Risi. Un po’ per la barzelletta, un po’ perché mi rendevo conto che l’umorismo afghano era sempre lo stesso. Si erano combattute tante guerre, era stato inventato internet, un robot si era mosso sulla superficie di Marte e gli afghani continuavano a raccontare le barzellette sul Mullah Nasruddin.

(Da Il cacciatore di aquiloni)

Farid, l’autista tagiko, con il suo Land Cruiser catorcio, deve accompagnare Amir da Peshawar a Kabul attraverso lo scenario lunare del passo Khyber. Il suo rapporto con l’afghano americanizzato parte male. Se ne sta muto al volante, sbirciando con ostilità il suo viaggiatore nello specchietto retrovisore, e non perde occasione di rinfacciargli il tradimento, la fuga dalla spaventosa realtà del suo paese. Lo accusa non solo di essere ora un turista in Afghanistan, ma di esserlo sempre stato: venendo da una famiglia ricca, Amir agha non ha idea di quali siano le condizioni di vita della maggioranza degli afghani; gli fa una serie di domande rancorose cui lui stesso risponde, senza lasciare all’altro modo di spiegare le ragioni del suo ritorno.

Farid è scorbutico e violento per eccesso di passione, ma è intelligente e spiritoso. Quando Wahid commenta che il proprio asino viaggia meglio dell’automobile di Farid, il fratello prontamente risponde: «Ci vuole un asino per apprezzare un asino». Una risposta degna di Nasruddin. Ma anche Amir dimostra di essere all’altezza della logica stralunata del famoso Mullah. Dopo aver finalmente ascoltato il motivo che ha portato Amir a Peshawar, Farid lo rimprovera di non averglielo comunicato prima. E Amir candidamente risponde: «Non me l’hai chiesto» utilizzando la letteralità, un aspetto fondamentale dell’umorismo del Mullah Nasruddin.

La conoscenza delle reciproche storie porta i due uomini a diventare amici, tra di loro si stabilisce una solidarietà fraterna, anche se Farid continuerà a chiamare Amir con il rispettoso agha. Il tempo della loro amicizia è prezioso, perché entrambi sanno che è legato a una contingenza fortuita e che non ci sarà un futuro comune. Forse è questo sentimento della precarietà e dell’imprevedibilità della vita che suggerisce a Farid le barzellette di Nasruddin, mentre cerca di prendere sonno sdraiato sulla stuoia in una squallida stanza di un alberghetto di Kabul. Oppure è l’evocazione dell’asino, l’animale inseparabile dalla figura del Mullah a richiamare alla memoria di Farid le facezie di Nasruddin. Dopo una giornata di esperienze angosciose il riso è liberatorio, scioglie la tensione. L’intellettuale Amir sembra invece snobbare la cultura popolare di Farid, refrattaria alle novità tecnologiche, ancorata alla tradizione su cui è costruita la sua identità. Amir ha dimenticato che da ragazzino, attraverso la lettura delle facezie di Nasruddin faceva pesare all’analfabeta Hassan la propria superiorità di studente. Forse non coglie quanto sia prezioso conservare quel miscuglio di stupidità e di saggezza, di intelligenza e di follia che permette a Nasruddin e a tutti noi di vivere.

Khoja Nasruddin

Sul lato orientale della piazza Labi-hauz di Bukhara, oggi in Uzbekistan, c’è la statua di un uomo a cavallo di un asino dalle orecchie enormi. L’animale quasi sparisce sotto l’imponente mole del cavaliere, in chapan e pantofole con la punta all’insù. È Khoja (Maestro) Nasruddin, un personaggio talmente popolare dall’Asia centrale ai Balcani che il folklore gli ha costruito una biografia: nella città turca di Akshehir esiste persino il suo presunto mausoleo, sede di pellegrinaggio, come la tomba di un santo.

