16
I QUADRI che dominavano le pareti del salone a Willows Hall erano molto belli. Paesaggi che Dusty aveva dipinto agli inizi della carriera. India si soffermò di fronte a ciascuno a osservarli con attenzione, prima di passare a quello successivo. Erano quattro, complessivamente, uno per parete e due su quella lunga di fondo, dove si aprivano le porte finestre che portavano alla terrazza e al giardino.
Amava questi paesaggi con quelle cupe e intense tonalità di verde e i deli di un pallido azzurro, ricchi di una luce fulgente.
I suoi deli le facevano sempre venire in mente il cielo del quadro di Turner, appeso a Pennistone Royal. Sapeva come fosse difficile cogliere la luce sulla tela e come Dusty ci fosse riuscito in modo brillante e geniale e come continuasse ancora a farlo. Ammirava lo stile dei suoi quadri, che si sarebbe potuto definire realismo classico ma, come lui le aveva spiegato una volta, era uno stile complesso, tanto che non sempre riusciva ad averne la completa padronanza. «Dipingere paesaggi e persone come si vedono esattamente non è facile», le aveva spiegato.
E India aveva annuito per fargli capire che se ne rendeva conto, e aveva provato una gran voglia di dirgli come i suoi paesaggi della campagna inglese avessero una somiglianza con i classici di Constable. Ma non aveva osato per paura che fraintendesse.
Sarebbe stato come alludere alla possibilità che avesse copiato Constable, mentre non era affatto così, naturalmente.
Ma Dusty era permaloso e a volte se la prendeva per un nonnulla.
Al di sopra della mensola dell'elegante camino in marmo bianco era appeso un quinto quadro. Era il ritratto di una donna affascinante, vestita alla moda del periodo georgiano e sembrava dipinto nel diciottesimo secolo, ma la firma di Dusty nell'angolo di destra provava il contrario. Faceva venire in mente il famoso ritratto di lady Hamilton a opera di George Romney, della Collezione Frick di New York. Il suo nome da nubile era Emma Hart, senza la e finale. India era sempre stata interessata a lady Hamilton, amante di lord Nel son, per la bizzarra coincidenza dell'omonimia con la sua bisnonna.
Andò a sedersi sul divano di fronte al camino, alzando gli occhi a contemplare il ritratto della giovane donna, mentre un turbinio di pensieri sull'autore del quadro le affollavano la mente.
Era andata a prenderlo all'ospedale di Harrogate e lo aveva accompagnato a casa. Dopo un pasto leggero che aveva preparato loro Angelina, la governante, Dusty si era trasferito nel suo studio. «Voglio ambientarmi», aveva spiegato, «e scacciarne gli spauracchi.»
Non era stato necessario dirle che voleva andarci da solo. India aveva afferrato al volo. L'intuito non le mancava, era una delle sue doti più spiccate. Era grazie all'intuito che misurava lo stato d'animo di un'altra persona, che la capiva al volo, ne indovinava il carattere e riusciva a immedesimarsi.
Udì un rumore di passi sul pavimento di marmo dell'atrio e voltò la testa verso la bellissima porta spalancata a doppio battente.
Pensando che fosse Dusty, le spuntò un sorriso raggiante sulla faccia, che si spense quando sulla soglia apparve Paddy Whitaker.
«Disturbo, lady India?» domandò, prima di entrare, con il suo solito, modo di fare, scrupoloso.
«Affatto, Paddy», gli rispose. «Me ne stavo qui seduta ad ammirare il ritratto sopra il camino.»
«È piuttosto bello», confermò, avanzando. «Il signor Rhodes si chiedeva se potesse raggiungerlo nello studio. Mi ha chiamato per chiederglielo. Qui, come vede, non c'è il telefono.»
«Ma naturalmente», rispose.
«Questa è la prima occasione che mi si presenta per ringraziarla di avermi messo in contatto con il signor Figg», continuò Paddy. «È venuto di persona a visitare la tenuta da cima a fondo prima di mandarci una squadra di specialisti. Gente in gamba.
