6.

SOTTO LA LAVA.

 

Andai nella vecchia citta’ reale di Yogyakarta nel Sud dell’isola di Giava per incontrare Linus. Linus e’ un poeta che avevo gia’ incontrato nel 1979; allora aveva ventisette o ventotto anni e sebbene non avesse ancora pubblicato niente di importante (o almeno cosi’ mi pareva), tutti lo conoscevano. Si diceva che traesse ispirazione dalla cultura e dallo spirito dell’antica Giava e abitava in un villaggio poco distante da Yogya.

Fra i primi a incoraggiare Linus ci fu Umar Kayam, un accademico e scrittore, accanito partecipante di seminari e conferenze; fu Umar Kayam (non si tratta di uno pseudonimo, il nome gli fu dato da suo padre) a portarmi un giorno al villaggio di Linus. Andammo a casa di Linus e incontrammo sua madre e altre persone, e per il resto della giornata Linus ci porto’ in giro per il villaggio e ci presento’ alla gente.

Linus era deferente verso Umar, che aveva circa vent’anni piu’ di lui; avevo l’impressione che stesse per affermarsi come poeta. Mi sbagliavo completamente. Ora mi dicono a Giacarta che all’epoca di quell’incontro Linus stava scrivendo un lungo poema narrativo, “La confessione di Pariyem”. E Linus stesso mi ha informato che Umar, il quale leggeva il poema a mano a mano che veniva creato, era preoccupato per la lunghezza. A un certo punto aveva detto: Basta. E’ gia’ abbastanza lungo. Di questo passo diventa come un poema giavanese dell’Ottocento . Al pari di molti altri scrittori che cercano incoraggiamento, Linus preferi’ seguire il suo cuore e continuare a scrivere. Un anno circa dopo il nostro incontro al villaggio pubblico’ il poema. Fu un grande successo, vendette ventimila copie ed e’ ancora l’opera di Linus piu’ conosciuta.

Ora, in un’antologia in inglese, “Menagerie”, leggo la traduzione di una parte del poema che probabilmente Linus e Umar avevano in mente mentre passeggiavamo per il villaggio. Il poema, la cui eroina e’ una donna di campagna e che e’ ambientato in un villaggio probabilmente ricalcato su quello che avevo visitato, e’ un’elegia dei costumi e del calendario della vecchia Giava. Pur nell’ottima e precisa traduzione di Jennifer Linsday si vedeva, lasciando da parte gli inevitabili passaggi erotici, come fosse difficile comprendere il senso elegiaco di Linus al di fuori del suo ambiente, con tutte le sottese particolarita’ culturali. Solo le parole giavanesi riescono a descrivere certe cose giavanesi, e solo quelle parole possono dischiudere i sentimenti giavanesi.

 

“Mio padre era in un gruppo di ketoprak a Tempel

tornava a casa una volta alla settimana.

E il gamelan era allegro sonoro e veloce

suonato nel modo slendro-sanga

segno che era cominciato il gara gara

e la luna inclinava a ponente

segno che avrebbe presto fatto giorno”.

 

Un clima diverso, un diverso uso delle ore, altre associazioni di musica, teatro, tempo, paesaggio. Il tutto ricavato dalla descrizione di una cosa abbastanza nota come il teatro delle ombre giavanesi. Esistono certamente sentimenti profondi intricati, credenze e rituali che sfuggono alla traduzione, che solo i giavanesi possono tradurre ai giavanesi. Forse per questo nella Sumatra occidentale una cultura del riso ricca, completa e organizzata - che non sentiva il bisogno di una memoria storica - non ha lasciato altro che i tabo e i nomi dei clan in mille o duemila anni. Una volta perduto il vecchio mondo, non e’ piu’ possibile ricostruire il suo particolare modo di sentire.

Nel 1979 Giava mi aveva dato - forse con un eccesso di romanticismo da parte mia - la sensazione che appartenesse solo a se stessa, che fosse una civilta’ completa. Il villaggio di Linus aveva contribuito a quest’idea pastorale e nel corso degli anni la fantasia aveva ricamato sui dettagli: i campi di riso che arrivavano fin sotto le case, la vegetazione del villaggio dove tutto aveva uno scopo, i templi della dea del riso, l’elegante madre di Linus. Nel mio ricordo lei era rimasta come quella mattina, vestita di tutto punto di ritorno da una spedizione in citta’ , una donna appartenente a una civilta’ alta che scambiava elaborati convenevoli con Umar Kayam nell’antica lingua di corte (stando a Umar), parlando con la testa inclinata all’indietro, lamentandosi con un torrente di parole ben modulate della pigrizia di Linus, rifiutandosi di prendere seriamente quella faccenda della poesia, poiche’secondo lei, segno della perfezione del suo mondo, tutta la poesia era gia’ stata scritta e l’idea di una nuova poesia era un’assurdita’ .

Era stata una mattinata pastorale che desideravo provare ancora. E poi avevo sentito che Linus di recente era arrivato ai ferri corti con i musulmani di Yogya. Avevano obiettato a qualcosa che aveva scritto in un editoriale e volevano il suo sangue. Linus si firmava con il nome di “Linus Suryadi AG”; AG non e’ una distinzione locale ma l’abbreviazione di Agustinus, la maniera che Linus aveva adottato per proclamare di essere cattolico. Forse lo sapevo gia’ nel 1979, ma allora non ero ancora in grado di dargli il giusto valore o di metterlo nel contesto giusto, quello della concorrenza esistente fra le due grandi religioni rivelate per assicurarsi l’anima di un paese colonizzato e convertito a meta’ , che aveva perso contatto con le proprie credenze e la propria integrita’ .

La questione di Linus aveva creato agitazione, l’esercito gli aveva dovuto offrire protezione. Ora le acque si erano calmate, ma sapevo che nell’Eden la terra aveva tremato.

 

Linus non aveva telefono, ma nella sua lettera di risposta mi informava che c’erano due amici a Yogya a cui potevo telefonare e lasciare un messaggio. Ho chiamato uno di questi amici e al mio arrivo all’Hotel Meli† trovai un biglietto di Linus ad attendermi, scritto al computer, in cui diceva che sarebbe venuto a prendermi la mattina seguente dopo le nove. Quel dopa’ non prometteva nulla di buono, infatti e’ arrivato alle due del pomeriggio.

Indossava un completo jeans blu chiaro. A quarantaquattro anni era piu’ grosso e massiccio di quanto ricordassi, e non tanto alto; era difficile ritrovare il giovane snello in pantaloni di tela e camicia bianca che ascoltava attentamente il dialogo tra sua madre e Umar e che durante la passeggiata ci aveva presentato, con deferenza, il suo villaggio, le sue usanze e la sua gente.

Era arrivato in motocicletta (il che senza dubbio spiegava il completo jeans) che a quanto pareva gli aveva dato qualche fastidio. Ha detto che il messaggio che in albergo avevano elegantemente stampato per me non era arrivato da lui ma dal suo fratello minore. Non avrebbe saputo che ero in citta’ se non avesse incontrato per caso suo fratello per strada poco prima.

