Note

PARTE PRIMA

Marsiglia, la stagione delle amicizie

1. 5 agosto 1941, Le journal de bord des Cahiers du Sud, «Dossier Cahiers du Sud», a cura di Alain Paire, in «La Revue des Revues», n. 16, 1993, p. 87.

2. Esprime questi sentimenti in una lettera, del luglio 1940, inviata a Huguette Baur, sua alunna, durante una sosta a Vichy, prima di raggiungere Marsiglia: «Nel giardino, non si ha forse il cielo, il sole che si alza, sale e discende, e le stelle, in una parola, tutto l’universo? Le nazioni hanno bisogno di anni per i loro sussulti, i loro declini, i loro risvegli, mentre un essere umano può trasferire una sorta di eternità in una sola bella giornata vissuta bene. Coltivare legumi e comporre versi […] è la cosa migliore, serbandosi liberi dall’odio, dalla disperazione e da ogni sentimento di agitazione. In questi momenti, anche l’incertezza in cui viviamo può produrre un arresto del tempo che consente di godere dei giorni con maggior pienezza; questa tregua probabilmente non sarà lunga. Molti non vedranno la prossima estate. Ma non posso considerare la morte come una sventura» («CSW», n. 3, settembre 1991, p. 199).

3. Q I, p. 148.

4. Ivi, pp. 156-157, passim.

5. Lettera da Marsiglia a Boris Souvarine, ottobre 1940, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 15.

6. Ibidem.

7. Su Marsiglia durante la guerra e sul suo ruolo di capitale della cultura e di avamposto della resistenza morale e intellettuale, cfr. Daniel Bénédite, La filière marseillaise, Clancier Guénau, Parigi, 1984; Jean-Michel Guiraud, La vie intellectuelle et artistique à Marseille à l’époque de Vichy et sous l’occupation (1940-1944), Cdrp, Marsiglia, 1987; Jean-Michel Guiraud, Marseille, cité-refuge des écrivains et des artistes, in Jean-Pierre Rioux, La vie culturelle sous Vichy, Éditions Complexe, Bruxelles, 1990, pp. 377-400; Robert Mencherini, Artistes et intellectuels réfugiés dans la région marseillaise en 1940-1942: un jeu d’ombres entre survie et engagement, Atti del Colloquio Déplacements, dérangements, bouleversement: Artistes et intellectuels déplacés en zone sud (1940-1944), Bibliothèque de l’Alcazar, Marsiglia, 3-4 giugno 2005. Testi riuniti da Pascal Mercier et Claude Pérez, <http://revues.univ-provence.fr/lodel/ddb/document.php?id=91>.

8. Dal momento in cui, nel 1925, ne diventa il responsabile, i «Cahiers du Sud» (1914-1966) si identificano con Jean Ballard (1893-1973), come la rivista «Esprit» si è identificata, fino al 1950, con Emmanuel Mounier.

9. Joë Bousquet n’est plus, articolo di Jean Ballard, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers du Sud» 1914-1966, Imec, Parigi, 1993, p. 189.

10. Jean Ballard, Propos de nos 25 ans, citato da Alain Paire, Chronique des «Cahiers du Sud»…, cit., p. 236.

11. I «Cahiers du Sud» pubblicano, nel 1935, un quaderno monografico, I’Islam et l’Occident, singolarmente anticipatore e, nel 1939, Retour aux mythes grecs, dedicato alle religioni misteriche, per le quali da qualche tempo Simone Weil nutre grande interesse. In proposito, cfr. Michèle Coulet, À la recherche de l’humanisme méditerranéen de Jean Ballard, in [Jean Ballard] & les Cahiers du Sud, Ville de Marseille, Marsiglia, ottobre 1993, pp. 231-247. Sulla specificità culturale dei «Cahiers du Sud», che ha favorevolmente impressionato Simone Weil, cfr. Jean Ballard, Coups d’œil sur notre demisiècle, [Jean Ballard] & les Cahiers du Sud, cit., pp. 255-267.

12. Per ciò che concerne l’impegno sociale, politico e sindacale, che si dà per conosciuto, almeno in parte, cfr. Domenico Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare. Impegno e riflessione politica tra le due guerre, Edizioni Lavoro, Roma, 1996, e ora, nella versione francese aggiornata e ampliata, Simone Weil. Le courage de penser, Beauchesne, Parigi, 2011.

13. Per una ricostruzione accurata della collaborazione di Simone Weil ai «Cahiers du Sud», cfr. Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», in «CSW», n. 2, giugno 1998, prima parte, pp. 165-177; seconda parte, n. 3, settembre 1998, pp. 241-254. Cfr. anche il quaderno dedicato a Simone Weil et l’héritage de la civilisation méditerranéenne, in «CSW», n. 2, giugno 1983. Nuovi e ricchi contributi alla conoscenza dell’ambiente dei «Cahiers du Sud» sono venuti dalle giornate Rencontre Simone Weil/Joë Bousquet, Carcassonne, 28-31 ottobre 2000, alle quali il curatore, Domenico Canciani, ha partecipato con la relazione «Des textes dont le feu brûle encore…». Simone Weil, les Cahiers du Sud et la civilisation occitanienne, ora in «CSW», n. 2, giugno 2002, pp. 89-103. In seguito, è ritornato sull’argomento in occasione del colloquio annuale dell’Associazione Simone Weil «Les civilisations inspiratrices» (Parigi, 3-4 novembre 2012) con la relazione Bâtir une civilisation nouvelle. Simone Weil et l’inspiration occitane, in corso di pubblicazione nei «CSW».

14. «Cahiers du Sud», nn. 230-231, dicembre 1940 e gennaio 1941, ora in OC II 3, pp. 227-253.

15. I’agonie d’une civilisation vue à travers un poème épique, scritto tra l’ottobre 1940 e il gennaio 1941, pubblicato nei «Cahiers du Sud», n. 249, agosto-settembre-ottobre 1942, pp. 99-107 e, in seguito, nel numero speciale Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, febbraio 1943, ripreso in Écrits de Marseille, OC IV 2, pp. 405-413. Il saggio, tradotto in italiano con il titolo L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, si trova in Simone Weil, I catari e la civiltà mediterranea, a cura di Giancarlo Gaeta e con una Nota di Gian Luca Potestà, Marietti, Genova, 1996, pp. 17-37, da cui sono tratte le citazioni. Sugli aspetti letterari e culturali de La Chanson de la croisade contre les Albigeois, cfr. Robert Lafont e Christian Anatole, Nouvelle Histoire de la Littérature occitane, tome I, Presses Universitaires de France, Parigi, 1970, pp. 156-173.

16. Questo straordinario saggio, già tradotto da Cristina Campo, è ora riproposto da Asterios, Trieste, 2012, con la traduzione di Francesca Rubini, a cura di Alessandrino Di Grazia.

17. Il poema si compone di due parti: la prima, di Guilhèm de Tudèla, descrive gli avvenimenti della Crociata, dal 1209-1210 al 1213-1214, secondo la prospettiva del partito francese; l’autore della seconda parte, un chierico rimasto anonimo, privilegiato dalla lettura di Simone Weil, sposa invece il punto di vista del campo avverso e sostiene la causa occitana, esaltando in modo mitico la figura di Raimondo VII di Tolosa.

18. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.

19. Introducendo il racconto della battaglia di Muret che, nel settembre 1213, vide la morte del Re di Aragona e la sconfitta della coalizione occitana, l’anonimo poeta ammonisce i suoi ascoltatori con queste parole desolate: «In verità, sappiatelo, ogni umanità è venuta meno, Parage è morto ed esiliato, tutta la cristianità è prostrata e coperta di obbrobrio. Ascoltate come questo è potuto avvenire…». Citato da Josiane Ubaud, in un articolo pubblicato sul suo sito, con il titolo: La Chanson de la croisade albigeoise, p. 4.

20. Robert Lafont et Christian Anatole, Nouvelle histoire de la littérature occitane, cit., p. 170.

21. L’agonia di una civiltà nelle immagini di un poema epico, cit., p. 19.

22. La centralità che Simone Weil attribuisce alla distruzione della civiltà occitana, nell’ambito della storia d’Europa, non ha alcuna pretesa di proporsi come interpretazione storiografica, ma è da considerare un modello ideale al quale la breve durata dell’esperienza non toglie alcun valore: in proposito, cfr. la nota di Gian Luca Potestà in I catari e la civiltà mediterranea, pp. 73-94.

