Parte seconda.

IRAN.

LA GIUSTIZIA DI ALI’.



1.

LA FONDAZIONE DEGLI OPPRESSI.

 

A Giacarta, la nuova ricchezza poteva in certi casi risultare opprimente. Trasformava troppo in fretta le vite e il paesaggio, o almeno questa era l’impressione che dava; il passato era ancora troppo vicino. Nella caotica citta’ sorta da questo benessere, i ricchi, soprattutto i cinesi, aspettavano il fine settimana per fuggire in cerca di riposo, aria fresca, ordine e pulizia. Si rifugiavano con la famiglia e la servito nei nuovi alberghi a cinque stelle: ormai erano questi i santuari del fine settimana. Nel 1979, qualche cinese di Giacarta sfruttava gia’ gli alberghi allo stesso modo, ma per lo piu’ durante le festivita’ importanti. Adesso, con la nuova ricchezza, ogni fine settimana era festivo; e la domenica mattina i ricchi, cinesi e non, appartenenti alle Famiglie Affermate di Bethany, una delle nuove sette evangeliche americane, si riunivano nella sala piu’ grande del Borobudur Hotel a cantare inni e battere le mani, pregando che la fortuna non li abbandonasse. Non poteva sembrare altro che fortuna quella ricchezza che baciava anche gli ignoranti, Perche’ la tecnologia e le industrie che la producevano erano state importate in blocco. E per la stessa ragione pareva un saccheggio, qualcosa che prima o poi sarebbe finito. In uno Stato autoritario, dove la fortuna e le licenze andavano solo a chi obbediva, l’idea dello sviluppo - tecnologie’ compresa - era associata a quella del saccheggio. Anche i ricchi possono provare ansia. cosi’ la domenica mattina si riunivano nell’albergo a cantare inni e battere le mani con trasporto sabbatico; sul retro delle macchine sfoggiavano adesivi, FAMIGLIE AFFERMATE. DI BETHANY, una specie di preghiera fissa per proteggersi dal malocchio.

Pensavo spesso che Giacarta fosse una versione, forse meno elegante, dell’Iran prima della rivoluzione: cosi’ maestosa e imponente che sembrava stonato sbirciare dietro la facciata, o immaginare la grande citta’ crollata o decaduta.

Ma la Teheran che avevo conosciuto nell’agosto del 1979, sei mesi dopo la rivoluzione, somigliava proprio a quella citta’ immaginaria: una moderna metropoli, frutto di ricchezze occulte, la cui vita era stata sospesa per incanto. Le pubblicita’ internazionali si trovavano ancora in giro, ma non sempre i prodotti (e il Kentucky Fried Chicken era stato stizzosamente ribattezzato Our Fried Chicken, con la faccia del colonnello sudista cancellata e ridisegnata); le gru erano immobili su una dozzina di palazzi in costruzione; e ricordo i pessimi pasti nei ristoranti vuoti, lo storione gommoso in salsa bruna nella quasi deserta (ma sempre impeccabile) sala da pranzo dell’albergo chiamato ancora Royal Teheran Hilton, con le sue stoviglie, i suoi menu e conti salati, dove accigliati camerieri in smoking borbottavano e bisbigliavano fra loro, da persone consapevoli che le loro qualita’ e il loro stile non erano piu’ richiesti. Erano segnali di declino, certo; ma fuori c’era l’entusiasmo delle folle immense per le preghiere del venerdi’ all’Universita’ di Teheran (folle cosi’ imponenti che la terra ruggiva come il mare sotto i loro passi e nubi di polvere si alzavano al passaggio), con le celebri prediche in diretta televisiva; e poi c’erano i Guardiani della Rivoluzione, nelle tenute da guerriglia diventate ormai attributo della fede, che scorrazzavano a tutta velocita’ per le strade coi camioncini scoperti proclamando la conquista della citta’ .

Questa volta alloggiavo allo Hyatt, che ormai, pero’ , dello Hyatt conservava ben poco: adesso era il Grand Hotel Azadi (ex Hyatt). “Azadi” significa liberta’ . Tutti gli alberghi a cinque stelle erano stati confiscati dallo Stato, ribattezzati e quindi ceduti alla Fondazione degli Oppressi (il cui nome dileggiava la Fondazione Pahlavi dello scia’ ). Ma per la gente restava lo Hyatt. Si trovava alla periferia della citta’ , nella zona nord di Teheran, sulle montagne.

