Il libro che Hassan preferiva sopra ogni altro era lo Shahnamah, il Libro dei Re, un poema epico persiano del decimo secolo. Gli piacevano tutti i personaggi, ma il suo racconto preferito, e anche il mio, era quello del grande guerriero Rostam e del suo cavallo Rakhsh, veloce come il vento. Rostam ferisce mortalmente in battaglia Sohrab, il suo valoroso avversario, e alla fine scopre che Sohrab è suo figlio, da tanto tempo perduto.

(Da Il cacciatore di aquiloni)

Amir e Hassan non sanno perché l’episodio del duello tra Rostam e Sohrab li commuove tanto e solo Amir finirà per scoprirlo ormai adulto. Ma il fascino di quel poema è così potente per i due ragazzini che li accompagnerà per tutta la vita e verrà trasmesso alla nuova generazione: Ali e Hassan regalano ad Amir una copia illustrata dello Shahnamah, il Libro dei Re, per il suo tredicesimo compleanno; Hassan lo leggerà al figlioletto Sohrab e Amir tenterà, inutilmente, di strappare Sohrab alla disperazione con la lettura del famoso episodio in cui il suo omonimo interroga la madre, la principessa Tahmineh, sull’identità del padre.

Che un poema epico di sessantamila versi composto mille anni fa sia la lettura preferita di due bambini del XX secolo lascia sconcertati. Come immaginare due dodicenni italiani che leggono per diletto L’Orlando furioso, pur di cinque secoli più vicino nel tempo? Sembra inverosimile che Amir e Hassan capiscano il persiano di un poeta così antico. Eppure è del tutto credibile, perché, rispetto al persiano di Ferdowsi, il farsi non ha subìto cambiamenti tanto profondi da risultare incomprensibile. Un iraniano moderno non ha difficoltà a capire un poema antico di mille anni, perché nella letteratura persiana la tradizione epica non si è mai interrotta.

Il Paradisiaco

Ferdowsi è considerato il più grande narratore della poesia persiana classica. Non c’è lettore di lingua farsi che non conosca a memoria passi dello Shahnamah così come, forse, non c’è italiano che non conosca almeno la prima terzina della Divina Commedia. Ferdowsi è una sorta di Dante iraniano, ammirato e venerato come padre della patria per aver cantato i re e gli eroi di un passato che sprofonda nelle nebbie del mito, dove la distinzione tra storia e leggenda si estingue. La vita stessa di Ferdowsi e la creazione dello Shahnamah sono avvolte nella leggenda.

Il nome proprio del poeta è sconosciuto. Conosciamo quel segmento del nome arabo-islamico che si chiama konyat, Abu ‘l-Qasem (padre di Qasem), e il soprannome Ferdowsi, il Paradisiaco. Le poche notizie sicure sulla sua vita si ricavano dai suoi stessi versi.

Nacque attorno al 940 nei dintorni di Tus, nel Khorasan, da una famiglia di possidenti terrieri della piccola nobiltà contadina, depositaria della memoria delle antiche leggende iraniche. Lavorò per trentacinque anni alla composizione dello Shahnamah, il poema che narra le gesta dei sovrani iranici dalla creazione del mondo alla conquista islamica nel VII secolo. Dedicò la sua opera a Sultan Mahmud di Ghazna, il più grande sovrano del suo tempo, uno dei tanti dinasti che si affermarono con la disgregazione dell’impero abbaside.

La venerazione di cui è oggetto Ferdowsi nel corso dei secoli ha fatto nascere molte leggende sugli avvenimenti che lo portarono a Ghazna alla corte di Sultan Mahmud.

Si racconta che il ghaznavide fosse alla ricerca di un poeta che raccontasse in versi gli antichi miti iranici. Ferdowsi si recò a Ghazna con il suo poema. In un giardino della città incontrò i tre più famosi poeti di corte esperti in panegirici. Vedendo il suo aspetto dimesso, gli aedi reali avrebbero voluto cacciarlo con disprezzo, ma Ferdowsi propose loro una gara: ognuno avrebbe improvvisato un verso cui l’altro doveva rispondere usando lo stesso metro e la stessa rima. Ferdowsi lasciò i tre allibiti terminando la gara con un elegante verso di grande erudizione. Così ottenne di essere presentato a Mahmud. Il sovrano gli promise un dinar d’oro per ogni verso del Libro dei Re.

