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Tessa Fairley Longden era sulla terrazza e osservava sua figlia che si affaccendava qua e là come una chioccia, cercando il posto migliore per far sedere Daisy, la bambola di porcellana, Teddy, l'orsacchiotto, e Reggi, la bambola di pezza, sulle seggioline che avevano appena sistemato intorno al tavolo da tè.

Quando fu soddisfatta, la bambina alzò gli occhi verso la madre e disse: «Daisy tiene compagnia a Teddy, e io invece vado a sedermi vicino alla mia Reggi».

«È proprio una buona idea, Adele. Sono sicura che saranno contenti in qualsiasi posto tu voglia metterli», le rispose, rivolgendole un sorriso rassicurante.

Intanto che le parlava, Tessa prendeva mentalmente nota di strappare dalle grinfie della figlia la bambola di pezza il più presto possibile. Era sporca, scarmigliata, con gli abiti malconci, un vero disastro, eppure Daisy l'adorava e non se ne separava mai. Tessa sapeva che per Adele quella bambola era la classica «coperta», un oggetto tutto suo che le dava sicurezza, ma adesso aveva bisogno di una bella ripulita. Stasera, fu la sua riflessione, stasera le dò una bella lavata, se appena riesco a toglierla da quelle manine.

Era felice di trovarsi nello Yorkshire e di godere per la prima volta un po' di pace da quando aveva lasciato Mark. Chinandosi ad accarezzare i capelli della bambina, di uno stupendo biondo platino e morbidi come la seta, mormorò: «Sono in biblioteca a lavorare, tesoro, se hai bisogno di me».

Adele annuì dicendo con voce solenne: «Al tuo computer, mammina».

«Proprio cosi.» Tessa si accorse di avere il cuore traboccante di amore per questa bellissima creatura, la persona che amava di più al mondo. E adesso che le pratiche per il divorzio erano state avviate, avrebbe potuto dedicarsi a sua figlia. Allungandosi a baciarle la testolina, indugiò sulla terrazza; respirò a fondo ed entrò a passo rapido in biblioteca.

Era il giorno di libertà di Elvira, la tata, andata a Leeds. In un primo momento a Tessa non sarebbe dispiaciuto portare la figlia al negozio di Harrogate, ma alla fine aveva deciso di non andarci per niente. Era una mattinata talmente bella che sembrava un delitto costringere una bambina a star chiusa in un ufficio; in fondo, lei poteva lavorare anche da Pennistone Royal, dedicandosi ai progetti per la ristrutturazione dei grandi magazzini che avevano ad Harrogate, mentre Adele si godeva il sole e l'aria fresca sulla grande terrazza dietro la casa. Quando era nella residenza di campagna della madre aveva eletto a suo studio la biblioteca. Si trattava di una stanza di forma allungata, vasta e ariosa, con un alto soffitto e le pareti coperte di boiserie in legno di pino chiaro. Era un luogo pieno di pace, ben isolato grazie alle alte scaffalature che salivano dal pavimento fino al soffitto, piene zeppe di libri rilegati in pelle.

Qualche ora prima aveva trovato il modo di sistemarsi in fondo alla biblioteca, vicino alla portafinestra che si apriva sulla terrazza. Così Adele avrebbe potuto giocare fuori fino all'ora di pranzo. Aveva avvicinato il tavolo alla vetrata, in modo da non perdere mai di vista la figlia. Riusciva perfino a sentirla chiacchierare con l'orsacchiotto. Se avesse avuto bisogno di lei sarebbe stata lì a portata di mano.

Lavorò senza sosta per i venti minuti successivi, controllando i disegni delle ali del negozio che andavano rinnovate, apportando qualche miglioramento, alzando gli occhi dallo schermo di tanto in tanto, riflettendo su quanto fosse brava Adele a giocare da sola e a parlare alle bambole e all'orsacchiotto con la massima naturalezza, come se fossero vivi.

Sua figlia era intelligente, geniale, piena di fantasia, già in grado di leggere anche se non aveva ancora quattro anni. Sotto molti aspetti era precoce ma non in modo irritante. Aveva un carattere dolce, era tenera e incantevole per certi suoi piccoli vezzi che denotavano estro e originalità.

Adele si voltò e vide la mamma fissarla al di là dei vetri e rise, salutandola con la manina. Contraccambiò il saluto e riprese a lavorare, cercando di riordinare le idee per le ristrutturazioni, ormai assolutamente necessarie, che intendeva realizzare nei grandi magazzini Harte's di Harrogate. Al momento quello era il suo progetto speciale. Alla sorellastra Linnet, alla cugina India, e a Evan Hughes, invece era stato affidato l'incarico di creare un nuovo look per la sede di Leeds. Era un periodo di rinnovamenti e riorganizzazioni per tutta la catena di negozi.