Il marmo lucido dell’ingresso era rassicurante, e trovavo personale al banco anche alle tre del mattino. Ma il tappeto sporco e chiazzato dell’ascensore era in contrasto stridente con il resto. Le decorazioni dorate sulle porte, parte del fascino originale dello Hyatt, erano consunte o scrostate in diversi punti, rivelando di essere una semplice lamina, come quella delle carte di credito. I portieri dell’hotel indossavano tutti una camicia senza cravatta; questo era solo uno dei segni della rivoluzione. Il colletto era spiegazzato sotto il risvolto della giacca e, a quell’ora della notte, somigliava a una specie di sudicia gorgiera. Molti dei portieri avevano la barba; un tratto islamico. Altri erano rasati ma sporchi, e questa era una forma di rivalsa sociale: i due volti della rivoluzione, quello religioso e quello politico, fianco a fianco. E quando piu’ tardi ridiscesi per chiedere una cassetta di sicurezza, i portieri erano sprofondati con espressione cupa nelle poltrone rivestite dell’atrio, impassibili e incuranti della mia presenza, come un piccolo conclave di quegli oppressi in nome dei quali erano stati requisiti gli alberghi come lo Hyatt.

piu’ tardi, con la luce del giorno, mi rincuorai un po’. Un cameriere mi porto’ del caffe’; poi due donne vennero a rassettare la stanza. Le loro vesti fino alle caviglie, di un colore bluastro (forse per coprire lo sporco), e i copricapi simili a cappucci neri le facevano sembrare frati. Ma erano cordiali; conoscevano perfino qualche parola d’inglese. Per questo ero del tutto impreparato all’uomo che mi servi’ l’omelette per pranzo: scontroso dal principio alla fine, lampi d’odio negli occhi e nemmeno una parola. Residui della rabbia rivoluzionaria, pensai; e quando, nel pomeriggio, scesi nell’atrio, vidi qualcosa che mi era sfuggito nel torpore dell’arrivo al mattino: un grande cartello sopra l’ingresso che proclamava ABBASSO GLI STATI UNITI. Si trovava li’ (e in ogni altro albergo a cinque stelle) dalla rivoluzione.

Sotto il cartello, alcune persone consumavano te’, caffe’ e dolci; gente della media borghesia, fra cui molte donne. Al mezzanino doveva essere in corso una festa per bambini: giovani donne dal portamento e dalle scarpe eleganti (eleganza che traspariva nonostante le lunghe vesti e i copricapi neri) salivano la scalinata a chiocciola con bambine in abiti variopinti; indizi di una societa’ piu’ aperta di quanto ci si sarebbe attesi dall’annuncio, all’arrivo dell’aereo della Lufthansa, che le donne dovevano tenere il capo coperto.

Ma l’uomo a cui lo raccontai - venuto ad accompagnarmi a una rappresentazione dell‘“Assemblea degli uccelli”, ritmi e danze sufi, nel teatro all’aperto sotto gli alberi di “chenar” nel giardino in stile Versailles del palazzo dello scia’ - mi rispose che la vera borghesia iraniana, la classe che aveva impiegato un secolo e ricchezze incalcolabili per formarsi, era stata distrutta o dispersa. Quello che avevo visto nell’atrio dello Hyatt era lo squallido avvio di una borghesia nuova.

 

Le cose andavano avanti. Il traffico era come lo ricordavo, una prova di forza a ogni incrocio, qualcuna vinta, qualcuna persa, ma in ogni caso le macchine ne uscivano ammaccate. Ogni giorno i gas di scarico formavano un banco impenetrabile, che si vedeva dalle montagne dei quartieri nord di Teheran; e dal centro copriva le montagne.

La libreria dello Hyatt aveva un’ottima scelta di volumi inglesi classici e recenti, vecchie edizioni economiche, giacenze prerivoluzionarie chissa’ come rimaste li’ . I titoli ambigui erano stati censurati, a volte con incredibile minuzia: una ragazzina di colore, seduta fuori della sua casupola in una foto sgranata per un’edizione scolastica di “Ragazzo nero”, si era vista coprire gli stinchi con un pennarello.

Accanto al caffe’ c’era il poster incorniciato di una donna col capo coperto. Mehrdad, lo studente universitario che mi faceva da guida e interprete, mi lesse la scritta: Questa e’ l’immagine di una donna innocente . Il manifesto si trovava in diversi luoghi pubblici di Teheran.

