Quando ho saputo che la mia traduttrice italiana, profonda conoscitrice del mondo islamico, esperta archeologa e studiosa dell’Afghanistan, stava progettando la stesura di un libro in cui, prendendo spunto dai miei romanzi, intendeva esplorare la cultura e le tradizioni del mio paese, ne sono stato entusiasta e onorato al tempo stesso, così come sono lusingato di scrivere l’introduzione al risultato finale di quel progetto.

Dal momento in cui è partita l’avventura de Il cacciatore di aquiloni, seguito dopo qualche anno da Mille splendidi soli, ho avuto la grande soddisfazione di vedere letta e tradotta la mia opera in moltissimi paesi e di sapere apprezzata la mia scrittura. Ma altrettanto importante è stato per me che i miei romanzi parlassero dell’Afghanistan, il paese in cui sono nato e cresciuto da bambino, che ho lasciato a undici anni ma che nel mio cuore è rimasto il mio paese, poiché mi considero, e mi considererò sempre, un afghano in esilio.

È un onere notevole, per uno scrittore, sentire la responsabilità di rappresentare la propria cultura e trasmetterla a chi legge e, a dir la verità, non è mai stato questo l’intento originario del mio lavoro. Per me l’intero processo creativo ha origine e si sviluppa sempre da un punto di partenza molto personale, intimo, che ha a che fare con i rapporti umani. Scrivere un romanzo è, soprattutto, narrare, e io sono cresciuto in una cultura di grande tradizione orale. Quel che conta per me è l’emozione che posso suscitare in chi legge, il coinvolgimento per le vicende dei personaggi, per il loro destino.

Ma l’essere riuscito a risvegliare un dialogo sul mio paese, a farlo conoscere al di là delle logore immagini trasmesse dai media – immagini che parlano quasi esclusivamente di guerra, di terrorismo, di oppio, di discriminazione – è stato un risultato straordinario e prezioso, perché ha fatto sì che molti si rendessero conto che gli afghani esistono da prima della guerra contro i sovietici e da prima dei talebani, che l’Afghanistan non è sempre stato così. La fiction è, in questo senso, un mezzo straordinariamente potente ed efficace. Sono fortunato nell’aver potuto trasmettere, attraverso i miei libri, una visione diversa, più ricca e sfaccettata, degli afghani, della loro umanità, della loro cultura e tradizioni. Ho ricevuto molte lettere ed e-mail da lettori che dicono di sentirsi più vicini all’Afghanistan e agli afghani dopo aver letto i miei romanzi. Alcuni hanno deciso di mobilitarsi per aiutare il popolo afghano, e io stesso, dalla posizione assolutamente privilegiata che ho raggiunto, ho voluto impegnarmi in prima persona, con una fondazione che porta il mio nome, nella realizzazione di progetti di sostegno che portino aiuto immediato alle famiglie più disagiate, opportunità economiche e di lavoro per le donne e un’educazione ai bambini – donne e bambini essendo le categorie che maggiormente hanno sofferto dei continui rivolgimenti degli ultimi decenni e che al tempo stesso sono l’ossatura di quello che sarà l’Afghanistan di domani.

Spero pertanto che anche i lettori di questo libro, che invita a osservare più da vicino gli usi, i costumi, la poesia e l’arte dell’Afghanistan, possano apprezzare quanto di grande, di nobile, di antico vi è nella cultura afghana e che provino il desiderio di scoprire l’anima di un popolo che non ha smesso di soffrire, ma non ha smesso di sperare.

Khaled Hosseini