Abbiamo preso una macchina dell’albergo per andare al villaggio. Pensando alle recenti difficolta’ avute da Linus, ho creduto di scorgere, attraversando la citta’ , i segni della nuova aggressivita’ musulmana: la nuova scuola islamica, le ragazze con il velo bianco che accentuava i loro tratti quasi mongoli e le privava di individualita’ rendendole simili, quando si trovavano in gruppo, a piccoli branchi di girini bianchi slavati e con la testa smisurata; i molti negozi di materiale da costruzione che nell’antistante cortile esibivano cupole argentate o di latta sormontate dalla stella e la mezzaluna; e l’enorme insegna in cima a un edificio che annunciava, in semplici lettere rosse e in inglese, CIBO MUSULMANO. piu’ tardi Linus mi avrebbe detto che l’uso dell’inglese probabilmente stava a indicare che il cibo proveniva da paesi arabi o comunque stranieri.

Fuori citta’ la strada restava quasi la stessa. I villaggi si susseguivano l’uno dopo l’altro e per lunghi tratti la strada era fiancheggiata da costruzioni ininterrotte. I campi, la campagna pura, incominciavano piu’ all’interno. Ma sempre piu’ spesso, anche lungo la strada principale, si aprivano tratti di campagna e, mentre li osservavo, risaliva dalla memoria l’immagine agreste di Giava, ben lavorata e sovrappopolata. Si sfruttava ogni fazzoletto di terra; i piccoli appezzamenti di riso, tabacco, pepe o mais marcati dai terrapieni non finivano mai, e i confini tra i campi erano segnati da banani e piante di cassava con i loro gambi nodosi e le giovani foglie viola arrotondate.

Nell’arcadia del mio ricordo la casa di Linus si trovava proprio al margine dei campi sotto l’ombra degli alberi. Non era cosi’ : la casa, bassa e con i muri di cemento che salivano direttamente dal terreno, era abbastanza esposta sulla strada, che pareva piu’ la via di una cittadina di provincia che un viottolo di campagna. Per diversi chilometri - a rinforzare l’effetto urbano - la strada era decorata con bandiere indonesiane per l’RI50 e altre bandiere dai colori piu’ semplici (come foglie di banani verticali) piantate su canne di bambo che, incurvandosi sulla strada, formavano una sorta di arcata gotica irregolare. Un effetto gioioso, mi ha detto Linus, per il quale non aveva pagato il governo di Giacarta, ma la comunita’ locale.

Il villaggio della mia arcadia era perduto. La memoria aveva fuso questo villaggio e la casa di Linus con un altro villaggio, piu’ discosto dalla strada principale, dove Umar e io eravamo andati a vedere una grande casa tradizionale giavanese di proprieta’ di uno dei tanti parenti di Linus.

Il cortile davanti alla casa di Linus era piatto, duro e nudo Perche’ vi si potesse spargere, ad asciugare al sole, il riso mietuto, mi ha spiegato Linus, o innalzarci una tenda di bambo per le feste. Era costeggiato su due lati da alberi o piante utili: caffe’, palme da cocco, il chico o sapota dell’America del Sud, un albero di guava (la guava e’ un’altra importazione dall’America del Sud, nota ad alcuni come erba brasiliana) crescevano rigogliosi nella terra vulcanica. Sul terzo lato del nudo cortile e solo per bellezza c’era un praticello sghembo di erba bruna, fitto e morbido come un bel tappeto spesso, bordato di ortensie e alte zinnie accanto a un elemento obsoleto: uno stagno malandato e sudicio.

Siamo entrati nel soggiorno che e’ largo quanto tutta la casa. Il pavimento e’ di cemento levigato, il soffitto di bagassa si e’ scurito. Il lato sinistro della stanza e’ nascosto da paraventi, sul lato destro basse poltrone polverose. A ridosso del paravento si trova un tavolo coperto da una tovaglia di plastica con due sedie da cucina. Sulla parete d’ingresso, in ombra, ci sono una foto del principe Carlo, la copia a stampa di una lettera che scrisse sull’Indonesia (in occasione di un festival di spettacolo indonesiano tenuto a Londra) e i certificati o i diplomi di Linus ottenuti in universita’ straniere per corsi speciali: gli spiccioli di quella magnanimita’ diplomatica da cui, in paesi come l’Indonesia, dipendono persone come Linus per un po’ di emozione, di viaggi, di svago.

Da una stanza interna usci’ una vecchia minutissima in camicetta grigio-bruna e sarong per le presentazioni, come vuole la formalita’ . Era la mamma di Linus, rimpicciolita e resa opaca dall’eta’ . La donna che avevo in mente dall’incontro di sedici anni prima era vestita di tutto punto e stava tornando dalle spese, i capelli pettinati con cura, lisci e tesi, il viso con gli zigomi sporgenti caldo e bruno e rivolto leggermente verso l’alto, gli occhi brillanti di cortesia verso Umar e di recriminazione verso Linus. Su questa piccola donna non piu’ eretta, la camicetta grigio-bruna e il sarong riprendevano e spegnevano il colore della pelle. Probabilmente era la sua tenuta da lavoro. Era passata da poco la meta’ del pomeriggio; tra qualche minuto, non appena fosse rinfrescato un po’ (da queste parti il tempo e’ gestito in modo diverso), sarebbe uscita nella risaia. Nel 1979 non l’avevo associata a quel tipo di lavoro.

Parlava poco e a bassa voce e non si e’ fermata molto con noi. Quindi, come seguendo una regia, dalla stanza interna e’ cominciato a uscire qualcun altro. Ho sentito delle parole stranamente distorte dall’ira e dal pianto in un crescendo che sfociava in un suono stridulo e profondo; e prima ancora di vedere chi avesse perso il controllo in quel modo fin quasi al punto di gridare, ho capito che doveva trattarsi della sorella minorata di Linus. L’avevo dimenticata, cancellando dal mio ricordo arcadico quell’ombra nella vita di Linus. Ma ora era come se non l’avessi mai dimenticata, l’avevo solamente relegata in un luogo remoto della memoria, e in quel preciso istante ne faceva ritorno: la giovane silenziosa dai movimenti scoordinati che era uscita ciabattando da una stanza buia e si era seduta su una sedia nell’angolo osservandoci con sguardo schietto. Aveva osservato noi, gli ospiti, gente nuova, seduti di fronte a un piatto di pannocchie di mais fumanti, il segno d’ospitalita’ del villaggio, dell’abbondanza contadina, con gli occhi furiosi, lacrimosi e tuttavia in cerca di attenzione, la bocca storta socchiusa, da cui colava un filo di bava. Era sembrata giovane, adolescente, e invece aveva venticinque anni. Quando eravamo usciti di casa Umar Kayam mi aveva raccontato che a questa sorella di Linus da bambina avevano sbagliato a fare un’iniezione e le avevano danneggiato il sistema nervoso.

