9.

LE DUE TRIBU’.

 

I turisti cominciavano a riaffacciarsi a Esfahan e Shiraz, celebri citta’ dal nome romantico. Io mi recai prima a Esfahan, senza alcuna idea di cosa vi avrei trovato. Non esistevano etichette turistiche per quel luogo, nessun riferimento culturale specifico. A Giava, molto piu’ lontano, si ergevano la mistica piramide buddhista di Borobudur e le torri indo di Pranbanam; in India si potevano ammirare il Taj Mahal e i bassorilievi dei templi meridionali. Ma Esfahan, come Samarcanda, era soltanto un nome romantico. Quel poco che riuscivo a immaginare del suo splendore, lo attingevo indirettamente dalla pittura indiana. Da certi manierati dipinti moghul sapevo che, per l’imperatore Giahangir (al potere dal 1605 al 1627), l’impero indiano e la Persia dello scia’ ‘Abbas (sul trono dal 1587 al 1629) costituivano le potenze centrali del pianeta; nessun’altra nazione poteva vantare pari, o alcuna, importanza. La Gran Bretagna, pur dopo la regina Elisabetta, la sconfitta dell’Armada spagnola e Shakespeare, rimaneva lontana, ai confini; l’ambasciatore inviato nel 1618 da re Giacomo riusci’ solo con grande fatica ad attirare l’attenzione del sovrano.

Un artista indo del seguito di Gialhangir, che risiedeva presso un’ambasciata moghul a Esfahan, aveva dedicato sei anni all’esecuzione di ritratti dello scia’ ‘Abbas su commissione del proprio imperatore, per dargli agio di studiare e al tempo stesso di abituarsi al grande rivale. Proprio quei ritratti - di un uomo a volte rattrappito di proposito - di uno scia’ ‘Abbas tracagnotto, con una scimitarra ricurva quasi piu’ alta di lui, mi portavo dietro, non un’opinione concreta sulla grande citta’ . cosi’ - tale e’ il potere della caricatura! - fui colto del tutto impreparato dallo splendore, l’estensione e il cosmopolitismo di Esfahan, da quell’esuberanza che mozzava il fiato, dalla sua originalita’ e dalla perfezione delle sue proporzioni: l’enorme piazza principale (piu’ vasta di quella di San Marco a Venezia), i ponti, le cupole delle moschee e delle chiese, le delicate ceramiche nei cui colori, motivi ed effetti piccoli e grandi ci si poteva smarrire, le imponenti sale di udienza. Potevo comprendere alla perfezione il disagio di Giahangir: qui, nella Esfahan dello scia’ ‘Abbas, si ritrovava gia’ gran parte dell’architettura indiana moghul, e molto, molto di piu’ .

C’era magnificenza in quel luogo; e una magnificenza simile in India. Ma neanche un secolo dopo Giahangir, lo splendore dei moghul era ormai svanito nel subcontinente; e trascorso un altro secolo, la nazione era caduta sotto il dominio britannico. La Persia, invece, non divenne mai una colonia in senso formale; il suo destino fu per certi versi peggiore. Quando l’Europa, un tempo cosi’ distante, fece avvertire la sua presenza, la Persia ne rimase eclissata. I suoi grandi monumenti andarono in rovina senza diventare mai famosi quanto quelli indiani. Ed entro la fine dell’Ottocento i suoi governanti erano pronti a consegnare il paese, insieme a tutto il suo popolo, nelle mani di concessionari stranieri.

L’India, quasi nello stesso istante in cui divenne colonia britannica, avvio’ un processo di rigenerazione, inizio’ ad accogliere l’afflusso culturale europeo con l’obiettivo di ottenere le istituzioni che a quella nuova cultura si accompagnavano. Il primo grande riformatore indiano, Ram Mohan Ray, nacque nel 1772, prima della Rivoluzione francese; Gandhi venne al mondo nel 1869. La Persia si affaccio’ invece al ventesimo secolo conoscendo solo il principio orientale della sovranita’ e l’antiquata cultura teologica di luoghi come Qom. Al suo ingresso nel nuovo secolo aveva soltanto la capacita’ di soffrire e la vocazione per il nichilismo.