E poi c’era la guerra, la guerra durata otto anni contro l’Iraq; un argomento inevitabile. Era vicina, ma allo stesso tempo quasi mitica, come se si fosse combattuta un secolo prima. Mehrdad, quando ne accenno’ la prima volta, uso’ una strana espressione: Era una guerra gia’ perse’ disse. Quando gli chiesi cosa significasse per lui, mi rispose: Niente . Non era cio’ che intendeva, ma era il suo modo di esprimere un dolore quasi inesprimibile.

La sorella di Mehrdad aveva poco piu’ di trent’anni. Era istruita e di aspetto nient’affatto spiacevole, ma non aveva trovato marito: a causa della guerra c’era penuria di uomini. Era impiegata in una casa editrice e, almeno in questo, era fortunata: poche giovani avevano la possibilita’ di uscire di casa; non era semplice per una donna nubile avere una vita sociale, o anche solo muoversi, nell’Iran rivoluzionario. Quando la sorella di Mehrdad lasciava l’ufficio, tornava dritta a casa e ci rimaneva. Passava gran parte del tempo in camera sua. Aveva sbalzi di umore, diceva Mehrdad; era diventata pesante, irascibile e spesso piangeva; la madre non sapeva piu’ che fare.

Prima della rivoluzione il padre di Mehrdad era un impiegato di banca. Poi le banche erano state nazionalizzate e lui aveva perso il lavoro. Era riuscito ad aprire una piccola merceria e cosi’ manteneva la famiglia. Mehrdad - tornando con la mente a un tempo lontano, quando aveva otto anni: molti giovani altro che la rivoluzione non conoscevano - ricordava che al principio il grido era stato quello comunista: Nun, Kar, Azado’ , Pane, Lavoro, Liberta’ . Entro un anno si era trasformato in Pane, Lavoro e Repubblica Islamice’.

Ormai si imponevano regole religiose per ogni aspetto della vita pubblica, e c’erano i Guardiani della Rivoluzione in tenuta verde a farle rispettare: la barba e l’uniforme da guerriglia erano adesso simboli di autorita’ , non piu’ di ribellione giovanile. Un pomeriggio, Mehrdad mi condusse in un parco non lontano dallo Hyatt. Giovanotti e signorine ci andavano per guardarsi; e anche i Guardiani lo frequentavano, per coglierli sul fatto. Le ragazze, in piccoli gruppi, indossavano vesti e chador neri. Saltavano agli occhi: il nero ormai, in questo parco, era il particolare colore della sessualita’ femminile e lanciava richiami anche da lontano. Mehrdad, pensando senza dubbio alla sorella murata in casa, osservo’ che le ragazze, alcune gia’ donne, erano piu’ avanti negli anni del dovuto, Perche’ dopo la guerra gli uomini scarseggiavano.

Su entrambi i lati di un’ampia scalinata del parco c’erano dei busti, sorprendentemente realistici, dei grandi uomini dell’Iran islamico: la rivoluzione ha prodotto qui, in un parco del popolo, una specie di arte sovietica.

Proprio come, nelle vecchie nazioni comuniste, le notizie dei giornali allineati riguardavano in gran parte le altre nazioni comuniste, cosi’ quelle del Tehran Times , in lingua inglese, si concentravano sul mondo islamico. Per il resto, cronaca locale: il processo a tre terroristi dell’organizzazione di “mujaeddin” Khalq; la carenza di pezzi di ricambio nell’industria petrolifera a causa dell’embargo commerciale americano; la svalutazione della moneta.

C’era la censura, naturalmente; lo sapevano tutti. E si accaniva in particolar modo contro i libri. Ogni testo doveva essere sottoposto ai censori e non dattiloscritto, bensi’ nella sua forma definitiva, e dopo che era stata stampata l’intera tiratura. Si stimolava cosi’ un’intensa e scrupolosa autocensura. Ma per quanto si volesse andare sul sicuro, non si poteva mai sapere. La musica andava bene? C’erano opinioni discordanti. E gli scacchi andavano bene, o erano una forma di gioco d’azzardo? Dopo molte discussioni e incertezze, l’imam Khomeini aveva detto che andavano bene; e quella era diventata la legge.