La donna che entro’ come una furia nel soggiorno aveva ora quarantun anni. Non ce l’aveva con Linus, ma con me. Pareva rivolgesse insistentemente la sua ira verso di me, cercava di articolare qualcosa, ma non le usciva neanche una parola e fra un tentativo e l’altro piangeva, con la saliva che le colava dalle labbra e dalla mascella disarticolata, con gesti simili a quelli di un vecchio oratore. Linus, tenendo la testa leggermente inclinata da una parte, l’ha lasciata sfogare. Ascoltava, sapeva cio’ che cercava di dirci. Aveva lo sguardo colmo di dolore e tenerezza.

Quando la ragazza fini’ di sfogarsi e usci’ dalla stanza, Linus mi racconto’ quello che era successo. Avevano dato la benedizione cristiana alla casa di un fratello maggiore, la cerimonia era stata fatta coincidere con i festeggiamenti del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’Indonesia. Alla fine il prete aveva offerto la comunione, ma non sapeva come dare il vino e l’ostia alla sorella di Linus, quindi l’aveva saltata. Al ritorno lei era furibonda. Protestava con tutti quelli che passavano per casa. Quando le succedevano cose del genere, disse Linus, avevano problemi gravissimi per tre giorni.

 

Anche senza vedere la madre e la sorella, mi sarei reso conto che la luce aveva abbandonato quella casa. E venne fuori - indirettamente, non come un racconto tragico - che due anni prima il padre di Linus era morto e che ora la famiglia era poverissima. Il padre di Linus era stato il capo del villaggio. A Giava, dove tutto e’ organizzato in modo ferreo, si tratta di una posizione importante. (Si dice che l’organizzazione di stile militare di Giava sia dovuta ai giapponesi, ma l’occupazione giapponese e’ durata solamente tre anni e mezzo. Forse il lavoro servile degli antichi regni di Giava e, in seguito, la colonia agricola olandese richiedevano questo livello di organizzazione). Il padre di Linus era diventato capo del villaggio grazie ai suoi contatti familiari. Al capo di un villaggio si concede un ettaro e mezzo di terra fintanto che e’ in carica, ma la legge impone che la terra torni al governo mille giorni dopo la morte del capo.

Ecco Perche’ la madre di Linus era tanto povera ora e la casa era cosi’ triste, ecco perche’, mi ha spiegato Linus, la madre inveiva contro suo nonno. Il nonno, dopo aver avuto una famiglia con tre figli (che includeva quindi anche la madre di Linus), aveva preso una seconda moglie da cui erano nati altri due figli. Di conseguenza la prima famiglia si era impoverita. E alla fine il nonno aveva suddiviso la proprieta’ in parti diseguali.

Proprio il giorno prima, mi ha raccontato Linus, aveva dovuto affrontare sua madre che si era messa a imprecare contro il nonno. Niente lacrime, per favore. Non pensarci piu’ . Pensa invece ai figli che hai mandato all’universita’ . E’ meglio guardare al futuro .

Infatti, proprio grazie all’insistenza cristiana contro la poligamia e alle sofferenze che aveva provocato nella loro vita, il padre e la madre di Linus si erano convertiti al cristianesimo, gia’ nel 1938. Prima non erano musulmani ma giavanisti, una religione locale composta da cio’ che resta dell’induismo, del buddhismo e dell’animismo. Avevano frequentato entrambi il catechismo dove avevano imparato qualcosa sul cristianesimo. Ne avevano adottato una forma che non comportava una rottura con il passato.

Qui continuiamo a praticare le nostre usanze tradizionali anche quando diventiamo cristiani. Portiamo i fiori al cimitero, preghiamo gli spiriti degli antenati. Quando muore qualcuno nella comunita’ cristiana celebriamo riti misti con cerimonie tre giorni dopo il decesso, e poi dopo sette giorni, quaranta giorni, cento giorni, un anno, due anni, mille giorno’ . Linus ricordava queste date a causa della recente morte del padre.

Il cristianesimo e’ importante Perche’ ti insegna ad amare gli altri come te stessa’ disse Linus. Significa imparare a diventare persone tenere, non selvagge e aggressive. Anche nel giavanesimo abbiamo il concetto di ritegno e restrizione, quindi e’ facile per i giavanesi abbracciare la dottrina di Cristo .

In alto sulla parete divisoria di cemento, sopra lo stipite della porta da cui erano uscite la madre e la sorella di Linus, pendeva una grande croce marrone. Sovrastava una grottesca marionetta di cuoio, la maschera di Semar, il pagliaccio del teatro d’ombre, un personaggio, diceva Linus, di una delle due epopee induiste adottate a Giava: il “Ramayana” e il “Mahabharata”. Un dio che e’ diventato uomo e che sempre aiuta i buono’ .

Anche nel 1979 li’ era appesa una marionetta di cuoio, ma ricordavo che non era di Semar, bensi’ di un altro personaggio. Non riuscivo a rammentarmi quale, ma non l’ho chiesto a Linus. Solamente in fase di revisione di questo capitolo sono andato a controllare e ho scoperto che nel 1979 la mascotte sul muro, la divinita’ associata alla casa, sopra le aperture orizzontali per la ventilazione e sotto la croce, era un Krsna Nero. Non il Krsna allegro dell’India, che ruba il burro appena fatto dalla massaia e nasconde i vestiti delle mungitrici mentre fanno il bagno al fiume, ma il Krsna Nero di Giava, una figura di saggezza. Quel Krsna si addiceva a vegliare su un uomo agli inizi della carriera di poeta. Ora, in un periodo di pena e bisogno profondi, Semar, il dio-uomo che aiuta i buoni, era una divinita’ piu’ appropriata.

Linus aveva messo la figura in quel punto appendendola per la parte superiore del corpo di modo che le braccia e le gambe fossero libere di muoversi.

Cerco di capire la mia cultura, il tipo di mito che sopravvive in esse’ ha detto.

E per Linus gran parte del mito nella sua cultura sopravvive nel “wayang kulit”, il teatro d’ombre per cui ha un amore prossimo alla venerazione. Doveva averlo preso da suo padre che, oltre ai doveri ufficiali come capo del villaggio, insegnava danza giavanese e organizzava uno spettacolo di danza a ogni anniversario dell’indipendenza. Prima di cominciare a frequentare la scuola, Linus era andato al “wayang” tutti i giorni; tutti i giorni, nel villaggio, c’era uno spettacolo di marionette. E aveva continuato ad andarci quotidianamente anche dopo aver preso a frequentare la scuola. Di ritorno dalle lezioni si faceva la doccia, mangiava e alle otto o alle nove andava allo spettacolo serale. I “dalang” anziani - i pupari, i cantastorie - davano una rappresentazione che durava tutta la notte fino alle cinque del mattino. I “dalang” giovani erano responsabili dello spettacolo diurno, che iniziava verso le dieci o le undici.

Qualche volta gli spettatori si addormentano e poi si svegliano. Non e’ come uno spettacolo occidentale. I “dalang” vengono invitati alle feste di nozze; alle cerimonie della circoncisione, a certe celebrazioni giavanesi per il lavaggio delle strade, la pulizia del villaggio, ai riti collegati alla dea del riso .

