27

 

Fin dal primo momento in cui aveva conosciuto Robin, Evan si era sentita a suo agio con lui. E se lo spiegava con il fatto che lui l'aveva trattata con affetto e amicizia, comportandosi con molta naturalezza, continuando a essere schietto e aperto con lei, come se lei fosse la sua unica confidente. E forse lo era. Non c'erano dubbi: Robin aveva preso l'abitudine di confidarsi con lei di tanto in tanto, e capiva come da mesi fosse diventata una persona importante nella sua vita. Era sua nipote e come tale lui la trattava, mentre Evan lo trattava come un nonno, essendo finalmente riuscita a ridimensionare la sua posizione e a farsene un quadro diverso. Lui era effettivamente suo nonno e gli voleva bene, ma questo non significava che il suo affetto per Richard Hughes ne avesse in qualche modo risentito. Anche lui era stato suo nonno, fino alla sua morte.

Adesso, mentre sedeva sulla terrazza a Lackland Priory in attesa che Robin la raggiungesse, si sentì cogliere da un'improvvisa tristezza al pensiero che i suoi genitori avessero deciso di tornare negli Stati Uniti prima del previsto. Aveva sperato di indurii a venire nello Yorkshire, ospiti di Paula a Pennistone Royal, e conoscere Robin una volta lì. Ma ormai era impossibile.

Gli attacchi terroristici a New York e a Washington quattro giorni prima avevano fatto toccare con mano quanto desiderassero rientrare a casa loro e «mettersi a disposizione di chi aveva bisogno», le aveva spiegato la madre il giorno prima. Evan aveva compreso il loro patriottismo, ma lei aveva delle responsabilità, lì in Inghilterra, ed erano questioni cruciali che andavano risolte quanto prima.

Conosceranno Robin un'altra volta, rifletté. Dovranno pur tornare per il mio matrimonio, no? Se mai sarà celebrato, fu la cupa riflessione. Gideon in quegli ultimi tempi, si era dimostrato intrattabile, non si erano visti per l'intera settimana, e non avevano potuto chiarire le loro divergenze. Lei era stata impegnata con il rinnovo del negozio di Leeds e Gideon aveva avuto il suo bel daffare a Londra per gli eventi sconvolgenti dell'attacco terroristico, per questo lui aveva deciso di rimanere a Londra anche durante il weekend.

Per quanto Evan ne comprendesse il motivo era stata delusa di non poter stare con lui. Ma il giornale veniva prima di tutto, lo sapeva da un pezzo. Tutti gli Harte mettevano il lavoro e gli affari al primo posto.

Si versò un'altra tazza di caffè dalla caffettiera d'argento, vi aggiunse il latte e un dolcificante, e rimase seduta a sorseggiarlo, godendosi la splendida giornata di settembre. Il caldo era insolito, il cielo azzurro e il sole luminoso. Una giornata limpidissima.

Cristallina. E, quella mattina, dalla brughiera non saliva neanche un filo di bruma.

Sentì il passo di Robin e voltò la testa a sorridergli.

Robin ricambiò il sorriso e andò a sedersi vicino a lei. «Mi spiace di averci messo tanto, ma mia sorella aveva bisogno di discutere una piccola questione di affari, e non è donna che accetti un no come risposta.» Scoppiò in una risatina sommessa, e poi aggiunse: «Edwina ha passato da un po' i novant'anni, ma nessuno se lo immaginerebbe».

«È quello che ho sentito dire. India e Tessa ne parlano come se fosse una ragazzina vivace e spiritosa.»

Robin rise di nuovo. «Ed è anche quello che pensa lei, te lo garantisco.»

«Robin, c'è qualcosa che voglio dirti», cominciò, sporgendosi a guardarlo dritto negli occhi. «Non sarò in grado di far venire i miei genitori nello Yorkshire. Hanno intenzione di tornare in America la settimana prossima, non so bene quando, ma sentono di doverlo fare, per via degli attacchi terroristici.»

Un lampo di delusione passò negli occhi di Robin; ma annuì: «Capisco, figurati. Credo che mi sentirei anch'io come si sentono loro se il mio paese venisse aggredito allo stesso modo. Martedì è stato perpetrato un vero e proprio atto di guerra nei confronti degli Stati Uniti, ed è naturale che i tuoi genitori sentano la necessità di tornare a casa». Le rivolse un sorriso affettuoso, «Torneranno in Inghilterra, sono sicuro e poi non c'era stato un momento in cui avevamo stabilito che sarebbe stato meglio che tuo padre non sapesse chi sono?»

