IL GIOCO DEI NOMI
«Lasciaci partire, agente...» lesse il suo nome sul cartellino che portava sul risvolto della giacca. «Agente Rahman. Onora il significato del tuo nome e mostra clemenza. Non siamo che due donne, lasciaci andare, a te che importa? Che male fai se ci rilasci? Non siamo criminali.»
(Da Mille splendidi soli)
Nella famiglia di Laila ci si diverte con un nuovo gioco: il gioco dei nomi. Ognuno ha una propria ragione intima nel proporre un nome per la creatura che sta per nascere. Per un genitore le ragioni della scelta sono infinite: il ricordo di un defunto amato (se sarà una bambina, Laila la chiamerà Mariam), il significato o la storia di quel nome (se sarà un maschio, Tariq ha scelto Muhammad, il nome del Profeta). Ma a suggerire un nome possono essere l’adesione al conformismo delle mode, il desiderio di eccentricità, l’attrazione dell’esotico, la mancanza di fantasia, la casualità più capricciosa. Si racconta che quando portarono a Tamerlano la notizia della nascita di un figlio, il tartaro stesse giocando a scacchi e la torre e il re fossero in posizione di arrocco. Il sovrano non trovò di meglio che chiamare il figlio Shah Rukh, Re del Rocco.
A differenza di molti genitori, però, che talvolta non tengono conto del carico molesto di un nome imbarazzante, un romanziere sembra avere maggiore considerazione per i propri personaggi. Ma, mentre una persona nel corso della vita può sentire il desiderio di rifiutare il nome sgradito imposto dai genitori, il personaggio letterario porta con sé per sempre il nome che gli ha attribuito l’autore: potremmo pensare il promesso sposo con un nome diverso da Renzo Tramaglino? E come ricordare Madame Bovary se non come Emma? Sarebbe mai possibile non chiamare Giulietta e Romeo gli amanti di Verona?
Il nome proprio
Forse in letteratura alcuni nomi vengono scelti dallo scrittore in modo inconscio. Abraham B. Yehoshua, autore de Il signor Mani, un romanzo sul tema dell’identità ebraica, ha chiamato il protagonista “Mani” per ragioni che noi non conosciamo, ma quando nel corso di un’intervista un giornalista gli fece notare che Mani suona come Ma ani che in ebraico significa Cosa sono io, l’Autore confessò di non aver mai pensato a quel significato di Mani.
Per la maggioranza dei lettori non musulmani di Hosseini molti rimandi impliciti nei nomi dei suoi personaggi vanno perduti. Il nome Rashid potrebbe evocare nel lettore occidentale il ricordo di Harun al-Rashid, il califfo delle Mille e una notte che si traveste da mendicante per frequentare in incognito, in compagnia del suo visir Jafar, le bettole di Baghdad. Non credo tuttavia siano queste connotazioni letterarie a interessare Hosseini, ma che il mondo evocato dai nomi sia importante per l’Autore lo dimostra il fatto che di alcuni esplicita il significato.
Nana diceva di essere stata lei a scegliere il nome di Mariam, perché era quello di sua madre. Jalil sosteneva invece di essere stato lui a volere quel nome, perché Mariam, la tuberosa, è un fiore delizioso.
Chiunque abbia scelto il nome, sarà il Mullah Faizullah a sussurrarlo nell’orecchio della bambina appena nata.
Per i musulmani Mariam – per i cristiani Maria – non solo significa tuberosa, ma rimanda al Testo Sacro. Nell’islam Mariam è l’unico nome di donna citato nel Corano, dove la madre di Gesù è considerata una profetessa la cui storia è raccontata più volte. La sura di Maria (Corano, XIX) la cita accanto ai grandi profeti biblici e in un breve episodio molto poetico narra l’annunciazione e il parto avvenuto, come nel racconto di alcuni Vangeli apocrifi, sotto una palma che misericordiosamente lascia cadere su di lei i suoi datteri freschi e maturi. Però nella sua vita di harami rifiutata, senza diritto alla felicità, costretta dalla sorte al sacrificio di sé, Mariam ricorda la mater dolorosa, la Mariam evangelica più che la profetessa coranica.