Lo squillo stridulo del telefono la fece trasalire. Quando continuò a suonare, si domandò per quale motivo nessuno andasse a rispondere, e le tornò in mente che era sola in casa. Elvira era già partita per Leeds; Margaret era a fare la spesa e aveva visto Evan mettersi al volante della sua macchina almeno un'ora prima, se non di più. Quanto a Emsie e Desmond, erano usciti a fare una passeggiata a cavallo.

Si alzò di scatto per raggiungere lo scrittoio georgiano accanto al divano e sollevò il ricevitore. «Pennistone Royal. Pronto?»

Dall'altra parte le arrivarono una serie di disturbi elettrostatici e poi sentì, lontanissima, una fievole voce maschile che diceva: «Tessa... C'è Tess...» Poi la voce si spense, dissolvendosi nel nulla.

È Toby, pensò, mi sta chiamando da Los Angeles. Stringendo convulsamente il ricevitore, esclamò: «Qui Tessa Longden!

Chi parla?» Ma con sua grande stizza, il telefono rimase muto.

Adesso sembrava che la comunicazione si fosse interrotta definitivamente.

Restando in ascolto per un momento, ripeté ancora «Pronto» parecchie volte e infine riattaccò esasperata.

Aveva fatto a malapena pochi passi verso la sua scrivania improvvisata quando il telefono riprese a suonare. Alzando con energia il ricevitore dalla forcella, disse con voce forte e chiara: «Qui Tessa Londgen. Chi parla?» Ancora una volta nessuna risposta, soltanto scariche elettrostatiche e una serie di suoni che assomigliavano a uno strano sciabordare di onde. «Pronto?

Pronto? Non sento niente! Chi è?»

La sua voce riecheggiava di frustrazione. Suo cugino Toby era andato a Los Angeles a trovare la moglie, e le aveva promesso che si sarebbero tenuti in contatto. Non c'erano dubbi: doveva essere lui. La comunicazione s'interruppe di colpo. Spazientita buttò giù il ricevitore e fece per tornare al computer.

Ma aveva appena voltato le spalle al telefono quando il suo squillo insistente la costrinse a tornare indietro. Rispose per la terza volta. «Sono Tessa. Chi parla?»

«Tess...» La voce s'interruppe prima ancora di aver pronunciato il suo nome per intero e poi tutto quello che sentì furono le solite scariche e una mezza parola qua e là. Disse ancora «Pronto» parecchie volte, ma non ottenne risposta.

Rimase con il telefono incollato all'orecchio ancora per qualche minuto e poi, irritata, riattaccò maledicendo il cugino sottovoce.

Tutto d'un tratto le balenò che forse Toby aveva cercato di mettersi in contatto con lei ai grandi magazzini di Londra. Compose allora il numero privato della sua nuova assistente. Le fu risposto all'istante.

«Sono io, Patsy», esordì. «Credo che Toby Harte stia cercando di contattarmi dagli Stati Uniti. Forse dal cellulare. Ma continua a interrompersi la comunicazione. L'hai per caso sentito stamattina? Mi ha cercata?»

«No, non l'ha cercata», rispose la segretaria. «Anzi, finora ha ricevuto pochissime telefonate. Soltanto Jess Lister per un vestito che ha ordinato. Ha detto che è pronto e lo porterà qui.

Poi ha chiamato Anita Moore per dire che vuole mostrarle una nuova linea di cosmetici e prodotti per il corpo. Ho detto che l'avrebbe richiamata nei primi giorni della prossima settimana.»

«Bene.

Se Toby dovesse chiamarmi pregalo di telefonarmi su un numero fisso. Sarò a Pennistone Royal per tutto il giorno, e anche stasera. D'accordo?»

«Glielo dirò. Ci sentiamo più tardi, signora.»

Tessa tornò al tavolo della biblioteca e allungò meccanicamente un'occhiata verso la terrazza prima di riprendere il suo lavoro. Rimase con il fiato sospeso. Adele non era più seduta al tavolino a servire il tè alle bambole.

Oh, mio Dio. Si precipitò fuori e cominciò a guardare dappertutto.

Nessuna traccia della figlia. Eppure non aveva l'abitudine di allontanarsi. Adele era una bambina ubbidiente.

Sentì crescere il panico. Si voltò di scatto, frugò con gli occhi sul tavolino da tè come in cerca di un indizio, di una spiegazione, e notò immediatamente che mancava la bambola di pezza.

Ma dov'era andata? Alla vecchia quercia? Appena le balenò quest'idea, si precipitò alla balaustra di pietra e guardò giù, verso la piccola valle in fondo ai prati che scendevano in un lento declivio. Un'antica quercia allargava i suoi rami poderosi su una panchina da giardino dove Adele andava spesso a giocare.

Ma lì non c'era.

Come aveva fatto a scendere quei gradini? Ancora più allarmata prese a correre lungo la terrazza fino alla rampa di scale con il cuore in gola all'idea di trovare sua figlia distesa a terra inerte in fondo alla scalinata. Ma Adele non era neanche lì.

