evidentemente la matura saggezza dei più vecchi non aveva saputo formulare: "Proteggerla? Da chi e da che cosa? Lui ha già dato lor la vita: non ha da far loro altro male. E da se stessi che devono esser protetti"».
Avrebbe dovuto essere più tardi che non fosse in realtà: avrebbe dovuto essere più tardi, eppure gli squarci gialli di sole palpitante di pulviscolo non striavano di un pollice più in alto l'impalpabile muro di penombra che separava i due; il sole sembrava non essersi affatto spostato. Ciò (il parlare, il raccontare) sembrava a lui (a Quentin) avere la qualità di un sogno alogico e irrazionale che il dormiente sa essere senz'altro avvenuto, nato morto e completo, in un secondo, eppure l'intrinseca qualità su cui quel sogno si fonda per indurre il sognatore (verosimiglianza) alla credulità - orrore o piacere o meraviglia - dipende da un formale riconoscimento e accettazione del tempo trascorso e in atto di trascorrere, nella stessa misura della musica o di un racconto stampato. «Sì. Sono nata troppo tardi. Io ero una bambina destinata a ricordare quei tre volti (e anche il suo) così come li avevo visti per la prima volta in carrozza quella prima domenica mattina quando questa città si accorse finalmente che lui aveva trasformato la strada da Sutpen's Hundred alla chiesa in una pista da corse. Allora avevo tre anni, e indubbiamente li avevo visti prima; dev'essere stato così. Ma non me ne ricordo. Non ricordo nemmeno di aver mai visto Ellen prima di quella domenica. Era come se la sorella su cui non avevo mai posato gli occhi, la sorella che prima ancora della mia nascita era sparita nella fortezza di un orco o di un jinn dovesse ora tornare, grazie alla franchigia di un solo giorno, al mondo da lei abbandonato, e io una bambina di tre anni, svegliata di buon'ora per l'occasione, tutta vestita a festa e pettinata a ricci come per Natale, anzi per una solennità ancor più seria del Natale, poiché adesso finalmente quest'orco o jinn aveva acconsentito a recarsi in chiesa in grazia della moglie e dei figli, a permetter loro almeno di accostarsi alle vicinanze della salvezza, a dare a Ellen una possibilità di lottare con lui per l'anima di quei figli su un campo di battaglia dov'ella poteva contare non soltanto sull'aiuto del cielo ma su quello della sua famiglia e di gente della sua specie; sì, e lui che per un momento solo si sottometteva alla redenzione, o se non proprio questo, era almeno momentaneamente cavalleresco sebbene pur sempre non redento. Ecco quello che m'aspettavo. Ecco invece quello che vidi mentre me ne stavo là davanti alla chiesa fra papà e la zia ad attendere l'arrivo della carrozza dalla corsa di dodici miglia. E quantunque io debba senz'altro aver visto Ellen e i bambini prima d'allora, ecco la visione lasciata in me dal loro primo apparirmi, che mi porterò nella tomba: uno squarcio, come l'avanguardia di una bufera, della carrozza con dentro il viso bianchissimo di Ellen e ai suoi fianchi due repliche del volto di lui in miniatura, e a cassetta la faccia e i denti del negro selvaggio che conduceva, e lui, con la faccia tal quale il negro tranne per i denti (ciò senza dubbio per via della barba) - tutto in un tuono e in una furia di cavalli dagli occhi roteanti, e di galoppo e di polvere.
