2.

RITORNO ALLE ORIGINI.

 

Ero tornato alla ricerca di figure del passato. Una era il signor Parvez, fondatore e direttore del quotidiano in lingua inglese Tehran Times , del cui motto ( Vinca la Verita’ ) andava orgoglioso; e nell’agosto del 1979 mi era parso sulla cresta dell’onda.

Il suo giornale possedeva eleganti uffici nel centro di Teheran e una redazione di venti persone, alcune straniere, giovani viaggiatori che sfruttavano di buon grado il loro inglese per guadagnare qualche rial. Il giornale andava cosi’ bene che Parvez e gli altri dirigenti progettavano di ampliarlo a dodici pagine, dalle otto attuali, entro il nuovo anno. C’era ancora un certo entusiasmo rivoluzionario, e un sufficiente andirivieni di stranieri, Perche’ Parvez (al pari dei gestori degli alberghi e dei ristoranti) potesse pensare che, passati gli sconvolgimenti della rivoluzione e il temporaneo ristagno dell’economia, le cose avrebbero ripreso a prosperare e la nazione liberata sarebbe tornata fiorente come ai tempi dello scia’ .

Parvez sembrava piu’ indiano che iraniano. Quando glielo feci notare, mi rispose di essere in effetti un iraniano di origini indiane. Un modo semplice di esporre una questione complessa, avevo pensato, e immaginai che fosse un indiano sciita, emigrato in Iran quale patria degli sciiti.

Era una persona gentile. Mi aveva scambiato per uno dei tanti che andavano da lui per rimediare qualche collaborazione, e doveva essere sul punto di offrirmene una: infatti, con un’improvvisa e impacciata timidezza, tenendo gli occhi fissi sulla scrivania per non guardarmi in faccia, mi aveva chiesto con un giro di parole, quasi non riuscisse a fare una domanda diretta, quali fossero le mie richieste . Ma poi, appurato che desideravo soltanto discutere della situazione in Iran, mi aveva mandato da Jaffrey, nella stanza dei cronisti.

Jaffrey era un uomo di mezza eta’ , con occhi guizzanti e la bocca larga e mobile. Irradiava energia. Aveva lasciato in sospeso l’articolo nella costosa macchina da scrivere davanti a se’, per gettarsi sulle uova fritte che il fattorino dell’ufficio gli aveva appena portato. Le divorava avidamente (era Ramadan, ma lui non digiunava) e, con ogni probabilita’ , riversava lo stesso trasporto nel testo a cui stava lavorando.

Anche Jaffrey era indiano, uno sciita di Lucknow. Aveva lasciato l’India nel 1948, un anno dopo l’indipendenza, quando gli avevano detto piuttosto bruscamente che un musulmano come lui non avrebbe fatto molta carriera nell’aviazione indiana. Si era trasferito in Pakistan. Ma li’ , dopo dieci anni, aveva cominciato a sentirsi a disagio come sciita; cosi’ era passato in Iran, dove gli sciiti rappresentavano la maggioranza assoluta. Eppure la serenita’ religiosa continuava a eludere Jaffrey, in questa sua ricerca di appartenenza: l’Iran sotto lo scia’ era una tirannide, e la grande ricchezza che le si accompagnava aveva portato anche la corruzione, la sodomia e la depravazione generale.

Cio’ nonostante, aveva stretto i denti. E poi era arrivata la rivoluzione. Era stata la religione a scatenarla, a darle il suo trascinante potere. Finalmente qualcosa di buono, in cui Jaffrey poteva riconoscersi. Ma gia’ dopo sei mesi, la rivoluzione era degenerata. Gli ayatollah non erano tornati ai loro centri religiosi, come, secondo Jaffrey, avrebbero dovuto; non avevano passato il testimone ai politici e agli amministratori. Khomeini, secondo Jaffrey, aveva usurpato l’autorita’ dello scia’ , e la nazione si trovava ormai nelle mani di fanatico’ .

Non avevo dubbi che nella macchina da scrivere di Jaffrey fosse infilato un articolo infiammato di questo tenore, mentre ingoiava le sue uova e mi parlava: dava l’idea di ripetere, in forma amplificata e perfino piu’ violenta, quello che stava scrivendo in quel momento. E forse, dopo avere detto no per una vita, quella protesta irosa stava tirando fuori il meglio di lui come giornalista.

