Gli versò l’acqua dall’aftawa perché si lavasse le mani. Mentre lui le asciugava con un canovaccio, Mariam gli mise davanti la zuppiera con il daal fumante e un bel piatto di riso bollito. Era il primo pasto che gli preparava e le dispiaceva di essersi sentita così male mentre glielo cucinava. Ma quando si era messa ai fornelli era ancora scossa dall’incidente del tandur e per tutta la giornata si era crucciata per la consistenza e il colore del daal, preoccupata che lui pensasse che c’era troppo zenzero o troppo poca curcuma.

(Da Mille splendidi soli)

Svenduta dal padre a un uomo sconosciuto, un vecchio, Mariam ha creduto di morire di crepacuore. Ma zendagi migzara, la vita continua, lenta, ma inarrestabile come una polverosa carovana di khoci. La ragazzina si adatta al suo nuovo destino e impara a fare la moglie di Rashid. Pulisce la casa e cucina, ansiosa di compiacere al marito, grata che qualcuno finalmente si sia accorto della sua esistenza.

A casa del calzolaio di Kabul si mangia alla maniera tradizionale: sul pavimento coperto da un tappeto Mariam stende una sofrah di bucato su cui posa le ciotole con il cibo. Prima del pasto versa al marito l’acqua dall’aftawa perché si lavi le mani. Non ci sono posate, perché non servono. Rashid porta il cibo alla bocca servendosi di un pezzo di pane che intinge nel daal, la zuppa di piselli, profumata di zenzero e di curcuma, che la moglie-bambina gli ha preparato.

Con le mani o con le posate

Mangiare sul pavimento, accoccolati sui cuscini, non ha nulla a che vedere con ricchezza o prestigio sociale. La facoltosa famiglia di Amir, quando si riunisce a Jalalabad nella villa con piscina dello zio Homayun, si raccoglie attorno alla sofrah stesa sul pavimento del soggiorno. Le donne hanno cucinato e su grandi piatti servono il cibo che, a gruppi di quattro o cinque, i commensali condividono, stando ben attenti a non invadere la porzione del vicino.

Anche per questa sontuosa cena di kofta (polpette di agnello) con riso e di qurma (spezzatino di pollo) con legumi non sono previste posate. Ci si arrotola le maniche in modo da lasciare libere le mani, ma solo la destra serve sia da cucchiaio sia da forchetta. Il coltello non compare mai in tavola, perché le pietanze vengono preparate già in piccoli bocconi e quindi non c’è niente da tagliare.

Ma portare il cibo alla bocca con la mano è un’operazione che richiede abilità ed eleganza. Si raccoglie un boccone con la punta delle dita – rigorosamente della destra – e lo si fa scivolare nel palmo, lo si impasta sino a farne una pallottola, quindi, aiutandosi con il pollice, la si spinge in bocca.

Dopo il pasto è indispensabile lavarsi le mani. L’aftawa fa di nuovo il giro dei commensali, a turno ci si versa sulle mani l’acqua che viene raccolta in una vaschetta, prima sulla destra e poi sulla sinistra, considerata impura, perché serve a funzioni poco nobili, quanto necessarie, legate all’igiene personale, che a tavola non è il caso di evocare.

In Afghanistan e in tutti i paesi musulmani, come nella Grecia omerica, è vivissimo il culto dell’ospitalità. Nessuno entra in una casa afghana senza che gli venga offerta qualche tazza di tè o della frutta. Secondo il codice morale dei pashtun, chi ha condiviso con te il pane e il sale è tuo amico, perciò non potrai mai ucciderlo. D’altro canto non potrai chiamarti amico del tuo ospite prima che ti venga offerto un frutto o una tazza di tè. Ricambiare l’ospitalità è un punto d’onore, ma non è indispensabile ricambiarla a chi ci ha ospitato: il debito di ospitalità può essere assolto con chiunque entri in casa. Qualcosa di simile succede a Napoli con la tradizione del “lascio il sospeso”: chi prende un caffè al bar paga un caffè extra per lo sconosciuto avventore che per primo chiederà se c’è “un sospeso”.

Ci sono poi modi indimenticabili per onorare l’ospite. Ibn Battuta, durante le sue peregrinazioni che nel corso di ventotto anni lo portarono dalla nativa Tangeri alla Cina e ritorno, negli anni ’30 del Trecento attraversa l’Afghanistan. In un villaggio ai piedi dell’Hindu Kush il grande viaggiatore marocchino e i suoi compagni sono ricevuti da Muhammad al-Mahruwi, il capo della zawiya, la sede della confraternita religiosa di cui sono ospiti. Ibn Battuta racconta: «Ogni volta che ci lavavamo le mani dopo il pasto, [Muhammad al-Mahruwi] beveva l’acqua, perché aveva molta considerazione per noi ed era virtuoso». Come dicono i musulmani: Allah ne sa di più.