 

La Persia dello scia’ ‘Abbas era splendida, ma era uno splendore offuscato. Tuttavia non potevo esporre una considerazione del genere al mio ospite nonchi’ guida a Esfahan, un funzionario diplomatico a riposo, pieno com’era del dolore della sua terra. La sua vita pareva quasi sospesa fra due poli: negli anni Sessanta, il padre aveva voluto che studiasse in Inghilterra; e negli anni Ottanta, dopo la rivoluzione e l’abbandono del servizio diplomatico, aveva rigettato per sempre l’idea di viaggiare all’estero: troppo grande, nel mondo esterno, era l’umiliazione di essere cittadino iraniano. Viveva dei pochi risparmi che aveva accumulato e di qualche lezione occasionale. La rivoluzione e la guerra avevano danneggiato lui e stremato la patria: il vecchio diplomatico ne era fin troppo cosciente. Ma restava lo stesso un uomo lacerato: reputava che fossero state necessarie sia la rivoluzione sia la guerra, e le sue storie di dolore erano ambigue.

Aveva un amico insegnante, un borghese europeizzato dei tempi dello scia’ . Quando arrivo’ la rivoluzione, il maestro volgeva verso i quarant’anni, mentre suo figlio ne aveva undici. Il ragazzo si chiamava Farhad: un classico nome iraniano, non arabo o islamico, secondo una consuetudine che aveva acquisito il ceto medio dopo le riforme del padre dello scia’ .

Con la rivoluzione, l’insegnante comincio’ ad avere la sensazione che il figlio si allontanasse a poco a poco da lui. Finalmente, al secondo anno di guerra, il ragazzo ormai quattordicenne ripudio’ la famiglia e le sue convinzioni; abbandono’ anche il nome di Farhad per assumere quello arabo di Maissam, portato da uno dei primi seguaci del Profeta, morto martire. Era quella la strada che intendeva seguire il figlio dell’insegnante.

Khomeini aveva raccomandato che la rivoluzione si concentrasse soprattutto sui bambini e sulle generazioni giovani; gli uomini sopra i quarant’anni (come il maestro) erano inutili. (E il suo secondo in capo, l’ayatollah Montazeri, si era spinto anche oltre, affermando con una metafora poetica che gli alberi secchi andavano abbattuti). Non si trattava di parole gettate al vento. Una grande quantita’ di energia era stata profusa nell’indottrinamento dei giovani; e con la guerra le esigenze della rivoluzione non facevano che aumentare.

Il vecchio diplomatico diceva: Ai ragazzi piace giocare con le pistole. cosi’ li portavano alle moschee e mostravano loro le mitragliette israeliane Uzi e altre armi. I ragazzi erano affascinati, e intonavano slogan e preghiere mentre qualcuno raccontava la storia del martirio di Karbale’. L’impari battaglia di Karbala, tragedia e passione degli sciiti, nella sua perenne rappresentazione. La vittoria del sangue sulla spada Perche’ i martiri escono sempre vincitori, alla fine. E alcuni di quei ragazzi arrivavano anche a denunciare i propri amici, se erano “mujaeddin” o appartenevano a gruppi di sinistra. A quei ragazzi si chiedeva di riferire cio’ che accadeva nelle loro case e in quelle dei loro conoscenti, come una specie di contributo rivoluzionario .

E poi un giorno, senza dir niente ai suoi genitori, il figlio dell’insegnante si presento’ volontario alla moschea e venne spedito al fronte.

Da quel che ho sentito in seguito, aveva assunto il comando di un’unita’ speciale per il disinnesco delle mine di terra. Era un Basiji. All’inizio nessuno sapeva come si disattivasse una mina e mandavano centinaia di Basiji a tentare. Organizzavano messinscene speciali in loro onore, prima che si arruolassero. Ad esempio , potevano dipingere qualcuno di vernice fosforescente per diffondere la voce che l’imam Mahdi era stato avvistato al fronte, sul suo cavallo bianco, che galoppava all’orizzonte . Mahdi’ era il dodicesimo imam degli sciiti, nascosto da diversi secoli in attesa di tornare ai fedeli. E consegnavano ai Basiji una chiave da portare al collo. Rappresentava la chiave per il paradiso. In quei giorni ci si scherzava, su quelle chiavi: si diceva che fossero prodotte in serie in Giappone e da li’ importate. Ma me lo lasci dire, quei ragazzi “volevano” andare. Anche alcuni miei studenti sono partiti volontari: ricordo il giorno in cui il pullman li ha portati via. Il mezzo era fermo e un ragazzo mi tremava fra le braccia. ‘Se non ne sei convinto, non partire’ gli dicevo. E lui: ‘Devo andare, ma ho paura’. Li facevano salire sui pullman e li portavano in giro per la citta’ : eroi che si apprestavano a combattere Satana e a spianare la strada per Karbale’. Karbala era l’antica battaglia in cui si erano immolati gli sciiti, ma anche il nome di una localita’ irachena realmente esistente.