«Oh, ce n'era di gente a incoraggiarlo e aiutarlo a farne una corsa sfrenata; le dieci in punto di domenica mattina, la carrozza lanciata su due ruote fin sulla porta della chiesa con quel negro selvaggio in abiti cristiani che pareva proprio una tigre ammaestrata in spolverino di tela e cappello a cilindro, ed Ellen completamente sbiancata in viso, a reggere quei due bambini che non piangevano e non avevano bisogno di essere sorretti, seduti com'erano ai due lati della madre, e anche perfettamente tranquilli, con quell'enormità infantile in viso che allora non riuscivamo a comprendere bene. Oh sì, ce n'era di gente a incoraggiarlo e aiutarlo; anche lui non avrebbe potuto fare una corsa di cavalli senza qualcuno con cui competere. Perché non fu nemmeno l'opinione pubblica a fermarlo, nemmeno gli uomini che potevano avere mogli e bambini in carrozza esposti al pericolo di essere travolti e gettati nei fossati: fu il pastore stesso che parlò in nome delle donne di Jefferson e della contea di Yoknapatawpha. Così lui smise di venire in chiesa; ora la domenica mattina si vedeva comparire soltanto Ellen coi bambini in carrozza, così potevamo esser certi che almeno adesso non ci sarebbero state scommesse, poiché nessuno poteva dire se era proprio una corsa, in quanto ora, mancando il volto di lui, c'era soltanto quello perfettamente imperscrutabile del negro selvaggio coi denti un po' luccicanti, dimodoché adesso noi non potevamo mai sapere se era una corsa o una fuga, e se trionfo c'era, era sulla faccia che non richiedeva nemmeno di vedere o di essere presente. Era il negro adesso, che nell'atto di sorpassare un'altra carrozza parlava anche a quella pariglia né più né meno che alla sua - qualcosa di inarticolato, non bisognoso probabilmente di articolarsi in parole, espresso in quella lingua in cui quei negri dormivano nella melma di quella palude, portato qui da quella qualunque buia palude dove lui li aveva trovati per poi condurli qui - il polverone, il rombo, la carrozza lanciata in un turbine fino alla porta della chiesa mentre donne e bambini le si disperdevano davanti urlando e gli uomini afferravano le briglie dell'altra pariglia. E il negro faceva scendere Ellen e i bambini alla porta e girava la carrozza per condurla al boschetto del parcheggio, e picchiava i cavalli perché erano scappati: una volta ci fu perfino uno scervellato che tentò di impedirlo, al che il negro gli si parò davanti col bastone alzato e scoprendo un poco i denti disse: "Padrone dire; io fare. Voi dire padrone".
«Sì. Da loro; da loro stessi. E stavolta non fu nemmeno il pastore. Fu Ellen. La zia e il papà stavano parlando e io entrai e mia zia disse "Va' fuori a giocare", benché, anche se non avessi colto una parola di là dall'uscio, avrei potuto ripetere per filo e per segno, a loro due: "Tua figlia, tua figlia" diceva mia zia; e papà: "Sì. È mia figlia. Quando vorrà mettermi di mezzo me lo dirà lei stessa". Perché quella domenica, quando dal portale uscirono Ellen e i bambini, non c'era la carrozza ad aspettarli, c'era il phaeton di Ellen con quella buona vecchia giumenta che guidava lei e il mozzo di stalla che lui aveva comperato per sostituire il negro scatenato. E Judith diede un'occhiata al phaeton e capì che cosa voleva dire e si mise a strillare, strillando e scalciando mentre la riportavano in casa e la mettevano a letto. No, lui non c'era. Né posso sostenere di aver intravisto una faccia trionfante nascosta dietro una tendina della finestra. Probabilmente lui si sarebbe meravigliato né più né meno di noi poiché adesso noi si capiva tutti di trovarci davanti a qualcosa di più che non una semplice bizza di bambina o anche isterismo: che per tutto quel tempo la faccia di lui era stata presente nella carrozza; che era stata Judith, una bimba di sei anni, a istigare e autorizzare quel negro a lanciare la pariglia in corsa sfrenata. Non Henry, bada bene; non il ragazzo, cosa che sarebbe stata già abbastanza oltraggiosa; ma Judith, la ragazza. Non appena papà e io entrammo da quel cancello quel pomeriggio e imboccammo il viale che portava alla casa, lo sentii. Era come se in qualche punto, nella quiete e pace di quel pomeriggio domenicale, le strida di quella bambina esistessero ancora, indugiassero, non più come suono adesso ma come qualcosa di udibile per la pelle, udibile per i capelli. Ma io non domandai subito. Allora avevamo giusto quattro anni; sedevo in calesse accanto a papà così com'ero stata in piedi fra lui e mia zia davanti alla chiesa quella prima domenica quando m'avevano abbigliato a festa per venire a vedere per la prima volta mia sorella e i miei nipoti, e guardavo la casa. C'ero stata dentro altre volte, sì, ma fin da quando la vidi per la prima volta mi pareva già di sapere come mi si sarebbe presentata, e allo stesso modo mi pareva di sapere quale sarebbe stato l'aspetto di Henry e Judith prima ancora di vederli quella volta che ricordo sempre come la prima. No, niente domande, nemmeno allora, ma solo guardare quella grande casa quieta dicendo: "In quale stanza si trova Judith malata, papà?" con quella calma attitudine dei bambini ad accettare l'inesplicabile, sebbene adesso io sappia che già allora mi chiedevo che cosa avesse visto Judith quand'era uscita e aveva trovato il phaeton al posto della carrozza, il mansueto mozzo di stalla al posto dell'omaccio scatenato; che cosa avesse visto lei in quel phaeton che a noialtri sembrava così innocente - o peggio, che cosa non vi avesse trovato quando al vedere il phaeton s'era messa a strillare. Sì, un pomeriggio domenicale silenzioso, afoso e calmo come questo; ricordo ancora l'estrema quiete di quella casa quando vi entrammo, e da ciò io capii subito che lui non c'era, senza sapere che si trovava sotto il pergolato di vite moscata a bere con Wash Jones. Capii solo, non appena varcai la soglia con papà, che lui non c'era: come per qualche onnisciente convinzione, sapendo che lui non aveva bisogno di fermarsi a osservare il suo trionfo - e che, a paragone di quanto doveva avvenire, questa era una faccenduola qualsiasi immeritevole anche della nostra attenzione. Sì, quella quieta stanza oscurata dalle persiane chiuse e una negra seduta al capezzale con un ventaglio e il viso bianco di Judith sul guanciale sotto un panno imbevuto di canfora, addormentata, come credetti allora: forse era sonno, o voleva il nome di sonno: e il viso di Ellen bianco e calmo e papà disse: "Va' fuori a cercare Henry e chiedigli di giocare con te. Rosa" e così me ne ero stata appena fuori di quella porta silenziosa in quel silenzioso salone del piano superiore perché avevo paura di allontanarmi anche di lì, perché sentivo la quiete del pomeriggio festivo di quella casa, più sonora del tuono, più ancora del riso trionfatore.