Jaffrey coltivava da sempre il sogno del “jam’e tawhidi”, la societa’ dei credento’ . Si trattava del sogno di ritornare ai primi tempi dell’Islam, quando governava il Profeta, e lo spirituale e il secolare erano una cosa sola; e si poteva dire che tutto quanto accadeva nell’ancor piccola comunita’ fosse al servizio della fede.

Era un po’ come il sogno dell’antica citta’ -stato; nel mondo moderno, una fantasia pericolosa. Al livello piu’ semplice esprimeva un bisogno di sicurezza, ma includeva un principio di esclusivita’ . Entrambe queste idee, in proporzioni variabili, avevano spinto Jaffrey a ripudiare l’India per il Pakistan musulmano e poi il Pakistan per l’Iran sciita. In altri termini, era il sogno di una societa’ etnicamente pulita (per usare un’espressione posteriore). Proprio questo impulso aveva determinato la scissione del subcontinente indiano e la nascita del Pakistan; ma neppure lo Stato islamico, costruito a prezzo di tante vite e tanta sofferenza, era stato capace di trattenere Jaffrey e il suo sogno.

In Iran, ormai, l’ayatollah Khomeini governava sul piano politico e spirituale per consenso pressochi’ universale. Una figura di tale caratura non si sarebbe riaffacciata tanto presto; ed era difficile immaginare una nazione in preda a un trasporto religioso piu’ febbrile. (A giudicare da un articolo del Tehran Times , adesso esisteva anche un modo islamico per lavare i tappeti). L’Iran sotto l’ayatollah doveva avvicinarsi molto al sogno del “jam’e tawhidi”, la societa’ dei credento’ : la fusione di fede e governo.

Ma proprio a questo punto, erano entrate in gioco l’educazione e l’esperienza anglo-indiane di Jaffrey: concetti di democrazia, leggi, istituzioni, separazione fra Stato e Chiesa; idee che lo tenevano incollato alla macchina da scrivere nella stanza dei cronisti, a martellare sui tasti appelli infuocati Perche’ i mullah tornassero alle loro moschee e gli ayatollah a Qom.

Il sogno del “jam’e tawhidi” era cosi’ dolce e puro che Jaffrey non si era mai soffermato a valutarne le contraddizioni. Amava la sua fede; per essa aveva viaggiato di nazione in nazione e si sentiva in diritto di giudicare la fede altrui. E in effetti era proprio li’ , nel suo irrealizzabile sogno di un’antica, impossibile completezza, nella coscienza orgogliosa della propria devozione e nel suo costante rifiuto dell’impuro, che cominciava la tirannia dello Stato religioso. Non era l’unico ad avere delle convinzioni; anche altri si sentivano in diritto di giudicare la fede altrui. Jaffrey si lamentava adesso dei fanatico’ , ma a modo suo era come loro.

 

Sei mesi dopo, quando ritornai a Teheran, era inverno, tempo pessimo, e l’ufficio era vuoto. Un massiccio raccoglitore rilegato, con copie d’archivio del giornale, era stato spaccato e le copie sparse a ventaglio su una scrivania. La macchina da scrivere di Jaffrey giaceva li’ , vuota, innocua.

Poche settimane prima un commando iraniano aveva occupato l’ambasciata americana e il personale era stato preso in ostaggio. Questo avvenimento aveva abbattuto in un colpo solo gli affari e la vita economica. Le otto pagine del Tehran Times si erano ridotte a quattro, un unico foglio ripiegato, e i redattori da venti erano diventati due: Parvez e un altro. Parvez perdeva trecento dollari a ogni uscita, eppure sentiva di dover continuare; Perche’ se avesse sospeso le pubblicazioni anche per un solo giorno, il giornale avrebbe cessato di essere un’impresa viva e il patrimonio che vi aveva investito si sarebbe dissolto. Tremava per il nervosismo. Quasi non riusciva a esprimere il suo piu’ grande terrore: che gli ostaggi americani venissero uccisi.

Gli chiesi di Jaffrey. E’ in difficolta’ ? .

Lo sono tutto’ .