Deve sapere che è da molto che insisto con il signor Rhodes per rimodernare l'impianto di sicurezza. Prima poteva entrare chiunque, in qualsiasi momento. Già adesso le cose sono migliorate.» Il maestro di casa la fissò negli occhi e aggiunse: «Lei ha salvato la vita del signor Rhodes, lady India, e tutti noi gliene siamo grati, molto grati. Sul serio».
Dusty era in piedi vicino al cavalletto quando lei entrò nello studio, ma si fece subito avanti con le mani tese, e un largo sorriso. «Tutto a posto, India, sai? E nel modo più perfetto.
Nessuna ansia o paura. Mi sento di nuovo a mio agio.»
India afferrò le mani che Dusty le tendeva, ricambiando il suo sorriso. Lasciò che lui l'attirasse contro di sé. E, la bocca contro una guancia, le mormorò: «Grazie». Poi la scostò, la guardò e aggiunse sottovoce: «Scusami, ma ho passato momenti difficili».
«Non devi scusarti, né dispiacerti. È successo e basta. Grazie a Dio, adesso stai bene. Perché stai bene sul serio, vero?»
«Sì. E tu?» volle sapere, premuroso.
«Assolutamente. Io sto bene... fintanto che tu stai bene.»
«Credevo che mi sarei sentito a disagio a rimettere piede qui, ma non è così. Posso tranquillamente tornarci domani e mettermi al lavoro sereno, India amore mio.»
«Ne sei sicuro?»
«Sicurissimo. E poi dipingo con la destra, non con la sinistra.»
Lei annuì e andò a sedersi in una poltrona.
Dopo essersi soffermato ancora un momento vicino al cavalletto, la raggiunse, prese posto nell'altra poltrona, e allungò le gambe. Calò un breve silenzio. «Finora non mi sentivo nelle condizioni più adatte per parlare di quello che è successo», cominciò, «e di come sono stato ferito, pur sapendo che eri ansiosa di discutere l'argomento.»
«Sì. Ho proprio bisogno di parlare con te, Dusty.»
«Il giorno in cui è successo non è stato possibile, e da allora non ero nelle condizioni psicofisiche più adatte per spiegarti, ma adesso è giunto il momento. C'è una cosa che devo mettere in chiaro, India. Io conosco quella donna... la donna che mi ha ferito.»
India si limitò semplicemente ad annuire.
«Abbiamo avuto una relazione che è durata poco. Ci siamo lasciati un anno e mezzo fa. Lei è tossicodipendente e autodistruttiva, e per quanto io cercassi di aiutarla, non riusciva a stare lontana dall'eroina. Non la vedevo da un anno quando, più o meno sei mesi fa, mi ha telefonato sua madre.
Melinda stava veramente male e lei aveva bisogno di aiuto per ricoverarla in una clinica. Io ho fatto del mio meglio per trovarle il posto adatto, e fortunatamente Melinda ha acconsentito a sottoporsi a una cura per disintossicarsi. Pensavo che tutto andasse per il meglio fino a quando si è presentata qui. E ha perso il lume della ragione quando ti ha visto.»
«Deve essere ancora convinta che fra voi ci sia un legame sentimentale», insinuò lei, lo sguardo fisso su di lui «Non lo so, può darsi. E non saprò mai come ha fatto a uscire da quella clinica», rispose, un po' imbarazzato.
«È stata ricoverata di nuovo?» indagò India.
«Sì. Sua madre è una brava donna. E riuscita a rintracciare Melinda nel giro di una giornata, e l'ha convinta a tornarci.
Adesso si è affidata di nuovo alle cure del dottor Jeffers.»
«Può migliorare?»
«Solo se lo vuole e se si mette d'impegno, sì. Io me lo auguro.
Lo spero per il suo bene.»
«Me lo auguro anch'io.» Si schiarì la voce, gli allungò un'altra occhiata penetrante e domandò: «Non l'hai denunciata, vero?»
«Come potevo? Melinda era completamente fuori di testa!
Sono convinto che si fosse fatta di qualcosa e, come hai visto anche tu, non ce l'aveva con me, voleva solo rovinare il quadro.»