Secondo la tradizione Nasruddin sarebbe vissuto tra il XIII e il XIV secolo nella Turchia centro meridionale e sarebbe stato un sufi, un mistico, che alleggeriva con l’umorismo il proprio insegnamento teologico. In realtà non esistono documenti storici che provino in modo inequivocabile che il Mullah Nasruddin sia davvero esistito; tuttavia attorno alla sua figura si sono coagulati centinaia di racconti, aneddoti, barzellette e battute di spirito che l’hanno reso famoso oltre i confini dell’impero ottomano.

Però, man mano che alla figura di Nasruddin veniva attribuito un carattere turco esemplare, dal suo repertorio sono stati espunti gli episodi salaci incentrati sul sesso, la sodomia, gli escrementi o altri aspetti poco edificanti della vita del Mullah, che pure erano presenti nella tradizione medievale, dove erano affrontati con spiritosa naturalezza. Oggi in Turchia il povero Nasruddin così addomesticato è sfruttato a scopi turistici, non diversamente dalle rovine archeologiche e dalle spiagge assolate.

A partire dall’Ottocento traduzioni e adattamenti hanno rimescolato le tradizioni araba, persiana e turca al punto tale che qualsiasi storiella si adattasse al carattere del personaggio è stata accolta e contrabbandata per autentica. Oggi il corpus dei racconti che vengono attribuiti al Mullah va continuamente arricchendosi e ormai ne ingloba un migliaio.

Nasruddin possiede una decina di controfigure in tutto il Mediterraneo, le più famose sono l’egiziano Giuha e il suo cugino siciliano Giufà. Il lettore riconoscerà nelle storielle di Nasruddin racconti presenti nella propria tradizione popolare, anche se lontanissima da quella del famoso Mullah: lo sciocco del villaggio, il furbo, irriverente, trasgressivo e allo stesso tempo saggio, è una figura universale.

Una logica spiazzante

Un venerdì Nasruddin doveva tenere la khutba, il sermone, dal pulpito della moschea del suo villaggio. Esordì chiedendo ai fedeli se sapessero quello che stava per dire. Alla risposta negativa dei presenti il Mullah dichiarò: «Io non parlo a degli ignoranti». E lasciò il pulpito.

Il venerdì successivo, edotti dall’esperienza, quando il Mullah rivolse loro la medesima domanda, i credenti risposero che sì, lo sapevano.

«In questo caso,» disse Nasruddin «se già sapete quello che ho intenzione di dirvi, non è il caso che vi faccia perdere tempo.» E se ne andò. Alla preghiera collettiva del venerdì successivo i fedeli si misero d’accordo: metà di loro avrebbe detto di sapere quello che il Mullah avrebbe detto, l’altra metà avrebbe invece detto di ignorarlo.

«Se metà di voi sa quello che vi voglio dire, lo dica alla metà che non lo sa» sentenziò Nasruddin e lasciò la moschea.

La stessa logica balorda svela la stoltezza degli opportunisti in una delle storielle più note.

Un giorno Nasruddin si fece prestare una pentola dal vicino di casa. Quando la restituì il vicino notò che dentro la sua grossa pentola ce n’era un’altra più piccola e ne chiese ragione a Nasruddin.

«Forse la pentola grande è rimasta incinta e quella piccola è sua figlia. Visto che la pentola madre è tua, è tua anche la pentola figlia» spiegò il Mullah.

Soddisfatto, il vicino se ne tornò a casa con le due pentole. Qualche tempo dopo Nasruddin chiese in prestito al vicino il kazan, una grande padella d’acciaio. Il vicino fu felicissimo della richiesta, sperando che questa grossa padella avrebbe partorito un figlio più grande del precedente. Trascorse molto tempo e Nasruddin non restituiva il kazan. Il vicino alla fine chiese al Mullah che fine avesse fatto la sua padella.

«Oh, stavo per dirtelo,» gli rispose Nasruddin «ma è così triste!»

«Che è successo?» chiese allarmato il vicino.