All’esterno dell’ambasciata si respirava aria da fiera: tende, bancarelle, libri, cibo, bevande calde. C’erano transenne intorno agli alti muri. Gli ingressi erano sorvegliati. I ragazzi che avevano occupato l’ambasciata si definivano, con una scelta di parole che sembrava voler nascondere la loro identita’ , Studenti musulmani seguaci dell’ayatollah Khomeino’ . Erano in costume da guerriglieri e dormivano in piccole tende color kaki. Non correvano nessun pericolo fuori dell’ambasciata, nel quartiere nord di Teheran. Stavano solo giocando alla guerra.

La guerra vera sarebbe arrivata prima di quanto credessero, e sarebbe durata otto anni.

 

Adesso, quindici anni dopo, tornavo a cercare Parvez e Jaffrey, per la verita’ senza molte speranze. Il Tehran Times esisteva ancora; di tanto in tanto compariva sul banco dello Hyatt. Ma aveva abbandonato il motto Vinca la Verita’ , di cui era tanto orgoglioso; e la veste tipografica era sciatta e indefinita. Un po’ nello spirito dello Hyatt. Parvez non avrebbe mai accettato quella sciatteria: era un professionista, sapeva come stampare un giornale. Il suo nome, infatti, non appariva piu’ sulla testata.

Tuttavia era sopravvissuto. Aveva perso il Tehran Times , ma dirigeva un altro quotidiano in lingua inglese, l’ Iran News . Gli uffici si trovavano in un piccolo edificio di piazza Vanak, nel centro di Teheran. Erano piu’ eleganti di quelli vecchi del Tehran Times . L’ Iran News era moderno sotto ogni punto di vista. Fin dall’ingresso si notava che gli iraniani di un certo livello sapevano fare ancora le cose con stile, a dispetto del lungo isolamento e delle ristrettezze economiche, senza confondersi col pretenzioso squallore rivoluzionario di posti come lo Hyatt: un residuo dei tempi - ora festosamente luccicanti - dello scia’ .

Il volto di Parvez non tradiva nulla delle tribolazioni che aveva di certo attraversato; e soltanto un leggero gonfiore intorno agli occhi, come se avesse dormito troppo, tradiva i suoi anni. Non ero sicuro che si ricordasse di me. Entrambi i nostri incontri erano stati brevi; e la prima volta l’avevo colto timido e soprappensiero, la seconda tormentato. Tuttavia non mostro’ alcun dubbio o esitazione e mi porto’ all’ultimo piano per pranzare insieme e (diceva) parlare piu’ liberamente.

L’attico era spazioso e ben illuminato. Quasi al centro del pavimento, numerosi fogli di giornale erano disposti a rombo in modo da formare un tappeto da preghiera rivolto verso La Mecca. Al vertice della distesa stava una zolla di terra levigata, proveniente da qualche luogo santo: quando gli sciiti pregano, toccano con la fronte questi blocchi di terra.

Parvez ebbe un piccolo sussulto nel vedere il pavimento; doveva aver riservato la sala per il pranzo. Ma si riprese subito. Ah, sbuffo’ con una punta di stanchezza, girando intorno ai fogli di giornale questi sciito’ .

E allora fu il mio turno di essere sorpreso da quel distacco e quella stanchezza, Perche’ avevo sempre creduto che Parvez fosse uno sciita e che proprio la sua fede sciita lo avesse condotto in Iran da Bhopal, in India, dove da ragazzo componeva poesie in urdu, la lingua persianizzata dei musulmani indiani. Ma Parvez ne aveva passate di ogni genere. Aveva vissuto sotto lo scia’ , poi era sopravvissuto a quindici e piu’ anni di rivoluzione, Dio sa a quale prezzo; e le certezze, se mai ne aveva avute, potevano essersi dissolte.

Eravamo seduti su sedie di plastica bianca (di quelle impilabili) a un tavolo dello stesso materiale e colore, con il tappeto di giornali alle nostre spalle. Il tavolo era decorato con un rilievo a foglie di bambo . I camerieri ci servirono il pranzo senza tanti complimenti, come se facesse parte del loro stile: cibo alla buona, unto e sostanzioso, sul quale Parvez si getto’ con la stessa foga con cui, sedici anni prima, Jaffrey aveva attaccato le sue uova quel pomeriggio del Ramadan. Mangiando un poco di questo e un boccone di quello, assaporando il cibo, Parvez mi racconto’ di Jaffrey.