Il panico si trasformò in autentico terrore mentre Tessa si precipitava verso l'ingresso principale della casa. Non c'era anima viva in giro, neanche i giardinieri o i garzoni di stalla. Regnava un profondo silenzio che aveva qualcosa di sinistro.

Quando raggiunse il portone d'ingresso di quercia rinforzato da fasce di ferro, Tessa si soffermò un momento, in ansia.

La porta era socchiusa. Strano. La tenevano sempre sbarrata.

Perplessa, le diede una spinta ed entrò.

«Adele! Adele!» chiamò a gran voce. «Sei qui, tesorino?»

Nessuna risposta.

Nessuna bambina arrivò correndo sulle gambette paffute.

Non c'era che il suono della voce di Tessa a riecheggiare nella grandiosa Stone Hall. Allora pensò che potesse essere andata in cucina a cercare Margaret, per chiederle i suoi biscottini preferiti, le lingue di gatto coperte di cioccolata, per il tè delle bambole. Imboccò di corsa il corridoio, ma era deserto anche quello. Provò un tuffo al cuore e un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Gli occhi le si riempirono di lacrime e si lasciò andare contro lo stipite della porta cercando di calmarsi. Tentava di immaginare dove potesse essere una bambina di tre anni. Dove?

Dopo un respiro profondo, tornò indietro fino alla porta e uscì sul viale d'accesso, coperto di ghiaia. Intanto si stava chiedendo da che parte cominciare. Ormai sembrava evidente che la figlia doveva essere finita dall'altra parte del giardino. Aveva bisogno dell'aiuto di Wiggs e dei suoi due aiutanti. E anche dei garzoni di stalla, possibilmente. Il parco che circondava Pennistone Royal era vasto e, nella tenuta, c'erano prati, campi e fitta boscaglia.

«Signorina Tessa! Signorina Tessa!»

Al suono della voce del giardiniere capo, Tessa si voltò rapidamente: Wiggs le stava venendo incontro in fretta, e vide che teneva fra le mani la bambola di pezza.

Gli corse incontro, esclamando: «Dove ha trovato la bambola?»

Il giardiniere si fermò sui due piedi e porgendogliela rispose: «Proprio al di là della curva, nel viale». Voltò la testa per guardarsi indietro, oltre la spalla. «La conosce anche lei quella curva, signorina Tessa, appena prima che si veda la casa.»

Stringendosi convulsamente al cuore la bambola di pezza, disse con voce tremula: «Non sono più capace di trovare Adele, Wiggs. Tutt'a un tratto è scomparsa, e non riesco a capire cosa stava facendo qui fuori. Dobbiamo cominciare a cercarla per tutto il parco, e l'intera tenuta».

L'uomo la guardò, sbalordito. «Credevo che l'avesse lasciata cadere prima di salire sulla macchina», le rispose, mentre sulla sua faccia si disegnava un'espressione sconcertata.

«Quale macchina?» gridò Tessa, mentre nei suoi occhi passava un lampo di apprensione. «C'era una macchina, qui?» La sua voce adesso aveva preso un tono stridulo, insolito per lei, e intanto si aggrappava con forza al braccio del giardiniere.

«Sì.

Ho sentito stridere le gomme mentre ripartiva. C'è mancato poco che non mettesse sotto uno dei pony... proprio così!...

E due dei garzoni di stalla le sono corsi dietro, e gridavano contro l'autista, gli dicevano di fermarsi. Lui invece, niente.»

Sbiancò di colpo. Per un attimo temette che le gambe non riuscissero più a sorreggerla mentre si sentiva cogliere da uno choc che le dilagava a ondate per tutto il corpo. Mark. Doveva essere Mark. Sì. Oh mio Dio, sì. Le aveva portato via la loro bambina. Chiuse gli occhi portandosi una mano alla fronte, travolta da un panico crescente.

«Farà meglio ad andare dentro, signorina Tessa, e a sedersi un momento», la stava invitando Wiggs. «A guardarla, si direbbe che sta male.»

Poi, mentre riapriva gli occhi e respirava profondamente, sentì in lontananza un rumore secco e schioccante di zoccoli di cavallo e si voltò rapidamente da quella parte.

Wiggs allungò un'occhiata dietro di sé e bofonchiò: «Devono essere Emsie e Desmond che tornano dalla loro passeggiata».

«Sì, devono essere loro», confermò lei, e le parve che il suono della propria voce le uscisse strozzato. Mentre si sforzava di ricacciare indietro le lacrime, riuscì a domandargli: «Quella macchina, Wiggs. Com'era? Non ha visto chi stava al volante?

Poteva essere il signor Longden, secondo lei?»

Wiggs scrollò la testa. «Mi dispiace non ho visto la faccia del guidatore. Ma era un uomo. Di sicuro, era un uomo. E la macchina era nera. Una Mercedes... credo.» Fece segno di sì, e tutto d'un tratto la sua espressione si fece più convinta, «Già, era proprio una Mercedes, signorina Tessa.»