«Mi spiace doverti dire che il tuo kazan è morto e quindi non posso più restituirtelo.»

«Cosa? I kazan sono di metallo e non possono morire!»

«Ah,» disse Nasruddin «se una pentola può partorire, perché un kazan non dovrebbe morire?»

In molte facezie l’interlocutore di Nasruddin è lo spietato Tamerlano che il Mullah riesce sempre a far sorridere sfuggendo così all’impiccagione. La parola che salva la vita, come per Shehrazade.

Un giorno Nasruddin porta in dono a Tamerlano un’oca arrosto. Per non farsi tentare dall’irresistibile profumo che emana, il Mullah si tiene tappato il naso. Ma una mosca gli si posa sulla fronte e per scacciarla è costretto a lasciare libero il naso. La tentazione è troppo grande. «Sono secoli che non mangio un’oca arrosto e poi nel palazzo di Tamerlano il cibo abbonda e nessuno patirà la fame se io mangio una coscia.» E mangia la coscia. Ma a quel punto deve risolvere il problema di un’oca con una zampa sola. Tamerlano infatti, dopo aver ammirato l’oca chiede: «Come mai quest’oca ha una coscia sola?».

«Perché? Quante dovrebbe averne?»

«Due, è ovvio.»

«Forse in altri paesi, ma qui ad Akshehir le oche sono famose per avere una zampa sola.»

«Non sono così sciocco da credere a una simile panzana! So benissimo dov’è finita l’altra zampa» urla infuriato Tamerlano.

«Se non mi credete venite a guardare» risponde senza scomporsi Nasruddin.

Tamerlano si affaccia alla finestra e vede dodici grandi oche bianche che dormono su una zampa sola tenendo la testa sotto l’ala.

«Io conto dodici oche e dodici zampe e voi?» chiede Nasruddin.

«In realtà ne conto dodici anch’io, ma al mio paese sono certo che le oche avevano due zampe.»

«Forse al vostro paese è così, ma qui ad Akshehir tutti sanno che le oche hanno una zampa sola.»

In quel momento dal cortile si alza un nitrito pauroso. Un cammello si è svegliato di scatto, facendo scappare le oche sulle loro due zampe. Nasruddin, che ha prudentemente guadagnato la porta, si volta e dice: «Se anche voi foste svegliato nel cuore della notte da un rumore terrificante con quante gambe scappereste?».

C’è una novella del Boccaccio (Decamerone, VI, 4) che sembra ricalcata su questa storiella di Nasruddin. Chichibio, cuoco del nobile Currado Gianfigliazzi, gli presenta in tavola una gru con una zampa sola: l’altra l’ha regalata a Brunetta, la ragazza di cui è innamorato. Alle rimostranze del suo signore, il cuoco sostiene che il giorno seguente gli mostrerà come le gru abbiano in realtà una zampa sola. All’alba Currado conduce Chichibio presso il fiume dove sostano le gru che ancora dormono su una zampa sola con la testa sotto l’ala. Appena le avvista il nobile cavaliere grida ho ho e le gru mettono giù la seconda zampa e volano via. «Che ti par, ghiottone? Parti ch’elle n’abbin due?» chiede Currado. Forse la risposta di Chichibio è ancora più “sollazzevole” della battuta finale di Nasruddin: «Messer sì, ma voi non gridaste ho ho a quella di iersera: ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandato, come hanno fatto queste».

Nasruddin trova risposte che sempre rovesciano il buon senso.

«Maestro, è più utile il sole o la luna?» gli chiede uno studente.

«La luna, naturalmente. Il sole illumina la terra di giorno, quando non è necessario, perché già c’è luce, mentre la luna illumina la terra di notte quando di luce non ce n’è.»

Però, persino la ferrea razionalità del Mullah cede alla poesia della luna.

Allo studente che gli chiede dove finiscono le vecchie lune piene, Nasruddin risponde convinto: «Le fanno a pezzetti per fabbricare le stelle».