 

Per lui era finita poco dopo la mia seconda visita al Tehran Times , nel febbraio 1980, quando avevo trovato Parvez in un ufficio deserto, sulle spine per l’occupazione dell’ambasciata americana e il sequestro del suo personale a opera degli Studenti musulmani seguaci dell’ayatollah Khomeino’ .

Gli studenti si erano impossessati di tutti i documenti dell’ambasciata e, quasi ogni giorno, sbandieravano nuove rivelaziono’ su un numero sempre maggiore di persone. Neanche il Tehran Times era stato risparmiato.

Una sera, uno studente si era presentato al giornale chiedendo a Parvez di Jaffrey. Aveva taciuto il proprio nome, ma faceva parte del gruppo che teneva l’ambasciata e gli ostaggi. Parvez gli disse che avrebbe trovato Jaffrey in ufficio la mattina seguente alle undici. Lo studente se n’era andato. Parvez era preoccupato. Sapeva che Jaffrey collaborava con la radio “La voce dell’America”. Quello che pero’ ignorava al tempo era che i compensi della “Voce dell’America” provenivano direttamente dall’ambasciata americana. Le fatture che Jaffrey aveva emesso (o firmato) non specificavano mai a che titolo percepisse quei soldi. Riportavano soltanto: Ricevuto dall’ambasciata statunitense .

Jaffrey era anziano; aveva problemi di cuore e altre complicazioni. Parvez lo chiamo’ a casa.

Vengo in ufficia’ gli disse Jaffrey.

Quando arrivo’ , Parvez gli chiese: C’e’ qualche grana? Hai avuto contatti con l’ambasciata? .

Na’ rispose Jaffrey. Eccetto per “La voce dell’America”. Gli mandavo dei pezzi, e me li pagavano tramite l’ambasciata americane’.

Sa quanto guadagnasse? chiesi a Parvez.

Credo trecento dollari al mese. Era parecchio, a quel tempo. Un dollaro valeva sette tuman e settanta rial . Adesso sarebbe stato ben di piu’ : un dollaro valeva quattromila rial.

Parvez prosegui’: Gli ho consigliato di andare all’ambasciata a chiarire l’equivoco. Gli ho detto che gli studenti sembravano persone gentili. Mi ha promesso che l’avrebbe fatto .

Il giorno dopo Jaffrey non si presento’ in ufficio. Parvez provo’ a chiamarlo a casa, ma non rispondeva nessuno. Ne fu profondamente turbato. Cerco’ di convincersi che il telefono di Jaffrey fosse guasto. Mando’ il suo autista a verificare. Dopo circa un’ora l’autista fece ritorno e disse: La casa e’ chiuse’. Aveva parlato con un vicino, e questi gli aveva raccontato di aver visto durante la notte Jaffrey che caricava della roba nel bagagliaio. Aveva una grossa automobile americana, una vecchia Chevrolet.

Parvez si era messo allora in contatto con gli amici di Jaffrey. Non poteva credere che fosse una spia; cominciava anche a temere che lo avessero arrestato. Provo’ a informarsi presso la polizia: gli risposero che non ne sapevano niente.

Nel pomeriggio, torno’ lo studente dell’ambasciata e chiese di Jaffrey. Ando’ su tutte le furie quando Parvez gli confesso’ di non sapere dove fosse.

Perche’ mi hai detto che sarebbe stato qui alle undici? .

Sta’ a sentire, provo’ a dire Parvez era una brava persona, una persona anziana. Sono sicuro che non faceva niente di male .

Lo studente si arrabbio’ molto, e Parvez venne a sapere in seguito che era entrato nella casa di Jaffrey, insieme ad altri ragazzi, e aveva preso qualcosa.

Il giorno dopo Parvez ricevette una telefonata dal Pakistan. Era di Jaffrey. Sono qui con la mia Chevrolet gli annuncio’ .

Come ci sei riuscito? gli chiese Parvez.