Laila invece nasce all’insegna dell’amore e della bellezza. L’eredità di affetti che le hanno lasciato i genitori sarà il patrimonio emotivo cui attingerà la forza per affrontare le durezze imprevedibili della vita.
Nur disse che i suoi occhi sembravano gemme. Ahmad, il membro più religioso della famiglia, salmodiò l’azan all’orecchio della sorellina e le soffiò tre volte in viso.
«Allora, la chiamiamo Laila?» chiese Hakim, sollevando la figlia tra le braccia.
«Laila» disse Fariba con un sorriso stanco. «Bellezza della notte. Un nome perfetto.»
Laila è il nome dell’amante più famosa delle letterature araba e persiana, la donna che Qays ama al punto di perdere la ragione e diventare Majnun, il Folle d’amore. Come la Laila di Nizami, la Laila di Hosseini ama in modo totale e per tutta la vita. Nel nome, un destino.
Anche al figlioletto di Rashid, Yunus, in italiano Giona, inghiottito dal lago, Hosseini attribuisce un nome che ne sancisce il destino, evocando il racconto biblico, ripreso dal Corano (La sura degli angeli a schiere, XXXVII, 139-148), del profeta Giona inghiottito dalla balena.
I nomi più belli di Allah
In uno dei momenti più drammatici della sua vita, Laila si trova di fronte all’intransigenza spietata dell’agente Rahman.
Hosseini richiama il significato del nome del poliziotto, non senza sarcasmo. Infatti l’agente non onora il nome che porta, ma si dimostra crudelmente ipocrita, invocando la legge e la necessità di mantenere l’ordine per negare a Laila e a Mariam il permesso di salvarsi partendo per il Pakistan. Eppure ben sa cosa le aspetta a casa del marito dopo il tentativo di fuga. «Quello che un uomo fa in casa propria, sono affari suoi», afferma senza ombra di clemenza. Solo da Dio il credente può aspettarsi misericordia e perdono, non sempre dagli uomini, soprattutto se hanno la presunzione, come mujahidin e talebani, di parlare e agire in Suo nome.
Come altri personaggi, il poliziotto Rahman porta uno dei nomi più belli di Allah: il Clemente. La tradizione ha fissato in novantanove gli epiteti che meglio descrivono Dio, un numero che, secondo la credenza popolare, è impresso sul palmo delle mani in cifre arabe: 81 () sulla sinistra e 18 () sulla destra.
I nomi Rahman e Rahim (l’amico e socio in affari di Baba) derivano dalla radice araba RM che significa avere pietà, compassione, essere clemente. I due epiteti appaiono nella bàsmala, l’eulogia che apre ogni sura del Corano a eccezione della IX. La formula Nel nome di Dio clemente misericordioso (Bismi’llah al-rahman al-rahim), spesso abbreviata in Bismi’llah, è pronunciata dal credente per sacralizzare eventi quotidiani, come i pasti e, informa il dotto Alessandro Bausani, il coito. Alla vista di Amir agha massacrato dal talebano Assef, Farid non riesce a dire altro che Bismillah! Bismillah!
Con la bàsmala inizia la lettera che Hassan affida a Rahim Khan perché la consegni ad Amir. Questa formula devozionale nei paesi musulmani viene pronunciata prima di un’allocuzione pubblica, prima della lettura delle notizie radiofoniche e televisive e compare persino sullo schermo quando si accende il computer. Ripetuta più volte è una preghiera: la sera con il figlioletto Zalmai Laila recita ventun volte Bismallah-e-rahman-e-rahim, contando sulle nocche di sette dita. Sette è il numero magico.
Invocare e affidarsi all’infinita bontà di Allah, alla sua clemenza è islam, ma invocare la misericordia di Dio è anche cristianesimo: «La bontà infinita ha sì gran braccia / che prende ciò, che si rivolge a lei», dice Dante (Purgatorio, III, 122-123).
Nel mondo islamico gli epiteti di Allah sono tra i nomi maschili più comuni e così è per i personaggi di Hosseini. Certamente c’è una connotazione religiosa che tuttavia può non essere la ragione principale nella scelta del nome da parte dei genitori.
