5.

IL CARCERE.

 

Paydar, cresciuto nella miseria dell’arido Nord-Ovest, si era votato alle istanze rivoluzionarie fin dalla piu’ tenera eta’ . Lo angosciava vedere ogni giorno e ogni notte la sofferenza e gli stenti della madre vedova. Per guadagnarsi da vivere, la donna rammendava vestiti e confezionava calze; e spesso restava seduta alla macchina per cucire fino alle due del mattino.

Una volta cresciuto, Paydar si iscrisse al partito comunista Tudeh, che si prefiggeva di raggiungere il potere cavalcando il movimento religioso. Nei primi giorni della rivoluzione la sua politica consisteva nell’adottare una facciata islamica. E non era una cosa difficile: i temi della giustizia, del castigo e della depravazione dei potenti erano condivisi da entrambe le ideologie. Ma il partito Tudeh fine’ con l’autodistruggersi. Diede un apparato di stampo sovietico alla rivoluzione islamica e alla fine venne annientato proprio da quell’apparato.

Nel 1980-1981, rinchiuso nel capannone-carcere di provincia, Ali’ aveva assistito all’inizio della fine della sinistra. Anche se nella sezione politica del penitenziario i comunisti infuriati minacciavano ancora di impiccarlo davanti alla sua casa quando fossero giunti al potere, il loro tempo in Iran era ormai scaduto. Due anni dopo, nel 1983, il partito Tudeh venne dichiarato ufficialmente fuorilegge dal governo. E dopo altri due anni, Paydar, che come tutti i membri superstiti del partito viveva da latitante, venne catturato e tradotto in una prigione fuori Teheran.

A quel tempo Paydar ignorava in quale parte del paese si trovasse il suo carcere; neppure ora lo sapeva. Per due mesi (secondo i suoi calcoli) lo avevano tenuto in una specie di buca, senza finestre, senza un briciolo di luce , e l’avevano interrogato. E accadde in quell’oscurita’ e solitudine assolute, in quell’alienazione da ogni cosa - prima nella buca, poi in una cella insieme a quattordici compagni, dove trascorse ancora un anno -, che Paydar comincio’ a ripensare con distacco all’ideale rivoluzionario che lo aveva guidato per gran parte della vita adulta. E giunse a capire - una consapevolezza particolarmente dolorosa in quelle circostanze - Perche’ avesse avuto torto e Perche’ tutte le rivoluzioni erano destinate a fallire .

Ho riflettuto che la natura umana e’ troppo complessa Perche’ si possano guidare gli uomini in maniera semplice, con degli slogan. Dentro di noi si agitano avidita’ , amore, paura, odio. Portiamo tutti con noi la nostra storia e il nostro passato. Quando partecipiamo a un’insurrezione, ci trasciniamo dietro questi fattori, in proporzioni variabili. Ma le rivoluzioni non hanno mai considerato simili differenze individualo’ .

cosi’ , in galera, aveva ripudiato la rivoluzione. Fino ad allora era stata il suo sostegno, un surrogato della religione; in seguito non aveva piu’ trovato un ideale che fosse altrettanto vitale. Sembrava che in lui si fosse spento qualcosa; era un uomo massiccio, del Nord-Ovest, non era difficile immaginarlo pieno d’ardore. Invece adesso era stranamente pacifico; le sue traversie, passate e presenti, sembravano essere sempre li’ a ricordargli di controllare i modi, di soppesare le parole, di smussare le passioni o le accuse. Adesso, indifeso com’era, con il rischio di tornare dentro da un momento all’altro, cercava di pensare solo alla vita privata, alla famiglia. Ma nel caos economico dell’Iran rivoluzionario, con la caduta a picco del valore della valuta, tirare avanti diventava sempre piu’ difficile e i suoi guadagni di insegnante si facevano ogni giorno piu’ miseri.

