4.

L’ALTRO MONDO.

 

Syed Alwi, il commediografo, non aveva condiviso la crescita economica della Malaysia. Chi scrive per il teatro in malese non diventa ricco e Syed aveva fatto di quel genere letterario il suo mestiere. Tuttavia, con qualche compenso di qui e di la’ , nel corso degli anni era riuscito a mettere da parte una piccola somma e, raggiunta la sessantina, penso’ di costruirsi una casetta per trascorrere la vita al tramonto.

Da ragazzo di campagna per nascita e istinto, e con una passione tutta malese per gli alberi e i fiumi, trovo’ un lotto edificabile in un “kampung” all’estrema periferia di Kuala Lumpur, raggiungibile in mezz’ora dal centro con la sua scoppiettante utilitaria rossa, passando per la nuova, velocissima autostrada che taglia in due le colline devastate. Si esce dall’autostrada, si scende per una serie di curve dentro un bosco assolato e alla fine si arriva al “kampung” di un verde intenso. Ai piedi della piccola proprieta’ di Syed Alwi c’e’ un ruscelletto poco largo e profondo appena un palmo.

L’istinto malese che lo porto’ a scegliere quel lotto gli consiglio’ di affidare la costruzione della casa a un giovane parente che faceva da poco il costruttore: fu un disastro. I soldi finirono, la casa rimase a meta’ e del costruttore si persero le tracce. Nella sua ambizione, Syed Alwi aveva sognato di creare in una parte della casa uno studio nel quale provare le commedie, ma quello che era stato realizzato non era altro che un abbozzo pericolante senza pavimento e senza pareti (assecondando l’ambizione aveva voluto che una parte della casa sovrastasse il ruscello): una struttura sgangherata e scheletrica di assi di legno oblique e imputridite, troppo fragili per sostenere qualsiasi carico. Syed Alwi, andando contro la sua natura malese, se ne lamento’ con il padre del costruttore, mentre avrebbe dovuto seguire l’istinto. Il padre ando’ su tutte le furie, gli disse che non si riteneva affatto responsabile della capacita’ o dell’incompetenza edilizia di suo figlio. Quelle (qualsiasi fossero le sue idee sulla solidarieta’ familiare o fra malesi) Syed Alwi avrebbe dovuto controllarle di persona.

E li’ abitavano Syed Alwi e sua moglie, in un angolo di quella strana struttura (senza telefono); li’ ricevevano visite, lui lavorava alle commedie e cercavano di tirare avanti. Il terreno collinoso sopra il ruscello era stato inciso e spianato per la costruzione. I serpenti (attratti dall’acqua) avevano fatto grandi buchi nel muro di terra secca su un lato della struttura. Syed Alwi e sua moglie ogni tanto li vedevano, ma non se ne preoccupavano. La moglie, una donna bella e serena, amava le caratteristiche del luogo, gradevoli nonostante tutto: il ruscello, gli alberi, il verde.

 

Nel 1930 al padre di Syed Alwi era successa una cosa analoga. Era imparentato alla lontana con la famiglia reale del Perak ma per qualche ragione non aveva un buon rapporto con quei parenti e da bambino ne aveva sofferto. Tuttavia, ancora giovanissimo, aveva fatto carriera come funzionario statale, ma i motivi di tensione (sociali, accademici e coloniali) erano forse troppo profondi. A ventidue anni era diventato schizofrenico. Nell’altro mondo, cioe’ nella sua altra personalita’ , aveva delle ossessioni religiose e arrivava a essere violento. Ma aveva anche periodi di lucidita’ . Nel 1930, otto anni dopo l’insorgere della schizofrenia e in uno di quei momenti di lucidita’ , inizio’ a costruire una casa per la famiglia nel “kampung”. Ma mirava troppo in alto, aveva solamente la pensione di funzionario statale e i soldi non bastarono per completare la casa. Rimase sempre senza il primo piano.

Syed Alwi era nato piu’ o meno in quel periodo, forse proprio nella casa incompiuta; certo e’ che vi era cresciuto. In quella casa la famiglia soffri’ le privazioni e gli orrori dell’occupazione giapponese, dagli inizi del 1942 al 1945. E in quella casa, pochi giorni dopo la fine della guerra nel Pacifico, mori’ il padre di Syed Alwi.

Un’esperienza inimmaginabile, che potrebbe aver ispirato a Syed Alvei l’idea di scrivere per il teatro. Ma non e’ sempre facile, per uno scrittore agli inizi della carriera, vedere con chiarezza il proprio materiale. Qualche volta e’ necessaria una maggiore distanza; e qualche volta un’esperienza e’ cosi’ terribile che non si puo’ scriverne direttamente. Il primo rapporto di Syed Alwi con cio’ che aveva vissuto fu obliquo e simbolico. E’ uno dei metodi dell’immaginazione creativa per affrontare un dolore indicibile. La sua prima opera ebbe una gestazione lenta, piu’ di quattro anni.

Comincio’ rifacendosi a un testo che aveva scritto a vent’anni, quando era studente della Clifford School di Kuala Kangsar (aveva perso quattro anni di scuola a causa della guerra). A Kuala Kangsar in quel periodo viveva un religioso chiamato sceicco Tahir, un uomo colto che aveva viaggiato e conosceva l’astronomia tanto bene da poter calcolare da solo l’inizio del mese di digiuno. Era una leggenda nella zona. Quando arrivava in citta’ sulla sua bicicletta, la gente lo fermava in strada per parlargli. Syed Alwi aveva una grande ammirazione per lo sceicco Tahir, voleva diventare come lui. Gli dedico’ un articolo che fu pubblicato sulla rivista della scuola. Il testo aveva una prospettiva insolita: immaginava un incontro in treno fra lo sceicco e un ragazzo come Syed. Il ragazzo non fa altro che vantarsi mentre l’anziano quasi non parla; con amarezza e vergogna, il ragazzo capisce di essere stato se’ al cospetto del grande uomo, ma di non averlo visto veramente.