Hakim, il Saggio, l’infinitamente Sapiente, è il padre di Laila, uno dei pochi personaggi nel cui nome si riflettono le caratteristiche reali della sua personalità. Hakim è un intellettuale senza ideologie preconcette, non ama gli shorawi, i russi invasori, ma riconosce che mai nella storia dell’Afghanistan le donne hanno avuto possibilità di accedere all’istruzione come durante il periodo dell’occupazione sovietica. Ed esorta la figlia ad approfittarne, sapendo che nel suo paese la realtà politica è in uno stato di perenne fluttuazione.
Wahid è il fratello di Farid, lo scontroso autista tagiko che accompagna Amir da Peshawar a Kabul. L’unicità di Dio è il credo fondamentale dell’islam che nega a Gesù la paternità divina: Allah è Wahid, Unico, e non ha associati. Recitano i versetti del Corano (La sura di Maria, XIX, 88-92):
«Il Misericordioso, dicono gli empi, s’è preso un figlio». Avete proferito un’affermazione abominevole! Poco manca che si spacchino i cieli, e si squarci la terra e crollino in polvere i monti per ciò ch’essi hanno attribuito al Misericordioso un figlio! No, non s’addice al Misericordioso prendersi un figlio!
Come Hakim, anche questo personaggio è degno del nome che porta; si fa interprete dei valori più venerati dagli afghani, l’ospitalità e l’onore, accogliendo e onorando lo sconosciuto Amir agha al punto di sottrarre il poco cibo ai suoi stessi figli. Wahid è un personaggio amabile, vive tempi atroci, ma si rifiuta, sotto la violenza della necessità, di diventare un selvaggio; di fronte all’impulsivo fratello, che non ascolta e non esita a giudicare sulla base di pregiudizi, Wahid rivendica con fermezza e con grazia il suo ruolo di fratello maggiore e di padrone di casa e tiene per sé il proprio pensiero, anche quando è palesemente in disaccordo con l’ospite: «Certamente non tocca a me dare suggerimenti...». Conosciute le ragioni “onorevoli” del viaggio di Amir agha, Wahid è felice di scoprire nell’ospite i fondamenti umani in cui crede lui stesso e che vede quotidianamente negati dal regime talebano. «Sono fiero che lei sia mio ospite questa sera.»
Nur, la Luce, è un nome anche femminile e corrisponde al nostro Lucia. Ma nel romanzo di Hosseini Nur è il fratello di Laila che si unirà al tagiko Ahmad Shah Massud, il signore della guerra del Panshir, trovando nel jihad, insieme al fratello Ahmad, una morte prematura. Entrambi daranno testimonianza di fede con la propria vita diventando shahid, martiri. L’epiteto Nur è contenuto in uno scintillante versetto del Corano (La sura della luce, XXIV, 35) spesso riprodotto sulle lampade da moschea:
Iddio è la luce dei cieli e della terra. E simile alla Sua luce è quella di una nicchia, nella quale c’è una lampada, e la lampada è in un vetro; il vetro è come una stella assai lucente, accesa da un albero benedetto di olivo, non orientale e non occidentale, il cui olio poco manca che brilli anche se non lo toccasse fuoco. Luce su Luce, Iddio guida alla Sua luce che Egli vuole.
Ali, l’Eccelso, l’Altissimo, è il servo hazara che Baba, pur amandolo, ha tradito e disonorato. È un attributo che rimanda alla perfezione assoluta di Dio, esente da limiti di spazio e di tempo che caratterizzano tutte le cose create. Ali è sciita e il suo nome è ricco di valenze religiose. Non solo Ali è uno dei nomi più belli di Allah, ma è il nome del quarto califfo, Ali ibn Abu Talib, cugino e genero del Profeta, l’ultimo dei califfi rashidun, i Ben Guidati, e il primo imam che i musulmani credono sepolto a Mazar-i Sharif. Nella lotta politica per la successione alla guida della Umma, la comunità dei credenti, il partito di Ali, sci‘at Ali, è sconfitto e il potere passa all’omayyade Mu’awiyya (661). I seguaci di Ali saranno chiamati sciiti e daranno origine alla prima grande scissione della Umma, una rottura che non dovrà più ricomporsi.