Mi sono accostato al pensiero rivoluzionario a diciott’anno’ disse. Cioe’, circa sette o otto anni prima della rivoluzione. Nella nostra citta’ viveva un uomo appena uscito di prigione e ci piaceva andare da lui a chiacchierare. Ma lui ci parlava malvolentieri, per via dei problemi di sicurezza. Alla fine devo avergli fatto una buona impressione, Perche’ ha scelto me per confidarsi. Aveva trentott’anni e aveva avuto come amico un famoso scrittore che era stato annegato nel nostro fiume. Si fidava di me e ha cominciato a parlarmo’ .

Dove viveva? chiesi a Paydar. La sua casa com’era? .

Piccola, come tante altre nel Nord-Ovest, con un pezzetto di giardino e due camere da letto. Viveva con la madre e due sorelle. Mi raccontava tante cose sull’ingiustizia e su come lui l’avrebbe eliminate’.

Lavorava, a quel tempo? .

Avevo appena finito la scuola e lavoravo al bazar. Nel frattempo scrivevo racconti brevi per i giornali. Ne avro’ scritti una trentina e quasi tutti sono stati pubblicato’ .

Di cosa scriveva? .

Della poverta’ , dei patimenti della gente. Mio padre era morto quando avevo dodici anni e, da allora, avevo conosciuto la miseria. Mia madre lavorava sedici ore al giorno per mantenerci. Mi e’ rimasta un’immagine triste di lei: svegliarmi alle due di mattina e vederla addormentata sulla macchina per cucire .

Il nuovo amico di Paydar, l’ex prigioniero politico, gli diede da leggere le opere degli scrittori russi. Paydar si sentiva particolarmente commosso da Maksim Gor’kij e soprattutto dal romanzo “La madre”. Il suo amico lo aveva introdotto anche agli scrittori rivoluzionari iraniani, molti dei quali erano stati in prigione, ma si rifiutava di parlare della propria detenzione. Aveva scontato tre anni di carcere e a Paydar sarebbe piaciuto sentire qualcosa su quel periodo, ma l’amico preferiva discutere delle sue concezioni politiche.

Concezioni marxiste, le definiva. Paydar comprese piu’ avanti che si trattava di un marxismo di stampo molto grossolano, ma a quel tempo ne era esaltato e fece proprie quelle idee approssimative. Con il passar del tempo Paydar si rese conto che il suo amico non possedeva altre concezioni politiche a parte quelle; non aveva mai cercato di ampliare i suoi orizzonti.

Ma ai suoi occhi sembrava comunque un santo? chiesi.

se’. Quello che provavo era emozione pura. Sentivo che si poteva realizzare quanto mi diceva sulla rivoluzione, ma richiedeva sacrificio. cosi’ ho cominciato a prepararmi per il grande momento e ho cominciato anche ad abituarmi all’idea di morire .

Quanto le ci e’ voluto, per arrivare a questo punto? .

Appena un anno .

E sua madre? .

Lo sapeva. Sapeva che lui mi indottrinava, ma non diceva niente. Era una tipica madre di queste parti, con una fiducia cieca nei figli e in quello che fanno. Succede normalmente nelle famiglie in cui il padre e’ scomparso, e il figlio ne ha preso il posto. La madre, non proprio ubbidisce, ma si arrende, al figlio .

Ha parlato di rivoluzione e sacrificio in tono quasi religioso .

Non sono sicuro dei miei sentimenti religiosi. Mio padre era ateo, non era un uomo di fede; neppure mia madre lo era. Piuttosto anomalo, per l’Iran. Mia madre credeva in Dio, ma credeva di piu’ negli uomini. Ricordo una cosa molto bella che diceva: ‘Se chiedi a un bambino di non fare una cosa cattiva, e poi lo ricompensi per non averla fatta, va bene, Perche’ e’ un bambino. Ma se cresce e arriva a capire se stesso e tu ancora lo ricompensi per le sue buone azioni, lo insulti’ .