Syed Alwi continuo’ a elaborare lo spunto dell’incontro in treno. Il ragazzo e’ diventato uno studente universitario, la figura paterna dello sceicco e’ uno spettro che si vede ma e’ altrove. Lo sfondo ora e’ completo; e’ l’ emergenze’: un periodo di crollo, generale degrado e morte improvvisa in un ambiente familiare.

Quattro anni piu’ tardi Syed Alwi era nel Minnesota a studiare giornalismo con una borsa di studio Fulbright. Dopo un lungo periodo di inerzia, un giorno si mise a scrivere e la sua prima commedia fu pronta in meno di due settimane.

C’e’ l’incontro in treno. Lo studente pensa che l’uomo piu’ anziano sia un contadino, gli parla di filosofia e cerca di prendersi gioco di lui da intellettuale. L’uomo allora gli rivolge una domanda: Se sapessi che qualcuno sta per morire, glielo diresti? . Lo studente inizia a balbettare; ora si rende conto di non aver a che fare con un contadino. Non trova risposta. Quasi a voler tranquillizzare lo studente il vecchio gli dice: Ho questo dilemma. Mia figlia sta per morire . E poi sparisce, e’ uno spettro; magari e’ esistito solo nella mente del giovane. Il treno arriva in stazione - siamo al tempo della rivolta comunista, quando venivano attaccate le stazioni ferroviarie - e li’ accade che qualcuno muoia, una morte improbabile e casuale che lega lo studente allo spettro.

Sara’ sembrata una commedia fantastica nel Minnesota, ma ogni suo elemento, la morte della bambina, il degrado universale, persino lo spettro religioso, si riferiva all’esperienza diretta di Syed Alwi. Le prime prove dell’immaginazione di uno scrittore, anche se grezze o in apparenza artificiose, possono contenere, a volte come un messaggio cifrato, gli impulsi e le emozioni che lo governeranno per sempre.

 

Syed Alwi, parlando dei suoi antenati, mi disse: Le leggende sono piu’ reali della storie’. La sua leggenda familiare era che il padre di suo padre fosse un “syed”, cioe’ un discendente del Profeta. In Malaysia cio’ significa che fra gli antenati ci dev’essere stato un arabo o un mercante indiano; inoltre Alwi e’ il nome di un clan arabo. Ma Syed Alwi, pur con tutti i suoi istinti e le passioni malesi, sembrava piu’ europeo che arabo o malese; spiego’ che l’infiammazione cutanea che aveva sulla punta del naso affligge gli europei, non gli arabi. E questo, disse, era un mistero.

Ma una leggenda e’ una leggenda, un Syed un Syed e un Alwi un Alwi. E la leggenda dice che il nonno di Syed Alwi, imparentato alla lontana con la famiglia reale del Perak, in un certo modo si era ribellato, aveva rifiutato la vita del recinto reale, attraversato il fiume e sposato dall’altra parte una donna del popolo. La leggenda non riporta date; ma la ribellione forse era avvenuta due decenni prima della fine del secolo scorso. A quei tempi non c’era alternativa ai rituali e al clan, e ci voleva un ottimo motivo (il nonno di Syed Alwi non era una persona istruita) per compiere un gesto tanto drastico come quello di ribellarsi e scappare. Syed Alwi non era riuscito a scoprire nient’altro dietro la leggenda.

Il figlio del ribelle, il padre di Syed Alwi, soffri’ molto. Nato nel 1900, fu adottato dalla comunita’ reale e mandato a studiare al Malay College di Kuala Kangsar, la scuola per i figli delle famiglie potenti. Era un dovere pubblico della famiglia Perche’ il ragazzo era di sangue reale; in privato, pero’ , i parenti reali lo trattavano male. Non gli era permesso di mangiare insieme a loro, gli venivano imposti lavori domestici ed era trattato come un servo.

Nonostante tutto, il ragazzo riusciva bene a scuola. A sedici anni aveva iniziato a lavorare per l’ufficio agrario come responsabile degli insediamenti, un funzionario che aiutava i contadini dei villaggi a ottenere la terra nelle nuove comunita’ . Era sua competenza dare indicazioni all’ufficio agrario. Il posto era di una certa distinzione per un malese nella situazione coloniale del 1916, e abbastanza eccezionale per un ragazzo cosi’ giovane.

La comunita’ reale scelse allora una sposa per il funzionario degli insediamenti; la storia dice che fosse una ricca “sharifa”, il femminile di “syed”. La leggenda non aggiunge altro e tace sicuramente molto, Perche’ il giovane non volle sposare la ragazza che era stata scelta per lui e, alla vigilia del matrimonio, come aveva fatto suo padre prima di lui, fuggi’. Il gesto di sicuro adiro’ i parenti che lo interpretarono come una violazione del codice d’onore. Il giovane, sapendo che lo avrebbero inseguito, cerco’ riparo.

Avendo lavorato come funzionario per gli insediamenti nel Nord del Perak, penso’ di portarsi in quella zona. Raggiunse un “kampung” che conosceva molto bene e disse al capo: Trovami una moglie . Un comportamento ammesso dai costumi malesi. Era normale chiedere a un parente di trovare una moglie; non era quindi una gran differenza chiederlo al capovillaggio.