23. Il quaderno monografico dei «Cahiers du Sud» contiene anche una ricca scelta di testi manichei e catari (pp. 112-149) e un saggio, intitolato Les Cathares et l’amour spirituel (pp. 112-140), scritto dello storico Déodat Roché, al quale Simone Weil deve la sua iniziazione al catarismo. Delle influenze catare sul suo pensiero ha scritto, in modo egregio, Francesca Veltri in La città perduta. Simone Weil e l’universo della Linguadoca, 2a edizione, Rubettino, Soveria Mannelli, 2006. Sugli influssi del catarismo nella formazione della società occitana, cfr. Jean-Louis Biget, Hérésie, politique et société en Languedoc vers 1120-vers 1320, in Jacques Berlioz (a cura di), Le pays cathare. Les religions médiévales et leurs expressions méridionales, Seuil, Parigi, 2000, pp. 17-79.

24. Lettera di Joë Bousquet a Jean Ballard, del 21 novembre 1939, citata e analizzata da Alain Freixe, Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, du côté de Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 2002, pp. 121-131, cit. p. 125.

25. Si tratta di Soirée languedocienne. Entretiens dans la cité, in Le génie d’oc…, cit., pp. 390-405.

26. Giudizio positivo espresso a Simone Weil nella lettera del 18 gennaio 1941: «Ho appena letto, con gran piacere, il suo bell’articolo. È il contributo che attendevo da lei, un testo notevole, pensato con vigore» (Fondo Jean Ballard, Corrispondenza Ballard-Weil/Novis, manoscritto n.106, Biblioteca-Alcazar, Marsiglia).

27. Dopo molte discussioni tra Ballard e Bousquet, l’articolo sarà pubblicato, con la data marzo 1941, alla fine del fascicolo, pp. 374-389.

28. L’articolo di Alain Freixe, citato alla nota 13, sulla base della corrispondenza tra Bousquet e Ballard, ha apportato nuova luce su tutta la vicenda.

29. Redatto tra il 18 e il 23 febbraio 1942, pubblicato con le stesse modalità del precedente nel numero speciale dei «Cahier du Sud» nel 1943, pp. 150-158, ripreso in OC IV 2, pp. 415-424. Il saggio è ugualmente tradotto con il titolo L’ispirazione occitana, in I catari e la civiltà mediterranea, cit., pp. 17-26, da cui sono tratte le citazioni.

30. Lettera non datata, scritta probabilmente tra il 9 e il 16 marzo 1942, Fondo Jean Ballard, Corrispondenza Ballard-Bousquet, manoscritto 360, Biblioteca-Alcazar, Marsiglia.

31. Joë Bousquet, Présentation de l’homme d’oc, pp. 9-13, cit. p. 11. La sottolineatura è nostra. Questo richiamo alla letteratura popolare non sarà certamente sfuggito a Simone Weil che aveva cominciato a interessarsi intensamente di folklore, di miti, di favole, che considerava scrigni di una saggezza primordiale.

32. Robert Mencherini, il primo a rilevare il tempestivo impegno di Simone Weil nella neonata resistenza, come ricordiamo più avanti, in un articolo recente ha sottolineato la posta in gioco politica e non soltanto culturale dell’intera operazione intrapresa dai «Cahiers du Sud», e in particolare dei due contributi della filosofa: cfr. Soixante et dix ans après: La «Demande pour être admise en Angleterre» et le «Génie d’oc», in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 451-465.

33. L’ispirazione occitana, cit., p. 34.

34. Ivi, pp. 31-32.

35. Q III, p. 142.

36. L’ispirazione occitana, cit., p. 37. Il corsivo è nostro.

37. Nella Présentation de l’homme d’oc, Bousquet aveva scritto: «L’uomo d’oc ha ereditato una missione unica e dovrà riprendere in altra forma il tentativo disperato dei suoi padri per strapparsi dal discontinuo. Sarà capace di generare la coscienza dell’uomo moderno e di sostituire un umanesimo integrale all’umanesimo convenzionale?» (cit., p. 12).

38. L’ispirazione occitana, cit., p. 37.

39. Alain Freixe, Simone Weil et les «Cahiers du Sud», seconda parte, cit., p. 245.

40. Cfr. Jean Tortel, Simone Weil à Marseille, in «Sud», nn. 87-88, 1990, pp. 25-28.

41. Su questa vicenda, cfr. Simone Weil dans les Archives judiciaire d’Aix-en-Provence, documenti presentati da Robert Mencherini in «CSW», n. 4, dicembre 1994, pp. 327-340. Dello stesso autore è l’articolo che li commenta: Simone Weil et la «Demande pour être admise en Angleterre», ivi, pp. 341-362.
I documenti trovati da Mencherini sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, in OC IV 1, pp. 395-400, mentre i verbali degli interrogatori si trovano negli Annexes dello stesso volume, pp. 446-448. Mencherini è tornato sull’argomento con Simone Weil à Marseille et la Résistance intérieure. Un rendez-vous manqué?, in «CSW», n. 2, giugno 2011, pp. 149-166, e nell’articolo citato nella nota 32. Le sue accurate ricerche hanno fugato ogni dubbio sull’importanza del tempestivo coinvolgimento di Simone Weil nella Resistenza. I contatti con Robert Burgass, responsabile di una filiera per il passaggio in Inghilterra, arrestato e morto in carcere nel dicembre del 1943, e i verbali degli interrogatori subiti da Simone Weil, consentono di valutare appieno la sua volontà di partecipazione diretta alla lotta e le argomentazioni sviluppate nelle lettere indirizzate a Maurice Schumann da New York e da Londra.

42. Cfr. Quelques réflexions sur les origines de l’hitlérisme, 1939, saggio solo parzialmente pubblicato nei «Nouveaux Cahiers» (n. 53, 1 gennaio 1940) a causa della censura, ora integralmente ripreso in OC II 3, pp. 168-219.

43. Demande pour être admise en Angleterre, in OC IV 1, p. 395.

44. Ivi, p. 397.

45. La versione definitiva del Projet d’une formation d’infirmières de première ligne, portata a termine negli Stati Uniti, sulla scorta delle osservazioni fattele pervenire da Joë Bousquet, si trova ora in EL, pp. 187-195.

46. Su questo argomento, cfr. Michel Narcy, Simone Weil dans la guerre ou la guerre pensée, in «CSW», n. 4, dicembre 1990, pp. 413-423.

47. QI, pp. 233-234, passim. L’interesse per il pensiero indiano, e in particolare per la Bhagavadgītā, considerata un complemento del Vangelo, la spingono a studiare il sanscrito per poter accostare i testi originali, aiutata da René Daumal, amico fin dagli anni della École Normale, esule come lei a Marsiglia.

48. Su questo importante aspetto della Resistenza in Francia, cfr. Renée Bédarida, Les armes de l’esprit. Témoignage chrétien (1941-1944), Éditions Ouvrières, Parigi, 1977.

49. Marie-Louise (Malou), divenuta poi Mme Blum, per una sorta di pudore, solo dopo molto tempo ha acconsentito a portare la sua testimonianza su questo capitolo poco noto, e in parte sottovalutato, della vita di Simone Weil. I «CSW» hanno pubblicato un breve dialogo con Wladimir Rabi su questo tema: cfr. Simone Weil, la Résistance et la question juive, n. 2, giugno 1981, pp. 76-84. Il curatore di queste note, nel maggio 1990 e 1991, ha registrato due lunghe e ricche interviste a Malou e Pierre Blum nella loro casa parigina, qui parzialmente utilizzate. La testimonianza di Malou Blum è ora definitivamente consegnata a un libro di memorie: Le choix de la Résistance, Les Éditions du Cerf, Parigi, 1998; cfr. in particolare Ma rencontre avec Simone Weil, pp. 104-115. Anche il rapporto con Malou Blum merita di essere annoverato tra le amicizie della stagione di Marsiglia, ma la loro relazione, intensa e quotidiana, per la natura del lavoro svolto assieme, esigeva molta riservatezza e non ha, quindi, lasciato delle tracce nella corrispondenza. Vale la pena, tuttavia, riportare la conclusione della testimonianza in cui Malou Blum racconta il congedo da Simone Weil: «L’immagine che mi piace conservare di lei è quella di un’amica sorridente e dolce, allorché apparve nella stanza da cui si era eclissata un istante prima, portando un vassoio su cui c’erano tartine imburrate, zucchero, un bicchiere e vino bianco. Tutto era così rigorosamente razionato a Marsiglia che non potei fare a meno di dirle con orrore: “Ma, Simone, non vorrà pensare che io accetti tutto ciò?”. “Oh, Malou”, mi disse lei con un dolce rimprovero, “non vorrà farmi credere che lei pensa che le restrizioni alimentari possano avere una qualche influenza sui doveri dell’amicizia”» (cit. p. 115).