In Iran c’e’ la tradizione, quando qualcuno sta per mettersi in viaggio, di farlo passare due o tre volte sotto il Corano. Il libro viene baciato dal capofamiglia e tenuto sopra la testa di chi e’ in procinto di partire. Ma per i Basiji, quando li mandavano al fronte, era un mullah in persona a baciare il Corano e tenerlo sopra le loro teste. E proprio in quell’occasione consegnavano le fasce, rosse o verdi, da cingere intorno alla fronte. Come puo’ immaginare, e’ una bella cerimonia di saluto. Ricordo che quand’ero giovane e dovevo viaggiare, mia madre la eseguiva per me, con il Corano e tutto. E quando salivo in macchina, versava per terra, alle mie spalle, una caraffa d’acqua, su cui aveva recitato preghiere in precedenza, e poi ci soffiava sopra. L’acqua e’ un elemento sacro in Iran, e questa cerimonia risale quasi di certo all’epoca preislamice’.

Dopo qualche tempo, l’insegnante venne a sapere che suo figlio era stato ferito, e lo avevano ricoverato in un ospedale di Tabriz. Ando’ a prenderlo fin li’ e lo riporto’ a casa per curarlo. Quando il ragazzo si fu ripreso a sufficienza, fece ritorno al fronte: questa storia si ripeti’ diverse volte.

Dopo sei anni torno’ finalmente a casa. La guerra era finita e lui era piuttosto depresso. I suoi genitori non sapevano come aiutarlo. Si rifiutava di vedere altra gente e non usciva quasi mai dalla sua stanza. Un giorno, infine, il maestro entro’ in camera sua e lo trovo’ seduto a gambe incrociate al centro del tappeto, circondato da un mucchio di fotografie sparpagliate, che ritraevano i suoi amici al fronte. ‘Sono tutti morti’ mormoro’ .

La guerra cominciava a sfumare all’orizzonte e le cose parevano calmarsi; anche la furia e l’ardore dei tempi passati cedevano il passo. Poco alla volta, aprendosi all’amore dei genitori, il ragazzo torno’ in se’. Cambio’ taglio di capelli e ricomincio’ a indossare indumenti occidentali. Si iscrisse all’universita’ . Da questo punto di vista, i Basiji erano avvantaggiati: potevano accedere a qualsiasi universita’ anche se non superavano l’esame di ammissione. Un pezzo alla volta, recupero’ da giovane quella personalita’ che aveva rigettato da ragazzo, sei o sette anni prima. Riprese ad ascoltare la musica popolare, abbandono’ il nome arabo che si era scelto, e torno’ ad essere Farhad.

Adesso vuole diventare medica’ raccontava il diplomatico. Si e’ come risvegliato da un sogno; non parla mai della guerra. So che molti di loro - ragazzi come lui - erano rimasti molto delusi. Ma continuando a godere di privilegi speciali in quanto Basiji, adesso hanno una personalita’ scisse’.

Una personalita’ scissa per Maissam-Farhad, ma anche per il vecchio diplomatico Perche’ essere iraniano significava possedere una fede speciale, una versione particolare della fede araba; e il vecchio diplomatico sapeva in cuor suo - e questo faceva parte della sua sofferenza - che era stato necessario combattere quella guerra, per quanto fosse stata vana, logorante e terribile.

La sua opinione era: Se quei ragazzi non si fossero sacrificati, Saddam e gli iracheni avrebbero inghiottito un quarto dell’Iran. In un certo senso, Khomeini si puo’ considerare uno dei fautori del nazionalismo iraniano. Ha resuscitato dopo tanti anni l’antica rivalita’ arabo-iraniana. Fra i nomi che si era dato Saddam, uno era ‘Trionfatore di Qadisiyya’ . Si riferiva alla pesante sconfitta subita dagli iraniani per mano degli arabi sotto il califfo Omar, dieci anni dopo Maometto, nelle primissime fasi dell’invasione musulmana. E come se non bastasse, Saddam si rivolgeva agli iraniani come mago’ , o zoroastriano’ . Adoratori del fuoco, seguaci della principale religione preislamica dell’Iran.