Quindi, come nei brani della “Confessione di Pariyem” che avevo letto, il “wayang” - legato a diversi modi di utilizzare il giorno e la notte, a diversi ritmi di vita e a rituali locali antichissimi - scatena emozioni difficili da penetrare per un estraneo. Questo vecchio mondo di sentimenti era molto caro a Linus, ma sentiva che si andava perdendo. La gente (compresa la madre di Linus) guardava sempre piu’ la televisione. E il villaggio era piu’ povero, i “dalang” erano sempre piu’ cari. Una volta una famiglia poteva vendere quattrocento chili di riso e ingaggiare un “dalang”. Oggi la tariffa minima per un “dalang” locale e’ circa un milione di rupie, quattrocentoventicinque dollari. I dotti “dalang” di corte di Yogyakarta e di Solok arrivano a chiedere il doppiu’ o quattro volte tanto.

cosi’ Linus viveva con l’idea della decadenza, di un mondo prezioso in dissoluzione. I suoi guai recenti con i giovani musulmani di Yogyakarta contribuivano alle nuove incertezze.

Scrivo un breve saggio culturale per un giornale locale. Quest’anno dirigo la sezione di letteratura giavanese e indonesiana del festival dell’arte a Yogya. In uno dei miei articoli ho cercato di presentare la musica giavanese ancora viva nella societa’ , ma oggi senza molto seguito. Nel “gamelan” c’e’ uno strumento chiamato “sitar” e un gruppo chiamato “sitaran”. Mi sembra che la gente usi questo gruppo di “sitaran” nei matrimoni e nelle cerimonie di circoncisione. Ho tentato di capire il costume della circoncisione. So dall’Antico Testamento che l’usanza fu introdotta dal profeta Musa e Musa e’ ebreo. Ebreo in indonesiano si dice “jahudi” e la circoncisione si chiama “jahudi-sasi”. Volevo fare un rilievo storico-culturale per arricchire il festival. Non intendevo toccare solo l’usanza musulmana, Perche’ qui la circoncisione e’ praticata anche dai cristiani. Oggi non e’ solo un fatto religioso ma anche una precauzione igienica.

Andai al giornale, in ufficio, giovedi’ pomeriggio, due giorni dopo, per riscuotere il pagamento dell’articolo, settantacinquemila rupie - circa trentacinque dollari - e i giornalisti mi dissero che certi giovani musulmani avevano portato dei volantini al giornale. C’era scritto: ‘Impiccate Linus. Linus insulta i musulmani’. Qualcuno cercava di sobillare gli studento’ .

Non ti aspettavi una cosa del genere? gli ho chiesto.

Mi sorprese. Penso che se qualcuno non e’ d’accordo puo’ scrivere un articolo sul giornale contro quello che ho scritto io. Forse la giovane generazione ha una crisi di identita’ . Questi sono giovani che non sono finiti all’universita’ . Tornai a casa e la mattina dopo vennero dei soldati e mi dissero: ‘Linus, cos’hai combinato? E’ vero che hai insultato i musulmani?’. Ho risposto di no. Il capitano aveva una copia dell’articolo. Disse che non vedeva nessun riferimento ai musulmani. Poi aggiunse: ‘E adesso andiamo tutti a Yogya. Seguimi, per favore’. Siamo arrivati al quarto livello del comando locale .

Era la maniera in cui Linus esprimeva la serieta’ con la quale l’esercito aveva affrontato la questione. Su un tovagliolo di carta rosa - sedevamo l’uno di fronte all’altro al tavolo della cucina vicino al paravento divisorio, attaccati a una parete di mensole piene di souvenir e soprammobili - schizzo’ un organigramma per spiegare la struttura del comando militare locale.

Questo interesse per la struttura dell’esercito mi prese alla sprovvista, ma non fui del tutto sorpreso. La famiglia di Linus, e i rami sono molti, aveva una certa importanza locale - un motivo di pena in piu’ per sua madre per quello che era successo in casa. Il padre di Linus era stato un importante amministratore del villaggio, il padre di sua madre (il figlio del poligamo) aveva fatto parte del governo locale, e lo stesso Linus aveva sognato per tutta l’infanzia, anche quando passava giorno e notte al “wayang” del villaggio, di fare il generale da grande. Linus parlava quasi con amore dell’esercito indonesiano, per lui era ancora il difensore della patria.

A Yogya ho incontrato il tenente colonnello nel suo ufficio. Mi ha detto che se non mi sentivo sicuro in casa potevo restare nella mensa della caserma. Gli ho detto che dovevo rimanere con mia madre, che e’ vedova. E per una settimana ha mandato un paio di uomini a dormire qui la notte .

Sebbene Linus affermasse che la nuova aggressivita’ musulmana era alimentata da un pugno di persone, tale aggressivita’ lo irritava visibilmente, come una cosa contraria alle abitudini giavanesi. Nel 1979 la moschea del villaggio era una sala di legno disadorna, come la chiesa cristiana. Ora la moschea e’ di cemento e, benche’ non abbia una cupola argentata del tipo di quelle impilate l’una sull’altra come ingombranti orpelli davanti a certi negozi, ha gli altoparlanti sul tetto; Linus pensa che nell’antica Arabia non avevano gli altoparlanti nelle moschee. Alcune donne cominciavano a girare tutte tappate e con il velo, e secondo Linus era strano vedere gente che andava in giro vestita cosi’ in un clima tropicale.

Ma per Linus la trasformazione piu’ sconcertante era quella del “koum” del villaggio. Il “koum” e’ un personaggio speciale, con speciali responsabilita’ . E’ musulmano ma ha conservato molti costumi giavanesi. E’ l’uomo chiamato a lavare e seppellire i morti. E’ anche l’uomo che in certe occasioni rituali guida informalmente la comunita’ nella preghiera. E’ possibile vedere nel “koum” una vecchia figura di paria indo con i compiti di sepoltura riservati agli intoccabili. E proprio come i primi cristiani usarono la crocifissione e la croce, il secolare supplizio romano per i criminali comuni, come il simbolo piu’ potente del dolore umano e della redenzione, e’ possibile vedere qui come i primi musulmani, in cerca di conversioni, forse usarono questo paria come un colpo di karate’ sferrato contro la fede tradizionale: colui che lavava e seppelliva i morti guidava nella preghiera la comunita’ della nuova fede; l’intoccabile, in un sol balzo, si era portato in cima alla piramide delle caste per diventare l’equivalente di un prete.

Nel 1979 avevo incontrato il vecchio “koum”, un uomo avanti negli anni, piccolo, forte e magro, con la voce ridente e lo sguardo vivo, i capelli schiacciati dal berretto; ricordava diverse guerre. Linus mi ha detto che era morto l’anno dopo.

Gli piaceva andare a vedere le marionette, che e’ uno spettacolo in cui si mescolano l’induismo e la cultura giavanese. Gli e’ succeduto il figlio, ma a lui raramente viene chiesto di guidare la comunita’ nella preghiera. Dipende dal nuovo orientamento dei musulmani stessi, hanno meno riti; non commemorano piu’ i defunti alla maniera giavanese, non condividono il pasto rituale nel “kenduri”. Lo hanno seguito solo quando e’ morto il “koum”.