In quel momento Emsie e Desmond sbucarono da oltre la curva, i cavalli che procedevano a passo lento. Emsie si sbracciò a salutarla e le gridò allegramente: «Tessa! Ciao». Anche Desmond le fece un cenno di saluto, il bel volto giovanile sorridente.

Tessa alzò un braccio, facendo cenno di raggiungerla, poi cambiò idea e si mise a correre verso di loro, con Wiggs che la seguiva.

Desmond, che montava un superbo stallone nero, chinò la testa per osservare la sorella maggiore. Dopo averla fissata per un momento ed essersi accorto che era bianca come un cencio, le domandò, in un tono quasi brusco: «Cosa è successo, Tess?»

«Adele», farfugliò. «È scomparsa. Svanita nel nulla.» Le tremava la voce. Si zittì di colpo, voltandosi a guardare il giardiniere: «Ma è possibile che sia stata portata via di qui».

L'uomo conosceva Tessa fin da quando era bambina e capì al volo cosa voleva. Spiegò: «Desmond, le cose stanno così. C'era una macchina. Non so chi ci fosse a bordo. Ma è partita all'impazzata, e c'è mancato poco che si scontrasse con un pony.

Due dei garzoni di stalla hanno provato a corrergli dietro, urlando, ma l'autista non ha decelerato né si è fermato. È schizzato fuori da quel cancello come un pipistrello. Io stavo risalendo il viale quando ho visto per terra la bambola di pezza di Adele». Confermò il suo racconto con cenni affermativi della testa e poi lo concluse. «Ho pensato che Adele doveva averla lasciata cadere quando è salita in macchina. Non sono proprio sicuro che lo abbia fatto, mi capite. Ma sembra la cosa più probabile.»

«Ma lei, Wiggs, ha proprio visto con i suoi occhi Adele dentro quella macchina?» volle sapere Desmond, sospettoso.

«Be', con la bambola lì per terra, ecco, mi spiego, ho pensato che fosse andata via su quella macchina.»

Tessa respirò profondamente e con voce tesa, disse: «Wiggs, per favore, veda di organizzare una battuta in tutto il parco e anche nei campi qui intorno. E provi a parlare con Joe. Magari lui sa chi c'era a bordo di quella macchina. Forse era qualcuno venuto a cercarlo per... per qualcosa che riguarda la proprietà».

«Provvedo subito, signorina Tessa, ma quanto a parlarne con Joe, non c'è neanche da pensarci. È andato a East Witton. E non credo stia tornando indietro. Non subito, per lo meno. Ma nessuno guiderebbe a quella velocità! Con tutti i cartelli che abbiamo messo per avvisare che qui bisogna andare piano per via dei cavalli. No, non so chi c'era su quella macchina nera, però non può essere di qui. La gente del posto non gira in macchina a quella velocità.»

«Sono d'accordo», convenne Desmond scendendo di sella.

Andò da Tessa e le mise un braccio intorno alle spalle, ansioso di consolarla. Era preoccupato per lei, ma non c'era molto che potevano fare, a parte una battuta per frugare da cima a fondo parco e terreni.

Emsie lo imitò scendendo anche lei di sella con una mossa esperta. Rivolta al capo giardiniere, disse: «Le dispiacerebbe portare i cavalli nella scuderia? La raggiungiamo fra un minuto, per una bella strigliata».

«Ma certo che ci penso io a portarli dentro», rispose afferrando le redini che gli porgeva la ragazza e prendendo anche quelle del cavallo di Desmond. «Ma non si preoccupi ci penserà uno dei garzoni, a strigliarli. Voi dovreste rimanere con Tessa.»

Emsie gli sorrise, un sorriso incerto. Si accorse che aveva la faccia pallida e gli sembrò impaurita come la sorella. Allungò un colpetto affettuoso sulla spalla della diciassettenne Emsie e cercò di rincuorarla: «Cerca di non preoccuparti, figliola; se Adele è qua intorno, la troveremo».

«Spero che si sia semplicemente persa», mormorò, mordendosi un labbro. «Mi auguro che non le sia successo niente.»

Wiggs si allontanò in fretta con i cavalli, pensando che molto probabilmente era stato Mark Longden a portar via la bambina. Tutto il personale di servizio era al corrente dell'imminente divorzio; e sul conto di Longden si era chiacchierato parecchio. Nessuno di loro l'aveva mai trovato simpatico, ma era il padre della bambina e non le avrebbe certamente fatto del male. Ma sul conto di Longden aveva sentito brutte cose. Era una mezza canaglia, ubriacone, faceva uso di droghe ed era manesco con la moglie. Secondo Wiggs un uomo che picchia una donna è un vigliacco, un prepotente e un criminale. Era stato un bene che la signorina Tessa lo avesse lasciato.

Desmond e le sorelle si avviarono alla villa. Mentre entravano in fretta prese Tessa per un braccio e le offrì: «Vuoi un goccio di brandy? A guardarti, si direbbe che stai per svenire».