«Sì, lo so», gli rispose piano. Mordendosi un labbro, aggiunse: «Credo che tu abbia fatto la cosa giusta».
Lui la guardò, improvvisamente all'erta, immobile, senza dire niente, rendendosi conto della preoccupazione che gli trasfigurava la faccia, del tono fiacco e della mancanza di entusiasmo nelle sue parole. Sperava che non lo abbandonasse, che non gli dicesse che voleva andarsene per la sua strada. La voleva lì, vicino a lui, voleva che continuasse a far parte della sua vita. Lo aveva capito durante il ricovero in ospedale e solo adesso capiva quanto India fosse diventata importante. Si allungò verso di lei, e le prese una mano. «L'idea di farle causa non sarebbe stata affatto buona, tesoro.»
«Lo so, come so che è stata una disgrazia che abbia colpito te con quel coltello.» Deglutì a fatica prima di chiedere: «Pensi che possa diventare un problema? Potrebbe renderti la vita insopportabile.»
«E non soltanto la mia, ma anche la tua. È a questo che vuoi alludere, vero?»
«Sì. Sono preoccupata per tutti e due, Dusty.»
«Dovrà rimanere in quella clinica per molto tempo. E grazie a quel vostro uomo, quel Figg, non esiste più, nel modo più assoluto, la possibilità che lei, o chiunque altro, penetri nella proprietà, senza essere scoperto. È tutto sotto controllo e la sicurezza è rigorosa.»
India rise. «Il povero Jack aveva accettato di dare una mano a Linnet e in men che non si dica è diventato l'esperto della sicurezza non solo per l'intera famiglia, ma anche per te. Oh poveri noi, chissà quanti accidenti che deve tirarci!»
Sentendola ridere, accorgendosi che India sembrava tornata serena, Dusty si sentì rincuorare. Tutto si sarebbe sistemato fra loro. Ne era sicuro. Ansioso di farle piacere, domandò: «Cosa mi hai chiesto poco fa? Di andare a cena da tua nonna, o sbaglio?»
«Ci verresti?»
«Sembra una donna che non ha paura di niente, proprio il mio tipo, non ti pare?»
«Infatti. E se accetti, la farai felice. Appena ti sentirai abbastanza in forze, il suo più grande desiderio sarebbe che andassimo da lei a cena. Non sta molto lontano, fra Harrogate e Knaresborough.
Posso dirle di sì? Magari durante il weekend?»
«Puoi dirle di sì», rispose con un sorriso. Poi si alzò dalla poltrona. «Vieni, torniamo in casa.»
Lasciarono lo studio mano nella mano e s'incamminarono in direzione della terrazza sul retro della casa. India stava pensando come sarebbe stata contenta la nonna di conoscere Dusty.
E Dusty stava pensando che era stato un vigliacco a non rivelarle di aver avuto una figlia da Melinda. Si augurava con tutto il cuore che i rotocalchi scandalistici non lo scoprissero e non sbattessero quella storia in prima pagina, corredandola di titoli clamorosi, a caratteri cubitali.
Meglio toccar ferro, si disse. Toccar ferro.
«Come mi piace questa suite», annunciò Lorne con voce melodiosa, attraversando lo spazioso salotto e aprendo la porta che c'era in fondo. «Oh Tessa, guarda, un'altra camera da letto!
Cara la mia sorellina, questo è veramente il massimo, non si potrebbe desiderare di più.»
Si voltò di scatto verso la sua gemella, e aggiunse: «L'altro giorno, quando ho parlato con papà a New York, ha detto che avrebbe chiesto per noi una suite che ci permettesse di stare insieme, e bisogna dire che ha fatto le cose in grande. Possiamo proprio essere orgogliosi di lui».
«A dir poco», convenne lei, guardandosi intorno e contemplando il raffinato salotto dell'Hotel O'Neill di Parigi, in fondo ad Avenue Montaigne. «E il panorama, poi! Si vede la Torre Eiffel.» Corse dal fratello e gli buttò le braccia al collo. «Sono contenta di essere qui con te, Lorne. Grazie per avermi convinto. Mi sentivo molto depressa, e credo proprio che questo viaggio mi solleverà il morale, come dicevi tu.»