L’episodio del confronto poetico tra Ferdowsi e i tre poeti della corte di Ghazna è stato più volte illustrato nei manoscritti dello Shahnamah. Le belle miniature hanno certamente contribuito a conferire “realtà” alla leggenda.

Le gare poetiche nei paesi arabi hanno una tradizione che risale addirittura alla jahiliyya, l’era dell’ignoranza preislamica. È possibile che la passione per le tenzoni poetiche sia un’eredità lasciata dai conquistatori musulmani, una tradizione che ancora unisce il passato al presente. Amir conosce a memoria centinaia di versi dei classici persiani ed è imbattibile allo sherjangi che si gioca a scuola: uno studente recita un verso e il suo rivale in sessanta secondi deve rispondere con un altro verso che inizi con la lettera con cui termina quello del compagno. Ma per questa abilità del figlio Baba non dimostra alcun riconoscimento.

Argento al posto di oro

Secondo un’altra tradizione raccolta nella sua città circa un secolo dopo la morte del poeta, Ferdowsi avrebbe intrapreso la fatica dello Shahnamah per dare a sua figlia una dote onorevole. Compiuta l’opera, la fece copiare in sette volumi (un numero magico non solo nella tradizione persiana) e li portò a Ghazna per presentarli a Mahmud. A causa forse della maldicenza dei rivali invidiosi, il poeta ricevette dal sultano sessantamila derham d’argento invece dei sessantamila dinar d’oro promessi. Il dehram vale un centesimo di dinar.

Ferdowsi si ritenne offeso dall’avarizia di Mahmud e, sdegnato, distribuì i dehram del sultano in parti uguali come mancia al facchino, all’inserviente del bagno turco e a un birraio che si trovava a passare di là. Scrisse contro Mahmud una feroce invettiva che lasciò appesa al muro della sua stanza e fuggì da Ghazna, nascondendosi per qualche tempo a Herat, poi tornò a Tus, la sua città natale. Il sultano, furibondo, lo condannò a morte in contumacia per schiacciamento della testa sotto la zampa di un elefante.

Anni dopo il ghaznavide si pentì della propria avarizia e inviò a Ferdowsi una carovana di cammelli carichi di doni che entrò in città proprio nel momento in cui dalla porta opposta usciva il funerale del poeta. Un fanatico mullah gli aveva rifiutato sepoltura in cimitero musulmano, accusandolo di eresia, perché, a suo giudizio, Ferdowsi aveva troppo esaltato il passato zoroastriano della Persia sassanide e aveva dimostrato simpatie sciite. Venne sepolto in un suo giardino appena fuori le mura di Tus. Il poeta era morto ottantenne, stanco, curvo e mezzo sordo. Era il 1020.

Secondo versioni elaborate più di quattro secoli dopo la morte di Ferdowsi, alla corte dei timuridi, i discendenti di Tamerlano che avevano la loro capitale a Herat, anche la figlia del poeta rifiutò il tardivo riconoscimento di Mahmud. Una diversa leggenda racconta invece che la donna accettò il denaro e lo impiegò nella costruzione di un nuovo ponte in pietra e di un caravanserraglio in cui i viaggiatori potessero riposare, commerciare e raccontarsi storie.

Queste sono leggende al fondo delle quali di storico ci sono il viaggio del poeta a Ghazna per presentare al sovrano la sua fatica poetica e l’accoglienza fredda che Mahmud riservò allo Shahnamah. Ferdowsi ne rimase profondamente ferito: «Non gettò neppure uno sguardo al mio poema» si rammarica nei suoi versi.

E storica è anche la perdita dell’unico figlio che Ferdowsi piange in un passo commovente del Libro dei Re.

Mio era il turno di andare, ma partì quel giovane figlio, e pel dolore son fatto io corpo senz’anima.

Ed ora affrettarmi vorrei, affrettarmi ad incontrarlo, e all’incontrarlo, dolce rimprovero fargli:

«A me toccava partire, perché, contro il mio volere, tu te ne sei andato via e m’hai rapito la pace?

Consolatore tu m’eri nei cattivi casi del mondo, perché volesti staccarti da questo tuo vecchio compagno?

O forse più giovani e lieti trovasti amici laggiù, che così presto fuggisti via dalla mia compagnia?»