Quando mori’ mio padre abbiamo chiesto al figlio del “koum” di pregare con noi. Il capo cristiano conduceva la preghiera e al “koum” e agli altri non cattolici abbiamo chiesto di pregare per mio padre ciascuno a suo modo. Questa e’ la via della tolleranza e dell’equilibrio nei rapporti interni al villaggio .

Quindi i pensieri di Linus tornavano costantemente a quella morte in casa e, quasi un tema parallelo, all’equilibrio perduto del suo mondo.

Senza cambiare tono o espressione prosegui’: Un metro e mezzo sotto di noi ci sono molti templi indo , buddhisti o induisto-buddhisti sepolti dalle eruzioni del Merapi mille anni fa e anche duemilacinquant’anni fe’. Il Merapi, il vulcano attivo della zona, sorgente della lava che arricchisce la terra e che si vede in forma di macigni neri nel letto dei torrenti. Questo fatto crea lavoro per chi vuole studiare la cultura e la storia di Giava, Perche’ dietro tali fenomeni si puo’ comprendere lo spirito dei giavanesi di oggo’ .

La vegetazione di Giava e’ un miscuglio di alberi e fiori del Vecchio e del Nuovo Mondo. E’ come la vegetazione di Trinidad, del Venezuela e di alcune di quelle isole. Un giorno ho visto persino un‘“immortelle” gigante, sulla trafficata strada da Yogyakarta a Prambanam, con le torri restaurate a meta’ del grande complesso di templi indo del decimo secolo. Un‘“immortelle” priva di foglie e nel pieno della fioritura favorita dalla lava: fiori rossi e gialli a forma d’uccello che cadevano senza sosta sulla strada, come li avevo visti cadere a Trinidad nelle piantagioni di cacao. L‘“immortelle”, un’importazione dall’America Centrale, dove e’ usata per ombreggiare gli alberi di cacao. E’ difficile liberarsi dalle vecchie associazioni; ma assieme a Linus sentivo, come mi era capitato nella Sumatra occidentale, che su questo suolo c’erano altre cose, emanazioni diverse.

 

La madre di Linus era andata a un funerale quando Linus mi riporto’ al villaggio la mattina seguente. E poco dopo ricomparve la sorella di Linus nella stanza sul retro. Stava seduta quasi formalmente su una sedia con lo schienale diritto di fronte al televisore. La vedevo da dove mi trovavo con Linus, seduto al tavolo presso il paravento. Non mi degnava di attenzione. Appariva riposata, era calma. Il giorno prima si era lamentata del prete e ormai non aveva piu’ niente da dirmi.

Mia sorella cucine’ mi ha detto Linus. Se non le piace quello che cucina mia madre, si prepara da mangiare da sola. Ma non sa misurare le cose. Per esempio ci mette troppo riso. Cuoce anche le verdure, le uova fritte. Si compra gli ingredienti da sole’. Parlava con piacere, orgoglio e tenerezza. E’ molto importante per lei che la gente la tratti normalmente. Abbiamo sofferto molto durante la cerimonia di nozze della mia sorella maggiore. ‘Perche’ io non sono sposata?’ chiedeva. Noi non le rispondevamo, non possiamo far nulla per lei. Scuotevamo la testa per dire: ‘No, non possiamo farci niente’ . Rivivendo quel momento, ha scosso lentamente la testa e il dolore gli e’ affiorato negli occhi. Ma piange. Si mette un vestito nuovo e se ne lamenta con la gente .

Tua madre come fa? .

Spesso mia madre dice agli altri: ‘Non so Perche’ Dio mi ha fatto il dono di una figlia disabile’ . Disabile era la parola usata da Linus per sua sorella, non avrebbe accettato niente di piu’ forte. Mia madre ha gravi difficolta’ con lei; mia sorella qualche volta l’aggredisce. Questa stagione, dopo la mietitura del riso ne comprammo molto per rivenderlo piu’ tardi. Mia sorella allora disse a mia madre: ‘Non venderlo’. Forse pensa che il riso non vada venduto. Abbiamo dovuto dirle che occorre vendere il riso per comprare le altre cose .

Aveva la faccia seria; ingentilita dalla tenerezza. Gli ho chiesto: Hai scritto niente su di lei? .

Ho provato a scrivere una poesia su mia sorella. Ma il tempo non e’ ancora maturo. Ho scritto una poesia su un’altra sorella, la numero otto, che mori’ nel 1983 .

Usci’ dalla porta passando sotto la croce e Semar per prendere il libro. Sulle mensole del paravento c’erano semplici immagini indo assieme a statuette cristiane e ancor piu’ semplici soprammobili e ricordini. La sorella rimaneva calma, guardava la televisione.

La copertina del libro preso da Linus aveva un fiore di loto bianco su una foglia verde. Era dedicato alla sorella defunta. Tutte le poesie comprese nel libriccino erano state scritte in sei settimane nel 1987, quattro anni dopo la morte della sorella. A Linus piaceva soprattutto una poesia e in un’antologia di poesia indonesiana che mi ha dato c’e’ questa versione dell’ultima strofa (tradotta da John McGlynn):

 

“Dalla terra ritorni alla terra

dalle ombre ritorni alle ombre

come la folgore nella calura che sale rapidamente

l’anima sale e abbandona il tuo corpo”

 

Asal bumi balik humi

asal bayang balik bayang

bagaikan tatit kumedap - “lap” -

atman oncat dari badan.

 

Il sentimento e’ innegabile. Nel secondo verso si trova un’allusione commossa al “wuayang”, l’ossessione di Linus; mi sembra anche che i due versi finali ricordino la morte di Didone nell‘“Eneide”:

 

“… omnis et una

dilapsus calor atque in ventos vita recessit”.

 

In casa questa poesia era considerata una proprieta’ personale di Linus. Sua madre non ha mai letto una riga di quello che ha scritto. L’aveva incoraggiato, o comunque non si era opposta, quando lui voleva fare la carriera militare. Era andato avanti; era stato ammesso all’accademia militare indonesiana di Sukabumi, ma dopo due settimane, e dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza sognando di diventar generale, aveva deciso che la vita militare non faceva per lui e aveva abbandonato l’accademia. Dopo quell’episodio gli venne la vocazione per la poesia, che sua madre non ha mai cessato di considerare un’assurdita’ . E Linus un po’ alla volta comprese che la vita poetica e letteraria e’ dura. Dopo il grande successo dell’opera prima, “La confessione di Pariyem”, le cose avevano subi’to un rallentamento. Un’antologia in quattro volumi di poesia indonesiana, un’opera enorme e famosa che vendette tremila copie, gli frutto’ solamente cinquecento dollari e non riusci’ a guadagnarne piu’ di duecento da una raccolta di articoli. E sia gli articoli sia le antologie creano nemici; ai poeti non piace essere criticati o esclusi. Linus disse: Sono invidiosi di me. C’e’ l’invidia dietro quei giovani agitatori musulmano’ .