Nel “kampung” abitavano dei “raja”, persone di lignaggio aristocratico, quindi c’erano delle famiglie adatte. Il capo scelse due ragazze: la prima non era “raja” ed era divorziata; in quanto tale aveva il privilegio di rifiutare, come fece, il diciassettenne funzionario per gli insediamenti. La seconda dovette accettare.

Era una “raja” i cui antenati avevano fondato il “kampung” ed erano di origine biguis, provenienti dal Sulawesi (che in tempi coloniali si chiamava Celebes). In un passato ormai perduto erano emigrati nella Malaysia del Nord, nello Stato del Kedah. li’ si erano mescolati con i malesi locali e nel corso degli anni avevano acquisito il rango di “raja”. Nell’Ottocento, nell’arcipelago, questi spostamenti erano frequenti; gli europei e i cinesi non erano i soli a occupare la terra altrui. A un certo punto i vicini siamesi attaccarono il Kedah e i “raja” della regione si rifugiarono a sud, nello Stato del Perak. Si stabilirono su un promontorio in un’ansa del fiume a coltivare la terra. Nella zona sorse poi un “kampung” chiamato Pondoktanjung, ovvero capanna sul promontorio .

La “raja” di Pondoktanjung promessa in sposa aveva tredici anni, quattro meno del marito. La moglie aveva il dovere di seguire il marito, e le ragazze erano pronte a farlo. Ma la vita di questa ragazza sarebbe cambiata piu’ di quanto ci si potesse aspettare: l’attendevano sacrifici, dolore, periodi bui.

All’inizio, pero’ , forse per quattro anni, ando’ tutto benissimo. Un anno dopo le nozze la sposa ebbe il primo figlio, un maschio; il primo di quindici concepimenti. Nei successivi quattro anni, gli anni buoni, ebbe altri due bambini mentre suo marito faceva carriera nell’amministrazione. La gente a Pondoktanjung piano piano cominciava ad accettarlo come uno di loro, quindi non era piu’ un uomo senza un clan.

Nel 1921, all’eta’ di ventun anni, divenne magistrato. Per occupare una posizione simile, che esigeva una buona conoscenza del diritto, dovette studiare sodo in aggiunta ai viaggi e alla fatica richiesti dal lavoro. Probabilmente la vita gli appariva come la continuazione degli anni passati al Malay College: lezioni di giorno, compiti a casa la sera. Lo studio portava con se’ una crescente irrequietezza e, benche’ si sentisse piu’ sicuro, si allontanava dal mondo. Lo affascinavano la filosofia, la religione, la natura di Dio.

Di solito parlava di queste cose con un amico, insegnante all’istituto di pedagogia; la storia dice che si incontravano tutte le sere. Nessun altro era al corrente del turbine che infuriava nella mente del magistrato. Per la gente del “kampung” e per la famiglia della moglie, faceva la vita di ogni buon musulmano praticante. Si direbbe che avesse preso tutte le cautele per non preoccupare o offendere nessuno; si teneva l’inquietudine tutta per se’. Non ne faceva parola neanche con i funzionari britannici; sarebbe stato bizzarro. Non gli piaceva parlare inglese e rifiutava decisamente di vivere in modo coloniale. Insomma, era un uomo solo.

Nel 1922, a ventidue anni, ebbe un crollo, che, a quanto si sa, fu di natura quasi fisica e si verifico’ in un istante preciso. Quando successe si trovava nel Perak, in una citta’ chiamata Tapah; in qualche modo riusci’ a tornare a Pondoktanjung o forse vi fu portato da qualcuno. Non si riprese piu’ . Per i restanti ventitri’ anni di vita continuo’ a passare dall’uno all’altro dei suoi due mondi; quando ebbe la prima crisi sua moglie aveva diciott’anni e gli rimase vicino in tutti i sensi fino alla fine. Era stato esonerato dall’impiego statale per motivi di salute e gli avevano assegnato una pensione di settantacinque dollari malesi al mese; al cambio di oggi equivarrebbe a diciotto sterline, ma nel 1922 era una somma ragguardevole. La pensione fu pagata fino all’occupazione giapponese. E poi piu’ nulla.

 

Viveva due vite separate, una in questo mondo e l’altra nel suo mondo privato.

Nella vita normale, se si puo’ dire cosi’ , non gli piaceva parlare inglese; lo faceva solo quando doveva. Nell’altra vita non parlava altro che inglese. Nella vita normale non amava scrivere; nell’altra vita passava gran parte del tempo a scrivere. La famiglia gli comprava un gran numero di quaderni e matite, e lui scriveva, scriveva. Quando usciva da quel mondo bruciava tutto quello che aveva scritto. Syed Alwi non sapeva se fosse stato lui o la famiglia a voler bruciare tutto.

Nella vita normale non era un fumatore, nell’altra vita fumava quattro o cinque sigarette alla volta, tenendole strette fra le dita. Nel mondo normale non sopportava la vista di una persona afflitta da un dolore fisico; se la moglie picchiava un bambino, lui usciva di casa e non tornava per diverse settimane; a volte la famiglia non riusciva a rintracciarlo. Nell’altro mondo era violento, ma pur non riconoscendo i suoi familiari, non si scatenava contro di loro. La violenza era per gli altri. Se, per esempio , il cognato lo accompagnava a ritirare la pensione e per strada incontrava qualcuno, senza nessun motivo gli mollava uno schiaffo. In un certo periodo fu tanto violento che la famiglia gli costrui’ una gabbia in casa. Otto anni dopo la prima crisi, la violenza comincio’ a scemare; era praticamente sparita quando nacque Syed Alwi nel 1930.

Nel mondo reale gli piaceva cucinare e gli piaceva mangiare. Nell’altro mondo il cibo non gli interessava; aveva solo due passioni: scrivere e parlare.