È possibile che questo grande dolore non sia estraneo al pathos con cui il poeta racconta l’episodio della morte di Sohrab per mano del padre Rostam che tanto coinvolge Amir e Hassan.

«Bella è da lontano la voce del tamburo»

Così dice un antico proverbio persiano. E bella risuona nel presente la voce del passato che la lontananza nel tempo carica di fascino rendendo ugualmente veri fatti storici e invenzioni mitologiche, esseri umani, demoni e draghi.

Lo Shahnamah ha soprattutto uno scopo didattico, morale, sapienziale, ma non è per questa ragione che Amir e Hassan lo leggono e rileggono, senza mai annoiarsi. Sono il racconto, l’avventura e il meraviglioso che incantano i due bambini, così come, a quanto si racconta, le medesime gesta di Rostam e del suo nemico Esfandiyar, narrate da cantastorie girovaghi, affascinavano quattordici secoli prima gli abitanti di La Mecca, distraendoli dalle prediche del Profeta.

Nello Shahnamah la storia della Persia è ricostruita attraverso le imprese dei re e dei guerrieri delle antiche leggende iraniche tramandate dalla tradizione orale. Il favoloso occupa un posto privilegiato nelle storie di Ferdowsi, in particolare sotto forma di esseri meravigliosi che intervengono nelle vicende umane con i loro poteri salvifici o malefici.

Il simorgh, la fenice iranica, è l’uccello dai poteri salutiferi che protegge la famiglia di Rostam. È il simorgh che lo ha allevato da bambino e che gli ha donato una sua penna da usare come talismano potente in caso di pericolo mortale. Malefici sono i div, in particolare il Div Bianco, sovrano di tutti i demoni, contro il quale Rostam combatte vittoriosamente per carpire tre gocce del suo sangue che dovranno restituire la vista allo scià Kai Kavus. Chi scrive come chi legge crede nella realtà del simorgh e del div e le creature di fantasia diventano creature di fede.

Il Libro dei Re non ha un vero protagonista, anche se Rostam ne è l’eroe più famoso. Quando nasce nessuno al mondo aveva mai visto una tale meraviglia: un bambino che assomiglia a un leone, grande nel corpo e bello nel viso. Tutti ne rimangono stupiti, perché nessuno ha mai sentito parlare di un bambino forte come un elefante. Diventato adulto, in groppa al suo destriero Rakhsh, Rostam potrà affermare: «Rakhsh è il mio trono, la spada è il mio sigillo, l’elmo è la mia corona».

Ma il vero protagonista del poema è il Tempo-Destino che plasma le azioni di re e di uomini comuni nella lotta incessante tra il bene e il male, le tenebre e la luce. Le generazioni transitano sulla faccia della terra, dice il poeta:

Come una carovana che da questa città e campagna

Debba passare, destinata ad un altro lontano paese.

Tutto al mondo passa e quasi orma non lascia: gli eroi di Ferdowsi ne sono consapevoli e vanno incontro indomiti al proprio destino.

Una luna di bellezza

Ogni mito ha punti in comune con tradizioni narrative di civiltà diverse e lontane. Il lettore riconoscerà nei racconti di Ferdowsi molti temi comuni ai miti greci che gli sono familiari.

Seduto accanto al letto di Sorhab all’ospedale Amir gli legge la storia di Tahmineh, la principessa di Samengan.

Rostam, nelle sue peregrinazioni di guerriero errante, capita a Samengan dove il re lo accoglie nella propria casa con ogni onore. La sua giovane e bella figlia Tahmineh, innamorata della fama guerresca di Rostam, nel cuore della notte gli si presenta profumata di muschio e di rose. «Che vuoi da me?» le chiede Rostam. «Sono Tahmineh, la figlia del re di Samengan, della razza del leopardo e del leone, e nessuno dei principi di questa terra è degno della mia mano e nessun uomo mi ha mai vista senza velo. Ma il mio cuore è lacerato dall’angoscia e il mio spirito sconvolto dal desiderio, perché ho sentito raccontare le tue audaci imprese e i miei occhi bramano posarsi sul tuo viso. E ora che Dio ti ha condotto nella casa di mio padre sono venuta a dirti che sono tua se mi vuoi ascoltare, ma se tu non mi vuoi non sposerò nessun altro. Forse Dio mi concederà un figlio che ti sarà pari per forza e valore e al quale sarà dato l’impero del mondo. E se mi presti ascolto condurrò davanti a te il tuo stallone Rakhsh e metterò sotto i tuoi piedi la terra di Samengan.»