La realtà inconoscibile

A tutti capita di avere la presunzione di credere che il rapporto causa-effetto possa essere sempre spiegato dalla scienza, ma in realtà i nessi tra diversi fenomeni spesso ci sfuggono. Nasruddin ne è consapevole.

Un giorno il Mullah si mette a spargere grandi manciate di sale attorno alla propria casa. Il vicino vedendolo si stupisce.

«Perché lo fai?»

«Per tenere lontano le tigri» spiega Nasruddin.

«Ma nel nostro villaggio non ci sono mai state tigri» ribatte il vicino.

«Appunto, vedi che il sale funziona?»

Non c’è come cambiare punto di vista per trovarci di fronte a una diversa realtà.

Un giorno Nasruddin va al mercato e compra dieci asini. Monta sul primo della fila e si dirige verso casa. A un certo punto decide di verificare se tutti gli asini lo seguono. Li conta e constata che sono nove. Smonta e riconta gli asini: questa volta ne risultano dieci. Rimonta sul suo asino e conta di nuovo: gli asini sono nuovamente nove. Perplesso si dice: «Meglio andare a piedi e avere un asino in più, piuttosto che stare comodo e perderne uno».

A volte basta alzare gli occhi da terra per trovare nella bellezza una giustificazione al nostro esistere.

Nasruddin vede riflessa la luna nel pozzo.

«Poverina» si rammarica. «Sei caduta nel pozzo.»

Attacca il secchio alla carrucola e lo cala nel pozzo. Quando lo tira su, dà un grande strattone, perché immagina che la luna sia pesante. Cade a gambe all’aria e vede la luna brillare splendida nel cielo.

«Come sono contento d’averti liberata!» esclama felice il Mullah.

Spesso ci accontentiamo dell’aspetto più superficiale della realtà, restando ciechi alle sue infinite possibilità.

«Che cos’è?» chiede un forestiero a Nasruddin, indicando il minareto del villaggio.

«È l’interno di un pozzo. È lì ad asciugare» risponde convinto il Mullah.

Chi l’avrebbe mai immaginato?

Nasruddin e la famiglia

Nasruddin non dimostra di provare emozioni, ma forse nutre qualcosa di simile all’affetto per il suo asino. L’erotismo, almeno negli episodi della vulgata, non fa parte del suo mondo emotivo, anzi una vena di misoginia corre attraverso tutte le storielle che mettono in scena donne. Basta ascoltare che cosa pensa del matrimonio.

«Mullah, che cos’è il matrimonio?» gli viene chiesto.

«È fare cose assieme» risponde Nasruddin. «Di giorno si litiga assieme e di notte si russa assieme.»

Se si ha un figlio neonato è difficile russare in santa pace.

«Nasruddin, il bambino piange. Visto che è anche figlio tuo, vai a cullare la tua metà» gli ordina la moglie Khadigia.

«Ti faccio una proposta: tu vai a cullare la tua metà e lascia pure piangere la mia.»

Il Mullah è famoso per la sua bruttezza, ma anche la moglie non scherza.

Una notte Nasruddin torna a casa tutto allegro e dice a Khadigia: «Moglie mia, bere ti fa diventare bellissima».

«Ma io non ho bevuto.»

«Io sì, invece.»

Sappiamo dalla storiella che racconta Farid in quale considerazione Nasruddin tenga sua figlia. La poveraccia è spesso vittima della pedagogia manesca del padre.

Un giorno Nasruddin manda la figlia al pozzo a prendere l’acqua. Dopo averle sistemato sulle spalle la pertica con i due secchi le propina due sonori ceffoni.

«Vedi di non farli cadere» la minaccia.

Il vicino che ha visto la scena gli chiede: «Perché picchi la ragazza? Non ha fatto cadere i secchi».

«A che servirebbe la punizione dopo che l’acqua è stata rovesciata?» chiede saggiamente il Mullah.