«È vero. Ma mi accorgo di non esserne più così sicura e poi Gideon è convinto che papà dovrebbe sapere la verità, e anche la mamma, soprattutto adesso che ci siamo fidanzati. In fondo lo sa l'intera famiglia ed è inevitabile che prima o poi trapeli, non credi?»

«È più che probabile, ma posso conoscere Owen un'altra volta. Non torturarti per questo, cara.»

«Ti ringrazio di essere così comprensivo, e sempre così gentile con me, Robin.»

«Ti voglio bene, mia cara e sei la mia unica nipote.» Dopo essersi riempito di nuovo la tazza di caffè e averci messo lo zucchero, riprese, soppesando le parole: «Evan, devo spiegarti qualcosa, ma devi promettermi che rimarrà tra noi ».

«Sai che non tradirei mai e poi mai una confidenza.»

«Sì, lo so. Ma quello che sto per raccontarti deve rimanere un segreto, perché non vorrei mai che Jonathan lo scoprisse.

Intesi?»

«Sì.»

Infilando la mano nella tasca della giacca di tweed, Robin estrasse un bigliettino e glielo mise in mano: «Ho istituito un credito a tuo nome. Su questo biglietto ci sono tutti i dettagli.

È stato studiato in modo che sia impossibile risalire a me. Per non correre rischi, ti prego di non parlarne con nessuno, neanche con Gideon. D'accordo?»

«Te lo prometto», gli assicurò, affrettandosi a dire: «Ma non era necessario. Te l'ho già spiegato. Non voglio niente da te, Robin. Solo il tuo affetto.»

«Lo so, lo so», rispose in tono vagamente spazientito. «Comunque ho molti investimenti e capitali dei quali mio figlio ignora l'esistenza, e che non possono essere fatti risalire a me.

Una parte di quelli, l'ho trasferita a te.»

«Ma, Robin...»

Lui la guardò con aria severa, minacciandola con un dito.

«Niente ma, Evan. Su questo argomento non voglio sentire più una sola parola. Metti via quel biglietto, studialo attentamente, assimilalo e conservalo in un luogo sicuro.»

Lei ubbidì e posando di nuovo la borsetta si allungò a prendergli una mano. «Grazie, Robin, sei molto generoso», disse, sinceramente commossa dal suo gesto.

«Per me è un piacere, mia cara. E adesso, dimmi, come sta Paula? So che era molto agitata al pensiero che Shane potesse essere rimasto coinvolto nell'attacco terroristico.»

«Comincia a sentirsi meglio. Linnet mi ha detto che mercoledì era esausta. Abbiamo fatto colazione insieme stamattina prima che venissi qui e... a proposito Linnet ti saluta... Hanno riaperto il JFK e Shane arriva domattina a Londra.» Evan gli rivolse un sorriso un po' timido e concluse: «Dev'essere meraviglioso avere un matrimonio come il loro. Linnet sostiene che sono ancora innamoratissimi dopo tutti questi anni».

Robin le allungò un'occhiata penetrante mentre mormorava: «Dev'essere così. Ma tu mi sembri malinconica. Le cose non stanno andando bene fra te e Gideon?»

«No, va tutto bene...» si morsicò un labbro e continuò: «Solo che... ecco, credo che sia ancora seccato perché io non avevo detto ai miei genitori che ci siamo fidanzati».

Lui scrollò la testa sospirando. «Certe volte gli uomini sono proprio stupidi. Senti chi parla.... Sono un uomo, e anch'io sono stato stupido molte volte in vita mia. Vorrei che Gideon si sforzasse di uscire da questo stato d'animo. Siete fidanzati e lo sanno tutti inclusi i tuoi. Adesso voi due dovreste occuparvi di fare progetti per il vostro matrimonio e fissare una data, invece di litigare.»

«Veramente non stiamo litigando», spiegò. «Solo che Gideon è brusco e scostante. A volte persino distaccato e lontano.»

«Viene qui questo weekend?»

«No. Ha ritenuto doveroso fermarsi con suo padre e con Toby al giornale.»

«Oh, sì, Gideon è un vero Harte, totalmente dedito al lavoro.

Ma non credo che sia una brutta cosa. È un vero giornalista come Winston e gli zii.»

Rimasero seduti ancora un po' a conversare, poi Evan si scusò: «Mi dispiace non poter rimanere a pranzo con te, oggi, ma Linnet e io siamo nel pieno dei preparativi per il suo matrimonio e le ho promesso che nel pomeriggio le avrei dato una mano».

Robin sorrise e si alzarono insieme. La prese sottobraccio e percorsero la terrazza fino al retro della casa, dove aveva parcheggiato la macchina. «Spero che potremo pranzare insieme il prossimo weekend. Quando parti per Londra?»