Forse più che la bellezza di luna di Tahmineh è il nome di Rakhsh, il destriero veloce come il vento che gli è stato rubato alla porte di Samengan, a convincere Rostam a sposare la principessa.

Rostam, per seguire il suo destino di invincibile difensore dell’Iran, abbandona Tahmineh incinta, lasciandole in ricordo un monile d’onice che porta al braccio. «Abbi caro questo gioiello» le dice. «Se il cielo ti concederà una figlia, legalo ai suoi riccioli e la proteggerà dal male; ma se ti sarà concesso un figlio maschio, allaccialo al suo braccio in modo che lo porti come suo padre.» Stringe la bella Tahmineh tra le sue braccia, le bagna le guance di lacrime e le copre i capelli di baci, poi salta in groppa a Rakhsh e sparisce per sempre. Non farà parola a nessuno della sua avventura amorosa.

Dopo il ritorno di nove lune nasce un bambino che Tahmineh chiama Sohrab. Ha la bocca piena di sorrisi ed è somigliantissimo al padre. Diventato adulto, Sohrab, più alto e più robusto dei suoi coetanei, vuol sapere dalla madre chi sia suo padre e cosa dovrà rispondere a chi gliene chiederà il nome. «Ascolta le mie parole, figlio mio, e sii lieto in cuore e non abbandonarti all’ira. Perché tu sei prole di Rostam.» Così dicendo Tahmineh gli lega al braccio il gioiello che le aveva lasciato Rostam.

Con la generosa irruenza dei giovani Sohrab concepisce un piano eroico: raccogliere un esercito, muovere guerra a Kai Kavus, lo scià dell’Iran, detronizzarlo e mettere la corona sul capo del padre Rostam.

Sarà questa decisione che porterà al duello fatale.

Il nome taciuto

Racconta lo Shahnamah che Sohrab si mette alla testa dell’esercito del Turan, il mitico territorio al di là dell’Oxus, nemico tradizionale dell’Iran. Davanti al pericolo dell’invasione dei turchi del Turan guidati da Sohrab, Kai Kavus chiama Rostam perché difenda il regno. L’eroe ubbidisce e l’epilogo è decretato dal destino: lo scontro mortale tra Rostam e Sohrab, il combattimento tra padre e figlio, il nome taciuto, il mancato riconoscimento.

Dalla passione con cui Amir e Hassan seguono la sorte di Rostam e di Sohrab, percepiamo che in qualche oscuro recesso della coscienza i due ragazzini sentono che in quel duello si gioca qualcosa che riguarda la loro stessa identità.

Rostam affronta Sohrab a singolar tenzone sulla striscia di terra di nessuno che divide l’esercito dell’Iran da quello del Turan.

Vedendo la giovinezza di Sorhab, Rostam lo mette in guardia: «Giovane, l’aria è tiepida e dolce, ma la terra è fredda. Ho pietà di te e non vorrei toglierti il dono della vita. Ma se combattiamo certamente tu cadrai per mano mia, perché nessuno ha mai resistito alla mia forza, né uomini, né demoni, né draghi. Perciò desisti dalla tua impresa e lascia i ranghi del Turan, perché l’Iran ha bisogno di eroi come te».

Sohrab gli risponde: «O eroe, ti prego di rispondere il vero. Dimmi il tuo nome, perché il mio cuore possa gioire delle tue parole. Sento che tu altri non sei che Rostam, figlio di Zal, figlio di Saum, figlio di Neriman».

Qui inizia la serie delle ostinate negazioni di Rostam.

«Sbagli» gli risponde. «Io non sono Rostam e non discendo dalla progenie di Neriman.»

Rattristato il giovane eroe si butta nel combattimento. I due contendenti spezzano lance, riducono spade a seghe dentellate, fracassano clave e arrivano a lottare a mani nude. I cavalli sono esausti, i guerrieri sono coperti di sudore e di sangue. Rostam non si è mai trovato di fronte a un avversario altrettanto forte e nessuna battaglia è mai stata altrettanto dura, neppure quando ha compiuto la sua settima fatica lottando contro il Div Bianco, il terribile capo dei demoni del Caspio. Solo la fine del giorno costringe i duellanti a sospendere il confronto.