«"Pensa ai bambini" diceva papà.
«"Pensare?" diceva Ellen. "E che altro faccio? Che altro faccio nelle mie notti insonni se non pensare a loro?". Né papà né Ellen dissero: Ritorna a casa. No: tutto questo accadde prima che venisse di moda riparare gli errori voltando loro le spalle e dandosi alla fuga. Soltanto le due voci calme di là da quella porta opaca, e il tono poteva essere quello di chi discuteva un articolo di rivista; e io, in piedi, bambina stretta a quella porta perché avevo paura di star lì ma ancor più paura di allontanarmene, ritta e immobile vicino a quella porta come per cercar di fondermi col legno scuro e rendermi invisibile, come un camaleonte, intenta ad ascoltare lo spirito e la presenza viva di quella casa, poiché ora vi si era trasfuso qualcosa della vita e del respiro di Ellen oltre che di lui, spirando un lungo suono neutro di vittoria e disperazione, di trionfo e anche terrore.
«"Ami tu questo..." disse papà.
«"Papà" disse Ellen. Fu tutto. Ma io riuscivo a vederle il volto non meno chiaramente di quanto avrebbe potuto il babbo, con quella stessa espressione che aveva quella prima domenica e le altre. Poi venne un servo e disse che il nostro calesse era pronto.
«Sì. Da loro stessi. Non da lui, non da alcuno, come del resto nessuno avrebbe potuto salvarli, neanche lui. Perché lui ora ci mostrò per quale motivo quel trionfo non aveva meritato la sua attenzione. O meglio, lo mostrò a Ellen: non a me. Io non c'ero; erano sei anni ormai che non lo vedevo quasi mai. Adesso la zia era morta e io governavo la casa per papà. Forse una volta all'anno papà e io andavamo là a pranzo, e forse quattro volte all'anno Ellen e i bambini venivano a passare una giornata con noi. Lui no; ch'io sappia, lui non mise più piede in questa casa dopo il suo matrimonio con Ellen. Ero giovane allora; tanto giovane da credere che ciò fosse dovuto a qualche ostinato tizzone di coscienza, se non rimorso, perfino in lui. Ma adesso so la verità. Adesso so che era semplicemente perché, avendogli dato il babbo la rispettabilità tramite una moglie, non c'era più nulla che potesse volere dal babbo, e così nemmeno la pura gratitudine, figurarsi poi il rispetto delle apparenze, poteva costringerlo a rinunziare al proprio piacere sino al punto di fare un pasto in famiglia coi parenti di sua moglie. Così li vedevo ben poco. Ora non avevo tempo di giocare, anche se ne avessi avuto voglia. Non avevo mai imparato come si faceva e non vedevo nessuna ragione d'imparare adesso, anche se ne avessi avuto il tempo.