Gli ascensori con le dorature scrostate non erano mai stati in buone condizioni. Ogni tanto si rompevano e, a volte, dopo che erano stati riparati, i loro striduli viaggi verso l’alto e il basso si facevano convulsi. L’aria condizionata nella mia camera smise di funzionare. “Kharab”, sentenziarono al pianterreno. Va male . Tutto qua. Ero pronto a sopportare pazientemente, ma quando Mehrdad lo seppe mi fece assegnare una camera sul retro, al riparo dal sole pomeridiano, con una vista sulle montagne del Nord.

Il tempio di Khomeini e la sua appendice, il Cimitero dei martiri (martiri della guerra con l’Iraq), sorgevano nel deserto a sud di Teheran, lungo la strada per la citta’ santa di Qom. Sia Mehrdad sia l’autista consigliavano di evitare il caldo diurno, cosi’ lasciammo Teheran prima dell’alba.

All’improvviso dalle tenebre, nella piatta distanza del deserto, apparve un’ampia, bassa distesa di luci: le luci azzurre e dorate del tempio e quelle del segmento di superstrada che vi conduceva. Poi lentamente, come un miraggio che pian piano svanisce, i contorni cominciarono a prender forma attraverso le luci e contro il cielo premattutino: l’altissima cupola, di un curioso color bronzo, e i quattro minareti simili alle torri delle telecomunicazioni, ciascuno cinto da una ghirlanda di luci dorate e sormontato da una guglia con il simbolo di Allah e sopra ancora da una luce azzurra, come se i costruttori avessero voluto (al pari di quelli dell’Albert Memorial a Londra) andare su, sempre piu’ su.

Il parcheggio era molto grande e pieno di furgoni e automobili vecchissimi. Fra le corsie crescevano gli oleandri. La luce del deserto aumentava sempre piu’ in fretta e si scorgeva sempre piu’ gente: intere famiglie addormentate o stese per terra dietro le macchine e i furgoni; gente di campagna con il volto bruciato dal sole, in abiti scuri e biancheria logora, e i pochi averi in fagotti di plastica.

Un cartello recitava pleonasticamente tempio SACRO. E dietro il cartello, confusione totale: una serie di bassi capanni per ricevere le offerte; un capanno per gli oggetti smarriti; uno che distribuiva gratuitamente te’ e zucchero e al tempo stesso invitava con un cartello a fare donazioni di te’, zucchero e tazze. Questi annessi erano semplici, spogli, perfino sciatti, come se la devozione si esaurisse nella cupola e nei quattro minareti coronati di luci; tutto finito in quattro mesi, mi rivelo’ Mehrdad: tanto forte era il bisogno di innalzare un tempio all’imam.

Nella terra piatta sotto il cielo alto la gente sembrava minuscola. Lo sembrava anche nel mausoleo. I piedi nudi non facevano quasi rumore. I fedeli guardavano attraverso le sbarre la tomba dell’imam e in quel gesto erano contenuti voti e speranze di ogni specie. Questo erano venuti a cercare: cio’ che si trovava fuori era secondario.

Di fronte al mausoleo si apriva un vasto cortile rivestito di cemento, con al centro una piscina per le abluzioni. Le costruzioni in cemento color polvere, ancora incompiute ai lati del cortile, sarebbero divenute ostelli. Si vedeva cemento ovunque, cemento grezzo a coprire il deserto; ma le piattaforme ai lati dell’edificio principale si stavano gia’ sfaldando. Certi lastroni erano spaccati, o consunti fino alla base, per tornare semplice terra verso il bordo esterno, tra pozzanghere e chiazze di ghiaia.

Lo puliscono soltanto per gli anniversaro’ disse Mehrdad.

Nel muro di mattoni che circondava il mausoleo si aprivano delle nicchie, tradizionale rifugio dei pellegrini; alcune erano protette da coperte e lenzuola appese. La brezza mattutina le sollevava, scoprendo le famiglie nelle nicchie con i loro giacigli, coltri e beni. Gli altri, privi dell’intimita’ delle coperte, erano gia’ in piedi. Molti erano gente di campagna, dall’aspetto misero. Alcuni recitavano le preghiere. I chador delle donne vestite di nero ondeggiavano nella brezza, facendole apparire piu’ alte. Visti da vicino, molti erano esili e magri, alcuni denutriti. Venivano da lontano: miseria di villaggi mai sfiorati da alcun concetto di riforma.