«Purché ti rilassi e non ti preoccupi per Adele. La bambina è al sicuro, anzi, più al sicuro di così non potrebbe essere con Elvira e Linnet a Pennistone Royal, vero? E poi con loro c'è anche Evan, o sbaglio?»
«Sì, stava lavorando con India nel negozio di Leeds, ma immagino che India non sia a Pennistone Royal, ma con Dusty.
Gideon e Julian passeranno il weekend con le ragazze. Linnet mi ha detto che hanno intenzione di arrivare domani sera. Quindi, e sono sincera, da questo lato mi sento tranquilla. Tu quale camera da letto preferisci?»
Lorne voltò la testa sulla spalla per dare un 'occhiata alla camera che aveva appena scoperto, e disse: «Credo che questa sia la più femminile delle due, e la più grande. Perché non la scegli tu, Tessa? Io prendo quella in fondo al salotto».
Si sentì suonare il campanello e Lorne andò ad aprire la porta.
Fece entrare l'inserviente con i bagagli, gli spiegò dove metterli, e gli diede una mancia.
Quando si ritrovò solo con Tessa, disse: «E ora, mia cara, mettiti in ghingheri. Ti voglio bellissima. Ci aspetta una serata speciale», «Davvero? E dove andiamo? In aereo non mi hai accennato a niente del genere!»
«Pensavo che sarebbe stata una bella sorpresa. Prima andiamo a un ricevimento, un cocktail party con uno scrittore che rilascerà autografi sui suoi libri, e dopo andremo a cena con lui. Siamo suoi ospiti.»
«E chi sarebbe questo scrittore? Immagino che si tratti di una donna bellissima, conoscendoti...» lo canzonò, rivolgendogli un'occhiata d'intesa.
«Ti sbagli», rispose Lorne scrollando la testa. Le sorrise mentre nei suoi occhi si accendeva una luce sbarazzina. «È
Jean-Claude Deléon.»
Guardandolo strabiliata, sua sorella corrugò la fronte. «Dici questo nome come se dovessi conoscerlo. E così?»
«Effettivamente l'hai già incontrato una volta. Ma è stato un incontro brevissimo. Alla prima di una mia rappresentazione.
Ma non so se, quella sera, ti sia rimasto particolarmente impresso.
Comunque dovresti conoscerlo, Tessa, è il più famoso intellettuale in Francia dopo Bernard-Henri Lévy.»
«Mai sentito parlare neanche di lui. Chi è Bernard Henri Lévy?»
«Oh, Tess, ma sei proprio una somara! Lévy è il primo fra i più famosi intellettuali in Francia e, ascoltami bene, l'uno e l'altro sono non soltanto noti, ma addirittura celebri.»
«Non credo di aver voglia di andarci. Un ricevimento del genere non è pas ma tasse de thè, cioè non mi piace proprio per niente.»
«Certo che ti piacerà, non fare la sciocchina. Comunque, il ricevimento comincia alle sette e finisce alle nove. Noi ci andiamo alle otto e un quarto, rimaniamo tre quarti d'ora e poi andiamo a cena con lui e un gruppetto di amici.»
«Perfino tre quarti d'ora mi sembrano lunghi. Non potremmo andarci soltanto per gli ultimi dieci minuti?»
«No, non possiamo», esclamò lui, seccato. «Devi abituarti a frequentare gente, a farti vedere in giro. Siamo a Parigi e prima che arrivassimo, hai accettato di fare tutto quello che volevo io, quindi andremo a questa cerimonia degli autografi. Alle otto e un quarto.»
«D'accordo, d'accordo, non è il caso di metterla su questo tono! Non ti arrabbiare!» si schermì e diede un'occhiata al suo orologio. «Sono le sei e mezzo. Chiamo Elvira e Adele, da loro sono solo le cinque e mezzo e poi mi preparo.»
«Ti voglio irresistibile e uno schianto», furono le istruzioni del fratello prima di precipitarsi a sua volta in camera sua a prepararsi.