E la parte piu’ dura era la necessita’ del poeta di andare avanti, di superare il primo impulso, l’impulso che lo aveva legato all’arte, e tirar fuori il materiale di cui all’inizio non era a conoscenza. Adesso, pero’ , le cose avevano ricominciato a muoversi. Linus stava per mettere mano a un libro nuovo, qualcosa che avrebbe potuto diventare ancor piu’ importante della “Confessione di Pariyem”. Il nuovo libro avrebbe dovuto riflettere la storia di Giava.

 

Linus era cattolico, figlio di convertiti. In un certo senso, quindi, nella divisione religiosa di Giava, nella rivalita’ fra le due religioni rivelate, altri avevano deciso da che parte sarebbe stato. Per lui, tutte le molteplici emanazioni del passato sotto la lava, l’induismo, il buddhismo, l’animismo che insieme costituiscono il senso del ritegna’ e della restrizione del giavanesimo, sfociavano naturalmente nella cristianita’ con il suo messaggio d’amore e carita’ .

Disse: Per i giavanesi e’ facile abbracciare l’insegnamento di Cristo e forse il giavanesimo ha un po’ dello spirito del buddhismo. Siddharta ha insegnato ad amare . Siddharta, il Buddha.

Senza cambiare tono, aggiunse: Credo che lo spirito di Siddharta torni spesso a insegnarci, a insegnare la saggezza di vivere. Viene a visitare un gruppo di miei amici. Quando ci riuniamo, di solito di notte, lo spirito di Siddharta a volte viene a insegnarci, e gli poniamo domande sulle nostre angustie. Qualche volta scrive sul palmo della mano del mio amico Landung, un poeta e traduttore. Io non riesco a leggere, ma ci riesce un’amica che lavora come guida al palazzo di Yogya. Qualche volta Landung sente che qualcuno gli scrive sul palmo della mano, toc, toc, toc, cosi’ . E alla fine la persona che scrive firma con il suo nome: ‘Saluti, Siddharta’. E la mia amica legge cio’ che ha scritto Siddharte’.

Ti ricordi qualche messaggio? gli ho chiesto.

se’. Uno diceva cosi’ : ‘Non insegno i “deva”, i molti de’i dell’induismo. Il mio insegnamento non riguarda la reincarnazione. Si puo’ giungere al nirvana anche vivendo in questo mondo’ .

Che anno era? .

Sara’ stato il 1993 . Forse lo stesso anno in cui mori’ suo padre.

Quando ha scoperto il suo dono Landung? .

Forse attorno al 1990. Una volta Landung mi ha detto che non credeva di avere il dono di ricevere in questo modo i messaggi da Dio o da Siddharta o dal vero spirito. Quella notte Siddharta ha detto: ‘Quando ricevi un dono da Dio, non gettarlo via’ .

Quando vi incontrate? .

Quando proviamo l’impulso spontaneo a farlo. Ma a volte non riusciamo a riunirci tutti. Qualche volta Landung sente di avere un messaggio nel palmo della mano… .

Anche al lavoro? .

se’. Allora si ferma e dice: ‘Aspetta, aspetta. Oggi ho da fare. Forse stanotte’. Lo portiamo allora da quell’amica Perche’ lo legge’.

I messaggi sono brevi? .

Qualcuno e’ breve, qualcun altro lungo. Se viene Siddharta, significa che desidera farci riflettere e discutere sui suoi insegnamento’ .

Ricevete messaggi nei momenti di crisi? .

Ci ha raccontato di Geso Cristo. Arriva misteriosamente, non possiamo fare previsiono’ .

Vi da’ anche consigli pratici? .

Quando stavo male, Siddharta ha scritto sulla mano di Landung che dovevo andare a cercare un certo tipo di foglia, una pianta del villaggio, che dovevo immergerla nell’acqua bollente e berne l’infuso. E’ stato efficace .

Tua madre lo sa? .

Era come per la sua poesia. Non gliel’ho mai detto. Ha un’esperienza ristretta del mondo dello spirito, ne rimarrebbe sorpresa. Non crederebbe alle mie spiegaziono’ .

La rivelazione piu’ importante fu che Siddharta era un profeta. Cio’ significa (anche se Linus non l’ha detto) che Siddharta, il Buddha, e’ nel novero dei profeti che (secondo i musulmani) finisce con Maometto. Significa anche che questa figura indiano-giavanese e’ collegata alle due religioni rivelate in concorrenza in Indonesia.

Ecco cio’ che disse Siddharta attraverso la mano di Landung: Dopo avere trascorso cinquantaquattro anni a meditare in un laghetto, una voce mi raggiunse all’improvviso: ‘Guarda verso la stella luminosa in cielo’. In quel cielo vidi un uomo vestito di un azzurro brillante, che portava un secchio, e dentro il secchio c’era un bambino, e l’uomo vestito di azzurro brillante si presento’ come Adamo e il bambino si presento’ come Geso . Poi vidi una scritta nel cielo: “Questo e’ l’uomo che vi ho promesso” . Siddharta disse a Landung: Non so chi mi abbia indicato di guardare il cielo . Sentendo queste parole, Linus disse a Siddharta attraverso la donna che traduceva: E’ san Giovanni Battiste’. E Siddharta rispose: Mi sono domandato a lungo chi fosse quella persona. Solo oggi ne scopro il nome . cosi’ Linus comincio’ a sentirsi in contatto con Siddharta.

Quando e’ incominciato il gruppo mistico? chiesi a Linus.

E’ successo spontaneamente, agli inizi degli anni Novante’.

Eravamo seduti al tavolo con la tovaglia di plastica verde, vicino al paravento e alle mensole a muro con i soprammobili e le immagini. Vedevo di scorcio la buia stanza interna. Da un pezzo la sorella di Linus aveva lasciato la sedia di fronte al televisore. A un certo punto e’ apparsa la madre di Linus, piccola, i suoi passi quasi non facevano rumore. Era tornata dal funerale al villaggio e si era messa i vestiti di casa, che forse erano anche i suoi vestiti da lavoro. piu’ tardi, calato il sole, sarebbe andata a piantare le piantine di riso. Per il momento sedeva sulla sedia di fronte al televisore, a volume molto basso, la luce azzurrina che le tremava sul volto; guardava una telenovela prodotta nell’America Latina, lentissima, con i colori accesi, innaturali. Linus mi ha detto che la segue regolarmente; era strano pensare che quell’infima forma commerciale, tanto legata alle aspirazioni particolari dell’America Latina, potesse saltare un emisfero, saltare le culture e parlare direttamente a questa donna anziana addolorata nel suo chiuso mondo giavanese.

Quando suo marito, il capo del villaggio, era in vita, la loro casa dall’ampia facciata sulla strada era una delle sei case piu’ importanti del villaggio. Ora, senza di lui che ne era stato la luce e il centro, con il basso divano consunto sul pavimento di cemento, la bagassa del soffitto che si scuriva e - in un angolo, sulla parete - i ricordi che Linus aveva riportato da un festival dello spettacolo indonesiano tenutosi a Londra cinque anni prima, era come se la polvere si fosse metaforicamente posata sulle persone e sulle cose.