«Martedì mattina. Per stare con i miei genitori un paio di giorni prima che ripartano. Poi ho intenzione di tornare venerdì mattina presto con India per i lavori nel negozio di Leeds.

Cosa ne diresti di domenica prossima a pranzo?»

«Magnifico!» esclamò e diventò immediatamente di umore migliore.

Quando arrivarono alla macchina Robin l'abbracciò e le diede un bacio su una guancia. «Chissà che non si riesca a convincere Gideon a unirsi a noi?»

«Senz'altro. Mi assicurerò che venga.» Aperta la portiera della macchina, salì al volante, abbassò il finestrino e mormorò: «Grazie. Ci vediamo il prossimo weekend».

«Ricordati che è un appuntamento, mia cara.»

Evan inserì la chiavetta dell'accensione ma si rabbuiò. La macchina non partiva. Provò di nuovo ma senza successo, e Robin allungandosi a guardare dal finestrino azzardò: «Non hai ingolfato il carburatore?»

Evan scrollò la testa. «No. Non si accende.»

«Più probabile che sia la batteria. È una delle vecchie automobili di Paula, dico bene? Una di quelle sue trappole, come le chiama lei.»

«Sì. Me la lascia usare, però credo che ormai abbia bisogno di una bella revisione.»

«Pare proprio di sì. Comunque non è un problema. Puoi prendere la mia Rover. È un'ottima macchina.»

«Ma tu non ne avrai bisogno?» si preoccupò lei scendendo dalla Jaguar di Paula, «Io ho il mio quattroruote preferito in garage.»

«Oh, sì, la tua splendida, Bentley Continental Coupé anni Sessanta, se non sbaglio.»

«Ah, ma allora ti ricordi quello che ti ho raccontato, eh?» scoppiò a ridere con aria soddisfatta.

«Come, no! E mi hai anche detto che ha un volano idraulico, e questo spiega il fatto che non abbia un dispositivo speciale per la selezione delle marce. Ricordo tutto quello che tu mi dici, Robin, sai?»

«Ma non capita spesso che le ragazze imparino a memoria tutto quello che riguarda le automobili», ribatté, pronto.

Nel giro di poco Evan aveva portato fuori la Rover dal garage.

«Ma è splendida! Non so come ringraziarti. Domani te la riporto. Mi farò accompagnare da Linnet o India.»

«Non c'è problema», le gridò Robin salutandola con la mano mentre lei si avviava verso la cancellata di ferro. «Ciao, cara.»

 

A

Evan piaceva la sensazione di compattezza e di solidità che le dava la Rover, e la trovava facile da guidare. L'automobile continuò dolcemente la sua corsa man mano che lei si dirigeva verso l'alto cancello di Lackland Priory e svoltava a destra per raggiungere il piccolo villaggio di Lackland oltre il quale si trovava la strada maestra per Pennistone Royal.

Appoggiata allo schienale del posto di guida, concluse che le piaceva moltissimo guidare i vecchi modelli come questo.

Avevano qualcosa di differente. Forse era la sensazione di lusso dei tempi ormai lontani. Paula una volta le aveva raccontato che in famiglia nessuno rinunciava mai alle auto d'epoca per sostituirle con modelli più recenti. «Forse lo faranno per un senso di economia», aveva detto. «Ma ne dubito.» Perfino India guidava un'antica Aston Martin che le invidiavano tutti i maschi della famiglia. Anche Gideon andava pazzo per la Bentley Continental di Robin che aveva quarant'anni. Quando arrivò in cima alla collina, toccò con delicatezza il freno. La collina era ripida e si accorse all'istante della spinta della forza di gravita mentre cominciava a scendere. Appoggiò il piede al freno con più forza.

Non successe niente. I freni non funzionavano! La macchina continuò nella sua discesa a precipizio e non c'era nessun mezzo con cui fermarla.

Era all'incirca a metà della discesa quando vide un carro trainato da un cavallo che arrivava, accompagnato dal sonoro rimbombo delle ruote, da un viottolo laterale. Cominciò a suonare disperatamente il clacson. L'uomo seduto in cassetta alzò gli occhi verso la collina, la vide arrivare ma sembrò paralizzarsi, incapace di fare qualcosa. Evan si rese conto che doveva sterzare energicamente in modo da evitare di finire addosso al carro e al cavallo e rischiare di uccidere l'uomo e l'animale. Afferrò il volante lo girò freneticamente con tutte le sue forze puntando alla sua destra. Solo troppo tardi vide il muretto a secco.

Se lo trovò di fronte mentre gli piombava addosso a capofitto.

Possibile che qualcuno avesse manomesso i freni? si domandò all'improvviso. E quello fu il suo ultimo pensiero.