Ho dovuto sborsare qualcosa alle guardie di confine rispose Jaffrey. Su entrambi i versanti, iraniano e pakistano .

Hai fatto male. Sei pulito. Non saresti dovuto fuggire .

No, no, sono vecchio; e sono malato .

Mentre pranzavamo nell’attico dell’ Iran News al tavolo di plastica bianca con le decorazioni a foglia di bambo , Parvez, rievocando avvenimenti di quindici anni prima, commento’ : Per fortuna Jaffrey aveva un figlio e una figlia in Pakistan. Ha cominciato a lavorare li’ , a Islamabad. E poi, nel 1990, mi pare, ho ricevuto un’altra telefonata dal Pakistan, da parte di suo figlio, che mi informava che era morto .

cosi’ si era concluso per Jaffrey quel sogno, tanto dolce in India, a Lucknow, nel 1948, del “jam’e tawhidi”, la pura societa’ dei credenti, per il quale aveva creduto che meritasse abbandonare tutto.

Parvez aggiunse, in una sorta di ultimo tributo: Amava molto giocare a bridge. A quell’epoca, erano tanti a giocare a bridge… .

L’epoca di cui parlava Parvez era quella dello scia’ . Adesso i giochi di carte erano giudicati non islamici e quindi proibiti.

 

All’epoca della fuga di Jaffrey, Parvez (stando a quel che mi aveva detto nel 1980) perdeva trecento dollari per ogni nuovo numero del Tehran Times . Ma nonostante questo sentiva di dover assolutamente tirare avanti. Ma la rivoluzione era la rivoluzione: il disordine era al culmine e non c’erano miglioramenti in vista.

Appena pochi mesi dopo la fuga di Jaffrey - e la guerra fasulla intorno all’ambasciata americana, con il fasullo abbigliamento militaresco degli Studenti musulmani seguaci dell’ayatollah Khomeino’ - sul paese si abbatti’ la guerra vera: il conflitto che sarebbe durato otto anni contro l’Iraq, una guerra cosi’ terribile che i giornali iraniani vi si riferivano ormai solo attraverso forme ellittiche: la guerra imposte’, la guerra imposta dall’Iraq , la sacra difese’, gli otto anni di sacra difese’.

Un immane fiume di sangue lungo un ampio fronte a occidente. E poco dopo, un’analoga carneficina in patria: la rivoluzione cominciava ad abbattere alcuni dei suoi padri.

Parvez ricordava: Dopo il 1982, cominciarono a essere eliminati i migliori. I vertici. Gli omicidi erano opera di gruppi diversi. cosi’ comincio’ a salire gente di secondo piano. Rimaneva solo Beheshti, e alla fine hanno ucciso anche lui. Aveva le sue idee sulla Repubblica Islamica, molto precise. Voleva instaurare relazioni con tutti i paesi tranne Israele e il Sudafrica. E voleva far cessare la guerre’. Dopo la sua morte e quella di altri, l’opposizione comincio’ a essere cancellate’.

Ormai pretendono di controllare anche come ti siedo’ si sfogava Parvez, tamburellando sul tavolo di plastica bianca decorato a foglie di bambo e come parli. Dev’essere tutto islamico .

L’ayatollah Beheshti era (o era diventato) il protettore di Parvez, benche’ lui non pronunciasse mai questa parola; e avevo la sensazione che fosse stato proprio Beheshti a mantenere in vita il giornale durante i difficili mesi della crisi degli ostaggi.

finche’ il dottor Beheshti visse, nessuno poteva toccarmi. Mi sosteneva. La prego di citare Beheshti. Ha subi’to il martirio nel 1981, con una bomba, mentre teneva un discorso a una riunione di esperti economici del Partito della Repubblica Islamica. Quel partito, poi, e’ stato sciolto .

Il rispetto e l’affetto di Parvez per Beheshti, quattordici anni dopo la sua morte, trasparivano dall’uso del termine martirio . E aveva ragione a piangere Beheshti, perche’, pochi mesi dopo, le autorita’ gli avrebbero sequestrato il giornale.