 

Nel 1953, per una straordinaria coincidenza, Syed Alwi incontro’ l’amico, l’insegnante all’istituto di pedagogia, con cui suo padre aveva avuto le discussioni notturne appena prima della crisi, trentun anni prima.

Syed Alwi stava andando negli Stati Uniti, nel Minnesota, con una borsa di studio; l’amico sali’ a bordo dell’aereo a Manila, diretto alle Hawaii, e per sommo di coincidenza scelse o gli fu assegnato il posto accanto a quello di Syed Alwi. Durante il lungo volo gli racconto’ tutto quello che ricordava dell’inquietudine mentale del padre e della sua crisi. Per la prima volta Syed Alwi capi’ che quando il padre svolgeva il suo incarico di magistrato presso l’ufficio del territorio e lavorava moltissimo, affrontava un orrore spirituale che gli disfaceva il mondo. Non riusciva piu’ ad accettare il Dio islamico. Voleva conoscere Dio in modo piu’ personale e intimo; leggeva i libri delle altre religioni alla ricerca di un Dio che gli fosse accettabile.

Syed Alwi riteneva che a un certo punto il padre fosse sceso a compromessi, oppure avesse accettato l’idea di non riuscire a trovare il Dio che cercava. Ma si trattava di illazioni e, nel caso di Syed Alwi, di illazioni dolorose. La sensazione che ricavai dalle sue parole era che, a distanza di cinquant’anni dalla morte di suo padre, il dolore, l’amore e la voglia di condividerne la pena si erano convertiti nel bruciante desiderio di gettare uno sguardo in quella vita interiore, di comprendere l’altro mondo di suo padre. Quel mondo era perduto e percio’ sarebbe sempre stato fonte di dolore. C’erano solo delle tracce sparse, da conservare con affetto e da studiare, come i ricordi del suo amico nel 1921.

(Quell’incontro con l’amico di suo padre, proprio quando i suoi pensieri andavano agli Stati Uniti e alla scrittura, era stato uno dei momenti decisivi nella vita di Syed Alwi. Aveva motivato, dopo qualche mese, quel furore creativo da cui era nata la prima opera, piena dei riferimenti metaforici al mistero di suo padre).

Syed Alwi mi disse di lui: Secondo me non si puo’ dire che cercasse Dio. Lo si e’ affermato per via della formazione islamica, dove il fine di tutto e’ Allah. La ricerca di Allah o di Dio era la costante che univa i due mondi e probabilmente la sola cosa che per lui esistesse in entrambi. Purtroppo cio’ non spiega la violenza, o i comportamenti diametralmente opposti. Spesso mi chiedo quale fosse il suo vero mondo. Quello che gli abbiamo creato noi o quello che si era fatto da solo? .

Era possibile, come suggeriva Syed Alwi, che il mondo trovato da suo padre fosse troppo doloroso per lui. Nella descrizione che Syed Almi dava del comportamento di suo padre nell’altro mondo sopravvivevano tracce ed echi del tormento di questo. Da bambino aveva sofferto e forse era stato anche maltrattato. Il suo io normale non riusciva a tollerare il dolore, il suo io dell’altro mondo infliggeva il dolore e schiaffeggiava le persone senza motivo. Era una specie di reietto della societa’ che aveva dovuto farsi strada da solo al Malay College. Lo stesso, in quanto malese, aveva indubbiamente dovuto fare nell’ambito coloniale. Quindi, nel suo altro mondo, in una parodia di scuola e ufficio statale, scriveva tutto il tempo e in inglese; inoltre, secondo l’usanza coloniale, fumava quattro o cinque sigarette alla volta (e le migliori).

I malesi sono stati sotto pressione per dimostrare chi sona’ mi disse Syed Alwi. Hanno dovuto lottare contro il pregiudizio di non essere un popolo di intellettuali. L’immagine e’ quella di una massa abitudinaria, sottoposta ai sultani o agli inglesi. Hanno bisogno di altri che pensino per loro, che li’ guidino e a cui possano giurare fedelta’ : i sultani, gli inglesi, che in cambio li proteggono con leggi secondo le quali i non malesi non possono interferire nelle loro usanze e modi di vite’.

 

Quando i familiari si resero conto che il genero stava male, lo portarono in un ospedale, un manicomio dove si faceva di tutto tranne curare i pazienti. Avevano particolari test per accertare la pazzia. Uno di questi consisteva nel dirigere contro il paziente un getto d’acqua sparato con l’idrante dei pompieri; un altro nel dar da mangiare al paziente riso misto a sabbia. Se il paziente non trovava nulla da obiettare sull’idrante e sulla sabbia, voleva dire che era matto. Il padre di Syed Alwi era stato sottoposto a questo trattamento; ad altri, disse Syed Alwi, facevano anche di peggio.

Allora la famiglia comincio’ a portarlo da un “bomoh” all’altro; le prove e le cure si ripeterono. I “bomoh” scrutavano in un bacile d’acqua per vedere Perche’ si fosse ridotto in quello stato e ci vedevano l’ereditarieta’ , gli spiriti, l’infanzia.

Una volta il padre e lo zio di Syed Alwi stavano seduti di fronte a un “bomoh”. L’incenso si consumava e il fumo riempiva la. stanza (Syed Alwi lo aveva saputo dallo zio). Alla fine il “bomoh” disse che qualcuno voleva rovinare la vita del padre di Syed Alwi. La persona malvagia aveva sepolto oggetti malefici attorno alla casa: bisognava portarli via per annullare la fattura e guarire il malato. Il “bomoh” disse che lo stava facendo proprio in quel momento, li’ , seduto nella stanza. Diede inizio alle sue pratiche, disegnando grandi gesti misteriosi nel fumo di incenso e parlando senza sosta per descrivere cio’ che faceva. Ma il fumo non era abbastanza denso e lo zio di Syed Alwi si accorse che il “bomoh” prendeva un pacchettino da sotto il ginocchio, una cosa avvolta in un panno giallo e la buttava da parte. Allora il “bomoh” disse: Ecco, ora quest’uomo e’ guarito . E nonostante quello che lo zio aveva visto, lo stregone fu pagato.