Il vecchio diplomatico era un uomo saggio e colto, eppure i dileggi degli iracheni - simili alle frecciatine nel cortile di una scuola - riuscivano a ferirlo: quei motteggi sul passato pagano degli iraniani, il passato della miscredenza e dell’adorazione del fuoco, il passato che aveva preceduto l’Islam… insieme alle altre beffarde parole di scherno sul fatto che l’Islam era arrivato in Iran attraverso la conquista araba e l’energica propagazione della nuova fede. La battaglia di Qadisiyya era stata combattuta nel 637 d.C., ma era ancora viva nella memoria quanto la disfatta di Karbala. La Persia aveva una lunga storia alle spalle: per almeno un millennio prima di Qadisiyya, era stata una potenza dominante; aveva sfidato i greci e ferito Roma. Ma quel passato era morto ormai, come se avesse riguardato un altro popolo: non poteva competere con la sconfitta di Qadisiyya. Nella coscienza degli iraniani la storia del loro paese cominciava con l’avvento dell’Islam, nasceva da quella sconfitta. Cio’ conferiva una particolare durezza alla fede in Iran ed esaltava la passione del popolo.

Il figlio dell’insegnante aveva vissuto in prima persona le contraddizioni di tale passione. Ripudiando la vita europeizzata della sua famiglia, ispirata dallo scia’ , e scegliendo di abbracciare la vera fede, si era dato il nome di uno dei primi martiri arabi. Questo a sua volta l’aveva condotto a indossare la fascia dei Basiji, a legarsi al collo la chiave per il paradiso e a combattere contro l’arabo che si definiva il trionfatore di Qadisiyya.

 

Perfino i bambini avevano ormai una personalita’ scissa, diceva il vecchio diplomatico. Era cosi’ che resistevano alle pressioni eccessive e proteggevano una parte di se stessi.

Ci racconto’ la storia di una coppia di sua conoscenza, gente come lui, ormai stanca, piena di dolore, ma pur sempre nazionalista. Avevano una figlia di nove anni che frequentava una scuola Hizbollah locale. Un bel giorno, convocati dal preside, seppero che la loro bambina era la migliore dell’intero istituto a recitare il Corano. Era cosi’ brava che la scuola aveva deciso di conferirle un premio alla presenza dei genitori. Questi, pero’ , non avevano mai sospettato la bravura della figlia, tant’e’ vero che la convocazione del preside li aveva gettati nel panico. Temevano che la bambina avesse riferito chissa’ cosa sul loro conto.

E’ una strana vita, ormao’ concluse il vecchio diplomatico.

 

Ascoltavo queste storie mentre guidavo o passeggiavo per Esfahan, studiando le cupole e le ceramiche, gli archi e le volte e, di notte, le luci dei ponti che tagliavano il fiume con le loro arcate. Molto era stato restaurato, ma molto sembrava fragile e deperibile. I mattoni si deterioravano facilmente e in alcuni vicoli sterrati i muri posteriori di splendidi palazzi erano cosi’ consunti che sembravano prossimi a tornare argilla. Con un’analogia inquietante, anche dietro il garbo del vecchio diplomatico si celava uri grande dolore, fisico e mentale. Proprio il dolore era il vero protagonista di quello che diceva; e a volte una sua storia, anche se presentata come un fatto accaduto a qualcuno che conosceva di persona, possedeva un sapore mitologico originato dal bisogno collettivo, come quelle barzellette che nascono in determinati momenti in una comunita’ e ne fanno il giro: nessuno le ha inventate, ma tutti vi contribuiscono in qualche modo. Il racconto del pezzo di carne che segue appartiene a questa categoria.

Una donna di mezza eta’ , avvolta nel chador, chiese a un oculista di visitare un giovane paziente ricoverato nell’ospedale locale. Quando lo specialista si trovo’ di fronte al ragazzo, scopri’ che era mutilato al di la’ di ogni possibile recupero: senza mani, senza piedi, era solo un pezzo di carne . La donna con il chador chiedeva ogni giorno all’oculista di prendersi cura del paziente. Il medico si domandava se avesse senso guarire la vista di una persona che non si sarebbe piu’ ripresa ne’ sarebbe ritornata a vivere. Ma non voleva ferire la donna con il chador, che non abbandonava mai il reparto dell’ospedale. Come lei ce n’erano due o tre, non di piu’ .