Parvez aveva fondato il Tehran Times nel 1979, dopo la rivoluzione. Il Tehran ‘Vinca la Verita’ ‘ Times lo chiamava, pronunciando titolo e motto cosi’ come apparivano in prima pagina. Mentre pranzavamo nell’attico dell’ Iran News , con il tappeto di giornali e la zolla di terra alle nostre spalle, gli occhi di Parvez si illuminarono al dolce ricordo; e ripeti’ ancora una volta il titolo e il motto.

Quel titolo era registrato. Adesso l’hanno cambiato. Un giorno sono arrivati nel mio ufficio e mi hanno chiesto di firmare un foglio bianco. Io l’ho fatto. L’uomo che e’ venuto e’ diventato un importante ambasciatore e adesso siamo buoni amici. Ma a quel tempo non lo conoscevo .

Dopo pochi giorni, aveva consigliato a Parvez: Faresti bene a ritirare il tuo nome dal giornale. E’ meglio per te. Tu non sei mai stato un rivoluzionario. Hai lavorato per un quotidiano vicino allo scia’ . Ed era vero: Parvez aveva collaborato con un giornale in lingua inglese ai tempi dello scia’ .

Un giorno, Parvez chiese alle facce nuove nel suo ufficio: Non potrei avere almeno un risarcimento? Tutto quello che ho guadagnato, l’ho investito nel ‘Tehran Times’ .

Qualcuno della contabilita’ gli rispose: Non faccia domande sui soldo’ .

E Parvez: Perche’? Non ho una casa. Ho un figlio in America, devo mandargli qualcosa. Ascolti, quando facevo il giornalista prima della rivoluzione, qui non ce n’era nessuno. O erano fuggiti, o erano in prigione, o li avevano giustiziato’ .

L’uomo della contabilita’ non la prese come si aspettava Parvez. Disse: Ringrazi Dio di essere ancora vivo e di poter lavorare .

Parvez rimase al giornale come redattore. Adesso c’era un mullah fisso in ufficio. Per fortuna era un brav’uomo, di mente aperta, secondo Parvez. Soleva dire: Siate moderati. Non estremisto’ . Nient’altro. Se non fosse stato cosi’ , Parvez non sarebbe rimasto. E a dire il vero, le autorita’ lo trattavano con riguardo. Nelle occasioni ufficiali veniva presentato come il padre del giornalismo in lingua inglese in Iran . Una volta l’avevano anche presentato all’ayatollah Khomeini e al primo ministro Rafsanjani.

Mi hanno presentato con gran distinzione diceva Parvez. Con molto rispetto . La forma aveva una grande importanza in Iran.

E Parvez era abituato alla censura. Al tempo dello scia’ , fino a quattro anni prima della rivoluzione, c’era sempre un agente della Savak, la polizia segreta del governo, negli uffici del Tehran Journal , come si chiamava allora il quotidiano di Parvez. L’uomo della Savak arrivava alle tre del mattino, con una squadra di interpreti, e passava tutto in rassegna, perfino le inserzioni pubblicitarie. Negli articoli sulle dimostrazioni o sulle marce antigovernative, al Tehran Journal non era consentito adoperare termini come studento’ o giovano’ . La parola da usare era teppisto’ . Nel 1975, questa censura sistematica della stampa si era interrotta, ma il governo manteneva sempre il controllo: la linea da seguire veniva imposta ai vertici del giornale.

Adesso non esisteva una censura ufficiale, diceva Parvez; solo autocensura. I giornalisti sapevano ormai fino a che punto potevano spingersi. Al tempo dello scia’ non lo sapevano; e oggigiorno potevano spingersi sorprendentemente lontano.

Abbiamo criticato presidenti, ministri e altri ancora. Ma sappiamo che se solo provassimo a scalfire o ad abbattere il sistema di base, non saremmo risparmiato’ .

Il sistema di base? . Le parole mi suonavano nuove.

L’istituzione del principio del comando e dell’obbedienze’.

Anche questo mi suonava nuovo. Parvez, piegandosi sulla sinistra, raccolse una copia di quel giorno dell’ Iran News . Evidenziando due articoli, mi disse: Questi le chiariranno il concetto .