50. Sul ruolo dei cristiani durante il periodo di Vichy, cfr. Gaston Fessard, Au temps du prince esclave. Écrits clandestins 1940-1945, Critérion, Argé, 1989, dove si trova il saggio dottrinale France, prends garde de perdre ton âme – «documento esplosivo, smontaggio sistematico della dottrina e dei metodi della propaganda nazista, della loro pericolosa perversione e degli strumenti approntati per soffocare progressivamente le anime e cancellare perfino la traccia dell’idea di una vocazione storica della Francia» (Jacques Prévotat, Introduction, ivi, p. 65) – che è il testo fondatore dell’impresa dei «Cahiers du Témoignage chrétien». Cfr. anche Henri de Lubac, Resistenza cristiana all’antisemitismo. Ricordi 1940-1944, Jaca Book, Milano, 1990, in particolare il capitolo 10, Lo spirito dei «Cahiers du Témoignage chrétien», pp. 119-130.

51. Nel luglio del 1942, in una lettera scritta da New York a Maurice Schumann, Simone Weil ricorda con simpatia la partecipazione a quell’impresa: «Sono molto felice di sapere che le persone dei “Cahiers du Témoignage chrétien” sono vostri amici. Ero legata a questi ambienti da una viva e profonda amicizia. Credo che sia di gran lunga ciò che di meglio esiste in Francia in questo momento. Mi auguro che non capiti loro nessuna sventura» (EL, p. 198).

52. Si tratta di Notre combat (dicembre 1941-gennaio 1942), Les racistes peints par eux-mêmes (febbraio-marzo-aprile 1942), e probabilmente anche del quaderno intitolato Antisémites (aprile-maggio 1942).

53. Lettera a Huguette Baur, inizio di settembre 1940, in «CSW», n. 3, settembre 1991, p. 201.

54. Ivi, pp. 201-202.

55. Dell’antigiudaismo di Simone Weil abbiamo trattato, distesamente e criticamente, nell’Introduzione a Simone Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi, Roma, 2013, La resistenza in una stanza, pp. 30 e sgg.

56. Ne parliamo più avanti, a proposito di Antonio Atarés, ma è il caso di segnalare qui la documentazione riunita su questo argomento, in OC IV 1, Sur les camps d’internement et la politique pénale, pp. 449-472.

57. Secondogenito di quattro tra fratelli e sorelle, Michel (mutato in Joseph-Marie al momento della professione religiosa) Perrin nasce il 30 luglio 1905, a Troyes. Il padre, capitano, è ucciso in guerra il 2 ottobre 1915. L’anno successivo, quando ha solo undici anni, gli viene diagnosticata una retinite pigmentaria che lo porterà inesorabilmente alla cecità. La forza d’animo della madre, che l’avvia tempestivamente alla conoscenza dell’alfabeto braille, gli permetterà di portare a termine, in modo brillante, gli studi secondari. Maturata la vocazione religiosa, dopo un anno di filosofia, entra nel noviziato di Saint-Maximin nella provincia domenicana di Tolosa, dove, completati gli studi teologici, grazie a una dispensa speciale, è ordinato sacerdote durante la festa di Pasqua del 1929. Assegnato al convento di Marsiglia, è attivo nella predicazione e nell’assistenza ai giovani universitari. È morto a Marsiglia il 13 aprile 2002. Qualche anno prima della morte, ha rievocato la sua lunga vita in un libro autobiografico: Comme un veilleur attend l’aurore, Les Éditions du Cerf, Parigi, 1998.

58. Simone Weil incontra, per la prima volta, padre Perrin nel giugno 1941, al rientro di lui dal Sahara dove aveva predicato gli esercizi spirituali ai Piccoli fratelli di padre Charles de Foucauld. Sulla scorta di una breve lettera, ritrovata tra le carte di Simone Weil, padre Perrin ha potuto precisare che si trattava proprio del sabato 7 giugno alle ore 10. Per questa e altre informazioni, cfr. il suo libro Mon dialogue avec Simone Weil, Nouvelle Cité, Parigi, 1984. La ragione immediata e pratica dell’incontro è l’aiuto che il domenicano potrebbe offrirle nella realizzazione del suo desiderio di fare un’esperienza di lavoro agricolo. Hélène Honnorat, come Simone Weil alunna presso il Lycée Victor Duruy di Parigi, è l’amica che ha fatto da tramite fra loro due. Collaboratrice del religioso nell’assistenza spirituale agli universitari, in realtà era già da qualche tempo a conoscenza della ricerca spirituale dell’amica e si era convinta che padre Perrin fosse la persona più idonea ad aiutarla.

59. Simone Weil, con probabilità, ha letto il primo dei tre volumi progettati di Le mystère de la charité, quello che è stato poi pubblicato, nel 1945, (S.L.M., Aix-en-Provence) con il titolo Le trop grand amour. Echi di questa lettura si possono avvertire nelle riflessioni sulla Trinità annotate nei Quaderni e, in particolare, nella sua concezione dell’amicizia.

60. Questa lettera, datata 14 settembre 1997, è stata personalmente recapitata al curatore mentre ultimava la redazione di Tra sventura e bellezza. Riflessione religiosa e esperienza mistica in Simone Weil, Editrice Esperienze-Edizioni Lavoro, Fossano-Roma, 1998, il libro che raccoglie e riordina le conversazioni avute con padre Perrin durante un soggiorno al Pradier, una località della Provenza francese, nell’estate del 1996. Nel libro autobiografico ricordato, conferma questa convinzione nella pagine dedicate all’incontro più importante della sua vita: cfr. Mon amitié avec Simone Weil, pp. 136-153.

61. L’intenso e tormentato rapporto tra padre Perrin e Simone Weil occupa la parte centrale del libro sopra ricordato: in essa tutti gli aspetti, spirituali e teologici, del loro dialogo, sono distesamente commentati. Qui importa soprattutto precisare la natura di tale rapporto, in relazione al tema dell’amicizia. Il loro dialogo ha riguardato la preghiera, il battesimo, argomento molto sofferto, le critiche alla Chiesa e la decisione di rimanerne fuori, sulla soglia, per fedeltà a tutte le forme di «amore implicito di Dio», presenti nel mondo. A padre Perrin, per testimoniare la possibilità di un’esperienza mistica anche fuori della Chiesa, ha affidato, nell’ultima lettera, la confidenza del suo contatto mistico con Dio. Ma contemporaneamente, o forse poco prima, come più avanti diremo, aveva fatto la stessa confidenza anche a Joë Bousquet.

62. Questa espressione, che padre Perrin amava ripetere come una confidenza orale di Simone Weil, si trova in realtà in un frammento preparatorio alla Lettera VI, conservato nel Fondo Simone Weil della Biblioteca nazionale di Parigi. Il merito di averlo rilevato va a Emmanuel Gabellieri, il quale ha attirato l’attenzione sull’importanza dell’abbozzo in questione nella genesi dell’ultima lettera a padre Perrin del 26 maggio 1942: cfr. Être et don. Simone Weil et la philosophie, Éditions Peeters, Louvain-Parigi, 2003, pp. 532-542. L’edizione di Attesa di Dio, curata da Maria Concetta Sala, riporta le minute di questa lettera in cui è contenuta tale affermazione, pp. 76-78.

63. Lettera nota come Autobiografia spirituale, senza data, probabilmente inviata il 14 maggio 1942 da Marsiglia, in AD*, p. 34.

64. Ibidem.

65. Ivi, p. 185.

66. Introduction alla prima edizione francese di AD, pp. 7-45, cit. 39-40. Scomparsa dalle successive edizioni, a causa di un contenzioso con la famiglia Weil, essa, al di là delle riserve che si possono sollevare in merito ad alcune puntualizzazioni teologiche, costituisce, assieme al libro scritto con l’amico Gustave Thibon, Simone Weil telle que nous l’avons connue (La Colombe, Parigi, 1952), una testimonianza preziosa, da tenere sempre presente. Non sono nel giusto, quindi, coloro che tendono a sottovalutare o a minimizzare il ruolo di padre Perrin nell’evoluzione spirituale di Simone Weil, che non andava in cerca di un grande teologo ma di un uomo di Dio. A integrazione di quanto abbiamo detto sull’amicizia tra padre Perrin e Simone Weil, cfr. Domenico Canciani, Marseille, la saison des amitiés. Le père Perrin et Simone Weil, amis dans la véritè de Dieu, «CSW», n. 1, marzo 2008, pp. 11-26. I «CSW», come segnaliamo nella Bibliografia, hanno dedicato ben 4 fascicoli nel 2007-2008 a Amitiés et inimitiés de Simone Weil.