Cibo per amare

Sulla sofrah o sulla tavola il cibo nutre solo se condito dall’amore. Nella ricca casa di Baba a Kabul Amir mangia alla maniera occidentale, seduto a tavola, solo, servito con porcellane e argenterie da Ali, il servo hazara. Ma i suoi sono pasti privi di gioia. Per lui il cibo non è metafora d’amore, come non lo è nella famiglia di Laila dopo la morte dei fratelli. A casa di Tariq, invece, dove non contano né ricchezza, né cultura accademica, né appartenenza etnica, né differenze tribali e linguistiche, è l’amore che circola tra le persone a rendere squisita una modesta shorwa.

Il cibo è spesso spia dei rapporti familiari. In un episodio raccapricciante il vecchio pashtun Rashid, che ormai disprezza Mariam per la sua sterilità, la costringe a masticare sassi: il non-cibo come metafora dell’odio.

Segno d’amore è anche l’attenzione con cui si prepara la tavola, perché tutti i sensi dei commensali possano godere. Il tatto trova la sua gratificazione prima ancora del gusto, dal momento che il cibo passa dalle mani prima di arrivare alla bocca. Ma non può essere trascurato il piacere degli occhi. I colori sono essenziali alla bellezza di una sofrah imbandita, anche se semplice, così come lo sono gli odori e i sapori. Il giallo dell’ottone e il rosso del rame di vassoi e tegami portano il sole in tavola, ma nascondono un pericolo. L’ossidazione rende i recipienti metallici velenosi e per questo vengono stagnati prima delle due ricorrenze religiose più importanti dell’anno afghano, l’Eid-ul-Fitr che segna la fine del digiuno del Ramadan e l’Eid-e-Qorban, la festa del Sacrificio, che celebra il mancato sacrificio del figlio a Dio da parte del profeta Abramo.

Naan e shorwa

Non su ogni sofrah arrivano piatti di carne: a casa di Wahid, il fratello dell’autista Farid, la shorwa, la minestra di verdure, è solo per gli ospiti, perché non ce n’è a sufficienza per tutti. E, in una casa che si rispetti, l’ospite va onorato a costo di saltare il pasto. I bambini osservano a stomaco vuoto Amir agha e lo zio che, seduti su una stuoia, arrotolano le maniche e intingono il pane nella zuppa. I talebani hanno ridotto la parte più debole della popolazione alla fame o alla mendicità.

La shorwa di patate rimane il piatto preferito di Baba anche quando ormai non è più in grado di mangiare nulla. Ne assaggia qualche cucchiaiata solo per amore di Soraya che con altrettanto amore gliel’ha cucinata. Ancora una volta il più povero dei piatti è il più ricco di affetti.

Il pane in Afghanistan, come in Italia sino a qualche decennio fa, garantisce la sopravvivenza di gran parte della popolazione. Naan infatti significa cibo per antonomasia. Pane e cipolla, pane e frutta, soprattutto uva, meloni, more di gelso e melagrane, o semplicemente pane e tè costituiscono il pasto quotidiano dei contadini afghani. La carne fa la sua comparsa alla festa del Sacrificio quando, secondo il costume musulmano, i ricchi uccidono il montone tenendo una parte della carne per sé e distribuendo il resto tra gli amici e i poveri. Baba non è credente, ma è molto rispettoso della tradizione: fa uccidere il montone secondo il rito islamico, ma lo regala tutto ai poveri.

Preparare il naan per una donna afghana è quasi una cerimonia religiosa. Il pane è sacro, significa vita condivisa e non lo si getta mai via per nessuna ragione. Anche in Italia abbiamo piatti di grande bontà che testimoniano l’antica sacralità del pane, basti pensare alla ribollita o alla panzanella.

Tra i primi insegnamenti che Nana impartisce alla piccola Mariam alla kolba sulle colline di Herat, dove Jalil ha relegato madre e figlia, ci sono la lavorazione della pasta per il naan e la sua preparazione in focaccine ovali o tonde, da cuocere nel tandur.

Dopo tanti anni Rahim Khan rintraccia Hassan che si è trasferito nell’Hazarajat. Quando arriva alla casupola spersa nei campi sterposi nei pressi di Bamiyan, dove Hassan vive con la moglie Farzana, lo scorge in un angolo del cortile all’ombra di un’acacia intento a cuocere il pane. Posa le focaccine su una grande spatola di legno e le lancia contro le pareti incandescenti del tandur. Quando sono cotte si staccano e Hassan le raccoglie dal fondo. E sarà questo naan fragrante di carbonella e di terracotta che Rahim Khan intingerà nella buona shorwa, la minestra di fagioli, rape e patate che Farzana gli servirà.