 

Billy Ramsbotham, seduto sul carro, rimase per un momento a guardare impietrito la macchina fracassata. Poi diede un colpo di redini, fece schioccare la lingua e lanciò il cavallo al galoppo giù per il pendio.

Ma prima di arrivare in fondo vide Frazy Gilliger che gli veniva incontro pedalando e lo chiamò con un gesto convulso, sbracciandosi.

«Cosa c'è, Billy? Stai correndo come un matto! È successo qualcosa?» gli domandò lui, accortosi dell'agitazione del vecchio contadino.

«Certo che è successo qualcosa! Quasi in fondo alla discesa, c'è una ragazza che si è schiantata con la macchina. Mi pare una Rover. Sembra proprio la Rover del signor Ainsley. La macchina è messa male e temo anche la ragazza.»

«Oh, mio Dio, dev'essere la signorina Evan!» gridò lui e senza aggiungere altro cominciò a pedalare risalendo la collina verso Lackland Priory con tutta la velocità che le gambe gli consentivano.

Aveva il fiato corto quando, imboccato il cancello, continuò a pedalare girando dietro alla casa. Scese d'un balzo, scaraventò la bicicletta per terra ed entrò in cucina come una furia.

Bolton, il maggiordomo, stava parlando alla cuoca, la signora Pickering e si voltò di scatto con aria strabiliata. «Santo cielo, Frazy, cosa è successo?»

«La signorina Evan ha avuto un incidente con la Rover. Io non l'ho vista, ma Billy Ramsbotham sì, proprio mentre andava a sbattere contro il muretto a secco che c'è là in fondo. Sarà meglio chiamare un'ambulanza, Percy.»

«Oh, mio Dio, certo!» Rivolto alla cuoca, Bolton la pregò: «Può pensare lei a fare la telefonata, Maude? E meglio che vada ad avvertire il signor Ainsley. E chiami l'ospedale di Ripon, non quello di Harrogate è più vicino e hanno sia l'ambulanza sia i paramedici. Nel caso non potessero intervenire ci penseranno loro a trasferirla a Harrogate.»

«Chiamo subito, Percy», e corse al telefono.

Bolton andò in biblioteca. Nel giro di pochi secondi stava ripetendo a Robin quello che gli aveva raccontato Frazy.

Robin, in piedi vicino alla finestra, allungò una mano per reggersi allo schienale di una bergère mentre ascoltava il suo maggiordomo. Si sentiva il cuore battergli forte e aveva l'impressione che le gambe non lo reggessero.

«È viva?» riuscì finalmente a domandare.

«Non lo so, signore. Faccio un salto giù a vedere. La cuoca sta chiamando l'ospedale di Ripon per chiedere un'ambulanza.»

«Vengo con te, Bolton», replicò Robin.

«Molto bene, signore.» Bolton corse via, seguito da un Robin stravolto il quale stava pensando che tutto il suo mondo pareva crollargli addosso all'improvviso. Perdere proprio adesso questa ragazza, quando l'aveva appena trovata, era inconcepibile.

E che tragedia sarebbe stata per una donna così giovane perdere la vita! Pregò in cuor suo che non fosse morta, pregò che non fosse neanche ferita gravemente. Evan aveva tutto, aveva ogni motivo per vivere. Un futuro che l'aspettava, una vita con Gideon, una carriera alla Harte's, dei figli...

Mentre seguiva il maggiordomo nel cortile dietro la casa, si domandò se qualcuno avesse manomesso la macchina, quella che lui usava più regolarmente di quanto non facesse con la Bentley. Conosceva Evan come un'ottima guidatrice. E allora, cos'era successo?

Se qualcuno aveva manomesso la Rover, chiunque fosse stato, aveva avuto lui come obiettivo e non Evan. Era a lui che aveva mirato. Scoprì di provare orrore a formulare il nome che gli veniva subito alla mente. No, pensò, non avrebbe fatto niente del genere. Di sicuro. Per quale motivo tentare di uccidermi?

 

A Bolton occorsero soltanto un paio di minuti per raggiungere la scena dell'incidente. Insisté con Robin perché rimanesse a bordo della Bentley.

«Lasci che vada io, signor Ainsley», protestò con gentilezza. «La prego.»

«Va bene», acconsentì, visibilmente contrariato.

Il maggiordomo raggiunse la Rover e guardando dentro nell'abitacolo vide Evan accasciata sul volante e il suo corpo aveva una strana angolatura, ma la cintura di sicurezza era allacciata, e questo lo confortò parzialmente. Non avrebbe saputo dire se fosse viva o morta e solo quando sentì che le sfuggiva un lamento, si rincuorò. Si voltò di scatto e corse a dare la notizia a Robin.