Alla fine degli anni Settanta Paydar si trasferi’ in Inghilterra per conseguire una specializzazione in un’universita’ di provincia. Si porto’ dietro la moglie e i due figli; avrebbe potuto usufruire di una borsa di studio, per quanto avesse anche dei risparmi da parte. In Inghilterra vivevano in affitto e, benche’ allora non se ne rendesse conto - e neppure ora lo ammettesse -, quel corso di studi all’estero costituiva un tributo all’Iran dello scia’ . Testimoniava la liberta’ di movimento di persone come Paydar, nate in regioni povere e arretrate e, insieme, l’economia che gli aveva permesso di lavorare e mettere da parte dei soldi; confermava la forza e il potere d’acquisto della valuta.

Ero curioso di conoscere la prima stranezza che lo aveva colpito in Inghilterra.

Guardavo tutto con un po’ di pregiudizio, a dire il vero. Giudicavo gli inglesi dei capitalisti; ero molto cinico. Li ritenevo responsabili di tutti i patimenti che avevamo sofferto nella storia. Il che, fino a un certo punto, era vero .

Ha prestato attenzione ai palazzi? Glien’e’ piaciuto qualcuno? .

No, ho chiuso gli occhi a molte cose. Quei rivoluzionari che la pensavano come me, anche loro facevano lo stesso .

E ben presto la rivoluzione arrivo’ .

Era il 1978. La gente era per le strade e io dovevo decidere con chi schierarmi. Avevo sempre desiderato lottare con il popolo per la liberta’ e l’uguaglianza, cosi’ la scelta fu ovvia. Ho partecipato a varie dimostrazioni in Inghilterra. Ho distribuito volantini ai passanti. A quel tempo i rivoluzionari cominciavano a conoscere Khomeino’ .

In Inghilterra siamo venuti a sapere di lui piuttosto tardo’ osservai. Ho avuto l’impressione che i religiosi ne facessero un segreto .

In effetti all’inizio non era presente nella rivoluzione. Solo dal 1978 si e’ cominciato a sentire il suo nome .

L’avevano tenuto nascosto anche a voi? .

se’, anche a noi militanti. E quando l’ho saputo, mi sono trovato di fronte a una scelta difficile. Io non ero religioso; ero marxista. Ma Khomeini era un religioso che guidava la rivoluzione. L’unico partito che lo appoggiava, al tempo, era il Tudeh. cosi’ mi sono rivolto di riflesso verso quel partito; il quale, naturalmente - oltre a sostenere Khomeini -, contava ai suoi vertici numerosi intellettuali di spicco. Alcuni li amavamo per il loro impegno intellettuale, prima ancora di conoscerne lo schieramento politico. Insomma, mi trovai di fronte a un dilemma. Alla fine ho scelto di appoggiare Khomeini, ma con molte riserve. Dicevo agli amici: ‘Forse vinceremo la rivoluzione, ma culturalmente torneremo indietro di mille anni’ .

Sua madre che ne pensava? .

Lei era molto pessimista. Diceva: ‘Non otterrai mai niente di buono, seguendo questi religiosi. Noi li abbiamo conosciuti. Li abbiamo visti. Sono quegli stessi che non mi hanno permesso di imparare a leggere e a scrivere’. Diceva la verita’ , Perche’ un prete era andato una volta da mio nonno e l’aveva avvisato: ‘Non iscrivere tua figlia a una di queste scuole. Sono centri satanici per una donna’. Succedeva nel 1925, quando mia madre aveva sette anni. E lei non glielo ha mai perdonato, Perche’ amava i libri e la culture’.

Ma Paydar riusci’ lo stesso a convincerla. Dopotutto era suo figlio e lei lo amava. Poi lui abbandono’ gli studi - gli sembrava di sprecare il tempo, con la rivoluzione in atto - e ritorno’ in Iran. Voleva scendere in campo insieme al popolo.

Quando rientro’ , la rivoluzione si era gia’ conclusa. Lo scia’ era in esilio e Khomeini al potere. Paydar trovo’ impiego come insegnante. Aveva nutrito concreti timori sulla piega che avrebbe assunto la rivoluzione e infatti le cose cominciarono ben presto a mettersi male. Vennero emanati regolamenti religiosi. Le donne dovettero indossare il chador e il copricapo chiuso; la musica e gli eventi culturali furono banditi; si imposero restrizioni alla stampa. Nell’agosto del 1979 venne chiuso il quotidiano di opposizione Ayandegan , laico e liberale. E due anni dopo se ne ando’ anche il lavoro di insegnante di Paydar. Era la rivoluzione culturale , come la definirono: tutte le universita’ vennero chiuse.