Non è sorprendente che lo sciita Ali abbia chiamato il bambino che crede suo figlio Hassan, Bello, Buono: così nella storia si chiamava il figlio primogenito del califfo Ali. Hassan ibn Ali (625-669) è considerato dagli sciiti il secondo imam, il legittimo erede del Profeta alla guida dei credenti, dopo suo padre Ali ibn Abu Talib. Ma Hassan non ha la stoffa del combattente, non ama la politica: cede il potere a Mu’awiyya senza lottare, sostenendo di non volere spargimenti di sangue fraterno. Anche nel romanzo di Hosseini Hassan, come il suo omonimo storico, è una figura rinunciataria oppure santa: porge l’altra guancia, con acquiescenza rifiuta di ristabilire la verità e per non tradire Amir si accolla una colpa che non ha commesso. Sarà ucciso dal potere talebano così come il secondo imam venne avvelenato dal potere omayyade.
Se Hakim, Wahid, Nur e Ali fanno onore al proprio nome, altri personaggi sembrano invece irridere al significato del nome che portano.
Jalil, il Sublime, il Maestoso, è l’indegno padre di Mariam che si sbarazza della figlia illegittima, dandola in moglie poco più che bambina a un vedovo che ha tre volte la sua età. Per “salvare” il proprio buon nome e l’onore della famiglia.
Rashid, Colui che guida sul Giusto Cammino, è il calzolaio di Kabul che, pur non essendo un modello di credente, aderisce dal profondo del cuore all’ideologia violenta e misogina dei talebani, convinto che il suo egoismo di maschio, la sua grettezza umana e la sua natura crudele trovino legittimazione sia nell’islam sia nella tradizione pashtun.
Anche il nome della piccola Aziza rispecchia, nella sua forma femminile, l’attributo divino al-Aziz, il Potente. Ma nella scelta di Laila non è l’epiteto di Allah a suggerire il nome, ma piuttosto il comune significato dell’aggettivo: cara, amata, diletta. Così dice Hosseini.
Karim, il Generoso, è il mercante di afghani costretti a emigrare in Pakistan. Per poco Baba non lo strangola quando viene a sapere di essere stato ingannato: dopo aver ricevuto il pagamento per il passaggio da Kabul a Peshawar, Karim ammassa i deportati a Jalalabad in una cantina buia piena di topi, perché il camion che dovrebbe portarli in Pakistan è rotto.
Karim fa un odioso mestiere: approfitta della disperazione degli infelici che fuggono alle guerre e alla fame. Come Wakil, l’uomo che alla stazione delle corriere per il Pakistan, dopo aver denunciato ai poliziotti il tentativo di fuga di Laila, intasca i soldi che la donna gli aveva affidato perché comperasse i biglietti per Peshawar. Wakil è l’epiteto di Allah che riassume in sé tutti gli altri, ma nel diritto islamico wakil è la persona cui ci si affida, riponendo in lei ogni fiducia, quando si è consapevoli di non essere in grado di risolvere un problema da soli.
Nella ripetizione incessante di uno degli attributi di Allah (dhikr) i mistici vanno alla ricerca di Colui che viene nominato, mentre il credente li recita come una preghiera. È così che prega il Mullah Faizullah, sgranando le perle del suo rosario, mentre passeggia con Mariam sulle colline di Herat: ogni grano rappresenta uno dei nomi più belli di Allah e la recitazione di ogni nome propizia una particolare grazia da Dio.
Se gli epiteti più belli sono nomi maschili comuni, le due mogli più famose del Profeta offrono i nomi femminili più diffusi: Khadija e Aisha.
Khadija, la ricca vedova, la prima moglie del Profeta e la prima musulmana, dà il proprio nome alla più anziana delle tre mogli di Jalil, la indefettibile promotrice dell’allontanamento di Mariam da Herat e del suo matrimonio con Rashid.
Aisha è la moglie più giovane e più amata dal Profeta, sposata quando era soltanto una bambina. A lei è associata un’immagine di fresca giovinezza. Sono le mani delicate e il sorriso dell’infermiera Aisha che all’ospedale di Peshawar riportano Amir a contatto con la vita.