«La signorina Evan è viva, signore!» esclamò. «L'ho sentita lamentarsi però non mi sono azzardato a toccarla, signore.

Non ci resta che aspettare l'arrivo dell'ambulanza e dei paramedici.

Loro hanno l'esperienza che ci vuole in casi come questi.»

«Grazie a Dio è viva», sospirò Robin, sentendosi togliere un gran peso dal cuore. «E hai ragione. È meglio non muovere un ferito con il rischio di provocare danni ulteriori.»

Poi si abbandonò contro lo schienale e si mise a respirare normalmente. Chiuse gli occhi e alzò una silenziosa preghiera a quel Dio in cui da molto tempo aveva smesso di credere, accorgendosi che consolazione fosse aver la forza di pregare in un momento di crisi.

Bolton era tornato sul luogo dell'incidente. E non sentendo provenire più alcun suono, neanche un lamento sommesso, dal posto di guida cominciò a dubitare che fosse ancora viva. Poi sentì le sirene e vide un'ambulanza che veniva verso di loro a gran velocità.

Tre paramedici entrarono rapidamente in azione estraendo Evan dall'automobile con tutti gli accorgimenti del caso, adagiandola sulla lettiga e caricandola sull'ambulanza.

«La conosce?» chiese a questo punto un paramedico.

«È Evan Hughes, la nipote del signor Robin Ainsley», rispose.

«Di Lackland Priory?»

«Sì, precisamente. E viva?»

L'autista fece segno di sì. «Ma dobbiamo portarla all'ospedale.

Immediatamente. Non siamo in grado di stabilire quali siano le sue condizioni.»

«Grazie a Dio. La seguiremo a Ripon.»

«Ci vediamo là», rispose l'autista.

Bolton si mise al volante della Bentley e raggiunse l'ospedale.

In sala d'aspetto si sedettero l'uno di fianco all'altro, senza dire niente, in attesa di avere notizie. Quando fu passato qualche minuto, Robin si rese conto che doveva far sapere a Linnet cosa fosse successo a Evan, visto che l'aspettavano per pranzo.

«Hai il cellulare, Bolton?» domandò.

«Sì, signore. Eccolo.»

Robin compose il numero di Pennistone Royal e fu Linnet a rispondere. Dopo averle riferito quanto era successo, si affrettò ad aggiungere: «È viva, Linnet, però non sappiamo altro».

«Oh, mio Dio! Ti raggiungo subito, zio Robin.»

«No, no, non è necessario. Non puoi fare niente. Penserò io a tenermi in contatto con voi, te lo prometto.»

«Non voglio che tu rimanga solo», obiettò lei in tono fermo.

«Arrivo prima che posso, quindi non cercare di impedirmelo.

Avverto la mamma che è nel negozio di Harrogate. Ci vediamo fra mezz'ora.»

«D'accordo», si arrese perché sapeva benissimo come fosse inutile discutere con lei. Se c'era qualcuno che assomigliava a sua madre, era Linnet. Una volta che si era messa in mente di fare qualcosa, niente poteva fermarla.

Mezz'ora dopo venne a cercarlo il dottor Gibson, con la faccia sorridente.

«Buongiorno, signor Ainsley», si presentò Gibson. «Ho visitato la signorina Hughes, e se la caverà senza problemi. È solo sotto choc e ha una costola e una caviglia fratturate, e gambe e braccia coperte di lividi e contusioni. Ma a quanto ho potuto constatare, nessuna lesione interna. Immagino che sarà sollevato di sapere che non ha perduto il bambino. È una donna molto fortunata, sarebbe potuto andarle molto peggio. Il rischio di abortire era enorme.»

 

Bene o male, Robin riuscì a mantenere un'espressione imperturbabile.

Era vecchio e non c'era praticamente più niente che potesse sconcertarlo o commuoverlo, ma fu costretto ad ammettere di essere rimasto sorpreso alla notizia della gravidanza di Evan. L'aveva giudicata cauta e con un grande senso pratico e adesso non poté fare a meno di domandarsi come avesse lasciato succedere una cosa simile prima del suo matrimonio con Gideon. Poi gli balenò il dubbio che l'avesse fatto di proposito per esasperare la situazione con Gideon.

Non ne era così sicuro. Tutto quello che sapeva era che voleva un gran bene a quella giovane donna ed era felice ed emozionato al pensiero di sapere che portava in grembo un suo pronipotino.

Il medico aprì la porta, fece passare Robin in una piccola camera privata, e scomparve. Evan era ancora su una lettiga, semisdraiata, e indossava un camicione bianco da ospedale. Era pallida e ancora sotto choc. Aveva un vistoso livido su una guancia e Robin si accorse che doveva soffrire molto perché quando cercava di muoversi, trasaliva subito.