Furono praticate altre cure simili; la famiglia consulto’ i “bomoh” per anni. Poi perse ogni speranza e lascio’ il malato in pace. Una volta questi scappo’ di casa - di nuovo non abbiamo la data; nessuno aveva voglia di ricordare l’episodio. Il padre di Syed Alwi, raggiunto lo Stato del Kelantan, fu colto da una crisi dentro il suo stato di crisi. Quando i familiari andarono a riprenderlo, scoprirono che aveva tradotto il Corano dall’inglese al malese e bruciarono cio’ che aveva scritto.

Questa traduzione e’ importante, Perche’ significa che anche nell’altro mondo mio padre continuava a cercare Dia’ mi disse Syed Alwi. Ma non sono sicuro se la traduzione sia stata fatta nell’altro mondo, in questo o in entrambi. Ha accettato il rogo come un fatto naturale, in sintonia con le loro credenze. Allo stesso modo accettava la vita al “kampung” .

cosi’ Syed Alwi, prima ancora di nascere, aveva perso gli scritti di suo padre. Molti anni dopo trovo’ qualcuno dei quaderni.

La grafia e’ pessima, non sono riuscito a leggere molto bene, quasi niente anzi. Ma in pratica alla fine di ogni frase c’e’ la parola ‘sempre’ .

Probabilmente, questa parola era un’ossessione per Syed Alwi.

 

Ma c’erano anche momenti di lucidita’ . In uno di questi, un po’ prima del 1930, il padre comincio’ a costruire una nuova casa nel “kampung”, ma finirono i soldi e non riusci’ a fare il piano superiore. Syed Alwi, raccontando la storia nella sua casa, anche questa lasciata a mezzo, fra i buchi dei serpenti nello sterro della collina da una parte e il ruscelletto dall’altra, mi disse: cosi’ , quando questa storia della casa e’ capitata anche a me, mi e’ tornata in mente l’immagine della casa incompiuta di mio padre .

Nel 1922, all’epoca della sua prima crisi, il padre di Seyd Alwi aveva tre figli; in seguito ci furono altri sei bambini e sei aborti; fra i primi, due nacquero morti.

Mia madre ha concepito quindici volte mi disse Syed Alwi.

Dodici volte dopo la crisi.

Dissi: Sembra una pratica omicide’; mi e’ venuta questa parola.

Parve scosso, poi malinconicamente aggiunse: Non so . Aveva le lacrime agli occhi.

Suo padre voleva che i figli studiassero. Aveva solo la pensione, ma c’era una donna indiana nel “kampung” che li aiutava. Aveva molta stima della famiglia e adorava i bambini. Possedeva una certa quantita’ di gioielli in oro massiccio e quando c’era bisogno di soldi per mandare i bambini a scuola o per comprare i libri, li prestava al padre di Syed Alwi che li portava a impegnare. Lo faceva solo per l’istruzione dei bambini. Quando uno dei figli ritorno’ da Singapore nella divisa del Raffles College, una famosa scuola coloniale, lei ne fu fiera quasi fosse stato un figlio suo. Suo figlio, ne aveva solamente uno, faceva un lavoro manuale sulla strada ferrata.

La donna, una tamil, non era ricca; oltre ai gioielli non aveva niente. Si guadagnava da vivere preparando per lo spaccio statale nel “kampung” spuntini e pasti semplici. Suo padre probabilmente era arrivato dall’India meridionale per lavorare come bracciante; anche suo marito era stato contadino in qualche latifondo. Quando era rimasta vedova, aveva lasciato quella terra e quella vita e si era arrangiata da sola. Arrivata al “kampung”, si era costruita una casa non lontano da quella degli Alwi.

La donna era diventata un po’ una fata buona per Syed Alwi quando questi aveva cominciato a frequentare la prima elementare malese nel 1936. La ricordava come una donna prossima ai quarant’anni, magrissima, dall’aria ostile, scostante ma non brutta. Ogni mattina Syed Alwi si fermava a casa sua prima di andare a scuola e trovava una tazza di latte caldo che lo aspettava vicino al fuoco. A casa degli Alwi non si beveva quasi mai il latte; i malesi non lo bevono, mettono il latte condensato nel caffe’ e questo e’ tutto. Il latte che si usa nei dolci e nei curry e’ sempre latte di cocco, che si trova racchiuso nella polpa bianca della noce matura.

Nel 1940, dopo quattro anni alla scuola elementare malese dove si studiavano soprattutto geografia e letteratura, Syed Alwi e un fratello maggiore andarono alla scuola secondaria King Edward VII nella citta’ di Taiping. Il padre di Syed Alwi, facendo grandi sacrifici e sempre con l’aiuto della donna indiana, prese in affitto una casa in quella citta’ per i due ragazzi. Syed Alwi piu’ tardi capi’ che suo padre, pur nelle tenebre della mente, intendeva avviarlo alla carriera di funzionario statale, come era stato lui una volta.