67. Gustave Thibon, nato il 2 novembre 1903 a Saint-Marcel-d’Ardèche, dopo aver lavorato come agricoltore nella proprietà del padre, è diventato, studiando come autodidatta, scrittore, filosofo e conferenziere molto popolare e apprezzato negli ambienti cattolici. Dei suoi libri Simone Weil ha certamente potuto leggere Poèmes, Édition Universelle, Bruxelles, 1940; Diagnostics. Essai de physiologie sociale, Librairie de Médicis, Parigi, 1940; Destin de l’homme, Desclée de Brouwer, Bruges-Parigi, 1941. I testi dattiloscritti ai quali allude nelle lettere indirizzate all’amico sono probabilmente quelli pubblicati successivamente in L’échelle de Jacob, Lardanchet, Lione, 1942 e forse anche in Retour au réel. Nouveaux diagnostics, Lardanchet, Lione, 1943. È morto il 19 gennaio 2001. Cfr. l’omaggio che gli ha dedicato André-A. Devaux, Gustave Thibon et Simone Weil. Une amitié sans complaisance et sans faille, in «CSW», n. 3, settembre 2002, pp. 236-254.

68. Gustave Thibon, Entretiens avec Christian Chabanis, Fayard, Parigi, 1975, p. 113.

69. Lettera a Simone Weil, 22 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil à Gustave Thibon et de Gustave Thibon à Simone Weil, in «CSW», n. 3, settembre 1981, p. 135.

70. Lettera del 10 agosto 1941, Saint-Marcel-d’Ardèche, in Correspondance familiale, OC VII 1, p. 229.

71. Lettera a Gustave Thibon, 15 settembre 1941, inviata da Le Poët, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 2, giugno 1981, pp. 68-69.

72. Ivi, p. 70.

73. Ivi, p. 71.

74. Annota, ad esempio, in Q II, p. 254: «Volgere ogni disgusto in disgusto di sé (Come io per i miei versi)».

75. Lettera a Simone Weil, 2 gennaio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3, settembre 1981, pp. 131-132.

76. Ivi, p. 132. Il corsivo è nostro.

77. Lettera a Gustave Thibon, febbraio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 3, settembre 1981, p. 136.

78. In questo periodo annota: «Costringermi ogni giorno a scrivere in questo quaderno anche di aver mancato al mio dovere; è quel che è successo oggi» (Q II, p. 257).

79. Q II, p. 258.

80. Lettera a Gustave Thibon, aprile o maggio 1942, in «CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 194.

81. Ivi, p. 195.

82. Ibidem.

83. Lettera a Gustave Thibon, seconda metà di maggio 1942, Lettres de Simone Weil…, in «CSW», n. 4, dicembre 1981, p. 196.

84. Ibidem.

85. Ivi, p. 199.

86. Amicizia, infra, p. 136.

87. Joë Bousquet era nato a Narbonne, il 19 marzo 1897. Costretto all’immobilità da una pallottola che lo aveva colpito al midollo spinale, durante la Grande Guerra, dai ventun anni alla morte, sopravvenuta il 28 settembre 1950, è vissuto a Carcassonne nella «camera dalle imposte chiuse», realizzando una delle più straordinarie e originali opere poetiche e filosofiche del secolo scorso.

88. Simone Weil parte da Marsiglia assieme a Jean Ballard, in una sera di luna piena. Arriva a Carcassonne verso mezzanotte ma non ha difficoltà a recarsi subito in casa di Joë Bousquet, rimanendovi fino all’indomani mattina. Probabilmente torna a fargli visita, brevemente, una o due volte nei giorni successivi. Per una minuziosa ricostruzione di questo incontro, cfr. Alain Freixe, À propos de la rencontre Simone Weil Joë Bousquet et de la correspondance qui en suivit, in «CSW», n. 4, dicembre 1987, pp. 395-405.

89. Cfr. Correspondance entre Simone Weil e Joë Bousquet, in «Cahiers du Sud», n. 304, dicembre 1950, pp. 420-438.

90. Simone Weil, prima dell’incontro, aveva probabilmente letto Traduit du silence, pubblicato in una prima versione a Bruxelles, nel 1936, e in seguito, nel 1941, da Gallimard e gli articoli e le cronache poetiche apparse nei «Cahiers du Sud».

91. Lettera di Joë Bousquet a Simone Weil, lunedì (aprile) 1942, infra, p. 68, con gli opportuni adattamenti.

92. Ibidem.

93. Ivi, p. 69.

94. Ibidem.

95. Ibidem.

96. Nella prima delle due lettere a Joë Bousquet, ritrovate qualche anno fa, di cui parliamo più avanti, Simone Weil scrive: «Nello stesso momento in cui, nella sua lettera, lei mi consigliava di scrivere su quell’argomento, ero occupata a raccogliere e tradurre dei testi greci sullo stesso tema, su richiesta di un domenicano, quello di cui le ho parlato, credo, in una lettera, al quale mi lega una grande amicizia, e che sta preparando un libro sull’Amore di Dio», infra, p. 89.

97. Monique Broc-Lapeyre, «Ce bonheur si effrayant qui nous est fait» et «le malheur sans aucune consolation», Joë Bousquet et Simone Weil, in «CSW», n. 1, gennaio 2002, p. 36. Con ammirevole finezza, l’autrice di quest’articolo entra nelle pieghe più intime dell’amicizia fra questi due esseri eccezionali, individuando la capacità di Simone Weil di praticare, con sobrietà e pudore, la correzione fraterna.

98. Questa domanda di essere letti altrimenti, di cui Simone Weil parla nei Quaderni (cfr. Q I, p. 258), trova conferma in un passo di Traduit du silence (Gallimard, Parigi, 1995), dove Joë Bousquet annota: «Non devo rinchiudermi nella vita che mi sono fatta. Devo diffidare di ciò che gli altri amano in me. L’indulgenza dei miei amici mi ha reso prigioniero di ciò che vi è di meno reale in me » (p. 236). Simone Weil ha letto di lui molto meno dei suoi amici, eppure, forse, più di loro ha saputo intercettare la sua richiesta, il suo grido silenzioso.

99. Lettera del 12 maggio 1942 a Joë Bousquet, infra, p. 78.

100. Certamente tra gli artifici ai quali Joë Bousquet faceva ricorso vi era anche l’oppio. Simone Weil ne accenna nei Quaderni, pensando a lui e a René Daumal. Se vi allude indirettamente, senza falsi moralismi, è perché aveva avuto modo di leggere, in Traduit du silence, questa osservazione: «L’effetto più disastroso dell’oppio è che, essendo solo un alimento materiale, usurpa il posto più elevato che lo spirito possa assegnare a un’ambizione morale; tutti i momenti della giornata, svuotati del pensiero che li dirigono, hanno valore solo in funzione del minuto privilegiato in cui il fumo apre allo spirito un riposo nella carne. Questo godimento non apporta null’altro che la cessazione di un bisogno che si è creato; ed è avvilente per l’uomo che un bisogno che si può facilmente soddisfare possa assorbire il suo pensiero, accecando con fini immediati la consapevolezza che ha della propria imperfezione. L’oppiomane ricostituisce nella propria carne la prigione che il tempo rappresenta per ogni cosa materiale» (p. 190).