Il nome sconosciuto
Secondo i teologi musulmani Dio ha tremila nomi: mille sono noti solo agli angeli, mille solo ai profeti, trecento sono contenuti nella Torah, trecento nei Salmi, trecento nel Nuovo Testamento e novantanove sono rivelati nel Corano. Ne manca uno a tremila: è il nome che Allah tiene nascosto e che viene definito “Il Nome più Grande di Dio”. Dicono che alcuni compagni del Profeta, e in particolare Ali, lo conoscessero. Dicono anche che in realtà il nome misterioso è contenuto nel Corano, ma il credente non lo sa trovare. È per misericordia che Allah tiene alcune cose nascoste: nasconde il Nome più Grande tra i versetti del Corano perché i credenti lo ricerchino leggendo e rileggendo il Libro Sacro. Però i nomadi afghani sostengono che anche il cammello conosce quel nome, ma lo tiene segreto.
I genitori di Laila si chiamano Fariba e Hakim. Della madre di Amir conosciamo nome e cognome: Sofia Akrami. È forse un caso che di Baba non sappiamo il nome? Che il vocativo infantile “Baba” acquisti un valore così assoluto?
È ovvio che Hosseini vuol tenere nascosto il nome proprio di Baba. Ali e Hassan si limitano a chiamare il padrone con i titoli rispettosi di agha sahib. Persino Rahim Khan, l’amico di tutta la vita, non lo chiama mai per nome. Non ci sono dubbi: il nome di Baba deve rimanere segreto, come il Nome più Grande di Dio, perché Baba è Dio: per conquistare il suo difficile amore Amir bambino pecca, per redimere se stesso e la memoria paterna Amir adulto ritorna in Afghanistan e salva Sohrab.
L’amore per questo padre è così grande che infine all’antica adorazione si mescola la pietà per le sue debolezze umane, lasciando spazio al divino perdono. In un commovente scambio di ruoli tra Dio e uomo.
Sogno, nostalgia e speranza
Se Baba è stata la prima parola che Amir ha pronunciato, la prima parola di Hassan è stata Amir: a questi due nomi è legato il loro destino.
Nel nome Amir, Principe (Emiro), si riversano tutti i sogni paterni di Baba; il figlio dovrà essere una copia di se stesso: forte, autorevole, intraprendente, aggressivo, in una parola: vincente. Amir lo sarà, suo malgrado, ma per strade ben diverse da quelle vagheggiate dal padre.
Per i musulmani il nome Amir, per quanto molto comune, non cancella il ricordo dell’antico titolo califfale, Amir al-Mu’minin, Principe dei Credenti, riesumato dal Mullah Omar, il capo dei talebani, nel suo delirante progetto di rifondazione del califfato.
Quando Hassan ha un figlio sono ormai passati molti anni dai tempi dell’infanzia in cui leggeva lo Shahnamah con Amir sotto il melograno del vecchio cimitero di Wazir Akbar Khan. La sua vita è cambiata, vive con la moglie Farzana nell’Hazarajat, ma il passato occupa ancora la sua mente e il suo cuore. Il tradimento e la lontananza dell’amico, per quanto possa sembrare inverosimile, non hanno intaccato i suoi sentimenti. Al figlio dà il nome di Sohrab, il più amato dei personaggi dell’antico poema cavalleresco di Ferdowsi. Hassan è pervaso dalla nostalgia per il mondo fantastico della sua infanzia dove il destino giocava scherzi crudeli, ma dove gli uomini erano nobili e i traditori venivano sconfitti. Il nome Sohrab riporta alla memoria di Hassan un periodo edenico della sua vita e il ricordo è così potente da cancellare ogni altra riflessione sulla storia di Rostam, il cavaliere che rifiuta di rivelarsi.
C’è una figura secondaria che ritorna con il medesimo nome nei due romanzi di Hosseini: Zaman, il direttore dell’orfanotrofio di Kabul. I piccoli Sohrab e Aziza sono ospiti dell’orfanotrofio-lager negli anni del regime talebano. Zaman, come Wahid, non vuole diventare un barbaro, ma le circostanze lo costringono a scelte inumane per conservare una parte della sua umanità. Come dice Rahim Khan, i talebani non permettono di essere umani.
Zaman è voce di origine araba dai molti significati: dal neutro Tempo, Epoca, Mondo, al più rischioso Destino, Sorte. Solo Hosseini può dirci che valore ha associato a quel nome. Zaman è un uomo che si fa carico del suo ruolo di custode, non più di educatore, sacrificando i propri beni e se stesso ai bambini di cui è responsabile, ma sui quali non ha controllo. Vive in un’epoca disumana, ma non si lascia disumanare dal destino: lo combatte con i pochi strumenti che possiede in attesa di tempi migliori. In Mille splendidi soli, Zaman, che è riuscito a non abdicare alla propria umanità, attraverso i versi di Hafez si fa portavoce della speranza. Forse al destino si può resistere o forse resistendo al male forgiamo il nostro destino.