Paydar si tenne a galla con lavori saltuari in varie parti del paese. Fu l’inizio di una vita itinerante per lui, sua moglie e i loro due figli. Lavorava per lo piu’ come traduttore, per conto di piccole imprese private di import-export.

La cosa tragica, in quel periodo, e’ che sono entrato in conflitto anche con il partito Tudeh aggiunse.

E che ne e’ stato dell’uomo che l’ha iniziata alla rivoluzione quando aveva diciott’anni? Quello che le ha dato i libri di Gor’kij? .

Non si e’ adoperato per la rivoluzione. Ed era molto strano - a farci caso. Ha trovato un posto di insegnante, che tiene tuttora. E adesso capisco quanto sia stato saggio .

Ma non l’ha avvisata? .

No, non l’ha fatto. Forse pensava che fossi troppo giovane. Forse aveva lui stesso dei dubbi. Magari si vergognava per essersi tirato fuori. In effetti sono andato a trovarlo molto tempo dopo, e gli ho detto: ‘Tu sei stato molto accorto. Perche’ non mi hai avvertito?’. E lui: ‘Nemmeno io ero sicuro di quello che facevo. Un nuovo regime aveva preso il posto di quello dello scia’ e non sapevo cosa pensarne, non avevo certezze. Vivevo giorno per giorno’ .

Che gliene pare adesso? .

E’ stata una risposta oneste’.

E sua madre? .

Si rassegnava a quello che pensavo. Accettava tutto quello che dicevo .

Il conflitto con il Tudeh si era innescato per via dell’appoggio incondizionato del partito al governo di Khomeini. Quando avanzo’ le sue obiezioni, gli risposero che Khomeini guidava un movimento di massa; e siccome il partito credeva nel popolo, non poteva allontanarsi da esso. Per questo motivo dovevano rimanere al fianco dell’imam; tale era stata sempre la strategia internazionale del partito. Correva il 1983: proprio l’anno in cui il Tudeh venne dichiarato fuorilegge e i suoi iscritti cominciarono a finire in carcere.

Ero sconvolto. Mi trovavo in una situazione di grave pericolo. Hanno iniziato a perquisire il mio alloggio. All’universita’ avevo fatto delle dichiarazioni pubbliche, mi ero schierato con il partito Tudeh. Mi hanno cercato nella citta’ in cui mi trovavo e sono riuscito a scamparla solo per un caso fortuito: un uomo era finito da poco in prigione e aveva riferito a certi suoi parenti di aver sentito i Guardiani fare il mio nome. Sono corsi subito ad avvertirmi, cosi’ sono scappato insieme alla mia famiglia. Che giorni, quelli, davvero! Ho cominciato a vivere da fuggiasco. Mi facevo vivo una volta al mese con i miei familiari per portare qualche soldo. Cambiavo mestiere in continuazione. Mi travestivo. Ho lavorato in ristoranti: lavori umili, manuali, e sempre in luoghi distanti. I miei amici e parenti mi aiutavano; mia madre era il nostro punto di riferimento comune .

Dopo due anni di questa vita, ritenne che le acque si fossero calmate e potesse smettere di nascondersi. Sembrava che nessuno gli desse la caccia. I giornali riportavano sempre meno arresti. cosi’ torno’ a vivere con la famiglia e riprese a insegnare. Ando’ avanti per un anno. Poi, una notte, ricevette una telefonata dai Guardiani della Rivoluzione: lo convocavano al loro quartier generale per rispondere a qualche domanda. piu’ avanti, venne a sapere che avevano scoperto dove viveva frugando nel suo fascicolo.

Si trattera’ davvero di pochi minuti? aveva chiesto all’uomo al telefono.

Oh, certo. Ti ruberemo al massimo un’ore’ gli aveva risposto il Guardiano.