Un'ora più tardi Tessa era ferma davanti a una delle pareti a specchio della stanza da bagno e si stava osservando con occhio critico. Si girò da una parte e poi dall'altra e intanto si domandava se avesse scelto il vestito e gli accessori giusti. Forse avrebbe fatto meglio a mettere qualcosa di un po' meno ricercato ed elegante. Lorne le aveva detto che Jean-Claude Deléon era una celebrità nazionale, e un personaggio speciale, nell'ambiente mondano più chic che s'interessava alla letteratura e al teatro. Il ricevimento sarebbe stato affollato di sofisticati scrittori e intellettuali, oltre al beau monde di Parigi, e agli attori.
E sicuramente quello che aveva scelto era adeguato ed elegante, senza essere vistoso.
Eppure l'immagine che riflettevano quelle pareti a specchio, le diceva che aveva un aspetto piacevole, se non addirittura bello, e stava molto bene con quel vestito. Fu soddisfatta di quel che vide. Da molto tempo non provava più la sensazione di sentirsi bella e raffinata, oppressa com'era dalle preoccupazioni per il divorzio e dal senso di fallimento che le procurava la fine del suo matrimonio. Come se non bastasse, c'era stato il rapimento di Adele. Non poteva negare che quei brutti momenti le avevano lasciato il segno.
Anche a Parigi faceva caldo e aveva deciso quel vestito anche in base al tempo. Aveva optato per una gonna con un top di voile bianco. Il voile sembrava evanescente tanto era leggero e trasparente; la gonna, lunga fin quasi alle caviglie, era ampia e impreziosita da sottili inserti di pizzo, disposti a intervalli regolari dalla vita in giù. E la stessa sottile striscia di pizzo ne rifiniva anche, delicatamente, l'orlo. Il top senza maniche aveva una scollatura drappeggiata che dava risalto al decolleté. Una cintura di pelle bianca le stringeva la vita, in tinta con i sandali a tacco alto. Gli unici preziosi che aveva deciso di indossare erano un orologio e i lunghi pendenti di perle. Rimirandosi ancora un'ultima volta nello specchio, concluse di aver fatto del suo meglio e rientrò in camera da letto. Prese una borsettina di cuoio bianco e aprì la porta comunicante con il salotto. Lorne era al telefono e si voltò a guardarla appena la sentì arrivare. «Adesso devo andare, Phil. È arrivata la persona con la quale avevo appuntamento.
Ci vediamo domani», salutò prima di riattaccare.
Venendole incontro a lunghi passi, suo fratello si lasciò sfuggire il classico fischio sommesso da seduttore di femmine esclamando: «Uau, sono orgoglioso di te! Accidenti, sei davvero uno schianto!»
Lei rise. «Anche tu non sei niente male. E sai cosa ti dico, è fantastico che tu abbia scelto il nero. Siamo in piena armonia, non trovi?»
«È quello che penso anch'io. E meno male che non ho deciso per pantaloni e camicia bianca. L'accoppiata sarebbe stata orribile.»
«Impossibile», lo contraddisse lei. «Noi non potremmo mai avere una aspetto orribile, Lorne. Io, magari; ma tu no, caro.»
«Oh sei piena di preconcetti soltanto perché siamo imparentati.
Il povero piccolo attore famoso», scimmiottò, ridendo.
«E adesso, su da brava, vediamo di muoverci, perché io non voglio arrivare più tardi delle otto e un quarto.»
«Ma è presto, sono soltanto le otto meno venti...»
«Ah, ma il traffico è peggio che a Londra», la interruppe.
«E dobbiamo arrivare fino al Faubourg Saint Germain.»
«E allora cerca di darti una mossa, pigrone che non sei altro», rispose Tessa avviandosi a passo rapido verso la porta della suite. «Presumo che avrai previsto che ci sia una macchina ad aspettarci.»
«Ma certo», rispose, prendendola sottobraccio e spalancando contemporaneamente la porta. «Io sono organizzatissimo.
È l'addestramento degli Harte, no?»