Ma la casa aveva anche un tesoro. Linus teneva in camera sua una collezione di kriss, i pugnali locali a forma di serpente, fatti di lamine sovrapposte di vari metalli. Questi kriss, oggetti personali dei singoli proprietari, hanno un’importanza spirituale, ha detto Linus. Il manico e l’elsa, la lama e la guaina hanno un chiaro simbolismo sessuale: lo spirito proviene dagli emblemi “lingam” e “yoni” dell’induismo giavanese. Linus possedeva una sessantina di kriss che collezionava dal 1982 (l’anno prima della morte di sua sorella, la sorella sulla cui perdita aveva scritto di getto poesie nell’arco di sei settimane nel 1987). La maggior parte dei kriss risaliva al tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo secolo. Alcuni, mi ha detto, risalivano addirittura al sesto e settimo secolo. Mi pareva di aver capito male, ma lui ha confermato che si trattava di prima del Mille.

I kriss si trovavano in camera sua e siamo andati a vederli mentre sua madre (inconsapevole drago alla guardia del tesoro mistico), finito di guardare la telenovela, andava al lavoro nei campi. La camera era in penombra, l’oscurita’ era parte della riservatezza discreta delle stanze sul retro della casa. I kriss si trovavano in un vecchio armadio scuro. Quelli provvisti di fodero erano appoggiati verticalmente nell’angolo dell’alto scompartimento, quelli nudi erano riposti orizzontalmente su un ripiano alto. Sono oggetti terrificanti: la lama e’ seghettata e affilata, sono visibili, strato su strato, i diversi metalli che la compongono; alcune lame apparivano arrugginite. Facevano pensare alla sorella disabile di Linus, che probabilmente stava riposando nella sua stanza buia, e alle sue furiose crisi che duravano tre giorni.

Mi e’ venuto da pensare che nel corso degli anni Linus doveva aver speso una bella somma per quei kriss, ma quando gliel’ho chiesto, non mi ha risposto. Mi ha detto che in questa come in altre faccende spirituali seguiva la guida di un saggio di sessantacinque anni, anch’egli giavanista-cristiano, che abitava in un villaggio vicino. I kriss emettono vibrazioni di energia, per questo motivo si poteva essere condotti a loro dallo studio del pendolo . Anche in sogno apprendeva cose sui kriss.

Vedendo che non capivo, aggiunse: Tutti gli animali hanno un potere magico, e quando muore uno che ne ha una carica intensa, il suo potere non si estingue ma esce dal corpo e va nel cielo .

Nel cielo, dove? .

Non so a che livello del cielo. E quando il fabbricante di kriss fa un kriss, digiuna e prega, e la benedizione del potere magico dell’animale cala sul processo di fabbricazione .

Linus, sempre con l’aiuto del suo consigliere, aveva anche una collezione di pietre magiche. Queste pietre si possono trovare dovunque; ne aveva trovata una persino negli Stati Uniti. Da quanto ho capito, nella composizione dei colori di una pietra si puo’ vedere l’anima o il potere magico degli animali.

Ha detto, con un risolino: A volte ci si vede una bella donne’.

 

Gli edifici del villaggio erano stretti l’uno all’altro. La casa dei vicini premeva su un lato del giardino di Linus, appena piu’ in la’ dello stagno malandato e dell’aiuola di fiori. Fra il giardino e il piccolo appezzamento di alberi di “salak” che apparteneva alla famiglia di Linus c’erano due gruppi di vicini. Una famiglia di mezzadri, una vedova e due dei suoi cinque figli, abitava in una povera capanna messa insieme in apparenza con vecchi pezzi di scarto. piu’ in la’ c’era una famiglia di contadini meno disgraziata, con una casa tradizionale anche se usurata dal tempo, una cucina e una lavanderia staccate sul retro, e un’aia propria. I polli, neri, alti e slanciati, i polli di Giava, razzolavano nella polvere. In fondo all’aia ombrosa, dentro un recinto, due giovenchi bianchi si riposavano dopo una giornata di fatica, la pelle cadente sulle ossa, stranamente fragili e minuscoli per il lavoro di aratura del profondo fango vulcanico nelle risaie. I giovenchi puzzano, ha detto Linus, ma non come i bufali. E non molto distante, nell’angolo di un cortile protetto da un giovane canneto di bambo , scorgemmo due bufali neri, con il manto reso opaco dalla polvere e dalla fanghiglia, con la cavezza legata a pali grossi e alti, che si riposavano su uno strato di erba secca.

La strada principale del villaggio era un vicolo stretto e tortuoso, che mostrava qui i segni di una ramazza, la’ delle chiazze d’acqua: tutti devono pulire il settore di fronte alla propria casa e ciascuno lo fa a modo suo. C’erano lotti costruiti e lotti a frutteto o a giardino. Questi ultimi non erano grandi e a volte erano circondati da muretti eretti con blocchi di lava tagliati e incastrati con grande eleganza. La lava, come il bambo , e’ un materiale locale; la gente sa come lavorarla. Il villaggio era pieno d’ombra, non c’era il senso dello spazio aperto. Nessuno vuole lo spazio aperto in un villaggio.

Con la terra vulcanica e il caldo umido tutto cresce in fretta, qui come nelle risaie aperte. Non e’ possibile dimenticare la lava del monte Merapi: l’ossessione di Linus per i mondi sepolti sottoterra e’ comprensibile. Il frutto chiamato “salak”, tipico della regione, e’ uno dei doni del Merapi. Cartelli dipinti a mano sulla strada principale reclamizzavano il “Salak Pondoh”. Il piccolo frutteto della famiglia di Linus era di giovani alberi di “salak”, che sono simili a palme ma con i tronchi spinosi e con un intrico di ragnatele fra le spine. Un’altra famiglia aveva un frutteto di alberi di “salak” maturi protetto da un vecchio muretto di blocchi di lava reso piu’ alto con fil di ferro e bagassa. Dove lo spazio e’ tanto scarso, dove i vicini (e gli estranei) esercitano una pressione tanto forte, i frutti della terra diventano preziosi.

Ma non era piu’ un villaggio puramente agricolo. Le cinque case principali appartenevano a persone che avevano un altro lavoro, lavori di citta’ e a volte lavori insoliti. L’uomo che abitava dalla parte opposta della strada, zio di Linus per parte di una sua bisnonna (forse la seconda moglie che era stata indirettamente responsabile della poverta’ della madre di Linus), era un funzionario statale di terzo grado. Un altro aveva compilato un dizionario di indonesiano; un altro zio di Linus, scultore, produceva una statuaria ufficiale; poi c’era una zia che, secondo Linus, era una giavanista mistica con un grande seguito e che ogni tanto andava a stare in citta’ ; infine l’insegnante in pensione di una scuola superiore musulmana che aveva fatto il pellegrinaggio alla Mecca. Un operaio abitava in una casa molto carina, ben dipinta, con alberi bonsai e altre piante di fuori, senza recinzione; ma Linus ha detto che e’ solo per mettersi in mostre’, intendendo con cio’ che l’uomo non era ricco come gli altri. E c’era anche un altro parente di Linus che abitava accanto al semplice edificio di legno che era la cappella cristiana; insegnava educazione fisica a Yogya e faceva avanti e indietro tutti i giorni.