«No, grazie, Des. Tutto quello che voglio sono una tazza di tè e un'aspirina. Andiamo in cucina.»

Emsie riempì il bollitore, trovò la teiera e prese tre grosse tazze dalla credenza.

Desmond e Tessa andarono a sedersi al tavolo rotondo, nel bovindo, e il ragazzo le strinse una mano nella speranza di rassicurarla. Il quindicenne Desmond O'Neill era maturo per la sua età e molto responsabile. Fece per parlare ma tacque subito, accorgendosi della faccia stravolta di Tessa. Era sempre stato molto attento e intuiva lo sforzo della sorella di mettere ordine nei propri pensieri.

Effettivamente Tessa aveva il cervello in tumulto e si sentiva male, divorata com'era dall'ansia. Non sapeva che cosa fare.

Com'era possibile stare seduti ad aspettare, mentre Wiggs e gli altri battevano palmo a palmo l'intera proprietà in cerca della bambina? Chissà quanto tempo ci avrebbero messo! E se invece fosse stato tutto un problema di tempi? Se si era effettivamente persa, presto Adele si sarebbe spaventata, e c'era il rischio che le capitasse un incidente. Si domandò se non fosse opportuno unirsi alla ricerca. Ma perché non pensare, invece, che Adele fosse stata rapita da Mark? Oppure dietro tutto questo c'era Jonathan Ainsley? Accantonò subito quel pensiero.

L'idea che lui fosse coinvolto, la spaventava. Se fosse stato Mark a sequestrare la figlia, non era logico pensare che avrebbe telefonato a Pennistone Royal per parlare con lei? Non avrebbe mai fatto del male alla figlia, questo era sicuro, perché l'adorava, ma da tempo non era più lui. Fu colta da un brivido involontario.

Desmond se ne accorse e cercando di assumere un tono rassicurante, disse: «Sono sicuro che era su quella macchina, Tess.

È possibile che Wiggs non se ne sia accorto. Non credo che Adele sia qui, persa chissà dove nella proprietà. Emsie e io l'avremmo sicuramente notata tornando indietro. L'unico modo per raggiungere i campi è scendendo per il viottolo, e noi siamo proprio risaliti da lì».

Nessuna reazione da parte di Tessa.

Adesso anche Desmond rimase in silenzio. Le voleva bene e lei ricambiava il suo affetto, ed erano sempre stati buoni amici; Tessa non era né odiosa né tanto meno una strega come a qualcuno della famiglia sarebbe piaciuto far credere.

Strappandosi dalle proprie riflessioni, improvvisamente Tessa disse: «Non posso fare a meno di pensare anch'io quello che pensi tu. La bambina era su quella macchina, Des. E poi, è così piccola che, se anche si fosse messa a girovagare per conto proprio, non avrebbe potuto andare molto lontano».

«Ma chi vuoi che possa averla fatta salire su quella macchina senza avvertirti...» S'interruppe. I suoi occhi si fissarono in quelli di Tessa. «Mark Longden. Ma, certamente. Tu pensi che l'abbia rapita lui, è così?»

«Sì.»

«Anch'io.»

Emsie li raggiunse con il vassoio e mentre lo appoggiava sul tavolo disse: «Non c'è nessun altro da incolpare. È un divorzio odioso».

«A meno che qualcuno non l'abbia...» Desmond si bloccò per un attimo, respirò a fondo, e concluse: «Sequestrata. Per ottenere un riscatto. Questa famiglia è sempre stata un bersaglio perfetto per i malviventi».

«Anch'io ho fatto la stessa considerazione.» Tessa chiuse gli occhi ancora una volta e cercò di controllare il tremito. «Ecco perché devo essere qui, vicino al telefono.»

Era talmente pallida e tesa, che Desmond finì per convincersi che fosse sull'orlo di uno svenimento.

Emsie riuscì a incrociare lo sguardo del fratello mentre versava il tè. Fra loro due c'era una grande intesa, al punto che si leggevano nel pensiero. Emsie aveva due anni più di Desmond eppure lui era sempre così protettivo nei suoi confronti! Erano i migliori amici del mondo.

Senza pronunciarle ad alta voce mosse le labbra formulando poche parole: «Linnet. Abbiamo bisogno di Linnet».

Desmond si voltò a guardare Tessa, in attesa.

Malgrado la bellezza delicata, Tessa Fairley Longden possedeva una grande forza interiore e un'enorme capacità di recupero.

Come perfino lei diceva spesso; non per nulla era la pronipote di Emma Harte. Al suo carattere non mancavano né una certa durezza né determinazione.

Dopo aver riacquistato lucidità, aprì gli occhi e si mise seduta più eretta e impettita sulla seggiola. «Grazie per il tè, Emsie», mormorò e bevve un lungo sorso del liquido caldo inghiottendo anche un'aspirina. Allungò un'occhiata all'orologio a muro e continuò: «Qui sono quasi le undici. Le sei del mattino a New York. Non ha senso telefonare alla mamma oppure a Shane...»