101. Infra, p. 80.

102. Infra, p. 81.

103. Infra, p. 82. Simone Weil, anche nella confidenza fatta a padre Perrin, sottolinea la totale gratuità del suo primo contatto mistico con il divino, avvenuto durante il soggiorno a Solesmes, nella la settimana santa del 1938, in un periodo in cui soffriva di forti emicranie. Al pari degli altri contatti con il divino, anche questo avviene in un contesto di cerimonie religiose, ma al di fuori di un’esplicita esperienza di preghiera personale. Questa modalità di contatto mistico con il divino o con il Cristo Uomo-Dio, ha luogo in una situazione che si potrebbe definire di tipo estetico, mentre ripete la poesia Amore del poeta metafisico inglese George Herbert (1593-1633), conosciuto, proprio a Solesmes, grazie a un giovane inglese: «Spesso, nei momenti culminanti delle violente crisi di mal di testa, mi sono esercitata a recitarla (la poesia Amore) applicandovi tutta la mia attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza in essa racchiusa. Credevo di recitarla solo come una bella poesia, ma a mia insaputa quell’esercizio aveva la virtù di una preghiera. Durante una di quelle recitazioni, come le ho scritto, Cristo stesso è disceso e mi ha presa» (Lettera IV, in AD*, p. 29). Su questo aspetto molto delicato dell’esperienza mistica di Simone Weil, cfr. la testimonianza di padre Perrin in Tra sventura e bellezza, pp. 117 e sgg.

104. Infra, p. 83.

105. Ritrovate grazie a Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi, nella Biblioteca universitaria di Austin in Texas, sono state pubblicate col titolo Deux lettres inédites de Simone Weil à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1996, pp. 137-153, con appendice di testi greci, tradotti per l’amico.

106. Lettera a padre Perrin del 15 maggio, AD*, p. 24.

107. Lettera del 1942 a Gabriel Sarraute, citata in Henry Bonnier, Préface a Joë Bousquet, Le cahier noir, Albin Michel, Parigi, 1989, p. 13.

108. Lettera a Joë Bousquet, maggio 1942, qualche giorno prima di partire, infra, p. 87, con adattamenti.

109. Post-scriptum, infra, p. 88.

110. Lettera a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, infra, p. 91. Nella conclusione del Témoignage, pubblicato sui «Cahiers du Sud», n. 284, settembre 1947, Joë Bousquet scrive: «La nostra amica Simone ha avuto la morte che desiderava. Se, spesso, ho atteso il suo ritorno, è perché l’ho fraintesa. Non potremmo essere migliori dei suoi insensati nemici se ignorassimo la parte che anime come la sua hanno nell’immensa felicità che ci è stata data» (p. 570).

111. Lettera di Joë Bousquet a Hélène e Pierre Honnorat, 26 gennaio 1945, citata da Michel Narcy nel Post-scriptum a Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129, infra, p. 91.

112. Cfr. in particolare Papillon de neige. Journal 1936-1942, Verdier, Parigi, 1980 e Meneur de lune, J.-B. Janin, Parigi, 1946.

113. Joë Bousquet, Le livre heureux, in Œuvres romanesques complètes, Albin Michel, Parigi, 1984, p. 128.

114. I testi nei quali si può cogliere la freschezza della loro testimonianza sono, per Gustave Thibon, l’Introduction a La pesenteur et la grâce, Plon, Parigi, 1947, pp. I-XXXIII; per padre Perrin, l’Introduction ad Attente de Dieu, già citata; successivamente, il volume a quattro mani Simone Weil telle que nous l’avons connue, ugualmente citato.

115. AD*, pp. 54-55. Il corsivo è nostro.

116. Boris Souvarine, Nicolas Lazarévitch, in «Est & Ouest», n. 584, dicembre 1976, p. 18.

117. Degli interventi, non occasionali, di Simone Weil a favore di prigionieri e internati, abbiamo già parlato, segnalando la cospicua documentazione riunita in OC IV 1, pp. 449-472. Più in generale, sulla vergogna dei campi in Francia, in particolare di quelli affrettatamente allestiti per rinchiudervi militanti, stranieri, intellettuali indesiderati, dove le condizioni di vita erano persino peggiori che a Dachau, con la sola differenza che nei campi di sterminio la morte era programmata mentre in quelli di internamento sopravveniva spesso a causa di malnutrizione, malattie e maltrattamenti, cfr. Denis Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi, 2002. Più specificamente, sull’interessamento dimostrato da Simone Weil, cfr. Charles Jacquier, Simone Weil, les réfugiés et les camps du sud de la France, in «CSW», n. 4, dicembre 2012, pp. 467-485.

118. Il merito va a Bernard Sicot, un ispanista che ha riassunto l’essenziale delle sue ricerche nel saggio L’anarchiste et la philosophe: Antonio Atarés et Simone Weil (1941-1951), in «Cahiers de civilisation espagnole contemporaine», n. 1, 2012, (consultabile in internet <http://ccec.revues.Org/3928>); e a Charles Jacquier, che, oltre all’articolo appena citato, ha pubblicato e commentato, in apertura del numero dei «CSW» citato nella nota precedente, la lettera di Simone Weil all’amica di una cugina della madre, destinata a segnalare il caso di Antonio Atarés ai responsabili della Cimade (Comité Inter-Mouvements Auprès des Evacués), un’organizzazione protestante di soccorso ai prigionieri.

119. Lettera all’amica di Selma Weil, probabilmente del 1941, in «CSW», cit., pp. 429-431, cit. p. 430.

120. La lie de la terre, in Arthur Koestler, Œuvres autobiographiques, Robert Laffont, Parigi, 1994, pp. 1034-1035, passim. Altri scrittori sono stati rinchiusi nel campo del Vernet. Tra questi Max Aub, di padre tedesco e madre francese, scrittore di lingua spagnola per adozione. Sulla sua detenzione al Vernet ha scritto, in particolare, un racconto volterriano, Manuscrit Corbeau (Mare Nostrum, Perpignan, 1994). Trasferito a Djelfa, evade dopo sei mesi e si rifugia in Messico, dove, nel 1942, pubblica Diario de Djelfa/Journal de Djelfa (Mare Nostrun, Perpignan, 2009), una raccolta di poesie che denunciano i soprusi, le esecuzioni sommarie, le sevizie e le privazioni che avevano luogo nel campo algerino.

121. Q I, p. 239.

122. Amicizia, infra, p. 137.

123. Ivi, p. 133.

124. Lettera a Georges Bernanos, primavera 1938, in EHP, p. 243.

125. Infra, p. 97.

126. Infra, p. 116.

127. Infra, p. 115.

128. Infra, p. 104. Max Aub, in un poesia dedicata alla figlia, parla della bellezza del cielo notturno di Djelfa.

129. Infra, p. 116.

130. La copla, Las aves de Arabia, è riportata nella lettera del 15 novembre, infra, p. 111. Anche Max Aub, di sera, leggeva delle poesie ai compagni di reclusione.

131. Infra, p. 118, con i necessari adattamenti.

132. Il nome di Atarés Olivar Antonio figura in un documento ufficiale della direzione del campo, datato 26 maggio 1943, che lo autorizza a lavorare a Orano. A Londra, dall’ospedale, il 25 giugno 1943, Simone Weil scrive ai genitori: «Gli spagnoli sono finalmente liberati, si dice. Ma chi sa se Antonio è ancora in vita» (Corrispondenza familiare, in OC VII 1, p. 290). Dopo la guerra, avendo saputo della morte di lei, Antonio Atarés scriverà una commovente lettera ai genitori.

133. La lettera, citata nell’articolo di Bernard Sicot, si trova ora nel Fondo Simone Weil della BnF.

134. AD*, p. 107.

135. Ivi, p. 134.

136. Ivi, p. 124. Con evidente allusione a Bousquet, a p. 132 scrive: «Le diverse specie di vizi, l’uso degli stupefacenti in senso letterale o metaforico, tutto questo costituisce la ricerca di uno stato che rende sensibile la bellezza. L’errore consiste precisamente nel ricercare uno stato speciale. Anche la falsa mistica rientra in questo genere di errore. Se l’errore si infigge abbastanza a fondo nell’anima, l’uomo non può non soccombere».

137. Simone Weil ha ricopiato molte coplas, per farne dono ad Antonio Atarés, e gli ha chiesto di trascrivere per lei quelle che riusciva a ricordare. La poesia, la propria e quella dei grandi poeti, occupa un posto importante nella corrispondenza: è il dono che ci si scambia reciprocamente. La copla citata a memoria nella lettera di addio a Joë Bousquet (infra, p. 86) in spagnolo suona così: «Un imposible adoro, / Que es de discretos; / Las posibilidades / Las ama un necio», in OC VI 1, Annexes, pp. 437-445, cit p. 439.

PARTE SECONDA

Le lettere agli amici prigionieri

1. Scrive Anne-Marie Gualino: «La pesantezza del corpo ferito di Bousquet e la grazia spirituale di Simone Weil paiono riunite sui piatti di una strana bilancia» (Correspondance Simone Weil – Joë Bousquet. Croisements de destins, in «CSW», n. 1, marzo 2002, p. 5).