Sui bidoni color arancio era stampigliato SPAZZATURA in iraniano. Sparsi per il cortile principale, simili a cassette postali, bizzarri contenitori gialli e azzurri per le elemosine. Le scatole recavano scritto, nella traduzione di Mehrdad: L’ELEMOSINA TI RENDE PIU’ RICCO. Su due lati stavano mani stilizzate, una in atto di ricevere o trattenere, l’altra di dare. Le mani erano colorate di giallo e su quella che dava era stampigliata una scritta in rosso: COMINCIA IL TUO GIORNO CON UN DONO, CON UN’ELEMOSINA. La parte frontale, con la fessura per la raccolta, era in azzurro e il messaggio era: FARE ELEMOSINA TI PROTEGGE DA SETTANTA SPECIE DI MALI. Il tutto poggiava su una colonnina gialla alta circa un metro. I lastroni erano stati bucati per sistemare la colonnina e poi stuccati; cosi’ le cassette per le elemosine sembravano una dimenticanza del progettista.

Le offerte nelle cassette erano per il Komiteh d’Assistenza dell’imam Khomeini; questo “komiteh”, o comitato rivoluzionario, era stato istituito il primo anno della rivoluzione. A Teheran circolava una barzelletta su quelle cassette per le elemosine, diceva Mehrdad. Un contadino turco (turco-iraniano: questa comunita’ e’ spesso oggetto di barzellette) va a fare la sua offerta e, subito dopo, e’ investito da un pullman di pellegrini.

Nella piu’ ggia di monetine ha pensato che gli fosse piu’ mbata addosso una cabina telefonice’ spiego’ Mehrdad.

Nel cortile c’erano anche cassette per chi aveva qualche suggerimento da inoltrare, anomale in un tempio , ma forse anch’esse poste dal “komiteh”; alla loro origine poteva esserci la semplice idea che ogni luogo pubblico dovesse avere delle cassette per i suggerimenti. Somigliavano a piccole uccelliere; come per le cassette delle elemosine, le colonnine erano state infilate nel cemento e i buchi ricoperti alla meno peggio; cosi’ anche queste sembravano una dimenticanza.

Il sole cominciava ad alzarsi; era ora di recarsi al Cimitero dei martiri. Le lampade metalliche a tre bracci ai lati dell’ingresso del cortile erano gia’ malconce. Entrando non le avevo notate. Il coperchio a forma di cupola, simile a un alto copricapo ecclesiastico, era di alluminio. Anche i piedistalli erano danneggiati.

Era stato tirato su tutto molto in fretta, come aveva detto Mehrdad. Forse i primi templi erano nati proprio cosi’ , per soddisfare un bisogno immediato, per assorbire grandi emozioni o dolori pubblici. Forse questo tempio o i suoi annessi sarebbero stati ricostruiti fintanto che fosse durato il bisogno. E per la maggior parte della gente che vedevo qui il bisogno non sarebbe mai finito; il mondo sarebbe rimasto sempre fuori dal loro controllo.

Sul cemento, fra gli oleandri e accanto alle macchine e ai furgoni parcheggiati, intere famiglie sedevano composte intorno a tovaglie imbandite con il pane piatto e il formaggio bianco che avevano portato. Qualcuno aveva il samovar.

 

Nel 1979 c’erano poster e graffiti rivoluzionari ovunque. L’arte grafica della rivoluzione era al culmine, come le passioni. Di tutto cio’ non era rimasto nulla, ormai; c’erano invece i cartelli e i moniti dell’autorita’ . NON CREDIATE CHE COLORO CHE SONO CADUTI PER LA CAUSA DI ALLAH SIANO MORTI. SONO VIVI; A LORO PROVVEDE ALLAH: il cartello era in inglese a sinistra dell’insegna, sopra il cancello principale del Cimitero dei martiri.

Il viale d’ingresso era ampio e ben tenuto, sorvegliato da guardie in alta uniforme; portava ad altri grandi viali fra giovani pini e olmi. Le tombe erano sotto gli alberi, fra i cespugli. Uno accanto all’altro, su due pali, poggiavano dei portafotografie di varie dimensioni. Su ognuno c’era una teca di vetro con foto del defunto; e queste foto erano inquietanti, Perche’ i morti erano tutti uomini giovani, non diversi da quelli che si vedevano per la strada. I Guardiani della Rivoluzione che scorrazzavano armati per Teheran nel 1979, al solo scopo di mettersi in mostra, mi erano sembrati un po’ teatrali. E forse lo saranno stati, ma erano anche pronti a morire come dicevano; ed erano morti a decine di migliaia, in guerra.