La notte Rostam magnifica a Kai Kavus l’eroismo del suo giovane nemico, mentre Sohrab confida all’infido Human che gli sembra di aver riconosciuto nel vecchio guerriero i tratti del padre secondo i racconti di Tahmineh. Preferirebbe non dover ingaggiare combattimento con lui. Ma Human lo rassicura: lui stesso ha incontrato in battaglia Rostam, ma non assomiglia affatto al vecchio eroe.

Il secondo giorno Sohrab si presenta munito di una mazza potente e ancora una volta chiede al guerriero il suo nome e tenta di indurlo alla pace. Ma Rostam è inflessibile: «Non siamo qui per conversare, ma per combattere e le mie orecchie sono sigillate alle tue parole di pace».

Con dispiacere Sohrab torna a combattere. Il rumore delle armi come un tuono si diffonde tra i soldati dei due schieramenti. La luce del giorno sta per svanire quando Sohrab, afferrando Rostam per la cinta, lo atterra. Si inginocchia accanto al vecchio, sfodera la spada e sta per mozzargli il capo quando Rostam capisce che solo l’inganno lo può salvare da sicura morte. «O giovane, tu non conosci le regole del combattimento» dice. «È scritto nelle leggi dell’onore che chi disarciona un guerriero valoroso per la prima volta non deve ucciderlo, ma deve affrontarlo una seconda volta e solo allora potrà uccidere il proprio avversario.»

Sohrab ingenuamente gli crede e lo risparmia. Human lo rimprovera assicurandolo che non è quello il costume tra i prodi. Sohrab si consola dicendo che presto lo affronterà di nuovo e allora il vecchio non potrà scampare alla sua possanza giovanile. Nel frattempo Rostam, mentre si deterge le membra in un ruscello, supplica Ormudz di concedergli una forza tale che gli assicuri la vittoria. Dio lo esaudisce e gli conferisce una forza tanto possente che la roccia sotto i suoi piedi si sgretola. Allora Rostam prega Ormudz di riprendersi parte di quella forza e Dio ascolta la sua voce.

Il terzo giorno, giunta l’ora del combattimento, Sohrab si getta su Rostam con la violenza di un giovane elefante.

«Ti sei sottratto al combattimento con l’inganno, ma questa volta le tue parole mendaci non ti gioveranno.»

A queste parole Rostam conosce la paura e prega Ormudz di restituirgli la parte di forza che gli aveva tolto.

Per Sohrab è giunta l’ora della sconfitta. Rostam lo afferra per la cintola e lo getta a terra spezzandogli la spina dorsale come fosse una canna e sfodera la spada per trafiggerlo. Il giovane capisce che è la fine. Torcendosi dal dolore emette un profondo sospiro e dice: «È colpa mia di tutto. Però non ho combattuto per acquistare gloria ma per cercare il padre. Mia madre mi aveva detto da quali segni avrei dovuto riconoscerlo e ora muoio per aver agognato il suo incontro. Le mie pene sono state vane, poiché non mi è stato dato di vedere il suo volto. Ma ti dico che anche se tu diventassi un pesce che nuota nelle profondità dell’oceano, anche se ti tramutassi in una stella che si nasconde nel più remoto dei cieli, mio padre scoverà il tuo nascondiglio e vendicherà la mia morte quando saprà che la terra è diventata il mio giaciglio. Poiché mio padre è Rostam e saprà che suo figlio è morto ricercando il suo volto».

Rostam abbandona la presa costernato e dal suo cuore si alza un terribile lamento di dolore. Davanti ai suoi occhi la terra diventa nera e cade esanime accanto al figlio. Nella sua disperazione grida a Sohrab: «Porti un segno di Rostam in modo che io sappia che le tue parole sono veritiere? Perché io sono l’infelice Rostam e possa il mio nome essere cancellato dal libro della vita».

Al sentire quelle parole il dolore di Sohrab non conosce più limiti.

«Se sei davvero mio padre, allora hai macchiato la tua spada con il sangue di tuo figlio e l’hai fatto per la tua protervia. Ho cercato di volgere il tuo animo all’amore e ti ho implorato di dirmi il tuo nome, perché mi sembrava di aver visto i segni di cui mi aveva raccontato mia madre. Ma ho fatto invano appello al tuo cuore e ora non c’è più tempo per l’incontro. Ma ti prego, apri la mia armatura e guarda il gioiello che porto al braccio. È un onice che mi ha dato mio padre come segno di riconoscimento.»