Emsie la interruppe in tono un po' perentorio: «Dormiranno ancora. Cosa ne diresti di parlare con il tuo avvocato?»

«No, no!» esclamò Tessa rivolgendo alla sorella un'occhiata dura. «Sai benissimo quali sono le regole della famiglia, le regole di Emma. Affrontiamo e risolviamo ogni cosa per conto nostro, almeno fintanto che è possibile, e con l'aiuto degli altri clan se è necessario. Nessun estraneo può essere coinvolto, a meno che non ci resti altra scelta.»

«Dovresti chiamare Linnet immediatamente», le suggerì Desmond, allungando una rapida occhiata a Emsie e augurandosi che Tessa non gli rispondesse male. Il rapporto teso fra le due sorelle a volte presentava un problema. Entrambe avrebbero voluto essere alla testa dell'impero economico di famiglia e gestire i grandi magazzini Harte's. Ma a parte i genitori, secondo lui, Linnet era la persona più brillante della famiglia ed era la più adatta a prendere in mano le redini.

Tessa, invece, con sua enorme sorpresa, non si mostrò per nulla contrariata a quel suggerimento. Alzandosi in piedi di scatto, si precipitò al telefono della cucina. «Credo che sarà meglio che segua il tuo consiglio, Desmond. E subito.»

Tessa sapeva che Linnet sarebbe venuta a Pennistone Royal quel giorno stesso o l'indomani. Compose quindi il numero del suo cellulare pensando che con ogni probabilità la sorella era già in viaggio. Si sentì rispondere quasi all'istante con un asciutto: «Linnet O'Neill».

«Sono Tessa. Ho un problema qui.»

«Nel negozio di Harrogate?» Linnet non nascose la sua sorpresa.

«No.

A casa. A Pennistone Royal.»

«Lì? Cosa è successo?»

«Si tratta di Adele. Non riesco a trovarla, e sono fuori di me per l'agitazione. Ho paura che c'entri Mark.» La voce di Tessa ebbe un tremito e deglutì a fatica.

«Se pensi che ci sia di mezzo lui, non può che essere così», esclamò Linnet. «Stai calma, dovrei arrivare più o meno fra un'ora. Aspetta a chiamare la polizia. Possiamo risolvere noi la situazione. Da soli.»

«Lo so. Desmond pensa che potrebbe trattarsi di un sequestro vero e proprio. Per ottenere un riscatto.»

«Oh, mio Dio! Speriamo di no. Raccontami con precisione cosa è successo.» Quando ebbe finito, Linnet concluse: «Le telefonate sono state un pretesto, volevano distrarre la tua attenzione.

C'è Mark dietro a tutto questo. Ne sono sicura. Comunque, sono contenta che Wiggs stia battendo la proprietà.

Effettivamente Adele potrebbe anche essersi smarrita perché si è allontanata troppo da casa, ma non deve aver fatto molta strada.

Chi c'è lì, con te?»

«Desmond ed Emsie. È il giorno libero di Elvira e Margaret è andata a fare la spesa. E Joe è partito per East Witton.»

«Desmond è abbastanza affidabile e il senso della responsabilità non gli manca. Lo stesso vale per Emsie. Sono contenta che ti siano vicino. Evan, dov'è?»

«Non lo so. L'ho vista andar via con la macchina parecchie ore fa.»

«Sono sicura che tornerà presto. Adesso rimani dove sei a rispondere alle eventuali telefonate, e se Mark dovesse chiamarti devi dirgli di riportarti Adele immediatamente. Sii ferma con lui, ma educata e pacata. Cerca di non far scoppiare un litigio.»

«E se volesse trattare? E se chiedesse qualcosa?»

«Non promettergli niente. Cerca soltanto di riavere quella bambina nelle tue braccia. Con Mark si può trattare in seguito.»

«Va bene. Ma se non fosse stato lui, come mi comporto? Se si trattasse di un sequestro vero e proprio e dovessero telefonarmi i rapitori?»

«Ascolta quello che dicono. Acconsenti, ma spiega che avrai bisogno di un po' di tempo per mettere insieme il denaro. Perché sono sicura che ti chiederanno quello... In fondo, è lo scopo di quasi tutti i rapimenti.»

«D'accordo.»

«Tessa?»

«Sì?»

«Non succederà niente ad Adele.»

«Ma...»

«Te lo prometto», tagliò corto Linnet. «Non andar fuori, non metterti a girare per la proprietà. Devi essere vicino al telefono e pronta a trattare. Ci vediamo presto.» E con queste parole chiuse la comunicazione.

 

Alla prima piazzola, Linnet O'Neill parcheggiò. Rimase per un momento seduta al posto di guida, pensando alla telefonata.

Era su tutte le furie. L'aveva capito subito che quel bastardo non sarebbe uscito dalla vita di Tessa con rassegnazione...