«Così erano ormai sei anni, eppure non era un segreto per Ellen giacché la faccenda seguitava da quando lui aveva ribattuto l'ultimo chiodo in casa, e la sola differenza fra adesso e l'epoca del suo celibato era che adesso legavano le pariglie e i cavalli da sella e i muli nel boschetto oltre la stalla e così si accostavano passando per il pascolo non visti dalla casa. Perché ce n'era sempre una quantità; era come se Dio o il diavolo avessero profittato dei suoi stessi vizi per fornire testimoni allo scatenarsi della nostra maledizione prendendoli non soltanto tra la gente per bene, della nostra specie, ma dalla feccia e plebaglia che non avrebbe potuto mai avvicinarsi alla casa stessa in nessuna circostanza, nemmeno dalla parte posteriore. Sì, Ellen e quei due bambini soli in quella casa a dodici miglia dalla città, e laggiù nella stalla un cavo quadrato di facce alla luce delle lanterne, le facce bianche su tre lati, quelle nere sul quarto, e al centro due dei suoi negri selvaggi che si battevano nudi, e si battevano non già come fanno i bianchi, con determinate regole e armi, ma come fanno i negri, per colpirsi nella maniera più rapida e brutale; ed Ellen lo sapeva, o pensava di saperlo; non era questo. Accettava - non di buon grado: accettava - come se nell'offesa ci sia un punto di respiro dove l'offesa puoi accettarla quasi con gratitudine poiché puoi dire a te stesso: Grazie a Dio, questo è tutto; almeno adesso so com'è - pensando questo, aggrappandosi ancora a questo quando corse nella stalla quella notte mentre gli stessi uomini che vi erano entrati dal retro di soppiatto si tiravano indietro davanti a lei con almeno un pizzico di pudore, ed Ellen vedeva non già le due bestie nere che s'era aspettata ma invece una bianca e una nera, entrambe nude fino alla cintola e protese a cavarsi gli occhi come se fossero stati due esseri non solo dello stesso colore, ma anche coperti di pelliccia. Sì. Pare che in certe occasioni, forse alla fine della serata, dello spettacolo, come finale o forse per il puro mortale pensiero di serbare la supremazia, il dominio, entrasse in lizza lui con qualcuno dei negri. Sì. Ecco quello che vide Ellen: suo marito, il padre dei suoi figli, ritto là nudo e ansimante e insanguinato fino alla vita, e il negro appena caduto, steso ai suoi piedi e insanguinato anche lui, solo che sul negro pareva soltanto untume o sudore - Ellen in corsa precipitosa giù per il pendio in cima al quale sorgeva la casa, a capo scoperto, e fece in tempo a udire il frastuono, l'urlo, a udirlo mentre ancora correva nell'oscurità e prima che gli spettatori sapessero che c'era lei, udendolo ancor prima che a un certo spettatore venisse in mente di dire: "È un cavallo", poi "È una donna", poi "Dio mio, è una bambina" - irruppe nel locale, e gli spettatori a tirarsi indietro per lasciarle vedere Henry saltar fuori dalle mani dei negri che lo tenevano, urlando e vomitando - senza nemmeno sostare, senza nemmeno guardare le facce che arretravano dinanzi a lei mentre s'inginocchiava nella lordura della stalla a rialzare Henry e senza guardare nemmeno Henry ma lui che se ne stava dritto là in mezzo mostrando persino i denti fra la barba, e un altro negro intanto gli asciugava il sangue dal corpo con un telo di juta. "So che ci scuserete, signori" disse Ellen. Ma loro se ne stavan già andando, negri e bianchi, svignandosela alla chetichella così come s'erano infilati là dentro, ed Ellen ora che non li guardava neppure ma si inginocchiava nella sporcizia mentre Henry le si avvinghiava piangendo, e lui sempre ritto là in mezzo mentre un terzo negro gli cacciava addosso camicia o giubba come se la giubba fosse stata un bastone e lui un serpente in gabbia. "Dov'è Judith, Thomas?" disse Ellen.
«"Judith?" disse lui. Oh, non mentiva; il suo stesso trionfo lo aveva sopraffatto; egli aveva costruito nel male ancor meglio di quanto avesse potuto sperare. "Judith? Ma non è a letto?".
«"Non mentire con me, Thomas" disse Ellen. "Posso capire che tu porti qui Henry a vedere questo, che tu voglia fargli vedere questo; sì, farò uno sforzo per capirlo. Ma non Judith, Thomas. Non la mia bimba, Thomas".
«"Non spero affatto che tu lo capisca" disse lui. "Perché sei una donna. Ma io non ho portato qui Judith. Io non la porterei mai qui. Non spero che tu ci creda. Ma lo giuro".
«"Vorrei poterti credere" disse Ellen. "Voglio crederti". Poi si mise a chiamare. "Judith!" chiamava con voce calma e dolce e piena di disperazione: "Judith cara! È ora di andare a letto".
«Ma io non c'ero. Io non ero lì stavolta a vedere le due facce Sutpen - una, quella di Judith, e l'altra della ragazza negra al suo fianco - che guardavano giù dalla botola quadrata del fienile».