Lo specialista fece delle ricerche e scopri’ che la donna non era la madre del ragazzo, ma solo una vicina di casa. La madre naturale del giovane veniva a trovarlo ogni giorno in ospedale, ma non si tratteneva a lungo. Dopo qualche tempo l’oculista si guadagno’ la fiducia della donna con il chador e un giorno le chiese Perche’ ci tenesse tanto che il ragazzo mutilato, che non era suo figlio, recuperasse la vista.

La donna gli rispose: Il mio ragazzo, il mio figliolo, e’ stato giustiziato Perche’ faceva parte di un gruppo antirivoluzionario. Colui che l’ha denunciato, il figlio di un nostro vicino, ora giace in questo letto. Io sono felice che mio figlio sia morto. L’hanno giustiziato ed e’ finita li’ . Ma voglio che questo pezzo di carne continui a vivere per avere vendetta. Voglio che sua madre soffra per lui ogni giorno .

 

Lo scia’ aveva esaltato il passato preislamico dell’Iran, con lo scopo fra gli altri di ricollegarsi alla grande tradizione di condottieri che l’avevano preceduto. Seguendo l’esempio di Alessandro duemila anni prima di lui, aveva compiuto un pellegrinaggio rituale alla tomba di Ciro a Pasargadeh. Dopo la rivoluzione, bande di militanti avevano preso d’assalto la tomba e i palazzi vicini, nonchi’ il tempio del fuoco, ma avevano causato pochi danni. Si vociferava perfino (ma non saprei dire con quale indice di credibilita’ ) che l’ayatollah Khalkhalli in persona, il giudice-boia di Khomeini, fosse stato incaricato di presiedere un comitato al fine di determinare il miglior modo per distruggere (o quantomeno deturpare) le rovine di Persepoli. Ma nel frattempo era scoppiata la guerra, la lunga Sacra Difesa. E adesso i turisti erano tornati a Shiraz e noleggiavano le macchine per andare a Persepoli; qualcuno si spingeva fino a Pasargadeh.

Era finito il momento rivoluzionario nichilista. La rivoluzione aveva fatto presa; non c’erano piu’ nemici; il mondo era stato ricostruito (l’ayatollah Khalkhalli, tuttavia, riteneva che fosse stato fatto soltanto il trenta per cento di quello che andava fatto).

Si doveva superare un esame di ammissione sull’Islam per accedere alle universita’ e, secondo Mehrdad, diventava ogni volta piu’ difficile. Cinque anni prima, agli studenti non si chiedeva di imparare a memoria brani del Corano, mentre ora erano tenuti a farlo. In tutti gli uffici governativi esisteva adesso una commissione islamica e ogni candidato doveva sostenere un colloquio. Facevano piu’ che altro domande politiche, ma saggiavano anche il grado di conoscenza dei precetti islamici.

Non i precetti classico’ puntualizzo’ Mehrdad ma quelli specifici, dettagliati. Sostengono che ogni musulmano e’ tenuto a conoscere questi precetti. Poi ti chiedono delle preghiere. Noi abbiamo cinque preghiere fisse al giorno; pero’ poi ce ne sono altre, per varie occasioni: quella per quando si ha paura, da recitare in situazioni d’emergenza; le preghiere del venerdi’; quelle per i defunti. E ognuna ha le sue regole, i suoi precetti. Uno come me, che non recita le preghiere ordinarie, non conosce quelle straordinarie .

Nelle universita’ si studiava una materia particolare: “La volonta’ di Khomeini”. Era obbligatoria, tutti dovevano seguirla senza distinzioni, anche i non musulmani, qualunque fosse il corso di studi prescelto.