Dai Balcani alla Transcaucasia, dal Yemen al Medio Oriente, dall’Asia centrale all’India i cibi che richiedono una cottura prolungata e ad alta temperatura vengono cucinati nel tandur, un forno di terracotta che assomiglia a una grossa giara, alimentato da carbone di legna e che assume nomi diversi nei diversi paesi. È uno strumento antichissimo, già citato in documenti sanscriti e che forse risale addirittura al terzo millennio a.C., al periodo accadico, precedente le migrazioni degli arii. Si dice che siano stati i rom originari della valle dell’Indo a portare il tandur in Medio Oriente nelle loro migrazioni verso Occidente.

A Kabul non tutte le famiglie dispongono di un tandur e le donne devono perciò recarsi al forno pubblico con la pasta che hanno preparato in casa. Al tandur Mariam, da poco giunta nella grande città, smarrita e spaventata, ha il suo primo incontro terrorizzante con le altre donne del quartiere, in particolare con Fariba, giovane sposa felice e madre di due maschi, Ahmad e Nur.

Kabuli palao e bolani

Al mercato delle pulci di Fremont, California, gli afghani della diaspora si ritrovano per fare quattro soldi, ma soprattutto per fare quattro chiacchiere. Per Amir e Baba è come tornare a vivere in una Kabul immiserita, ma dove è ancora possibile bere tè con amici e conoscenti e scambiare bolani e kabuli palao (il palao di Kabul). L’identità nazionale si riafferma nel cibo, il suo profumo riannoda una continuità spezzata dall’esilio.

Il riso accompagna tutte le pietanze afghane e la sua preparazione richiede molta cura. Innanzitutto va lavato almeno quattro volte, rimestando con la mano, la prima volta in acqua fredda, poi con acqua tiepida finché non rimane traccia d’amido, quindi lo si lascia a mollo per un paio d’ore. L’operazione richiede molta delicatezza, perché i grani devono presentarsi integri sulla tavola. Lo si bolle e lo si versa in una pentola di rame, il deg, con il condimento, formando una piccola piramide con un mestolo forato, il kafghir; con il manico di una paletta di legno si praticano otto fori perché il riso si asciughi anche sul fondo; si avvolge il coperchio in un panno in modo che assorba l’umidità; lo si mette al forno e in tre quarti d’ora il riso è pronto.

Il termine condimento è molto generico, ma nella cucina afghana il riferimento è univoco: il grasso che si accumula nella coda del montone afghano, un deposito adiposo di una quindicina di chili! Un’astuzia della natura per permettere a questo parco animale di alimentarsi della sua scorta di grasso in estate e di mantenere il calore corporeo d’inverno.

Non è certamente il semplice riso bollito che gli afghani di Fremont si scambiano. Nel kabuli palao ci sono tocchetti di vitello arrostiti in una crema di cipolle, con filetti di carote glassate e una pioggia di uva sultanina. Quella afghana è forse la più buona al mondo. Come in molti piatti orientali, l’equilibrio dell’agrodolce e il sapiente dosaggio delle spezie fanno la differenza.

Che saranno mai i bolani? Ravioli ripieni di una crema di porri e di patate che, come certe scoperte antichissime, hanno avuto più di un punto d’origine: li troviamo in Ucraina, ma anche in Sardegna e in Emilia. Lo squisito profumo di fritto dei bolani accoglie Amir nel parco di Fremont dove gli afghani si radunano per celebrare il Sawl-e-nau, il Capodanno: quel profumo è come la promessa che con il nuovo anno arriverà una vita nuova. Più felice.

Il pranzo per la vittoria dei mujahidin

Nell’aprile del 1992 i mujahidin entrano vittoriosi a Kabul. Dopo cinque anni di terribile depressione, Fariba volta finalmente le spalle al buio della sua camera e torna in cucina. Zendagi migzara. Ancora una volta il cibo ratifica il ritorno alla vita. Tutti i vicini sono invitati. Il menu prevede aush, kofta, mantu, che vengono serviti contemporaneamente.

Sono piatti che richiedono una minuziosa preparazione e che perciò prevedono la presenza delle donne in cucina per intere giornate e molte corse al pozzo, perché nelle case afghane in genere non c’è acqua corrente. E non c’è frigorifero e nessun altro elettrodomestico. Tutto viene lavorato a mano con spatola, pestello, matterello.