 

Il primo pezzo, intitolato “L’ayatollah Kani sottolinea l’importanza degli ulama”, era tratto dalla colonna politica del giornale. Gli ulama sono il clero, gli insegnanti religiosi, gli uomini in tunica e turbante. … Lunedi’ l’ayatollah Mohammad Reza Mahdavi Kani ha esortato gli ulama a preservare un ruolo attivo come politici e funzionari e a non pensare mai di abbandonare tali incarichi vitali … Parlando in occasione dell’apertura del nuovo anno accademico all’Universita’ Imam Sadeq (AS), l’ayatollah Kani… .

Il secondo pezzo era piu’ importante: “L’obbedienza alla Guida e’ l’unico modo per la sinistra di sopravvivere”. benche’ presentato come una semplice intervista a un deputato di sinistre’, era un’esplicita riasserzione del principio del comando e dell’obbedienza. L’autore per prima cosa definiva la Guida: La massima autorita’ della Repubblica Islamica e’ la Guida - o in alternativa il suo Consiglio - che esercita il supremo potere politico e religioso ed e’ una manifestazione dell’integrazione tra la politica e la religione, come espresso nell’articolo 5 della Costituzione dell’Iran . E il deputato di sinistra definiva in questi termini la sua obbedienza: La sinistra crede nell’obbedienza assoluta alla Guida senza alcun limite o condizione; crede nell’esecuzione dei decreti governativi, nella realizzazione del puro Islam maomettano (“Islam-e-Nab”) cosi’ com’era nella volonta’ dello scomparso Imam [Khomeini], nella creazione della giustizia sociale, nell’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione… .

L’autore citava quindi dall’articolo 49: Al governo spetta la responsabilita’ di confiscare ogni ricchezza accumulata attraverso l’usura, l’usurpazione, la corruzione, l’appropriazione indebita, il furto, il gioco d’azzardo, i lasciti irregolari, gli appalti illeciti e le transazioni governative, la vendita di terre coltivate o altre risorse di proprieta’ pubblica, la gestione di apparati di corruzione… .

Malgrado il tono religioso e punitivo, le finalita’ dell’articolo 49 erano di regolamentazione, quali sono perseguite da un governo in qualsiasi tempo e luogo. Cio’ che lo rendeva islamico era l’integrazione tra la politica e la religione : una sorta di scorciatoia istituzionale, dal momento che l’integrazione si realizzava nella figura della Guida, cui si doveva obbedienza assoluta. Islam significa sottomissione e in una repubblica islamica come quella che il popolo iraniano aveva fortemente voluto e votato in un referendum, tutti dovevano sottomettersi. Si potrebbe osservare che anche lo scia’ richiedeva lo stesso al suo popolo: ma egli reggeva una tirannide corrotta e temporale; mentre adesso, come ricompensa per la rinuncia a tutto, il popolo riceveva in dono la bellezza quasi insostenibile del puro Islam maomettano , “Islam-e-Nab”, che l’imam Khomeini aveva voluto per loro.

Si avvicinava molto al “jam’e tawhidi” del povero Jaffrey, che per tutta la vita non aveva fatto altro che inseguire un dolce sogno: il sogno di essere un musulmano fra soli musulmani, uno sciita fra gli sciiti, di vivere nella restaurazione di un mondo antico dove il Profeta comandava e la piccola comunita’ obbediva e tutto era al servizio della fede pura. Soltanto il sogno; e poi, come chi non abbia voluto davvero cio’ per cui aveva lottato tanto, si era scagliato contro i primi cenni di un potere religioso, l’imamato di Khomeini; ed era infine fuggito sulla sua Chevrolet proprio quando il suo sogno finalmente si realizzava, con la Guida e il Consiglio a fare le veci del Profeta.

Questo sistema di base - ossia un potere che misteriosamente evolveva e il popolo che obbediva - spiegava la presenza martellante dei tre uomini al vertice nelle immagini ufficiali. Spiegava i ritratti, a volte enormi, dipinti sulle fiancate dei palazzi, che collegavano l’attuale guida spirituale all’imam Khomeini e rivolgevano un chiaro appello all’obbedienza.