Tutti nel “kampung” sapevano che suo padre era malato; lo sapevano anche alla scuola di Taiping, ma senza condannarlo. Anzi, il fatto suscitava una leggera soggezione. I malesi credono che le grandi menti si spezzino se si applicano troppo; e il padre di Syed Alwi, che, come era noto, era stato un bambino molto intelligente, veniva considerato una grande mente. C’e’ una parola in malese per questo tipo di crisi: “gila-isin”, cioe’ impazzire Perche’ ci si applica troppo, si studia troppo, si crede troppo.

Mio padre mi disse Syed veniva considerato un “gila-isin” Perche’ cercava Dio o qualcosa di simile. Pochi parenti sapevano di questa sua ricerca di Dio; non se ne parlava per evitare che fosse interpretata male e si pensasse che il “gila-isin” fosse una specie di punizione .

Nel 1941 il fratello di Syed Alwi scappo’ di casa per arruolarsi nella Marina britannica a Singapore. Non era che un ragazzo di campagna che amava la vita e i rapporti umani del villaggio. Gli piaceva andare a lavorare in risaia con i parenti, non gli piaceva andare a scuola a Taiping; quella era un’idea di suo padre. cosi’ , con l’aiuto di altri del “kampung” in una specie di congiura di villaggio, scappo’ a Singapore e si arruolo’ nella Marina britannica dichiarando un’eta’ falsa. Il padre di Syed Alwi, a parte il suo desiderio che il figlio finisse la scuola secondaria, era pacifista: detestava l’idea di recare dolore e di uccidere. Ando’ allora a far visita al funzionario coloniale del Perak e alla fine, dopo molte vicissitudini e il pagamento di settantacinque dollari, pari a un mese di pensione, riusci’ a riscattare suo figlio dalla Marina. Proprio allora scoppio’ la guerra. Il 7 dicembre 1941 i giapponesi bombardarono la base navale di Singapore e nessuno in famiglia aveva piu’ saputo che cosa fosse successo a quel fratello.

I giapponesi sono arrivati alla fine di dicembre del 1941. A gennaio, al termine delle vacanze, pensavo di tornare a scuola. Allora mi e’ stato detto che la scuola inglese non c’era piu’ .

Girava la voce che i giapponesi avrebbero punito chi teneva libri inglesi in casa. Nella casa degli Alwi c’erano molti libri inglesi portati dai due ragazzi che avevano studiato al Raffles College a Singapore. Quasi tutti furono distrutti, qualcuno sotterrato, qualcun altro bruciato, come gli scritti del padre di Syed Alwi. L’unico libro importante che fu salvato era un dizionario. Syed Alwi sperava sempre di leggere un giorno gli scritti di suo padre e credeva che avrebbe avuto bisogno di un dizionario per i paroloni. Quel giorno poi arrivo’ , ma lui non riusci’ a decifrare la grafia nel quaderno. Capiva solamente la parola sempre .

 

Gli inglesi avevano fatto saltare un ponte stradale appena fuori il “kampung” e i giapponesi avevano passato qualche settimana a ricostruirlo. Quindi c’erano dei soldati giapponesi in giro a caccia di cibo. Un pomeriggio uno di loro si presento’ in casa degli Alwi con la spada sguainata. I bambini scapparono. Il padre rimase dov’era e dopo mezz’ora grido’ loro di tornare. Al rientro videro il soldato giapponese che se ne andava con un pollo e un ananas; nessuno sapeva quello che era successo fra i due. Il padre non lo racconto’ mai.

Syed Alwi mi disse: Non aveva paura. Non era un uomo coraggioso, ma non aveva paure’.

I giapponesi rimasero in Malaysia per tre anni e otto mesi. Fino al loro arrivo Syed Alwi non aveva mai assistito a una morte violenta. Poi, vicino al mercato di Taiping, dove si trovava la sua vecchia scuola inglese, vide tre teste in cima alle picche. Gli dissero che erano teste di cinesi.

Dopo il primo anno le cose si sono messe male mi disse Syed Alwi. Cominciavano a scarseggiare i generi di prima necessita’ : il riso, lo zucchero. La vita al “kampung” si era fatta terribile quando esplosero le malattie. Non avevamo molto da mangiare, e quindi ci venivano ulcere, insorgevano malattie della pelle. Non conoscevamo piu’ le erbe locali, ormai eravamo abituati all’ospedale e alla medicina occidentale. Non sapevamo far fronte al collasso della societa’ .

Inoltre i giapponesi avevano promesso che si sarebbe sistemato tutto e che ci sarebbe stata abbondanza. Specificarono che sarebbe arrivato molto riso, Perche’ in Giappone cresce in quantita’ . Quando ci prendevano qualcosa dicevano che lo avrebbero ripagato molte volte il suo valore. Dicevano: ‘Adesso ti prendo la bicicletta. Ti restituiro’ cinque biciclette se non di piu’ ‘. E poi aggiungevano: ‘Non solo biciclette, anche altre cose’. Parlavano di seta. E la comunita’ aspettava mesi e mesi. I giapponesi tenevano in piedi la promessa mettendo in giro la voce che erano arrivati dei carichi di riso e che certi “kampung” gia’ li avevano ricevuti.

All’inizio del cinegiornale, nei cinema all’aperto e nelle sale, annunciavano in giapponese, inglese e malese: ‘Sia ringraziato Dio Perche’ l’Asia e’ stata restituita agli asiatici’. E poi seguivano le immagini della grandezza del Giappone: montagne di seta e altri beni di lusso. La cosa faceva effetto. Nel primo Hari Raya, la festa che chiude il mese di digiuno, parlavamo di come ci saremmo tutti vestiti di seta giapponese .