Questa materia si chiama “La volonta’ dell’Imam” specifico’ Mehrdad. Io ho preso venti ventesimi. Il nostro professore ci ha consegnato un riassunto di dieci pagine scritte a mano. Lo stile di Khomeini e’ molto complesso, capisce; anche la frase piu’ semplice ha una costruzione piuttosto elaborata. Un bambino di dieci anni, leggendo una frase scritta su un muro, capisce subito che appartiene all’imam Khomeini. Tutto sommato e’ affascinante, ma leggerne quaranta pagine sarebbe stato proibitivo, il riassunto del professore ce l’ha facilitato. Verteva su come tenere viva la rivoluzione. Metteva in guardia contro gli Stati Uniti e contro l’imperialismo, e spiegava come proteggere l’Islam e le moschee .

 

Il mondo non era piu’ lo stesso: lo avevano rimodellato. Sulla parete dove un tempo il padre di Mehrdad teneva appesi i ritratti della famiglia reale, adesso campeggiava una sagoma di Khomeini (realizzata da Mehrdad, che aveva la passione per i lavori manuali). L’intera nazione era stata rovesciata, sviscerata, dalla rivoluzione e dalla guerra. Alcuni erano saliti in alto; moltissimi erano stati annientati; e nessuno poteva affermare con certezza che si fosse adempiuto a una causa superiore. L’unica cosa evidente era che la nazione aveva acquisito una conoscenza pressochi’ universale del dolore. Ormai non esisteva piu’ una diffusa volonta’ di azione; in quella spossatezza generata dal dolore il popolo aspettava soltanto che accadesse qualcosa. Gente come Mehrdad e la sua famiglia viveva sempre sulle spine. Forse al tempo dello scia’ era stato lo stesso; cosi’ la storia si presentava con una curiosa forma circolare: ogni grande azione - la guerra, la rivoluzione - era necessaria. E ogni grande azione, come una catena, riconduceva a se stessa.

Nel mio ultimo giorno a Teheran, discussi con Ali’ della rivoluzione contro lo scia’ . Non sarebbe potuta andare diversamente?

Quelli come lui bramavano la liberta’ , mi rispose. Avevano accumulato grandi ricchezze sotto lo scia’ , ma erano costretti a vivere come topi. Quando consideravano i loro omologhi di altre nazioni si sentivano umiliati dal confronto; e nessuno poteva darsi pace in una situazione simile. Erano stati quelli come lui a fare la rivoluzione, non i poveri. E poi non si doveva dimenticare l’aspetto culturale, il risvolto islamico.

Bisogna tornare indietra’ disse Ali’ . Negli anni Quaranta, quando l’Iran si trovava sotto l’occupazione degli Alleati, molti emigravano dalle campagne verso le cittadine; i piccoli imprenditori si trasferivano dai centri urbani minori nelle grandi citta’ .

Nei piccoli agglomerati gli immigrati superavano di gran lunga la cittadinanza residente. I vecchi abitanti erano laici, mentre gli immigrati si portavano dietro una radicata tradizione islamica. Quel che trovarono nelle citta’ non piaceva loro: i locali dove si consumavano alcolici, i cabaret, le donne che portavano le gonne sopra le ginocchia, i cinema a luci rosse, le attrici seminude che cantavano e ballavano alla televisione. Questo movimento dai villaggi verso le citta’ era continuato per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta.

Poi, negli anni Sessanta, lo scia’ varo’ la sua riforma agraria. Le terre migliori vennero lasciate ai vecchi proprietari, mentre quelle poco fertili o del tutto infeconde furono distribuite tra i fattori, coloro che fino a quel. momento avevano lavorato materialmente la terra. Ma i coltivatori erano abituati ad avere nel proprietario un punto di riferimento: succhiava loro il sangue, ma li proteggeva. Prestava soldi, forniva le sementi e si premurava di aiutarli in caso di calamita’ . Quando si realizzo’ la suddivisione agricola, i fattori persero chi dava loro una mano e il governo non si curo’ di rimpiazzarli con un sistema bancario. I coltivatori non riuscirono a far fronte alla nuova situazione. Abbandonarono le fattorie e si diressero verso le citta’ .

Erano conservatori e credenti. I loro figli crebbero nelle citta’ e andarono a scuola. Frequentarono le universita’ , usufruendo delle borse di studio messe a disposizione dal governo dello scia’ . Ma era una generazione ancora sotto l’influenza islamica dei genitori. Secondo Ali’ sarebbero occorse almeno due o tre generazioni per cambiare una mentalita’ contadina, ma l’Iran non ne ebbe il tempo: le cose si muovevano troppo in fretta. La nuova generazione non ne aveva una precedente con la quale misurarsi, pertanto non tardo’ ad affermarsi come gruppo. Alcuni diventarono funzionari statali; altri, insegnanti. Molti entrarono nel commercio e si misero in affari.