Paydar bacio’ la moglie e i figli, e disse loro che non si sarebbero rivisti per molto tempo. La moglie cerco’ di convincerlo che si sbagliava, e invece aveva ragione: non torno’ prima di un anno.

Si reco’ al quartier generale dei Guardiani e diede le sue generalita’ . Venne spedito in una stanza dove lo aspettava un Guardiano che gli porse un questionario da riempire; una delle domande recitava: Sei mai stato coinvolto in attivita’ politiche nel passato? .

Com’era quel Guardiano? gli chiesi.

Di corporatura robusta, alto, con la barba, una faccia crudele, mani grandi e dita grosse. Le dita sono state la prima cosa che ho notato di lui, quando sono entrato. Forse temevo che mi avrebbe percosso .

Che eta’ aveva? Portava l’uniforme? .

Direi sulla trentina. In uniforme, se’. Color kako’ .

Colto? .

Ah, no, non colto. Per niente. Si capiva benissimo da come parlave’.

E l’ufficio? .

Un tipico “komiteh”, come li chiamiamo noi. Alla domanda sulle attivita’ politiche ho risposto: ‘No’. Ma lui ha incalzato: ‘Sei sicuro di averla sempre pensata cosi’ ?’. Allora gli ho esposto per filo e per segno le mie opinioni. Nessun’altra informazione. E lui ha sorriso: ‘Questo lo sapevamo’. Mi ha bendato e mi ha lasciato in una stanzetta; erano le nove di mattine’. (C’e’ stato un salto temporale nel racconto di Paydar, come se l’interrogatorio si fosse protratto per tutta la notte. Ma non mi accorsi di questa discrepanza fino a molto tempo dopo). Ed era primavera, aprile o maggio. Da li’ , la mattina dopo, sono stato portato in galera; prima a Evin - la grande prigione di Teheran - e dopo una settimana in un altro posto, che ancora non sono riuscito a localizzare. li’ mi hanno interrogato per due mesi e infine condannato a un anno di reclusione. A Evin non si stava male, era una struttura moderna. Ma l’altro posto era terribile. Vecchio, quasi un buco. Comunque, per il resto dell’anno, la prigionia e’ passata tranquilla. Eravamo quindici, in una cella comune. Quell’anno si stava meglio Perche’ c’erano pochi prigionieri. Prima le condizioni erano di gran lunga peggiori; e fuori la situazione era ormai tranquille’.

In quel periodo Paydar comincio’ a riflettere sulla rivoluzione, in solitudine e con distacco. Lo reputava l’anno piu’ importante della sua vita.

E sua madre? .

Era morta da due anni. Senza soffrire, per fortuna. li’ ho cominciato a riesaminare tutti quei concetti rivoluzionari e anche i miei ideali. Ormai era tempo di pensare per conto mio e considerare orizzonti che in una certa misura mi erano negato’ .

Se li era negati da solo .

“Io” mi ero negato. Per esempio , per me Arthur Koestler era un reazionario, ed ecco che non leggevo niente di suo. Tutto qui. E anche George Orwell era un reazionario. C’erano soltanto due gruppi per me: i rivoluzionari e i reazionari. Adesso pensavo a mia madre e a quello che aveva saputo fare senza conoscere queste ideologie. Per me era il simbolo della vera umanita’ . Tutti la adoravano. Chi la conosceva non poteva fare a meno di amarla: era una cosa singolare. Quando e’ morta all’ospedale, tutte le infermiere e perfino il dottore hanno pianto. Il motivo e’ che prendeva tutti a cuore. Diceva: ‘Infermiera, com’e’ andata con il suo corteggiatore? E’ venuto, poi?’, oppure chiedeva a un’altra: ‘Come sta sua madre? Si sta riprendendo?’. Passava tutto il suo tempo ad aiutare, a rendersi utile, anche se era malata.

Ho riflettuto che le ideologie sono solo una minima parte del nostro intelletto in grado di aiutarci nella vita. La fonte principale risiede nel modo di pensare che ci viene trasmesso dalla nostra cultura e nel comportamento spontaneo di persone come mia madre. La rivoluzione per cui mi sono prodigato non teneva conto ne’ di me come intellettuale, ne’ di mia madre come persone’.