2. Con i genitori, dal porto di Marsiglia, salperà per gli Stati Uniti imbarcandosi, il 14 maggio, sul transatlantico Maréchal Lyautey.

3. Il lavoro teatrale al quale fa riferimento è la tragedia, rimasta incompiuta, intitolata Venezia Salva. Ad essa, come ad altri suoi componimenti poetici, era molto legata e di ciò danno testimonianza anche alcune delle lettere, scritte alla famiglia negli ultimi mesi di vita, in cui è espresso il desiderio che quegli scritti non vadano perduti. La versione italiana della Venezia salva è stata curata da Cristina Campo.

4. La percezione dell’esistenza degli altri esseri, per Simone Weil, non è affatto un comportamento spontaneo, come il senso comune tenderebbe a credere. Ciascuno di noi, nei propri simili, legge ciò che presume che essi siano, non quello che veramente sono; proietta su di loro desideri, pregiudizi, attese spesso inconsapevoli. Molte delusioni e incomprensioni nei rapporti umani sono l’effetto di questo lavoro a vuoto dell’immaginazione. Solo uno sguardo attento e perseverante scopre l’altro nella sua realtà: si accorge che esiste.

5. Durante le conversazioni avute, nell’agosto 1996, con Domenico Canciani (parzialmente confluite in Tra sventura e bellezza) padre Perrin ha fatto questa confidenza: «Non sapevo quale fosse la dimensione spirituale di Joë Bousquet. Sono andato a incontrarlo molto presto, probabilmente qualche mese dopo la partenza di Simone. Confesso di non aver avuto un vero contatto con lui. Mi è apparso molto libresco… Certamente Simone ha intuito il pericolo a cui poteva andare incontro, vale a dire il pericolo insito nella sua tendenza al sogno, alla fantasticheria».

6. Simone Weil aveva conoscenza del Parzival di Wolfram von Eschenbach, in cui il mitico Graal è identificato con la «pietra celeste» che ha il potere di liberare la potenza dello spirito in un’anima prigioniera della materia. Riferimenti all’eroe puro, immagine del Cristo, si trovano anche in altri scritti ai quali si dedica negli ultimi mesi di soggiorno a Marsiglia. Nel quaderno undicesimo, viene evocata la guarigione di Anfortas, il re guardiano del Graal, dovuta alla domanda postagli da Parzival: «Qual è il tuo tormento?». Non stupisce che questo sia lo stesso interrogativo che, in molti modi, rivolge all’amico poeta che, come Anfortas, è «per tre quarti paralizzato dalla più dolorosa delle ferite» (Q III, p. 368). Anche nelle Riflessioni sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio, testo recapitato il il 20 maggio 1942 al padre Perrin, riecheggia la mitica domanda alla quale è riconosciuto lo stesso potere dell’ostia consacrata, in quanto capace di esprimere la pienezza dell’amore per il prossimo (AD*, p. 200). Per una comprensione più approfondita di come la simbologia del Graal abbia influenzato la spiritualità di Simone Weil, cfr. Fausto Gianfreda, Il Graal di Simone Weil, Pazzini Editore, Verucchio, 2012.

7. La metafora della notte oscura è ricorrente negli scritti di Simone Weil successivi all’esperienza mistica. Torna spesso nei Quaderni. Si tratta di un’immagine attinta al Cántico Espiritual di San Giovanni della Croce, grande mistico spagnolo del Cinquecento che, con questa figura, simboleggia le tenebre interiori, la perdita di ogni sicurezza, di ogni aggancio spazio-temporale, perfino del contatto col proprio io, che ogni vero mistico sperimenta prima di accedere a un livello superiore, soprannaturale, di conoscenza.

8. Il primato della volontà nell’agire, inizialmente assimilato attraverso le lezioni del maestro Alain, in seguito cede sempre più spazio al desiderio, inteso come desiderio puro, semplice, vuoto, privo di qualsiasi contenuto di cui impossessarsi: un desiderio che si traduce in continua tensione verso l’inconoscibile. Il legame tra attenzione e desiderio, in tal modo, si fa sempre più chiaro e questo comporta una totale revisione del rapporto di ciascun uomo con la realtà: «Si tratta di ordinare i beni in rapporto al nostro desiderio, e per questo bisogna aver agganciato la pienezza dell’attenzione al nostro desiderio puro, vuoto. Così come per scegliere tra vari pezzi di metallo, più o meno ben levigati, quello che è meglio levigato, è necessario orientare l’attenzione verso il piano perfetto. […] Parimenti non possiamo fare altro che distaccare il nostro desiderio da tutti i beni e attendere. L’esperienza mostra che questa attesa è colmata» (Q III, pp. 263-264).

9. Il «desiderio puro», che è apertura al Bene, implica il distacco da tutto ciò che la parte mediocre dell’anima continua a bramare. Questo distacco, però, è possibile solo grazie a un’energia soprannaturale che contrasta la tendenza, presente in ogni uomo, a vivere nel sogno, fabbricandosi sempre nuovi idoli: «Gli uomini lavorano di immaginazione per tappare i buchi per i quali passerebbe la grazia, a tal fine si fanno – a prezzo di una menzogna – degli idoli, cioè beni relativi intesi come beni al di fuori di ogni relazione» (Q I, p. 397).

10. La medicina alla quale allude potrebbe essere una sostanza oppiacea di cui, come si dice nella Parte Prima, Bousquet faceva uso, di tanto in tanto, per attenuare i dolori che lo tormentavano, ma forse anche per stimolare al massimo la propria sensibilità. A questo riguardo, nella sua biografia, Simone Pétrement avanza invece un’ipotesi diversa, alla quale ci sembra giusto dare spazio: «La lettera termina con l’offerta di procurargli una medicina di cui poteva aver bisogno. Questa cosa non meriterebbe certo di essere ricordata se la risposta di Bousquet (“mi infonde coraggio pensare che mi abbia proposto ciò che degli uomini non hanno osato offrirmi”) non permettesse di supporre che si trattava forse di una medicina destinata a porre fine alle sue sofferenze nel caso in cui esse fossero diventate intollerabili. Non bisogna credere che Simone approvasse il suicidio. Al contrario, in diversi passi dei Quaderni lo condanna. Ma forse pensava che uccidersi per sfuggire a dolori fisici intensi e senza rimedio non è un vero suicidio e sia permesso» (Simone Pétrement, La vita di Simone Weil, cit., pp. 587-588).

11. Qui il poeta tenta di esprimere intuizioni difficili da tradurre in parole: solo la faticosa conquista di un «centro di gravità» interiore consente di armonizzare il rapporto tra le sensazioni che affluiscono dal mondo esterno, spesso ingannevoli, e la «vita profonda» dell’anima, accessibile alla coscienza in momenti molto rari. Evidentemente egli avverte che la scissione che si porta dentro e l’incapacità di distinguere il bene dal male hanno una stretta connessione con questa mancanza di un centro di gravità interiore. Un pensiero come questo doveva essere intuitivamente accessibile a Simone Weil, se si pensa alla convinzione, da lei più volte espressa, che all’uomo sia indispensabile costruirsi una «architettura dell’anima» (cfr. Q IV, pp. 101, 104, 108, 150).

12. Il sospetto che tutta la costruzione del pensiero umano, nella sua motivazione più profonda e nascosta, sia un tentativo di sfuggire all’incombere della morte, e che la filosofia nel suo insieme, in un certo senso, abbia sempre corrisposto a questo scopo, richiama alla mente il pensiero, inquietante nella sua radicalità, che introduce il capolavoro di Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia» (Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di Giovanni Bonola, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 3).

13. Qui emerge la fatica nell’analizzare le proprie contraddizioni da parte del poeta: per un verso, egli sa che il mondo delle sensazioni in cui si rifugia è sostanzialmente illusorio, e quindi non costituisce per lui un bene autentico, ma per l’altro ha sperimentato l’impossibilità di convivere quotidianamente, senza vie di fuga, con la percezione chiara di una fine incombente. Il rapporto ambiguo con la realtà, la convivenza spesso angosciante col «morto» che si porta dentro, trae alimento da questa contraddizione.