Appena Robin le fu venuto vicino, gli sussurrò con voce fievole: «Mi dispiace per la macchina».

«Quella, Evan cara, non ha la minima importanza. Tutto quello che importa è che stai bene.» Curvandosi su di lei, le diede un bacio sulla fronte, poi le prese una mano e gliela strinse.

«Sei in grado di raccontarmi cosa è successo? Oppure è uno sforzo troppo grande?»

«I freni hanno ceduto... in cima alla collina. Non ho più avuto nessun controllo sulla macchina.» Respirò a fondo e aggiunse con un filo di voce: «Da un viottolo laterale è uscito il carro trainato dal cavallo e ho sterzato per evitarli».

Robin rimase in silenzio per un momento, poi le rivolse un'occhiata interrogativa. «Secondo te, i freni non hanno funzionato semplicemente perché la machina è un vecchio macinino oppure perché qualcuno li ha volutamente danneggiati?»

«Non saprei...»

«La Rover è sempre stata revisionata. Chiederò al mio garage che controllino i freni, ma può darsi che sia la polizia stessa a volerlo fare.»

Evan sospirò, ma rimase in silenzio perché non voleva pronunciare il nome che le mulinava nel cervello.

«Ho telefonato a Linnet», continuò lui, «e sta venendo qui.»

Accostando una sedia alla lettiga, spiegò: «Fra un minuto mi cacceranno via perché devono ingessarti la gamba. Farà male».

Lei fece segno di sì, sentendosi improvvisamente debole.

«Evan, il bambino sta bene. Me l'ha detto il dottor Gibson», la informò.

Sconcertata lo fissò con tanto d'occhi, mentre le si infiammavano le guance. Poi quasi in un sibilo disse: «Per favore, non dirlo a nessuno».

«Certo, cara, non temere. E Gideon come ha reagito?»

«Non lo sa.»

«Non gliel'hai detto?»

«No. Non voglio influenzarlo... per quello che riguarda il nostro futuro.»

«Capisco. Che vi sposiate o no sono affari vostri, mia cara, ma voglio che tu sappia che io sarò sempre a disposizione per te e per il mio pronipote indipendentemente da tutto il resto.»

Gli occhi di Evan s'illuminarono, e gli rivolse un lieve sorriso.

«Grazie.»

Improvvisamente bussarono alla porta e Robin gridò: «Avanti».

Un attimo più tardi Linnet si precipitava alla lettiga, esclamando: «Ho avuto una paura da morire per tutta la strada fin qui, Evan! Ma si può sapere cosa è successo?» Si fermò di botto e le prese una mano, guardandola con aria preoccupata.

«I freni non hanno funzionato», spiegò Robin. «È stato gentile da parte tua venire subito, Linnet. Ti ringrazio.»

Lei gli sorrise, poi si voltò di nuovo verso Evan. Rifiutandosi di pensare a Jonathan e a quella che poteva essere la sua vendetta nei confronti della loro famiglia, le domandò: «Come stai, sei grave?»

«Ho una costola e una caviglia fratturata», rantolò. «Stanno per mettermi il gesso.»

«Oh, grazie a Dio! Poteva andare peggio», concluse Linnet.

 

Russell «Dusty» Rhodes scese al quinto piano dei grandi magazzini Harte's di Leeds. Si guardò intorno e intuì all'istante il motivo per cui la segretaria di India gli aveva detto di stare attento a dove camminava. Sarebbe stato costretto ad aggirare una zona transennata da paletti e nastri per raggiungere India.

La vedeva al centro del piano, in pantaloni e blusa di cotone beige, portablocco a molla per gli appunti, occhiali con la montatura di tartaruga spinti indietro sui capelli biondi. Se abitualmente vestiva in stile casual chic, quel pomeriggio aveva un aspetto molto più austero, anche se non meno elegante. C'erano calcinacci dappertutto ed erano in pieno svolgimento i lavori di demolizione. India stava parlando con due operai ma sembrava preoccupata tanto che, per un attimo, esitò. Non la vedeva da più di una settimana. Si erano lasciati dopo una spiacevole discussione e lui era sicuro che India non avrebbe risposto a una sua telefonata. Così aveva preferito venire di persona.

Dopo un momento decise di farsi coraggio e affrontare la situazione: scavalcò un mucchio di assi, girò intorno a una carriola e a qualche secchio di calcina, e si fece avanti, verso di lei.

Il primo a riconoscerlo fu uno degli operai. «Ehi, Dusty, come va?» gli domandò con un largo sorriso. «È tanto tempo che non ci vediamo, amico!»