In carcere i maltrattamenti fisici non erano sistematici. Paydar era stato malmenato soltanto in due occasioni: la prima quando mori’ Khomeini e i Guardiani erano sulle spine per paura che si tentasse di liberare i prigionieri. Li bendarono tutti e quindici e li condussero a un pulmino, poi li fecero inginocchiare e ordinarono loro di restare in silenzio. L’uomo accanto a Paydar chiese in un bisbiglio: Dove ci portano? . Paydar si porto’ un dito alle labbra e sussurro’ di rimando: Non lo so . Ma un Guardiano lo senti’ e lo colpi’ violentemente alla nuca con il calcio del fucile; poi comincio’ a percuoterlo con tale ferocia che Paydar credette di morire. Stette male per una settimana, abbandonato nella sua cella senza che nessuno si prendesse cura di lui. Gli portavano soltanto il cibo. Ma in qualche modo sopravvisse.

La seconda volta venne schiaffeggiato. Aveva fatto un’osservazione sui “mujaeddin”, i fanatici religiosi di estrema sinistra che un tempo si accompagnavano ai Guardiani (e che furono fra i primi aguzzini di Ali’ ). Un Guardiano lo colpi’ in viso e gli intimo’ di non pronunciare piu’ quella parola, “mujaeddin”: doveva adoperare “monafeghin”, un termine spregiativo che significava ipocrito’ .

Paydar commento’ : Adesso mi dedico interamente all’insegnamento e in questo modo sono molto piu’ utile al mio popolo: cercando solo di istruirlo. Magari ci avessi pensato fin dall’inizio. Ma eravamo nel mezzo del ciclone, la polvere era troppo densa. E la responsabilita’ per cio’ che e’ successo va al vecchio regime. Ci hanno privati della liberta’ e di un’educazione decente, e cosi’ hanno spianato la strada a questa gente .

 

Sulle basse colline a settentrione, dalla trama delicata e dai riflessi rosseggianti sotto una luce particolare, si scorgevano terrazzamenti, a volte chiazzati di minuscoli punti verdi dove gli alberi erano stati piantati da poco, e con muri di contenimento che segnavano dove si sarebbe costruito: o almeno cosi’ avevo creduto. Ma un giorno scoprii, passeggiando in quella zona, che una delle basse colline fulve che dalla finestra della mia camera d’albergo vedevo sulla sinistra era la prigione di Evin, teatro di molte esecuzioni capitali. L’indirizzo dello Hyatt-Azadi, infatti, era proprio Incrocio Evin.

In un punto avevo scorto l’inizio dei terrazzamenti, un sentiero che si inerpicava fino a sboccare in un altro e, soprattutto, una specie di muraglia grigia a scalini che saliva e scompariva dietro il fianco della collina, per poi riapparire lontana dall’altro lato. Avevo l’impressione che i due tratti fossero congiunti, ma non sapevo che cosa vedevo anche Perche’ ero stato incantato dal gioco di luci sulle montagne.

Solo di mattina (quando il sole gettava ombre fra le valli e le balze), la muraglia a scalini sulla destra, rivelando la sua altezza, disegnava un’ampia diagonale d’ombra che si andava assottigliando verso la sommita’ e poi spariva. In altre ore, quando non c’erano ombre a delinearla, l’alta muraglia si confondeva con il colore della collina e la sommita’ pareva una frastagliatura del terreno; questo mi aveva fatto pensare a un muro di contenimento per prevenire frane e smottamenti.

Se la muraglia sulla destra risaltava soltanto nelle ombre del primo mattino, dopo mezzogiorno si rivelava a sua volta la muraglia sulla sinistra, delineando uno scuro profilo dentellato dove prima non si scorgeva niente.

E adesso che le avevo scoperte non potevano piu’ sfuggirmi. Il contorno seghettato delle muraglie a destra e a sinistra, e insieme gli scalini seminascosti che di tanto in tanto affioravano nel mezzo, mi ricordavano la mascella metallica di un’enorme trappola per uomini.