Lei alzò gli occhi a guardarlo e cominciò a ridere, sentendosi felice per la prima volta da moltissimo tempo, felice di essere con qualcuno che le volesse bene, felice di trovarsi a Parigi, una città per la quale aveva un debole. La mamma li aveva portati a Parigi quando erano ancora molto piccoli, e da allora ci erano sempre venuti soltanto di passaggio, diretti alla Francia del Sud e alla Villa Faviola, dove andavano in vacanza.
Mentre scendevano in ascensore provò un improvviso senso di aspettativa, senza capirne il perché.
Appena si furono sistemati in automobile, mentre l'autista si staccava dal marciapiede, Tessa annunciò: «Adoro il settimo arrondissement. Mi sono ritrovata spesso a desiderare di avere un appartamento in quel quartiere, magari sulla Rive Gauche.
Mi andrebbe bene qualsiasi cosa, mi è sempre piaciuto e mi sono sempre sentita come a casa mia».
Lui la guardò sbalordito e osservò: «Qualsiasi posto nei dintorni di Faubourg Saint-Germain costa un occhio della testa, ma è innegabile che le residenze private siano bellissime».
«Io non stavo parlando di un intero palazzo, ma di una mansarda o un appartamentino. Potrebbe essere bello avere un posticino dove scappare ogni tanto.»
«E perché no? È una zona che piace anche a me», confessò.
«È un quartiere bohémienne di studenti, artisti e scrittori. E, a parte gli edifici storici, come la tomba di Napoleone, l'Acadé-mie Francaise, e il Museo Rodin, ci sono anche due dei più famosi luoghi di ritrovo per artisti e scrittori, il Café aux Deux Magots e il Café de Flore. Non saprei quale scegliere, li adoro entrambi.»
«E cosa dire dei negozi di antiquariato e i bistrot e le gallerie d'arte? Sarebbe un posto splendido dove avere un rifugio... è proprio pieno di fascino.»
«Se hai sul serio un'intenzione del genere, possiamo dare un'occhiata a quello che offrono le agenzie immobiliari nei prossimi giorni. Per me sarebbe divertente», concluse, mentre si domandava se non fossero, semplicemente, dei voli di fantasia.
«Magari. Perché no», buttò lì. «Quand'è che inizi a lavorare?»
«Le riprese iniziano lunedì, ma io non devo andare prima di mercoledì mattina. Perché?»
«Niente. È solo che non me l'avevi ancora detto. Parlami un po' di Deléon.»
«Te ne ho già parlato.»
«No. Tutto quello che mi hai detto è che è uomo famoso, una celebrità, un intellettuale, nonché tuo buon amico. Raccontami qualcosa di più su di lui, così quando lo conosco non darò l'impressione di essere una perfetta cretina.»
«Vediamo un po'... È giornalista, oltre che autore di libri, e tiene conferenze. In Francia è considerato uno dei grandi pensatori del nostro tempo, sicuramente alla stregua di un filosofo, secondo soltanto a Bernard-Henri Lévy. È geniale, pieno di fascino, un uomo straordinario. Ti piacerà, e credo che ti godrai la serata.»
«Come l'hai conosciuto?»
«Qualche anno fa a Villa Faviola con Gideon, Toby, lo zio Winston e papà. Forse ti ricorderai che abbiamo trascorso un weekend insieme, eravamo tutti uomini. Jean-Claude è venuto con uno degli amici di Toby, ed è stata simpatia a prima vista.
Abbiamo passato un mucchio di tempo a parlare di cinema e teatro, così ogni volta che veniva a Londra mi telefonava, e facevamo in modo di vederci.»
«E c'è anche una Madame Deléon?»
«No, non c'è. E non credo che ci sia mai stata. Però, attenta, Jean-Claude ha una certa reputazione... insomma gli piacciono le donne, ed è un gran dongiovanni.»
«Oh, allora è giovane?»
«Dev'essere sui quarantanove anni, o sulla cinquantina. Non ne sono sicuro.»
«Dove andremo a cena?»
«Tessa, tesoro, non ne ho la minima idea. Mi ha detto soltanto: 'Porta tua sorella al ricevimento, io sarò lì a rilasciare autografi, e dopo andremo con alcuni amici a cena'. Ne so quanto te.»