Rostam ubbidisce, gli apre la cotta di maglia e vede l’onice. Ululando di dolore si strappa le vesti e si copre il capo di cenere, mentre dagli occhi gli sgorgano lacrime di pentimento.

Davanti alla disperazione di Rostam, Sohrab lo esorta a inchinarsi al destino: «È inutile, non c’è rimedio. Non piangere. Era scritto e così doveva essere».

Nessuno da solo può conoscere il suo seme

La ricerca del padre è un mito archetipico universale e in qualsiasi cultura il riconoscimento tra padre e figlio è un’impresa difficile: «Nessuno da solo può conoscere il suo seme» dice Omero. Telemaco non riconosce il padre, Laerte non riconosce il figlio. Se Telemaco per vent’anni sogna Ulisse lontano e chiede a Penelope di parlargli del padre, nel poema iranico Sohrab cresce nel mito di Rostam, tanto più amato quanto più fantasticato, e chiede a Tahmineh di narrargli le imprese eroiche del genitore. Sohrab, come Telemaco, del padre conosce solo il nome e la fama.

Tuttavia l’Odissea offre uno svolgimento positivo della ricerca: Ulisse e Telemaco alla fine si riconoscono. Lo scaltro eroe libera la reggia dai parassiti ripristinando la propria autorità di padre e di re e progetta il futuro.

Nel poema iranico la tragedia è inevitabile: Rostam è solo e unicamente un guerriero, non un padre: lascia Tahmineh senza neppure aspettare la nascita del figlio. Ulisse invece parte per la guerra di Troia perché costretto, dopo che i suoi stratagemmi per evitarla sono falliti. Non ama la guerra e combatte solo per senso di responsabilità. Nel corso dei vent’anni di lontananza non smette di pensare a Itaca, dove ha nutrito la propria identità di figlio, di sposo, di padre, di re.

I miti ci dicono che la voce del sangue è molto fioca e che il riconoscimento tra padri e figli è impossibile in mancanza di segni esteriori. La protervia di Rostam nel rifiutare il proprio nome al suo anonimo avversario sembra nascondere un’inconscia intenzione assassina.

Nel non riconoscimento è dunque nascosta la morte, non sempre solo simbolica. Anche Baba non sa farsi carico della paternità di Hassan, candidandolo così a una morte prematura. Amir invece, adottando Sohrab, lo sceglie come figlio e ne diventa il vero padre, salvando il ragazzino e se stesso.

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Ricordo l’estate dei miei diciassette anni, segnata dalla lettura di Guerra e pace. Non potevo staccarmi dalla vita di Natascia. Finito il romanzo sentivo un senso di perdita insostenibile e lo riprendevo da capo per poter immergermi ancora una volta nella storia dei personaggi che quasi non distinguevo dalla mia storia.

In quegli anni mio padre, clarinettista dilettante e molto amante della musica, vagheggiava l’insensato progetto di fare di me una pianista. Priva di qualsiasi talento musicale, dopo dieci anni di studi forzati ero arrivata a banalizzare qualche valzer di Chopin e qualche sonata di Mozart. Ma non osavo deludere mio padre interrompendo le lezioni di pianoforte.

Ogni pomeriggio mi sottoponevo alla tortura degli esercizi del Hanon. Mia madre, in un’altra stanza della casa, verificava che studiassi: le bastava sentirmi strimpellare per due o tre ore. Io l’accontentavo. Leggevo le prime battute di un esercizio, poi sistemavo sul leggio Guerra e pace, ed eseguendo meccanicamente le scale, su e giù per la tastiera, rileggevo la morte del principe Andrea per poter piangere. Non so perché desiderassi tanto piangere, ma so che non è passato un solo pomeriggio di quella lunghissima estate di seconda liceo senza che io lacrimassi sulla sorte del principe Andrea.

Forse piangevo perché sapevo che, come Amir, anch’io non sarei mai stata all’altezza delle aspettative del mio Baba e che prima o poi avrei dovuto confessargli che preferivo leggere un romanzo che suonare il pianoforte.