Come sempre in Nasruddin la logica è paradossale e capovolta, ma allo stesso tempo irreprensibile.

Niente di umano mi è estraneo

Per restituire a Nasruddin la sua piena umanità è necessario ripescare dal repertorio medievale le sue facezie sugli aspetti rozzi se non addirittura sconci della sua personalità. Nihil humanum a me alienum puto avrebbe potuto affermare il Mullah se avesse parlato latino. La sua ironia viene sollecitata in presenza di am e di sik.

Narsuddin viene fermato per strada da un gruppo di donne note in città per la disinvoltura dei loro costumi.

«O dotto Nasruddin, togliti il turbante e vieni a divertirti con noi» lo invita una delle donne che non esita a sollevare l’abito e a mostrargli la sua am.

Il Mullah gira il capo e chiede aiuto al cielo: «O Custode del pudore, che io possa rifugiarmi in te».

La sua ritrosia eccita le donne.

«Nasruddin, sei diventato miscredente che rifiuti il paradiso dei poveri?»

A quel punto il Mullah solleva la tunica, scioglie il turbante e fascia il suo sik come avvolgesse un cadavere nel sudario.

«Cosa fai?» gli chiedono perplesse le donne.

«Belle uri, guardate: c’è un poveruomo che chiede di entrare in paradiso.»

Le donne scoppiano a ridere, poi una di loro vede qualcosa che pende ai due lati del sudario e chiede: «E chi sono quelli con le teste d’uovo?».

«Sono i figli che vegliano sulla tomba!»

Nasruddin ha esercitato molti mestieri tra i quali quello di giureconsulto. Molti gli chiedono consigli giuridici su come comportarsi in occasioni particolarmente delicate.

«Se l’imam scoreggia durante il sermone, cosa devono fare i credenti?»

«È ovvio,» risponde Narsuddin «andare a cacare.»

Su questioni di sesso Nasruddin non è discriminante, anzi mostra una grande ampiezza di vedute.

Un giorno Nasruddin decide di far visita a suo fratello che vive in un’altra città. Appena si incontrano il Mullah gli chiede il permesso di sodomizzarlo. Il fratello infuriato lo respinge coprendolo di insulti da trivio.

Nasruddin non comprende questa mancanza di cortesia.

«O figlio prediletto di nostro padre! Se un fratello rifiuta al fratello una richiesta così personale, a chi mai potrebbe rivolgerla?»

Vista l’incomprensione degli esseri umani, il Mullah sa di trovare un’accoglienza più benevola presso il proprio asino.

Il Mullah si nasconde nel cimitero per accoppiarsi con il suo asino quando viene disturbato da un visitatore che, alla vista dell’esibizione zoofila di Narsuddin, disgustato sputa per terra con disprezzo.

«Figlio di cane!» lo insulta Khoja Nasruddin. «Sei fortunato che in questo momento ho altro da fare, altrimenti ti avrei insegnato io a insudiciare un luogo santo.»

Dal ridicolo al sublime

Il mondo di Khoja Nasruddin è un mondo arcaico, povero, spregiudicato, affamato. Il Mullah raccoglie legna nei boschi, coltiva un campicello, ruba dolci nella bottega del pasticciere, contrae debiti, dà falsa testimonianza, va al mercato a comperare e a vendere, imbroglia il prossimo, accantona la morale. Per sopravvivere.

Molte storielle iniziano con la frase: «Nasruddin ha fame». Anche suo figlio non mangia tutti i giorni.

Un giorno mentre Nasruddin passeggia con il figlio nelle strade di Akshehir si imbatte in un funerale. In testa al corteo funebre la vedova del defunto piange disperatamente gridando: «O Allah! Ieri mangiava, beveva, si godeva le cose buone del mondo e ora va in un luogo dove non si mangia, non si beve, dove non c’è altro che freddo e miseria!».

«Padre,» chiede il ragazzo «perché lo portano a casa nostra?»