Non le era mai piaciuto, lo aveva sempre giudicato gretto, meschino, ambizioso, smanioso di mettersi in vista e di darsi importanza, e anche falso. Già anni prima era arrivata alla conclusione che mirasse ai soldi della sorella, per non parlare del suo prestigio dal momento che era una Harte. Linnet non aveva mai veramente capito per quale motivo Tessa lo avesse sposato.

A parte il fatto che, secondo lei, non era nemmeno un gran che come architetto.

La mamma le aveva raccontato, appena poco tempo prima, che Mark aveva cominciato a maltrattare Tessa, usandole violenza non solo fisica ma anche psicologica, e lei non ne era affatto meravigliata. Era sempre stata consapevole del fatto che, sotto quel falso fascino, Mark fosse un autentico bastardo.

Rimase seduta in machina a riflettere sull'improvvisa sparizione di Adele e finì per convincersi di non credere neanche per un momento che la bambina fosse stata vittima di un sequestro.

Era stato Mark Longden. Il suo istinto le diceva che quell'uomo voleva qualcosa dagli Harte, e stava usando la figlia per ottenerlo. Che bastardo, mormorò di nuovo e lo coprì d'improperi.

«'Ogni cosa ha il suo prezzo, e non sempre si tratta di soldi', ecco quello che mi ripeteva sempre Emma», le aveva detto una volta sua madre, e lei non aveva mai dimenticato quelle parole. Quando si andava al sodo della questione, ogni persona era vulnerabile, a modo suo, aveva qualcosa che desiderava proteggere a qualsiasi prezzo e molto spesso, in gioco, non c'era il denaro. Esistevano altri mezzi di pagamento, o di compenso.

Da alcune osservazioni che aveva fatto sua madre Linnet sapeva che, in quei giorni, Mark non soltanto beveva ma faceva uso di droghe. Quando l'aveva saputo si era preoccupata e indubbiamente adesso la sua preoccupazione cresceva a vista d'occhio. Un uomo sotto l'influsso di chissà quale miscuglio di sostanze stupefacenti poteva diventare irresponsabile, eccentrico e violento. Era abbastanza convinta che non volesse intenzionalmente fare del male alla sua unica figlia. Ma come non pensare che qualcosa potesse andare storto? E Adele poteva pagarne le conseguenze.

Improvvisamente Linnet si sentì gelare al pensiero che quelle riflessioni le aveva sicuramente fatte anche Tessa. Mai, prima di allora, sua sorella le era sembrata così vulnerabile, così smarrita, al punto da non sapere che cosa fare e quale decisione prendere.

Di solito Tessa voleva essere lei a gestire e comandare a bacchetta chiunque avesse intorno. E il più delle volte, proprio per la sua ambizione di diventare la futura erede della madre, la Delfina come amava definirsi lei stessa, avevano avuto contrasti e discussioni accanite. Ma c'era una legge nella loro famiglia che risaliva ai tempi della capostipite Emma che nessuno aveva mai infranto. Indipendentemente da quelle che potevano essere le circostanze, uno Harte era sempre leale nei confronti di un membro della sua famiglia. Tutti loro erano stati allevati e cresciuti nel rispetto della famiglia, uniti nel creare un fronte comune se c'era bisogno di dare battaglia e difendersi reciprocamente contro il mondo. A uccidere l'uno per l'altro, a prendersi una pallottola in petto l'uno per l'altro, fosse stato necessario. Linnet conosceva a memoria le leggi degli Harte e le seguiva alla lettera.

Non ignorava l'amore di sua sorella per la figlia. L'intera famiglia adorava Adele. La piccola, che aveva tre anni, sembrava un angioletto del Botticelli, con i capelli di quel chiarissimo biondo platino, gli occhi grigio-argento e il faccino delicato.

Suscitava in tutti affetto e tenerezza, sia pure in modi differenti.

Linnet la considerava una di quelle rare creature non soltanto piene di grandi promesse, ma cariche di speranze per il futuro.

E pregò Dio che niente dovesse succederle.

Ma cosa fare? Prima di tutto ricomincia a guidare, decise, togliendo il freno a mano e rientrando lentamente in carreggiata.

Le toccava affrontare e risolvere la situazione. Il solo fatto che Tessa si fosse rivolta a lei, dimostrava che sua sorella si rassegnava all'evidenza, si sentiva troppo coinvolta per fronteggiare la situazione nel modo migliore. E io devo risolverla in fretta, pensò. Molto in fretta. Devo trovare Mark. Trovare quella bambina. Prima che qualcosa vada storto.

I suoi genitori erano a New York con zia Emily e zio Winston, e questo significava che sui quattro personaggi anziani e più potenti della famiglia Harte, per il momento, non si poteva contare. Di conseguenza era lei che doveva fare del suo meglio.

Perché non pensare a Gideon Harte? Si concentrò per un momento sul cugino, il suo miglior amico. Lui poteva essere un valido aiuto. Dirigeva i quotidiani Harte, era brillante e conosceva bene il mondo, oltre ad avere a disposizione ogni genere di risorse. Essere il proprietario e dirigere una catena di quotidiani internazionali poteva significare solo una cosa: aveva potere. Un potere immenso. Sì, non escludeva di dover coinvolgere Gideon, ma al momento, chi le occorreva era un esperto.