Ora che sapevo trattarsi di una prigione, mi meravigliavo di averla potuta considerare parte del paesaggio, pur avendola avuta sotto gli occhi: una mostruosa costruzione di cemento color sabbia, simile a un capannone, che si ergeva al di sopra del verde dei piu’ ppi e dei “chenar”. Nei due o tre giorni seguenti, la planimetria della prigione e dell’intero complesso mi si e’ svelata dettaglio dopo dettaglio: la strada asfaltata che si snodava attraverso il verde ingannevole fino al posto di guardia all’ingresso; la lunga fila di edifici bassi simili a rimesse ferroviarie - forse officine - ai piedi del capannone; e poco piu’ a valle, gli alloggi di cemento, senza dubbio per il personale, non cosi’ residenziali come mi erano apparsi in un primo tempo. Avevo bollato quei palazzi come un deturpamento edilizio su quella meravigliosa collina: ed essi - o l’idea che di essi mi ero fatto - avevano contribuito a camuffare la prigione.

Di notte il paesaggio montano si arricchiva di nuovi dettagli che sembravano ancor piu’ sinistri, non fosse altro Perche’ cose sinistre accadevano nelle prigioni di notte: ecco la sinuosa fila dei lampio ni azzurri che illuminavano la strada asfaltata fino alla prigione, i grandi e bianchissimi riflettori che sovrastavano l’edificio principale, e luci, ancora luci, dappertutto.

La prigione era talmente estesa (una vasta parte dell’area settentrionale di Teheran), che ci voleva molto tempo per individuarla tutta.

Un pomeriggio, mentre lasciavo scorrere lo sguardo lungo il muro d’ombra che scendeva dalla collina verso sinistra, mi accorsi che conduceva a un altro muro, nascosto fra gli alberi, e questo a sua volta terminava su una parete che correva trasversalmente (da sinistra a destra) ai piedi della collina. Quest’ultima cinta, a quanto sembrava, era molto alta, inframmezzata da imponenti cancellate azzurre: da qui, senza dubbio, erano usciti col favore delle tenebre i camion carichi dei cadaveri dei giustiziati dopo la rivoluzione. L’azzurro dei cancelli risaltava contro la vegetazione, i mattoni e il cemento; veniva da chiedersi come avessero potuto scegliere un colore simile.

Una presenza inquietante, quella della grande prigione di Teheran, sotto le meravigliose montagne sfaccettate; ancor piu’ sinistra e raccapricciante del Castello di Praga. Cio’ che provai accorgendomi della sua esistenza mi rammento’ una sensazione analoga, che risaliva alla mia permanenza nell’ambasciata inglese di Dakar, nell’Africa occidentale: li’ avevo scoperto che il muro del campo da tennis dell’ambasciata confinava con quello dell’obitorio, e questo spiegava la folla quotidiana di africani dolenti in vesti e copricapi islamici.

Ali’ aveva raccontato che l’ayatollah Khalkhalli, il giudice-boia di Khomeini, era solito presiedere il tribunale rivoluzionario nel vecchio edificio della corte marziale dello scia’ , sito in via Shariati. Nei primi tempi dopo la rivoluzione, il tribunale sedeva in riunione quasi ventiquattr’ore al giorno e Ali’ vi si recava quotidianamente per cercar di salvare i suoi conoscenti. I prigionieri venivano probabilmente condotti in via Shariati dalla prigione di Evin.

Nell’agosto del 1979, durante la mia prima visita a Teheran, il tribunale era in piena attivita’ . In un’intervista al Tehran Times (quando ancora il proprietario e direttore era Parvez e Jaffrey lanciava dalla sua macchina per scrivere appelli infuocati Perche’ gli ayatollah se ne tornassero a Qom) Khalkhalli aveva dichiarato di aver probabilmente condannato a morte trecento, quattrocento persone. Alcune notti, a suo dire, i camion avevano portato trenta o quaranta corpi fuori della prigione.

Erano di certo passati attraverso i cancelli azzurri.