C’è infine un nome che mette in moto la fantasia e su cui si possono avanzare solo ipotesi: Tariq, il bambino pashtun che ha perso una gamba su una mina.
Nel Corano (La sura del sopravveniente di notte, LXXXVI, 2-3) Tariq è “chi sopravviene di notte”, “è astro d’aguzzo chiarore”, un’entità misteriosa che brilla nell’oscurità. Nel romanzo di Hosseini di sera, prima di coricarsi, il ragazzino Tariq saluta Laila indirizzando con la torcia fasci di luce verso la finestra della sua piccola amica. È stato chiamato di proposito “il sopravveniente di notte”?
Ai sogni dell’Autore si sovrappongono i sogni del traduttore.
Nomi, nomignoli e soprannomi identificano nella nostra mente le persone della nostra vita. Basta un breve suono ed ecco il carillon arrugginito della memoria cigolare la storia di un amore, di un’amicizia, di un rapporto significativo o insignificante. I personaggi fantastici dei libri e delle favole abitano il nostro quotidiano non meno delle persone reali e i loro nomi sono esche lanciate alla nostra immaginazione.
Nella mia infanzia ci sono tre nomi che non sono mai appartenuti a persone reali, ma il cui suono barocco ha sempre scatenato fantasie impossibili da cancellare: il Perlanta, la Matta Zenabra (pronunciato con una sola “t”) e il Brederante.
Se chiedevo alla mamma chi erano i tre, la risposta era sempre la stessa: «gente di Cremeno», un paese della Valsassina a poche centinaia di metri dal suo, ma che da come ne parlava lei, sembrava appartenere a un altro pianeta. “Quelli di Cremeno” erano professionisti dei sette peccati capitali, così stolti che c’è da chiedersi come riuscissero a sopravvivere.
Quando mi rifiutavo di mangiare il riso e latte che al solo vederlo, biancastro e colloso, mi rivoltava, la mamma esplodeva: «Mica l’ho fatto per il Perlanta». Almeno mi offriva una distrazione. «Chi era il Perlanta?» «Era uno di Cremeno che quando mangiava il risotto si appiccicava un grano sul davanti della camicia perché tutti vedessero che quel giorno lui non aveva mangiato polenta.» Provavo compassione per il signor Perlanta, ma il riso e latte continuava a farmi schifo.
Nonostante la mamma avesse lasciato Moggio per sposare mio padre e fosse vissuta a Milano da quando aveva poco più di vent’anni, per lei la grande città non aveva mai acquisito una realtà autonoma: persone e cose diventavano reali solo se paragonate a cose e persone del suo paese, l’Iperuranio di cui Milano era la pallida ombra.
Quando da adolescente pretendevo di andare a scuola con i capelli sciolti e un gran ciuffo sugli occhiali, la mamma commentava: «Mi sembri la Matta Zenabra». «Chi era la Matta Zenabra?» «Una di Cremeno che non si pettinava mai.» Senza scomporsi raccoglieva le chiome sparse in due codini fermati da elastici che io tagliavo non appena svoltato l’angolo.
Mentre per il signor Perlanta e la signora Zenabra ho dovuto accontentarmi delle insoddisfacenti spiegazioni della mamma, senza poter dare loro un’esistenza meno nominale, l’identità del Brederante a un certo punto mi è apparsa in tutta la sua evidenza. A casa nostra c’erano sempre amici di passaggio: arrivavano per un saluto e se ne andavano, si fermavano giusto il tempo per fare quattro chiacchiere o mangiare qualcosa, poi scappavano per i fatti loro. La mamma accoglieva e nutriva tutti, felice che non fossero schizzinosi come le sue figlie. Si lamentava soltanto perché le visite erano sempre troppo brevi: «Mi sembri il Brederante» era il suo viatico. E associando il commento alla fretta di quell’andar sempre, andare, andare, finalmente ho capito: il Brederante altri non era che l’Ebreo Errante.