Un autentico professionista. Un poliziotto che, in realtà, un poliziotto non era.

Jack Figg.

Quel nome le venne subito in mente. Nella sua qualità di consigliere per la sicurezza della Harte's, veniva considerato uno di famiglia. Lo conosceva fin da piccola e lo considerava un amico. E fu così che, nel preciso momento in cui vide poco più avanti un'altra piazzola, rallentò, entrò e parcheggiò.

Frugò rapidamente nella grossa sacca in cerca dell'agenda con gli indirizzi, e trovò subito il suo nome.

Pochi secondi più tardi stava componendo il numero di Jack.

«Figg», rispose quasi immediatamente.

«Jack, sono Linnet.»

«Salve, Bellezza. Di cosa hai bisogno?»

«Di te, Jack. Per favore.»

«Sono tutto tuo...» Rise. «... ogni volta che mi vuoi.»

«Ti ricordi quello che hai detto alla festa di compleanno di Shane in giugno... che potevo contare su di te per un'emergenza?»

«Come, no! E puoi, infatti.»

«Grazie, Jack. C'è un'emergenza.»

«Raccontami tutto quello che mi occorre sapere.»

Gli rivelò tutto quello che era successo.

«Le telefonate erano sicuramente destinate a distrarre la sua attenzione. Dove sei adesso?»

«Parcheggiata in una piazzola, a circa un'ora di macchina da Pennistone Royal. E tu? A Robin Hood's Bay?»

«No, sono fuori dalla cattedrale di York con un amico. Se parto adesso arriverò probabilmente più o meno quando arrivi tu. Ma, per favore, avverti Tessa che mi hai chiesto di prestare il mio aiuto. Casomai arrivassi prima di te.»

«Senz'altro. E grazie, Jack.»

«Sono pronto a fare qualsiasi cosa per te, Bellezza.

E concluse così la telefonata. Linnet ripartì, rientrando sull'autostrada e viaggiando a velocità sostenuta.

C'era poco traffico e per una ventina di minuti si concentrò solo sulla guida. Poi, rallentando, telefonò a Tessa. Sua sorella le disse che non c'era niente di nuovo. Wiggs e i suoi uomini, battevano ancora il parco e la campagna circostante. Linnet le riferì di Jack Figg e del suo arrivo imminente e non incontrò, per fortuna, nessuna resistenza.

Dopo pochi secondi chiamò Evan, ma il suo cellulare era spento. Era sicuramente dallo zio Robin, con il quale voleva parlare già da parecchie settimane. Tutto d'un tratto, le venne in mente India. Proprio nelle prime ore di quella mattina sua cugina era andata a Leeds per affrontare il progetto di ristrutturazione del negozio. C'era molta intimità e affetto fra loro.

Per la verità tutti in famiglia le volevano bene. Aveva un carattere dolce e affettuoso. Erano in molti a credere che fosse delicata, addirittura fragile, ma l'aspetto esteriore, aristocratico ed elegante, ereditato dai Fairley, smentiva la sua indole.

Linnet sapeva fino a che punto fosse pratica, con i piedi saldamente appoggiati sulla terra, forte dal punto di vista fisico e intrepida come la bisnonna, di un coraggio assoluto. Lavoravano assieme nel reparto moda dei grandi magazzini di Londra, ed erano state amiche intime fin da piccole. India era cresciuta nella proprietà di suo padre, Clonloughlin, in Irlanda, ma aveva sempre trascorso l'estate a Pennistone Royal. E a Linnet piaceva infinitamente vantarsi delle eroiche imprese di India da bambina... come quella volta che si era precipitata nel cortile sul retro di Pennistone Royal con le mani coperte da enormi guanti imbottiti per separare i due Jack Russell di Joe, che si azzuffavano e azzannavano su un coniglio morto. Oppure come quel giorno in cui la sorellina di Linnet, Emsie, si era arrampicata sulla grande quercia rimanendo impigliata fra i rami più alti. Imperturbabile e senza prestare ascolto agli avvertimenti di Linnet che sarebbero cadute tutte e due, India aveva raggiunto Emsie, ed era rimasta lì seduta con lei, stringendola forte fra le braccia fino a quando Linnet non era tornata con Joe, il responsabile della proprietà, che portava un'alta scala a pioli, di quelle che usavano per il frutteto.

Sì, decise, India sarebbe stata d'aiuto in questa situazione, oltre al fatto che andava d'accordo con Tessa, la quale a volte riusciva a creare un sacco di difficoltà.

Sarebbe rimasta ospite a Pennistone Royal per qualche giorno, come faceva di solito. Sarà meglio avvertirla, pensò, prima che ci metta piede. Compose il numero della cugina e rimase ad aspettare mentre il cellulare dall'altra parte continuava a suonare, e a suonare.