Il martire piu’ famoso del conflitto aveva tredici anni: si era legato addosso una bomba e si era gettato sotto un carro armato nemico. Khomeini aveva parlato del suo sacrificio in un discorso. Un piccolo cartello scritto a mano in modo molto decorativo, quasi celebrativo - testo nero bordato di rosso -, era inchiodato a un pino per indicare la sua tomba.

Anche il fratello del giovane martire era morto al fronte e li avevano seppelliti insieme. La targa sulla loro lapide portava lo stemma dei Guardiani della Rivoluzione: un fucile stilizzato. Nella parte centrale della teca di vetro stavano le foto dei due fratelli, con fiori artificiali su sfondo di pizzo da entrambi i lati. Sotto c’erano uno specchio e ancora pizzo e altri fiori artificiali. Mehrdad mi spiego’ che lo specchio e i pizzi erano i doni tradizionali dello sposo. Anche il famoso tributo di Khomeini, nel suo altrettanto famoso stile letterario, era trascritto in bianco, o argento, su fondo nero: Non sono io la guida. La guida e’ quel ragazzo tredicenne che, col suo piccolo cuore piu’ degno di cento penne [nel senso che la sua fede aveva piu’ valore di qualsiasi scritto], si e’ gettato con una bomba sotto il carro e l’ha distrutto; ha bevuto alla coppa dei martiri ed e’ morto . Questo era accaduto nel secondo mese di guerra: allora nessuno immaginava che sarebbe durata otto anni.

Le lapidi spoglie, facilmente riconoscibili, erano state donate dal governo. Le famiglie avevano pagato per quelle ornate. La piu’ ricorrente era semplicissima; portava scritto, in elegante calligrafia persiana: Martire ignoto .

Mehrdad mi disse: Ce ne sono a migliaia, qui. Le famiglie che non sanno dove sia il figlio, vengono a pregare su una di queste tombe .

Sotto i pini e gli olmi era tutto accalcato: le file di lapidi e di portafotografie, i cespugli stentati che crescevano nella sabbia, e le bandiere, strette fra alberi e cespugli, e incapaci di sventolare, quasi facessero parte della vegetazione. Mehrdad osservo’ , mentre avanzavamo con cautela: Ci sono bandiere dappertutto. Le bandiere dell’Iran . Intendeva le bandiere della Repubblica Islamica: verdi, bianche e rosse, con al centro del bianco l’emblema di Allah e, sotto, un versetto del Corano con un motivo simile a una greca. Disse, indicandone una, poi un’altra: Perdono colore. Perdono significato .

Mehrdad aveva fatto il servizio militare nell’esercito; e quella che nelle sue parole sembrava ironia, era una forma di dolore. L’esercito e le bandiere contavano molto per lui; e quelle bandiere, sempre immobili, mai esposte a un soffio di vento, piantate dalle famiglie dei martiri, erano ricoperte dalla polvere del deserto.

Fra i cespugli crescevano oleandri rosa, come fra le corsie del parcheggio nel tempio di Khomeini. La folla era li’ , al tempio . Qui la presenza era minima. I pochi presenti erano per lo piu’ inservienti del cimitero. Il pubblico, a detta di Mehrdad, veniva solo in giorni speciali.

La polvere del deserto, sollevata dalle automobili o dai furgoni delle pulizie, aveva rovinato i portafoto ai margini dei viali. Alcuni erano vuoti; in certi casi, le fotografie erano andate in pezzi nella teca. Una volta sarebbe sembrato impossibile, diceva Mehrdad, ma nessuno veniva piu’ a trovarli. Forse gli stessi familiari erano morti. Le tombe non durano piu’ del dolore.

Dietro un angolo, sopra le lapidi e i portafoto trascurati, spiccava un cartello che sembrava ancora nuovo, con un detto di Khomeini: I MARTIRI CHE GUARDANO VERSO ALLAH - NON PENSANO AD ALTRO. VEDONO ALLAH. SONO CONCENTRATI SU ALLAH.

Andammo alla fontana di sangue. Un tempo era famosa: quando l’avevano costruita, all’inizio della guerra, gettava acqua tinta di rosso e doveva stimolare pensieri sanguinari, sacrificio e redenzione. Ora non zampillava piu’ , la vasca era vuota. Troppo sangue vero era stato versato.