Il villaggio era cambiato ed erano cambiate anche le fortune della famiglia di Linus. Ma i vecchi doveri del villaggio, le vecchie alleanze, andavano onorati e questo contribuiva ad aggravare la poverta’ della madre di Linus.

La vicina mezzadra era vedova e poverissima. Aveva cinque figli. Due lavoravano come domestici a Giacarta; il piu’ piccolo e il piu’ grande stavano con lei e facevano i braccianti nelle risaie e altrove. Il quinto figlio era muratore.

Il muratore e’ venuto tre mesi fa a chiedere se poteva comprare da noi un piccolo pezzo di terra per costruirsi una casette’ disse Linus. La capanna di “kampung” piccola e affollata dove abita la famiglia era sulla proprieta’ dello scultore. Il muratore ha detto: ‘Se non ci date la terra, dove andremo?’. Allora mia madre ci ha rammentato che, quando mio padre era bambino, di lui aveva avuto cura una donna, la nonna di questa famiglia. ‘Quindi dobbiamo ricordare questa storia di tuo padre’. E allora venderemo la terra, cento metri quadrati. Abbiamo mille metri quadrati di giardino. Il rapporto con i nostri vicini e piu’ umano. Abbiamo un accordo scritto, che e’ una novita’ Perche’ finora tutti gli accordi erano oralo’ .

Possedevano tre appezzamenti di terreno coltivati a. riso, mezzo ettaro in tutto. Probabilmente il lavoro era cooperativo. Questo spiegava i piccoli campi pieni di gente indaffarata dall’altra parte della strada principale, lontano dalla strada sterrata, dietro le belle case e le bandiere e le decorazioni per le celebrazioni dell’anniversario dell’indipendenza, l’RI50. Non appena l’automobile si avvio’ lungo la strada, riconobbi il terreno che avevo visto nel 1979 con Linus e Umar Kayam; era l’immagine che avevo portato con me del villaggio di Linus e che nel corso degli anni era diventata la visione pastorale di una civilta’ completa. Nel 1979 l’avevo visto in una mattina di dicembre. Ora, in agosto, a pomeriggio inoltrato, era piu’ polveroso e aspro, era la Giava dei cappelli di paglia, dei molti uomini al lavoro, della fertilita’ che divora se stessa.

Linus mi disse che un bracciante riceveva in pagamento un chilo ogni otto chili mietuti; se il bracciante faceva parte della famiglia, pero’ , riceveva meta’ di quello che raccoglieva. E questo villaggio era pieno di parenti di Linus.

E poi c’erano altri doveri. Quando c’e’ un matrimonio nel villaggio dobbiamo fare un regalo di diecimila rupie - poco meno di cinque dollari. E l’usanza della gente del villaggio. Dopo la morte di mio padre, chiaramente, non riceviamo molti inviti, ma ancora ne arriva qualcuno. Per un quintale di riso ci danno quarantacinquemila rupie. La nostra terra rende da venti a venticinque quintalo’ - vale a dire al massimo cinquecento dollari.

piu’ tardi Linus mi disse, spontaneamente e come se fosse una cosa alla quale doveva pensare: Potrei diventare agricoltore, se lo volessi, ma credo che mi sarebbe difficile dedicare tutte le mie energie alla risaie’.

E troppe cose erano cambiate. La vita del villaggio era cambiata. Non c’erano piu’ la musica e il teatro d’ombre per tutta la notte con i personaggi noti e le storie. Persino il riso era diverso. Il vecchio riso tradizionale era pieno d’aroma e di sapore, - fa il gesto di portare le dita alle narici - il nuovo riso filippino… se lo cuoci la mattina, la sera e’ immangiabile .

Da qualche parte in quei campi sua madre lavorava; da qualche parte in quella casa la sorella disabile trascinava la sua esistenza.

Abbiamo iniziato il viaggio di ritorno a Yogya.

Il villaggio e’ in criso’ ha detto Linus. Anche qui stiamo assistendo al processo di urbanizzazione. Gia’ dividono i campi di riso tra i figli e i campi diventano piccolissimi. Molti giavanesi giovani non hanno un campo di riso. Cercano lavoro in citta’ . Quella di mia madre e’ l’ultima generazione che vive e lavora nel villaggio. Chi della generazione piu’ giovane resta nel villaggio a lavorare nelle risaie e’ senza istruzione. Chi ha ricevuto un’educazione fa il pendolare: lavora in citta’ e abita nel villaggio . E il lavoro in risaia adesso e’ diventato una tortura Perche’ il ciclo si e’ accelerato troppo. Al vecchio riso occorrevano quattro mesi e mezzo per maturare. Il nuovo riso matura in tre mesi.

Adesso al tramonto il contadino e’ stanco e vuole solo guardare la televisione. Nel villaggio non ci sono piu’ abbastanza strumenti per il “gamelan”. Non ci sono i soldi per comprarli. Tutti i soldi vanno per istruire i figli e curarso’ .

 

Quella sera tardi mi telefono’ in albergo. Glielo avevo chiesto io, cosi’ potevamo fare un’altra chiacchierata prima del mio ritorno a Giacarta.

Mi disse che aveva dimenticato di dirmi una cosa. Non molto tempo addietro aveva ricevuto un importante messaggio da Siddharta. Era uno di quei messaggi scritti sulla mano - toc toc toc - del suo amico Landung e poi letti dall’amica del circolo mistico. Siddharta aveva detto che la vita sulla terra e’ solo un processo. Il vero processo, la vita vera, inizia dopo la morte. Processo , Linus non poteva fare di meglio; e’ difficile tradurre la parola usata da Siddharta. Compresi che la parola doveva essere in giavanese, come quelle che Linus usa in poesia e per le quali e’ famoso, parole che circoscrivono e limitano la sua fama, ma che lui usa per precisione e carica emotiva.

Al ritorno a Giacarta trovai una lettera che Linus mi aveva scritto due settimane prima e che non avevo ricevuto. Se non l’avessi incontrato, non avrei capito quella lettera (anche a causa della lingua). Trattava delle tensioni nelle quali vive, e anche del suo maestro spirituale, un uomo di sessantacinque anni che abita in un villaggio vicino, un mistico giavanista-cattolico-riformista. Cio’ che mi aveva raccontato assumeva un altro aspetto.

Il suo sogno di Siddharta e della morte mi tormento’ tutta la notte. La mattina mi svegliai con una conoscenza netta, come se riguardasse me, del dolore che accompagnava la vita di Linus, dolore di famiglia, dolore di scrittore, dolore per tutte le cose di Giava e del villaggio che vedeva sparire. Allo stesso tempo capii che, diversamente da Mariman Darto, il giovane musulmano che aveva trovato nel CIDES una specie di sostegno, per quanto illusorio, esterno al villaggio, Linus non avrebbe potuto vivere in nessun posto che non fosse il suo villaggio e la sua casa. Soltanto li’ poteva trovare tutte le cose e i rapporti che davano sapore e senso alla sua vita.