14. Se l’ultimo istante di vita potesse ricomporre, in una visione di insieme pienamente armoniosa, tutti i frammenti di un’esistenza, le sue luci e le sue ombre, questa per il poeta sarebbe la felicità: un sì senza riserve al vivere come al morire. La funzione salvifica dell’attimo che fa da spartiacque tra la vita e la morte, senza che il pensiero si proietti su una possibile beatitudine ultraterrena, è riconosciuta anche in un vertiginoso pensiero di Simone Weil: «L’istante della morte, intersezione del tempo e dell’eternità, punto d’incontro dei bracci della croce. Istante che sta agli altri istanti del tempo come Cristo agli uomini. Bisogna avere lo sguardo del pensiero fisso su quell’istante, e non sulla vita mortale, neppure sull’eternità, perché la nostra ignoranza attorno all’eternità fa sì che pensando ad essa l’immaginazione proceda senza nessun freno» (Q IV, p. 57).

15. Si riferisce ai frammenti della tragedia Venezia salva che Simone Weil aveva voluto sottoporre alla sua lettura e al suo giudizio critico.

16. Qui Joë Bousquet, che deve aver letto con vera attenzione il canovaccio della Venezia salva, con molta probabilità si riferisce al Segretario dei Dieci, nel momento in cui dialoga con il protagonista, Jaffier, il traditore, e illustra le ragioni per cui l’istituzione da lui presieduta ha deliberato di risparmiargli la vita. Mentre Jaffier si esprime in versi, il Segretario parla in prosa. Evidentemente questo espediente espressivo, ancora provvisorio, appare poco convincente a Bousquet, che ritiene più conforme al contesto del dialogo un uso esclusivo della poesia. Per una ricostruzione precisa della trama, si rimanda alla scena quarta dell’atto terzo della tragedia (VS, pp. 82-90).

17. Il poeta ha pienamente compreso quanto Simone Weil, per temperamento e per formazione culturale, sia lontana da un tipo di misticismo languido e sentimentale, di impronta manieristica, alquanto diffuso nella tradizione della mistica femminile. Interessante il nesso che intuisce tra la sua capacità di mettere a nudo, in Venezia salva, i meccanismi spietati della violenza e l’analoga capacità che potrebbe rivelare esprimendo, eventualmente in forma poetica, i risvolti più segreti del dialogo con Dio.

18. Sull’incertezza se la medicina in questione fosse l’oppio o una qualche altra sostanza, tra quelle reperibili all’epoca, in grado non solo di alleviare i dolori ma, in caso estremo, di «facilitare» la morte liberando l’ammalato da un livello intollerabile di sofferenza, si rimanda a quanto detto nella nota 10. Occorre però un’ulteriore precisazione. Se per un verso è vero che le parole con le quali Bousquet chiude questa lettera ringraziando l’amica per il coraggio con cui gli ha promesso ciò che i suoi amici uomini non avevano mai osato proporgli sembrano avvalorare la seconda ipotesi, che è quella avanzata da Simone Pétrement, è tuttavia doveroso precisare che lei stessa ebbe poi un ripensamento e manifestò rammarico per non aver potuto apportare una necessaria correzione alla sua biografia di Simone Weil, ripubblicata nel 1978. Questo cambiamento di opinione avvenne in conseguenza della possibilità offertale dalla redazione dei «CSW» di prendere preventivamente visione di un testo, apparso poi sul n. 3, settembre 1982 (Simone Weil à Carcassonne, pp. 229-231), scritto dal canonico Gabriel Sarraute, nel quale motiva, in un modo che la Pétrement giudica convincente, l’ipotesi che la «medicina» fosse l’oppio, non in pillole, ma acquistato allo stato puro da spacciatori cinesi: abitudine che lo stesso Bousquet, parlando di sé, aveva confessato di praticare (cfr. «Cahiers du Sud», nn. 362-363, 1955, p. 117). La versione dei fatti fornita da Sarraute convinse talmente la Pétrement da spingerla a scrivere con dispiacere: «[…] Non ho potuto fare questa correzione che avevo promesso e che, tra quelle che desideravo fare, era quella che mi stava più a cuore» (p. 231, nota 7).

19. Il dono agli amici delle sue personali traduzioni, soprattutto dei tragici greci, è un «gioiello prezioso» con cui spesso Simone Weil sigilla le lettere alle persone che maggiormente stima e più le stanno a cuore. Avremo modo di constatarlo anche leggendo quelle inviate ad Antonio Atarés.

20. Vi è una straordinaria sapienza psicologica in queste parole del gesuita-ufficiale di cui Bousquet, non a caso, conserva un ricordo tanto vivo. La rinuncia al soccorso del commilitone morente, gesto opposto a quello del buon samaritano, è presentata come una dolorosa necessità non solo strategica, ma di tutela del proprio equilibrio emotivo, nel contesto di una battaglia dove le uniche regole accettabili sono quelle della conservazione e ottimizzazione di tutte le forze, fisiche e mentali, in vista dell’attacco al nemico.

21. Il crudo realismo con cui sono evocate, all’inizio della lettera, le regole che impediscono ai soldati di prestarsi soccorso vicendevolmente durante la battaglia, contrasta solo in apparenza con la convinzione che Bousquet esprime, in questo passaggio, sull’opportunità della presenza in campo di quel corpo di infermiere al quale Simone Weil teneva tanto. Interessante notare che esse sono da lui definite «infermiere spirituali» in quanto aveva pienamente compreso la funzione non soltanto di pronto soccorso, ma di sostegno psicologico e morale che avrebbero potuto esercitare verso i feriti.

22. Molto concreta ed efficace questa evocazione di un’esperienza, realmente vissuta, in cui una presenza femminile sul campo di battaglia, per assistere e rincuorare, non per combattere, aveva dato ottima prova di sé. Questo ricordo dell’amico poeta non può che rincuorare Simone Weil riguardo alla fattibilità, oltre che al valore etico, del suo Progetto.

23. L’istante supremo al quale si allude è quello in cui, sul nuovo fronte di battaglia, quello della Seconda Guerra Mondiale, altri giovani soldati potranno essere colpiti, come Joë Bousquet, da una pallottola fatale. La «dolcezza di sguardi» sarà quella delle infermiere di prima linea, paracadutate in loro soccorso, in base al Progetto che Simone Weil ha sottoposto all’attenzione dell’amico.

24. Sia l’orrore della guerra che l’incubo dei regimi totalitari possono generare un profondo senso di irrealtà in chi vi è immerso. Ne deriva una percezione distorta dei fatti e delle parole, un’incapacità di discernimento, come se ci si muovesse in un mondo fittizio che purtroppo, invece, è drammaticamente reale. Di questa atmosfera onirica, che impedisce di ribellarsi, portano la responsabilità i capi politici e militari che hanno prodotto quel determinato stato di cose. Essi stessi, però, si trovano in balia di un sogno: «Un uomo che è nell’irrealtà e maneggia una spada può sprofondare tutta una popolazione nell’irrealtà. Non così per un terremoto. Si sa perché si è sottomessi al potere manifesto della natura. Ma l’obbedienza a uomini la cui autorità non è illuminata dalla legittimità, è un incubo. I cartaginesi e Roma» (Q III, pp. 269-270).

25. Questa figura dell’uovo cosmico, di origine orfica, presente nel Fedro platonico e diffusa presso diverse culture dell’antichità, torna più volte nelle pagine dei Quaderni, per simboleggiare il processo di trasformazione che il germe dell’amore divino opera nell’anima: «La nostra anima è un uovo in cui il germe divino diventa uccello. L’embrione dell’uccello si nutre dell’uovo; diventato uccello, infrange il guscio, esce, e becca dei chicchi. La nostra anima è separata da ogni realtà da una pellicola di egoismo, di soggettività, di illusione; il germe del Cristo deposto da Dio nella nostra anima si nutre di essa; quando è abbastanza sviluppato, infrange l’anima, la fa esplodere, ed entra in contatto con la realtà. È l’Amore nel microcosmo. Quello del macrocosmo, una volta che le sue ali dorate sono spuntate, infrange l’uovo del mondo e passa dall’altra parte del cielo» (Q IV, p. 338).