In un mondo di miseria il cibo è un tema centrale.

Nasruddin va al mercato e compera un bel pezzo di montone. Corre a casa e chiede alla moglie di cucinarlo, poi se ne va per i fatti suoi. Arriva il fratello della moglie e insieme fanno festa al montone. Quando il Mullah torna annusa estasiato il profumo della carne e vuole mangiare subito. «Il gatto s’è mangiato la carne mentre ero all’hamam» si giustifica la moglie. Senza replicare Nasruddin afferra il gatto e lo mette sulla bilancia. «Il gatto pesa tre chili, esattamente come il pezzo di montone che ho comperato io. Se questi tre chili sono il gatto dov’è la carne? E se i tre chili sono la carne, dov’è il gatto?»

Una versione molto simile di questa storiella è narrata dal poeta Jalaluddin Rumi, al quale secondo alcuni studiosi viene attribuita la trasmissione delle storie di Khoja Nasruddin da Balkh, la sua città natale, oggi in Afghanistan, alla Turchia selgiuchide dove il grande mistico era emigrato con la sua famiglia. La versione di Rumi, però, si conclude con un’interpretazione mistica.

Se hai un corpo, dov’è lo spirito?

Se sei spirito, che cos’è il corpo?

Rumi, il grande mistico originario di Balkh, riconosceva nel riso un’espressione spirituale irrinunciabile: «Se non hai senso dell’umorismo la tua anima non è completa». Un valore inconciliabile con ogni fanatismo.

La ricerca ha bisogno della luce, il Mullah lo sa bene.

Nasruddin torna dalla chaikhanè, la bottega del tè, dove ha fatto le ore piccole in chiacchiere con gli amici e davanti alla porta di casa smarrisce l’anello che porta al dito. L’amico che l’accompagna inizia a cercare a tentoni, mentre il Mullah torna sulla strada illuminata dal chiaro di luna.

«Che fai laggiù?» gli grida l’amico. «Il tuo anello è caduto qui.»

«Tu cerca dove vuoi, io preferisco cercare dove c’è luce.»

Lo sciocco dunque ci invita a ricercare la verità con strumenti diversi da quelli che fornisce il nostro banale buonsenso, ad andare per la nostra strada, per quanto poco frequentata. Assurdo aspettarsi risposte sensate da un mondo assurdo. Meglio riderci su.

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Nel terzo anno di guerra i miei genitori persero la casa e l’officina dove mio padre riparava motociclette. Il dopoguerra è stato segnato per noi da una grande povertà. Mia sorella e io siamo cresciute rimuovendo ogni desiderio: mai avremmo voluto mettere in imbarazzo i nostri genitori avanzando richieste che non avrebbero potuto essere soddisfatte. «Bisogna fare di necessità virtù» ripeteva la mamma. Il concetto era troppo astratto perché lo potessimo apprezzare, ma capivamo che era un invito a non chiedere.

La cultura montanara di nostra madre aggiungeva durezza a durezza, non facendo nessuna concessione neppure alla malattia. Invidiavamo le nostre compagne di scuola che avevano spesso “qualche lineetta di febbre”; noi, purtroppo, eravamo sanissime e le lineette di febbre ce le sognavamo. Tosse, raffreddore e influenza venivano considerati fenomeni naturali, alla stregua della neve d’inverno e del sole d’estate. Non erano un motivo sufficiente per non andare a scuola. Per fortuna davanti alle malattie infantili persino il piglio spartano di nostra madre dava segni di cedimento.

E con le malattie “vere” arrivarono i primi libri che mi permisero di rifugiarmi in un mondo fantastico e di costruirmi una vita di sogno, parallela a quella della prosaica quotidianità. Per il morbillo ricevetti il primo libro della mia vita: Le avventure di Pinocchio. Sulla copertina c’era la marionetta in rilievo: gambe e braccia di sughero, di feltro il vestitino rosso e il berretto bianco a cono e di celluloide il lungo naso vermiglione. Pinocchio, il burattino di uno scrittore toscano dell’Ottocento che un secolo dopo ancora affascina me bambina non meno dell’afghana Mariam: per festeggiare il proprio compleanno Mariam non desidera altro che vedere il cartone animato delle avventure del bambino di legno, seduta in galleria al buio con il padre e i suoi dieci fratellastri. Ma questo non era nei progetti di Jalil.