Prima che potesse rispondere, India si voltò di scatto verso di lui, e se le passò un lampo di sorpresa sulla faccia, fu soltanto questione di un momento. Era molto brava a nascondere i propri sentimenti e tornò ad assumere un'aria impassibile.

«Ciao, India», la salutò.

«Dusty», rispose lei, inclinando lievemente la testa in un cenno di saluto.

Guardando l'operaio che era alle sue spalle, Dusty domandò: «Tu sei Jackie Pickles, dico bene?»

L'uomo rise. «Ci hai azzeccato, Dusty. Allora non ti sei dimenticato dei vecchi compagni di scuola, vero?»

Annuendo, Dusty rise. «Figurati, se me ne sono dimenticato!

Christ Church, della chiesa anglicana in Theaker Lane, di Upper Armley.»

«Quant'acqua è passata sotto i ponti!» recriminò Jackie e allungando un'occhiata all'uomo che gli era vicino, aggiunse: «Scommetto che non ti ricordi di Harry Thwaites, dico bene, Dusty?»

«E invece sì, che me ne ricordo. Salve, Harry. L'ultima volta che ti ho visto è stata alla scuola superiore di West Leeds, giusto?»

Harry sorrise. «Molto tempo fa, Dusty. Adesso sono sposato.

E ho un paio di ragazzini.»

India, che era rimasta ad ascoltare con attenzione questo breve scambio di battute, intervenne: «Volevi parlare con me, Dusty?»

«Sì.»

Ma fissò di nuovo lo sguardo oltre le spalle di India e domandò a Jackie: «Qual è il problema che avete incontrato qui? Quei montanti d'acciaio, scommetto», «Già, proprio così. I disegni di lady India per parte del piano del negozio non le mettono in evidenza, perché non sapevamo che ci fossero. Le abbiamo scoperte buttando giù un muro.»

«Fammi vedere i disegni, India, per piacere», le chiese Dusty.

«Ho studiato architettura.»

Porgendoglieli, rispose: «Sì, lo so. Vorrei che venissero eliminati».

Lui esaminò i disegni, si avvicinò ai montanti che dal pavimento salivano fino al soffitto, si guardò intorno e poi concluse: «Sono pronto a scommettere il mio ultimo dollaro che questi pilastri sostengono il soffitto, che è anche il pavimento del piano di sopra».

E Harry: «È proprio quello che pensavamo noi... non possiamo toglierli».

A India spiegò: «Se li togli, si indebolisce la struttura del piano superiore. Dovrai incorporarli, in un modo o nell'altro, nel tuo nuovo progetto».

I due operai adesso lo stavano guardando con occhi sfavillanti di soddisfazione.

India non nascose che quel responso le dava un gran fastidio, ma sulla faccia le comparve un'espressione rassegnata.

«Allora va bene, faremo così.» Rivolgendosi ai due operai, disse: «Per favore, scusateci per qualche minuto. Non vorreste magari fare una piccola pausa e prendervi una tazza di tè?»

«Grazie, lady India», risposero all'unisono mentre rivolgevano a Dusty un altro sorriso radioso. E si allontanarono.

«Sei sicuro che non posso togliere quei montanti?»

«Be', puoi spostarli», le rispose Dusty. «Ma io non lo farei.

Sarebbe un disastro.»

«Capisco», replicò e alzando la testa per allungargli un'occhiata, aggiunse: «Che sorpresa, questa visita. Perché sei venuto?»

Incontrare sia pure per caso i due suoi vecchi compagni di scuola e scambiare con loro quella breve conversazione era servito a rompere il ghiaccio. Con calma le rispose: «Primo per scusarmi e, secondo per cercar di spiegare... quel che riguarda Melinda e Atlanta».

«Andiamo nel mio ufficio, così potremo parlare.»

«Grazie, India.»

Salirono al settimo piano in silenzio. Quando arrivarono davanti al suo ufficio, India aprì la porta e disse in tono brusco: «Bene, parliamo. Non ho molto tempo».

«Non ci vorrà molto.»

Si richiuse la porta alle spalle, rendendosi conto che India non sarebbe stata particolarmente bendisposta, anche se si augurava che lo perdonasse.

Lei andò a mettersi dietro la scrivania. L'arrivo di Dusty l'aveva presa in contropiede, ma lo scambio di battute fra lui e i suoi carpentieri le aveva dato il tempo di riacquistare tutto il suo autocontrollo e, con grande meraviglia, si scoprì in pace e assolutamente tranquilla. Non solo, ma doveva ammettere che le era mancato e aveva provato un desiderio struggente di andare da lui. Era sempre innamorata e Dusty era diventato l'ossessione delle sue giornate.