In estrema sintesi l’aush consiste in fettuccine di pasta con piselli, fagioli bianchi e spinaci, carne di marzo tritata e una crema a base di yogurt con peperoncino piccante, coriandolo fresco e aneto tritato. I legumi possono essere sostituiti da verdure: all’ospedale servono a Sohrab aush con cavolfiore, ma il piatto rimane intatto sul comodino del ragazzo.

Le fettuccine di Fariba sono fatte in casa, naturalmente: passa la farina al setaccio, la impasta, la lascia riposare, stende la sfoglia e infine la taglia a striscioline. C’è da chiedersi se i nostri giovani, femmine e maschi, conoscano l’esistenza dell’arnese chiamato setaccio.

Kofta sono polpette di carne. Si fa presto a dire polpette. La carne va macinata, lavorata a lungo in una terrina con l’aglio pestato nel mortaio e lasciata una notte a riposare. Le polpette sono della grossezza di una noce e vanno pressate e arrotondate con le mani. Possono essere infilate su uno spiedo e cotte alla griglia come il kebab. Oppure la carne può essere amalgamata con semi di cardamomo e di coriandolo, cipolla tritata e grasso di montone per formare polpette grandi come una palla da ping-pong e appiattite. Si farciscono con un trito di prezzemolo, cipolla e peperoncino, quindi si friggono. Possono essere servite con il riso o avvolte nel naan. Non sapremo mai quale versione prepara Fariba per i suoi ospiti, perché Hosseini non ce lo racconta.

I mantu sono una sorta di grossi ravioli, un piatto di origine uzbeka. La carne tritata, agnello o manzo, insaporita con spezie, viene avvolta nella sfoglia e bollita o cotta al vapore. La particolarità sta nella presentazione: i mantu si imbiancano di yogurt e si spruzzano di polvere di menta essiccata, aglio e coriandolo. Il succo di limone aiuta a rendere più leggero il grasso di montone.

Tè e yogurt al posto del vino

Gli ospiti di Fariba non bevono vino, haram, come tutti gli alcolici proibito dalla shari‘a. Bevono chai o dogh, tè o yogurt allungato con acqua, condito con sale e pepe e ornato di foglioline di menta. A volte con striscioline di cetriolo. È una bevanda tipica delle popolazioni nomadi del Centro Asia. I missionari europei che nel Medioevo hanno raggiunto le corti degli eredi di Gengis Khan non hanno molto apprezzato l’intruglio, spesso rancido, che veniva loro offerto in grande quantità e che per dovere di ospitalità non osavano rifiutare. Guglielmo di Rubruck, per esempio, nel 1253 alla corte di Mongu-khan, ha il suo primo incontro con la bevanda a base di yogurt: «Quella sera il ragazzo che ci guidava ci offrì del comos. Dopo averlo bevuto sudai moltissimo, sia per l’orrore, sia per la novità della bevanda, che non avevo mai assaggiato. Tuttavia lo trovai molto saporito e devo dire che in effetti lo è veramente».

Ma le numerose caraffe di dogh che Laila prepara chiacchierando in cucina con la sua amica Giti, sono molto apprezzate dagli ospiti: kebab, mantu, aush e kofta con tutte le spezie che contengono richiedono di essere innaffiati con il fresco dogh. È scontato che lo yogurt sia fatto in casa.

La preparazione del tè, verde o nero, speziato o liscio, ha la stessa sacralità della cottura del pane. Servire il tè è un’arte. Fariba deve ricordare che tipo di chai ama ciascuno e dosare con accuratezza lo zucchero della prima tazza. La dose è proporzionata alla reputazione dell’ospite: quanto più è importante l’ospite tanto più zuccherata sarà la sua prima tazza di chai. Le successive, che non mancano mai, non verranno zuccherate, perché il palato conserva il dolce della prima tazza. Per bloccare la padrona di casa che continuerà a versare tè non appena vedrà la tazza vuota, l’ospite deve dare un segnare esplicito capovolgendola.

La teiera è un oggetto sacro in Afghanistan, più è vecchia più è preziosa. Ecco perché Nana si infuria quando Mariam lascia cadere la teiera di fine porcellana ereditata dalla nonna. Se la teiera si rompe o si incrina non viene gettata via, ma accuratamente restaurata: al bazar c’è l’aggiustatore di ceramiche, il patragar, che con un trapano ad archetto munito di una vecchia puntina da grammofono esegue piccolissimi buchi in cui infila punti di ferro che terranno uniti i cocci della teiera rotta incollati con una pasta di calce e uovo. Una pratica antica quasi quanto la ceramica.