Costretta a letto dalla febbre, finalmente, ogni pomeriggio aspettavo di veder comparire la mamma con il libro, proprio come Hassan aspettava che Amir gli leggesse un episodio dello Shahnamah. Felice che le macchioline violacee testimoniassero la gravità della mia malattia, ascoltavo rapita il racconto che la mamma leggeva e rileggeva finché alla fine lo conoscevo a memoria e mi divertivo a concludere le frasi prima di lei.

La scarlattina venne celebrata con la lettura di Mastro Ciliegia. Quando il libretto di poche pagine veniva aperto alla metà, balzava fuori un’immensa quercia sotto la quale stava spaparanzato Mastro Ciliegia con due enormi piedi scalzi in primo piano. Attorno a lui all’apertura del libro alcuni cocomeri si rizzavano come soldati sull’attenti.

Il racconto aveva lo scopo ovvio di insegnare l’accettazione della realtà, come se ce ne fosse stato bisogno. Un giorno Mastro Ciliegia si sdraia in un campo di cocomeri per fare un riposino sotto una grande quercia. La osserva e si stupisce che un albero così grande produca frutti così piccini, mentre i cocomeri crescono su steli tanto fragili da essere costretti a strisciare sul terreno come serpenti. La sproporzione tra la dimensione dei frutti e quella dell’albero gli sembra incongrua. Mentre è immerso in queste riflessioni una ghianda gli cade sulla testa.

«Oh Dio onnipotente, quello che fai Tu è sempre ben fatto. Cosa sarebbe successo alla mia testa se invece di una ghianda fosse caduto un cocomero!»

Con mia immensa sorpresa proprio in questi giorni, leggendo le raccolte di storielle arabe, persiane e turche, ho scoperto che Mastro Ciliegia altri non era che un emulo casereccio dei celebri Giuha e Khoja Nasruddin.

Quando noi bambine ci rifiutavamo di mangiare qualcosa la mamma ci minacciava: «Farete la fine di quell’asino!». «Che fine ha fatto quell’asino?» chiedevamo incuriosite: le storie della mamma ci prospettavano un mondo contadino che a noi appariva esotico. «Al mio paese c’era un uomo molto povero. Un giorno, per risparmiare, decise di dare al suo asino una dose di biada più scarsa del solito. Visto che l’asino continuava a vivere e a tirare il carretto anche con meno cibo, di giorno in giorno il padrone gli diede razioni sempre più magre, finché un mattino trovò l’asino stecchito» concludeva la mamma con sadica soddisfazione.

Chi era quel contadino del paese della mamma se non un’incarnazione lombarda di Nasruddin? Nel racconto turco il pio Mullah, addolorato per la morte del suo animale, si interroga sul senso dell’operato di Dio. «Oh Dio clemente, misericordioso, perché ti sei ripreso il mio asino proprio ora che aveva imparato a non mangiare?» E la medesima domanda si pone il napoletano Perrello alla morte del suo cavallo.

Penso a una famosa storiella di Nasruddin ogni volta che perdo molti minuti alla ricerca degli occhiali, vagando per la casa come una gallina senza testa. Eppure quando li poso da qualche parte non manco mai di dirmi che cosa devo ricordare per ritrovarli.

Nasruddin cerca disperato i dehram che ha nascosto nel deserto.

«Avresti dovuto lasciare un segno!» gli dice un amico.

«È proprio quello che ho fatto.»

«Che segno hai lasciato?»

«L’ombra di una nuvola, ma non trovo più nemmeno quella!»