 

Nel 1979 non avevo idea che sarebbe finita cosi’ sospiro’ Parvez. Credevo che il regime dello scia’ sarebbe caduto e al suo posto avremmo avuto un governo democratico sul modello occidentale come in India. Non sono mai stato islamico fino a questo punto . Dal suo giornale non si sarebbe detto, nel 1979. Per questo e’ stata dura. La mia formazione non era affatto religiosa. Ho votato al referendum nel 1980: si trattava soltanto di dire se’ o no. Ho votato per la Repubblica Islamica, come l’ottantacinque per cento della popolazione, ma senza alcuna idea di cosa sarebbe state’.

Parvez si era sentito attratto da Khomeini Perche’ parlava di oppressi e Terzo Mondo. Ricordava in particolare il suo famoso discorso al cimitero, appena tornato dall’esilio. Quel discorso era colmo di promesse: cherosene nelle case, elettricita’ e acqua gratuite.

Ci ha promesso lavoro, sostenendo che l’avrebbe tolto agli americani. Ai tempi dello scia’ , si contavano uno o due milioni di disoccupati o precari. Oggi sono dieci milioni. Ma le diro’ una cosa: l’imam era sincero. Voleva davvero intrattenere buone relazioni con tutto il Terzo Mondo. Ma non ha potuto realizzare il suo progetto. A causa della guerre’.

E allora il cimitero assunse un’altra connotazione. Quanto a se stesso e al suo futuro, Parvez tentava di riprendersi il Tehran Times . Il suo caso stava approdando in tribunale.

Ma sotto il profilo economico saro’ sempre in difficolta’ . La crisi degli ostaggi… se non fosse stato per quella, il mio giornale non sarebbe finito in cattive acque. Gli imprenditori e le ditte straniere sono fuggiti, non c’erano piu’ inserziono’ .

Nel mondo erano successe tante cose. Tante ne erano accadute anche a me. Ma lui continuava a rivivere senza fine la crisi degli ostaggi. Era strano immaginarlo - se mi si concede la metafora - ancora inchiodato alla stessa croce di quindici anni prima. D’altro canto, aveva passato di tutto e chissa’ quali cose aveva dovuto fare per sopravvivere. Sarebbe stato ingiusto insistere troppo sulle contraddizioni che avevo notato nel suo racconto.

 

Pretendono di controllare come ti siedi e come parli, aveva detto Parvez. E di notte, in alcune strade principali, Teheran sembrava una citta’ occupata, o una citta’ in rivolta, con i posti di blocco sorvegliati dai Guardiani della Rivoluzione e, a volte, dagli ancor piu’ temuti volontari Basiji. Non cercavano - in queste ronde notturne quasi personali - tanto i terroristi quanto le donne con i capelli parzialmente scoperti. E non tanto armi quanto alcol, c.d. o cassette (la musica era sospetta, e le cantanti al bando).

Gli abitanti di Teheran riuscivano a scorgere i blocchi stradali prima dei visitatori. Una notte, mentre superavamo alcune persone che erano state fermate, la donna al volante ci confido’ che si trattava solo di sapersi rivolgere ai Guardiani. Una volta, quando avevano fermato lei, aveva chiesto, quasi fosse davvero ansiosa di saperlo: Cosa c’e’ che non va nel mio “hijab” [copricapo], figlio mio? . E il giovanotto, di semplici origini, non sentendosi contestato o sfidato dalla donna, ma ritenendo di essere trattato in modo corretto, l’aveva lasciata andare. Erano le forme dell’obbedienza e della sopravvivenza che la popolazione aveva imparato.

Ma nello stesso tempo si avvertiva nell’aria che tante umiliazioni non potevano continuare. Anche se quarant’anni di speranze e delusioni avevano sradicato ogni velleita’ di rivolta o perfino di protesta e il popolo era ormai stanco di tanti massacri - dei dimostranti al tempo dello scia’ , degli uomini dello scia’ dopo la rivoluzione e, infine, dei comunisti, senza contare la terribile carneficina della guerra - pure, insieme a quella stanchezza, persisteva la sensazione che qualcosa si dovesse spezzare in Iran. E quasi parte di quel desiderio di rottura, circolava la voce che Khomeini fosse stato in realta’ imposto al popolo iraniano dalle grandi potenze, e che certi importanti mullah si stessero gia’ assicurando degli appoggi per quando le cose sarebbero cambiate e la Repubblica Islamica sarebbe stata messa da parte.