Il tè, come il pane, è simbolo di condivisione: qualche tazza di chai nel cortile della casa di Rashid creerà un’atmosfera confidenziale, permetterà a Mariam e a Laila di sentirsi vicine, di comunicare l’infelicità, rendendo più tollerabile la loro condizione di mogli disprezzate e maltrattate.

La posizione geografica rende l’Afghanistan crocevia naturale di civiltà diverse: la cucina non è che un aspetto della sua cultura ibrida. I frequentatori di ristoranti cinesi, indiani, usbechi e iraniani avranno certamente riconosciuto piatti di quelle tradizioni culinarie che l’immigrazione ha reso popolari anche da noi.

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Era la seconda volta che viaggiavamo nel Yemen, ma ci sembrava che il tempo non bastasse mai. Stiracchiavamo il denaro sufficiente per quindici giorni sino a farlo durare quattro o cinque settimane. Questo richiedeva una certa duttilità, soprattutto a tavola. A mezzogiorno ci fermavano lungo la strada nelle locande dei cammellieri e il piatto era sempre il medesimo: una specie di spezzatino di montone infuocato dal peperoncino e pane cotto nel tandur che ogni locandiere teneva perpetuamente acceso in un angolo del locale. Per la sera compravamo frutta al mercato e non c’era pericolo che ci addormentassimo sentendo pesantezza allo stomaco.

Dopo la prima settimana l’amica di sempre nei momenti morti, ad alta voce, ci comunicava il suo sogno a occhi aperti: una minestra di patate, anche insipida, anche con il dado, purché senza peperoncino. Dopo un paio di settimane appena apriva bocca uno di noi la batteva sul tempo parlando in modo rapito della minestra di patate.

L’ultima tappa del viaggio prevedeva la visita a un amico medico che dopo il primo viaggio nel Yemen aveva deciso di tornarci per vivere e lavorare in un villaggio di alta montagna. Gli portavamo dei grossi teli di plastica che ci aveva richiesto per fabbricare una serra e coltivare pomodori, zucchine e melanzane. A Shihara, 2.500 metri di altitudine, di notte la temperatura scende spesso sotto zero e tutto ciò che cresce fuori terra gela.

Lasciammo il nostro pulmino al villaggio di Al-Qabai e salimmo sul cassone di un pick-up Toyota che garantiva il collegamento “ufficiale” con Shihara, il Nido d’aquila, come viene chiamata la cittadina dalla stupenda architettura di pietra.

Il viaggio fu un incubo, non certo per le pecore e le galline che condividevano con noi il cassone. Sapevamo che Shihara era quasi inaccessibile e che i suoi abitanti non amavano gli stranieri, ma vedere dal lunotto posteriore un fucile posato sul sedile del passeggero non ci confortò affatto. L’autista non l’avevamo visto alla partenza.

La strada era in realtà una mulattiera tagliata nel fianco della montagna con rocce affioranti che creavano dislivelli paurosi. Quando per superarli il pick-up si inclinava dalla parte del precipizio, chiudevamo gli occhi e avevamo tentazioni religiose. Nessuno fiatava. I due yemeniti che viaggiavano con noi non ci toglievano gli occhi di dosso e ridevano tra loro.

A un certo punto sulla strada si presentò un gradino di mezzo metro. Il pick-up si bloccò e l’autista con il fucile a tracolla scese e ci chiese qualcosa. Era un ragazzino di dieci o undici anni, a piedi nudi. Capimmo la parola yad, mano, che avevamo imparato dai bambini. Quando chiedevamo un’indicazione ci dicevano yad, yad e prendendoci per mano ci accompagnavano, anche per ore, sino al luogo richiesto. La situazione era tale che non lasciava interpretazioni alternative: bisognava spostare il pick-up a forza di braccia se volevamo proseguire. Tornare indietro era ormai impossibile. Faceva quasi buio e il vento gelido ci buttava in viso folate di spilli.

Quando finalmente, dopo almeno quattro ore mettemmo piede a terra, le gambe ballavano e non c’era modo di fermarle. Ci sedemmo sui nostri zaini e aspettammo di tornare a sapere chi eravamo. Mentre ciascuno di noi era assorto nelle proprie riflessioni, ci venne incontro il nostro amico, divertito dal nostro pallore e dal balbettio con cui cercavamo di spiegare la nostra presenza nel Nido d’aquila.

Ci condusse a casa sua scusandosi per l’ospitalità primitiva che ci avrebbe riservato. «Mi dispiace, vi aspettavo due settimane fa. Ho pensato aveste cambiato programma. Non ho niente da offrirvi, se non una minestra di patate.»