Ma le cose andavano di male in peggio. piu’ o meno in quel periodo mori’ lo zio di Syed Alwi, l’uomo che era comparso in molti dei racconti del nipote riguardo a suo padre. Era lo zio che lo accompagnava a ritirare la pensione, che sedeva con lui davanti al “bomoh”. Syed Alwi era molto addolorato. Un giorno tagliava la legna con suo padre. In mezzo a tutta quella pena, fu un raro momento di intimita’ ; Syed Alwi lo ricordava ancora. Parlando dello zio suo padre aveva detto: Tuo zio non e’ morto .

Syed Alwi aveva risposto: Cosa etici? .

Un giorno capirai quello che voglio dire .

Quelle parole impressionarono Syed Alwi. Avrebbe voluto incalzarlo a spiegargli il significato di quelle parole, ma non lo fece e non ci fu piu’ un’altra occasione; quell’attimo di intimita’ non si ripeti’ Perche’ suo padre entro’ nel suo altro mondo, ci rimase per quasi tre anni, fino alla fine della guerra, e ne usci’ solo per morire.

Secondo Syed Alwi il passaggio verso l’altro mondo era sempre stato deliberato o volontario, un modo per dare un taglio a tutto. E nel mondo normale, cioe’ quello esterno, ora tutto era crollato.

 

Comincio’ ad affermarsi un nuovo stile di vita, uno stile degenerata’ mi disse Syed Alwi. Il bene e il male non si decidevano piu’ secondo criteri morali o spirituali, ma in base a cio’ che conveniva all’individuo e alla sua sopravvivenza. Applicando i valori morali non si sopravviveva. Com’era allora la vita quotidiana? Dolore, sofferenza, fame, privazioni e malattie. Se la vita quotidiana era fatta di queste cose, per quale motivo la morale avrebbe dovuto essere il fattore decisivo? Aveva valore solo quello che avrebbe alleviato la sofferenza, o sarebbe servito a recuperare il rispetto di se’. Era normale che un soldato giapponese picchiasse qualcuno; si vedevano persone maltrattate in modi diversi, persone distrutte dalla tortura, o uccise mentre tentavano di sfuggire alla tortura o, peggio, mentre si buttavano nel fiume .

I giovani di tutte le razze, malesi, cinesi, indiani, che usavano violenza sulle ragazze, non credevano di comportarsi in modo anormale.

Penso sempre a una bella donna indiana, avra’ avuto venti o al massimo trent’anni. Veniva da un latifondo dove suo marito faceva il raccoglitore di cauccio . Lui era scomparso e lei lo cercava, andando di tenuta in tenuta. E’ passata per il mio “kampung” dove c’era un certo numero di giovani che non avevano niente da fare, stavano li’ . Hanno visto questa donna, si sono guardati fra loro e sapevo, c’ero anch’io con loro, che si sarebbero divertiti un po’ con lei.

L’hanno seguita per un pezzo fin oltre la zona commerciale e poi l’hanno violentata. Quando e’ arrivato il mio turno me l’hanno impedito, Perche’ ero minorenne. Avevo circa dodici anni. Quindi c’era ancora una specie di morale. Due di noi sono stati considerati minorenni. Se non fosse stato per quella specie di morale, sarei diventato un violentatore anch’io.

E poi l’hanno lasciata andare e lei ha proseguito il viaggio. L’abbiamo vista di nuovo passare per il centro del villaggio, diretta verso un altro “kampung”. Quello che aveva subi’to non ne aveva intaccato la bellezza. Forse era gia’ stata violentata prima, erano cose che succedevano, ma nulla le impediva di cercare il marito. Per i ragazzi era stata una cosa come un’altra. Non hanno piu’ parlato della ragazza. Anzi se’. Ricordavano che era molto belle’.

 

Fu in questo periodo che Syed Alwi, a suo modo di vedere, era diventato un uomo. Aveva cominciato a lavorare e cio’ gli aveva consentito di contribuire al sostentamento della famiglia.

I giapponesi avevano aperto un impianto per la produzione di carbonella. Arrivati al villaggio, avevano annunciato che gli servivano lavoratori e Syed Alwi, a quattordici anni, era diventato uno di loro. La fabbrica si trovava a cinque chilometri di distanza, una camminata abbastanza lunga da fare due volte al giorno, alla mattina e alla sera, attraversando una piantagione di alberi della gomma e la foresta. La paga era di otto dollari al giorno piu’ un barattolo di riso; il grande incentivo era il riso. In seguito diedero anche sigarette. Il lavoro era facile: tappare le fessure che si aprivano nella fornace. Ci rimase per circa un anno.

Per i lavori pesanti la paga era doppia: aprire a forza la porta della fornace quando era pronta la carbonella e tirarla fuori. Syed Alwi ci provo’ due volte. Il calore era quasi insopportabile e la polvere rovente della carbonella entrava nei polmoni. Quando si lavava sputava catarro nero. Continuava a tossire e a sputare nero; la cosa lo spavento’ al punto che smise quel lavoro.

Sul finire del 1944 comincio’ a tagliare la legna per la fabbrica di carbonella. La paga era piu’ alta: venti dollari al giorno, un barattolo di riso piu’ grande e sigarette. Di solito le sigarette erano di marca locale e non di alta qualita’ ; ma qualche volta davano quelle giapponesi - si ricordava ancora la marca, Koa - che erano molto migliori.

Le sigarette erano importanti Perche’ suo padre era un gran fumatore nell’altro mondo dove si trovava in quel periodo. C’era un tipo di sigarette campagnole avvolte in foglia di nipa, ma il padre di Syed Alwi non ne voleva sapere. Insisteva per avere sigarette vere e, quando non ce n’erano, si arrabbiava e diventava violento; non picchiava nessuno, ma buttava tutto per aria.