Erano musulmani nel cuore. E siccome provenivano da famiglie povere, condividevano anche la mentalita’ del socialismo di sinistra. Ecco Perche’ i “mujaeddin” erano un potente richiamo: la loro ideologia era allo stesso tempo islamica e marxista. Che ironia: Allah e il materialismo! Le prime due generazioni di immigrati nelle citta’ non avevano interrotto le relazioni con le rispettive famiglie contadine rimaste nelle fattorie, nelle piccole cittadine e nei villaggi. Erano loro a capo del nuovo movimento. Ne ho conosciuti fin troppi a Kerman. cosi’ , quand’e’ scoppiata la rivoluzione, i capi si trovavano gia’ nelle citta’ , mentre le masse di cui avevano bisogno per le rivolte e le manifestazioni attendevano nei villaggi e nelle cittadine .

Ben lontano da tutto questo, come in un altro mondo, viveva il popolo dello scia’ , i figli e le figlie della vecchia comunita’ urbana. Molti di loro erano facoltosi e avevano studiato in Europa o in America. Parlavano diverse lingue e potevano conversare di filosofia occidentale o di politica europea. Conoscevano la storia di Francia, Germania e Inghilterra meglio di quanto conoscessero quella dell’Iran.

Costituivano forse il cinque per cento della popolazione, non di piu’ . Gli altri, in basso, formavano il novantacinque per cento, le masse che leggevano l’arabo e il Corano - il vero popolo. Non avevano contatti con quel cinque per cento. Erano come due tribo che vivessero sullo stesso territorio. Lo scia’ era circondato dal suo cinque per cento, specialmente verso la fine, dopo il matrimonio con l’ultima regina che aveva studiato in Francia e aveva una formazione francese in tutto e per tutto. Aborrivano la tradizione islamica cosi’ come l’altro gruppo aborriva quella occidentale che veniva loro imposte’.

Negli anni Settanta esplose il boom del petrolio. Le entrate dell’Iran, che crebbero di cinquanta volte rispetto al passato e produssero una ricchezza oltre ogni immaginazione, peggiorarono le cose.

La nuova ricchezza finiva tutta nelle citta’ , mentre la maggior parte della popolazione viveva nelle zone rurali. L’ultima generazione di contadini emigrati nei grandi centri si senti’ defraudata. A partire dal 1970 e sempre piu’ in fretta, le organizzazioni islamiche cominciarono a spuntare come funghi nelle universita’ e nelle citta’ , specialmente nei bazar, e fungevano da partiti politici, dal momento che lo scia’ non tollerava che si instaurasse un vero pluralismo. Esprimevano cio’ che il popolo pensava dello scia’ e dei suoi sostenitori, ossia che non erano islamici. E per tutta risposta lo scia’ , la regina e la loro cerchia presero a organizzare manifestazioni culturali. Invitarono dall’estero poeti, musicisti, ballerini e ogni genere di artisti. Un gruppo danzo’ completamente nudo. Ci furono molti spettacoli di questo tipo, e fu come gettare benzina sul fuoco .

Adesso, dopo quasi vent’anni, lo scia’ e il suo gruppo erano scomparsi. Dappertutto si vedevano le fotografie a colori dei capi religiosi, che a loro volta pretendevano obbedienza assoluta. La nazione pullulava di precetti islamici, e i Guardiani e i Basiji si assicuravano che venissero rispettati al pomeriggio nel parco e di notte per le strade. I ragazzi piu’ giovani, come il fratello di Fereydo n, non avevano conosciuto altro che il potere religioso. Lui era diventato nazista, nella sua maniera ingenua e pericolosa, e di notte usciva con gli amici a deridere i Guardiani. Fra i giovani era in corso una rivoluzione sessuale e cominciava a trasparire un certo distacco dalla religione troppo rigida e invadente. A proposito di quella costante deriva dalla fede, Emami il “talebeh” aveva osservato a Qom: I nemici conoscono la nostra debolezze’. Sembrava che dopo tanto dolore stesse per nascere un nuovo nichilismo.

Le due tribo esistono ancora in Iran concluse Ali’ . Se non trovano il modo di unirsi, non so proprio dove andranno a finire .