Nel complesso lo trovava bene a parte due occhiaie evidenti, era probabile che si fosse dedicato totalmente alla pittura per dimenticare la sua infelicità di essere stato abbandonato.

Con aria incerta di fronte alla scrivania, Dusty esordì: «Ascolta, ammetto di essere stato maledettamente stupido. Avrei dovuto parlarti di mia figlia quando ti ho spiegato di Melinda. Ma ero tremendamente imbarazzato e... avevo una paura del diavolo!

Non sono abituato a discutere della mia vita privata».

«Quello, lo so», gli concesse India. Si mise a sedere, facendogli segno di accomodarsi anche lui.

Dusty prese posto nella poltrona e continuò: «Io non mi confido mai con nessuno. Sono un solitario, un tipo indipendente, e lo sai. Non mi sono mai e poi mai sentito seriamente impegnato nei confronti di nessuno, cioè voglio dire di una donna, e molto tempo fa avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai sposato. Fino a quando non mi hai piantato in asso.

Non mi ero reso conto fino a quel giorno di quello che provavo realmente per te».

Lei gli rivolse una lunga occhiata severa, ribattendo tagliente: «Se non altro sei onesto. Quello che stai dicendo è che io ero soltanto un'altra delle tante donne della tua vita, e non vedevi il motivo di mettermi a parte del tuo passato. Giusto?»

«In un certo senso, suppongo di sì. Ma non completamente...

Vedi, sapevo di essere preso da te, anche se forse non valutavo fino a che punto. Ti rispetto e ti ammiro. Mi sono reso conto di tutte queste cose solo quel pomeriggio, ma ero anche confuso e non sapevo come spiegare che lei e io avevamo una figlia.»

«Io avrei capito. È per questo che sono rimasta così male.

Mi hai sottovalutato e non hai voluto concedermi il beneficio del dubbio.»

«Lo so, e me ne dispiace. Sono un idiota.»

«È stato gentile da parte tua venire a chiedermi scusa.» India si alzò in piedi. «Adesso devo tornare a...»

«India, c'è qualcos'altro che devo dirti», la interruppe. «Ho sempre mantenuto Melinda, sua madre e Atlanta. E sono io che pago le spese mediche di Melinda.»

Lei assentì, e cominciò a girare intorno alla scrivania, ansiosa di tornare al suo lavoro.

«Volevo soltanto che lo sapessi.»

«Per quale motivo non vi siete sposati?» domandò, all'improvviso.

«Non ero innamorato di lei. E ci eravamo già lasciati prima che lei sapesse di essere incinta.»

«Capisco.»

Dusty si avviò alla porta, accorgendosi che non aveva più senso continuare. Si sentiva svuotato, esausto. Le aveva detto la verità per quello che riguardava Melinda e non c'era più niente da aggiungere. India non era dell'umore più adatto per ascoltare le sue dichiarazioni d'amore.

India insisté: «Quand'è che ha cominciato a drogarsi?»

«Poco dopo la nascita di Atlanta, Almeno quello... La bambina non ha mai corso nessun rischio.» Aprì la porta, si voltò, e le rivolse un sorriso pallido. «Questo è tutto, mi pare...» Si sentiva la gola serrata, e capiva che gli stavano salendo le lacrime agli occhi. Che stupido!

India si accorse che era sul punto di lasciarsi cogliere dal panico mentre Dusty usciva dal suo ufficio. Non poteva lasciarlo andare. Ecco, era questa l'occasione che le si offriva di riaggiustare le cose. Girando intorno alla scrivania, esclamò: «Dusty, aspetta! Per piacere non andartene!»

Lui si voltò di scatto, e la guardò con gli occhi sgranati quando vide la sua espressione, perché era un'espressione di amore totale, assoluto.

Rientrò nell'ufficio, chiuse la porta e avanzò verso di lei domandandole: «Cosa c'è?»

«Ti amo», confessò. «Ti ho sempre amato. E volevo soltanto che tu lo sapessi prima di andartene.»

«Vuoi che rimanga?»

«Oh sì. Sì.»

Lui le venne più vicino, la prese fra le braccia, la strinse forte.

«Anch'io ti amo. E desidero passare il resto della vita con te, se mi vuoi.»

Lei alzò la testa a guardarlo, con quegli occhi chiari e luminosi, lucidi di lacrime. «Questa sarebbe una proposta di matrimonio?»

«Certo che lo è. Ti amo. Io voglio che tu sia mia moglie.»

«E io voglio che tu sia mio marito», gli sussurrò India e, alzandosi sulla punta dei piedi, lo baciò sulla bocca.