Pero’ si era indebolito; non avevano molto da dargli da mangiare ed era costretto a letto. Parve che a poco a poco capisse che fuori c’era stata una grande calamita’ e quindi le sigarette scarseggiavano. Comunque era molto debole e ce la faceva a fumare solo una sigaretta al giorno. I quaderni non mancavano, ma scriveva sempre meno. Negli ultimi sei mesi non scrisse quasi niente. Pero’ , per un residuo della sua passione per la scrittura, divenne puntiglioso sulle matite. Le consumava tutte fino in fondo ma non le buttava mai via e non voleva che gliele toccassero.

Un giorno Syed Alwi e la sua squadra di boscaioli erano nella foresta a tagliare la legna per la fabbrica di carbonella quando trovarono una radura inaspettata a un paio di chilometri dalla strada: una risaia di due ettari.

Fu cosi’ che Syed Alwi venne a sapere dei comunisti, in maggioranza cinesi, del MPAJA, il Malayan People’s Anti Japanese Army. La risaia apparteneva a loro e il “kampung” in un certo senso era gia’ sotto la loro protezione.

Gli uomini non volevano trascinare la legna attraverso i campi di riso, ma il caposquadra, che non era giapponese - non c’erano capi giapponesi al “kampung”-, doveva fare il suo lavoro. Syed Alwi ricordava che il caposquadra ordino’ : Avanti, trascinate la legna attraverso le risaie . Qualcuno degli uomini obietto’ : Ma distruggere il riso e’ peccato . E Syed Alwi capi’ che fra i boscaioli qualcuno sapeva chi nel “kampung” coltivava quei campi.

cosi’ , da uomo che appena si guadagnava qualche soldo e si affacciava al mondo, venne a sapere del “kampung” cose che fino ad allora gli erano state celate. Adesso poteva quasi spiegarsi le teste dei cinesi impalate vicino al mercato di Taiping.

Il lavoro era duro, non aveva molto da mangiare e mancavano le medicine. Aveva quattordici ulcere. Un giorno gli cadde un tronco sulla caviglia; l’abrasione, che non guariva, degenero’ in un’estesa ulcerazione. Gli doleva giorno e notte, non riusciva a dormire. Scuoteva la gamba per attutire il dolore e in questo modo riusciva ad assopirsi per un’oretta. Ogni tanto spurgava la ferita dal pus raccogliendone mezza tazza: gli marciva la carne da dentro; dopo l’operazione di ripulitura il polpaccio era floscio. Camminava o saltellava su un piede solo.

Al “kampung” c’era chi stava peggio. Una donna sulla quarantina aveva ulcere sparse dappertutto, che poi si estesero fino a coprire l’intero corpo. Nella sua carne si erano insediati larve, vermi e mosche. Emanava un fetore terribile che si sentiva a metri di distanza, anche passando davanti alla sua casa. Nelle ultime settimane di vita era diventata un enorme grumo di sangue putrido. Si lamentava e gridava; non c’erano analgesici. Nessuno le si avvicinava, era abbandonata, e questo aggravava la sua sofferenza e aggiungeva una nota particolare alle sue grida.

 

Pochi giorni dopo la resa dei giapponesi (da fuori era gia’ arrivato un po’ di cibo al “kampung”) il padre di Syed Alwi usci’ dal suo altro mondo. C’era rimasto per quasi tre anni. In famiglia se ne accorsero Perche’ aveva smesso di parlare da solo e non chiedeva piu’ sigarette. Era rimasto a letto per molto tempo ed era denutrito, debole e malato.

Voleva uscire all’aperto. Syed Alwi e sua madre l’aiutarono ad alzarsi e l’accompagnarono alla finestra. Rimase li’ per un paio di minuti senza dire niente. Poi Syed Alwi, che saltellava sull’unica gamba buona, e sua madre lo riportarono a letto.

Il mondo che aveva visto dalla finestra era peggiore di come era stato durante l’occupazione giapponese. Nelle due settimane fra la resa dei giapponesi e l’arrivo delle truppe britanniche, avevano comandato i comunisti del MPAJA, che dovevano regolare molti conti e andavano in giro a punire i traditori, i disertori e i collaborazionisti.

Il mondo reale era in frantumi, ma Syed Alwi e sua madre erano felici che il padre fosse uscito dal suo altro mondo dove non era mai rimasto cosi’ a lungo. Speravano che se ne fosse stufato e che non avrebbe voluto tornarci piu’ . Ora, con l’aiuto del cibo e delle medicine, forse sarebbe guarito. Syed Alwi, ormai adulto, sperava di potergli parlare dei suoi scritti; di chiedergli cosa aveva voluto dire tre anni prima quando, tagliando la legna, aveva sostenuto che la morte non esisteva; di sapere qualcosa di quel mondo dove andava spesso.

Non sarebbe stato cosi’ . Una settimana circa dopo il giorno in cui lo avevano portato alla finestra, suo padre mori’. Era come se, alla fine, non avesse voluto morire da solo nell’altro mondo.

Era lei la nostra comunita’ disse Syed Alwi della madre che un giorno, tredicenne, era andata sposa al funzionario per gli insediamenti. Grazie all’educazione malese e islamica, gli diede tutto il sostegno che gli serviva per vivere nei suoi due mondi. Senza di lei, lo avrebbero buttato in manicomia’ - con gli idranti e il riso misto a sabbia - e non avrebbe resistito due anni. cosi’ invece visse nei suoi due mondi per ventitri’ anno’ .

 

luglio 1995-maggio 1997

 

RINGRAZIAMENTI.

 

In Indonesia: John H. McGlynn; Navrekha Stiarma; Eugene Galbraith. In Pakistan: Ahmed Rashid. In Malaysia: Karim Raslan.