26. La dilatazione dello spazio e la liberazione dalla prigionia del tempo sono gli effetti indotti dalla fuoriuscita dello «spirito» dal guscio dell’uovo cosmico. Qualcosa di simile, con altrettanta forza poetica, Simone Weil la dice in rapporto allo svuotamento di sé di un’anima che, mossa da Amore, giunge alla contemplazione dell’ordine e della bellezza dell’universo: «Svuotarsi della propria falsa divinità, negare se stessi, rinunciare ad essere con l’immaginazione il centro del mondo, riconoscere che tutti i punti del mondo sono centro a pari titolo, e che il centro vero è collocato al di fuori del mondo, significa acconsentire al regno della necessità meccanica nella materia e al regno della libera scelta all’interno di ciascuna anima. Un simile consenso è amore. La faccia di questo amore rivolta alle persone pensanti è carità verso il prossimo; quella rivolta alla materia è amore per l’ordine del mondo, ovvero – che è poi la stessa cosa – amore per la bellezza del mondo» (Forme dell’amore implicito di Dio, AD*, pp. 119-120).

27. Vivere fino in fondo l’amicizia e conoscere la realtà opposta, quella del conflitto, sono due modalità uguali e contrarie per accostarsi all’intuizione dell’unità del reale. La lettura dei frammenti pitagorici che andava compiendo proprio nei mesi trascorsi a Marsiglia l’aiuta a passare dal solo orrore per la guerra, già fortemente sentito durante l’esperienza di Spagna, a una contemplazione distaccata dell’insieme della realtà, in cui il bene e il male, la bellezza e la miseria, costituiscono due polarità ugualmente necessarie.

28. Nell’accezione greca del sostantivo Simone Weil legge l’espressione di una libera volontà, di un desiderio di persistere nell’immobilità, senza cedere alla stanchezza o al compromesso. Nel termine latino patientia è invece più marcata l’accezione del subire, dell’essere passivi.

29. Come il Cristo sulla croce non patisce solo la sua privata sventura di ebreo, perseguitato da un regime ostile, ma prende su di sé tutto il male del mondo, così «coloro per i quali la sventura entrata nella carne diventa la sventura stessa del mondo nella loro epoca» in un certo senso sono dei privilegiati, in quanto la sorte li obbliga, loro malgrado, a non distogliere mai lo sguardo dall’orrore di cui sono stati testimoni: essi sono gli unici in grado di leggerlo in profondità e di condividere con altri uomini i frutti della loro chiaroveggenza. In ogni tempo, del resto, il vero profeta è colui che offre ai suoi simili una comprensione quanto più possibile limpida e completa del dolore da cui è afflitto il tempo in cui vivono.

30. Lo sguardo attento di Simone Weil le permette di cogliere, nell’interiorità dell’amico, l’approssimarsi dell’istante in cui il consenso al bene si presenterà alla sua anima come una scelta necessaria, non più dilazionabile. Quest’unità di tempo minima, per analogia, è paragonata a ciò che è la perdita della verginità per una donna: un evento rispetto al quale non si dà alcun possibile ripristino dello stato precedente. La differenza tra il cedere al male e l’affidarsi fiduciosi al bene è data dal livello di consapevolezza che si possiede, condizione indispensabile per scegliere il bene. Questo, infatti, «afferra l’anima solo se dice di sì», mentre il male la narcotizza, la trascina nel sogno e, così facendo, la violenta. Il consenso nuziale al bene – o la libertà di rifiutarlo – non contrasta col fatto che l’istante-limite in cui la decisione si impone è un evento inscritto, ab aeterno, nel destino di ciascun uomo.

31. Queste parole rivelano una notevole finezza nella lettura dell’anima: il compito dell’intelligenza non è di distrarsi dal male per volgersi tutta, immediatamente, al bene, ma di contemplare il male, nella sua nuda verità, e farlo per il tempo necessario a rigettarlo con orrore, non un istante in più. Qualsiasi indulgenza, qualsiasi compiacimento, sarebbe devastante tanto quanto la paura di misurarsi col ricordo delle esperienze negative.

32. Questo riferimento alla morte come «dovere più urgente» e ad una decisione «condizionata e a termine» lascia intendere, in modo sfumato, che l’ipotesi del suicidio non solo è stata presente in lei, almeno nei momenti di più acuta sofferenza fisica, ma che la convinzione di potervi ricorrere le fu di notevole conforto. Per quest’aspetto della sua esperienza, che riguarda la dolce morte, si rimanda alle parole di Simone Pétrement, citate nella nota 10. Un pensiero simile, del resto, Simone Weil l’aveva espresso in una lettera del 1936 all’amico Boris Souvarine, in un momento in cui le incessanti emicranie minacciavano di annientarne il pensiero: «[…] Mi sono chiesta più di una volta fino a che punto devo ostinarmi a vivere. Non rimpiango di aver vissuto fino ad ora perché malgrado tutto ciò che la ostacola, la mia vita è lungi dall’essere stata vuota; ma non posso nascondermi che i momenti in cui le mie facoltà riescono a operare sono sempre più distanziati e brevi. […] Sono ancora in condizione di superare in qualche sorta i limiti delle mie possibilità a forza di irrigidirmi. Ma questo non potrebbe durare all’infinito. Se le cose continuano ancora ad andar male, il momento in cui la vita mi apparirà indegna di essere vissuta non tarderà a venire» (Lettera da Bourges, probabilmente del marzo 1936, in «CSW», n. 1, marzo 1992, p. 13).

33. È impossibile appurare con certezza che cosa avesse letto degli scritti di Joë Bousquet al momento del loro incontro. Per quest’esplicito riferimento a una frase contenuta nel «suo ultimo libro» ci atteniamo a quanto, con molto acume, è stato ipotizzato da Michel Narcy: «Questo “ultimo libro”, nel 1942, non poteva essere che Traduit du silence. Niente consente di dire che Simone Weil l’avesse letto prima di incontrare Joë Bousquet: al contrario, avrebbe potuto anche leggerlo nel mese successivo all’incontro con l’autore. Ciò che è importante, in ogni caso, è che in tal modo si può affermare che la sua corrispondenza con Bousquet non costituisce solo un prolungamento della loro conversazione, ma fa eco, in modo amplificato, a quegli aspetti della sua meditazione che Bousquet aveva già da tempo affidato alla scrittura» (Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, dicembre 1987, p. 120). La frase, a cui allude è da noi citata nella Parte Prima, alla nota 98.

34. Qui Simone Weil avverte l’insufficienza delle parole a spiegare uno stato d’animo che, come ha detto poco prima, lei stessa aveva vissuto dopo l’esperienza mistica: la gioia pura, lungi dall’essere fonte di consolazione, lungi dall’acquietare la coscienza, può al contrario indurre, in chi la sperimenta, «un peggioramento morboso della sofferenza». Un’anima illuminata dal contatto col bene non solo non è immunizzata da nuove possibili sofferenze, ma tende ad essere più sensibile, più vulnerabile, più esposta all’aggressione del male: il Giusto sofferente e il Cristo risorto non costituiscono due realtà distinte, ma due figure dello stesso mistero, che non si sovrappongono, ma sono compresenti.

35. Di questa poesia ci piace offrire al lettore la versione di Cristina Campo, una «lettrice amorosa» di Simone Weil: «Amore mi diede il benvenuto: ma l’anima mia si ritrasse, / Di polvere macchiata e di peccato. / Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante / Sin dal mio primo entrare, / Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo / Se di nulla mancassi. // Di un ospite, io dissi, degno di essere qui. / Amore disse: Quello sarai tu. / Io, lo scortese e ingrato? O, amico mio, / Non posso alzare lo sguardo su di Te. / Amore mi prese la mano e sorridendo rispose: / E chi fece gli occhi se non io? // È vero Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna / Là dove merita andare. / E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa? / Se è così, servirò, mio caro. / Tu siederai, disse Amore, per gustare della mia carne. / Così io sedetti e mangiai» (La tigre assenza, Adelphi, Milano, 1991, p. 173). La poesia, tradotta da Simone Weil, si trova anche nella quarta lettera inviata a padre Perrin, nota come Autobiografia spirituale (AD*, pp. 29-30). Il ruolo di «mediazione spirituale» esercitato da questa lirica è confermato proprio dal fatto che viene offerta in dono alle due persone alle quali sceglie di confidare la sua esperienza mistica. Di George Herbert si può vedere l’antologia Corona di lode, a cura di Maura del Serra, Le Lettere, Firenze, 1993, dove Love è riportata.

36. Si tratta della prima delle due lettere ritrovate, nel 1989, da Florence de Lussy, di cui si è detto nella Parte Prima.

37. Significativa la coincidenza di questo richiamo a una copla spagnola in questa lettera come in alcune di quelle inviate ad Antonio Atarés: segno, ci sembra, del profondo valore di verità che Simone Weil attribuiva alla saggezza popolare che in ogni tempo si è espressa in forme poetiche. Quanto al fatto che l’accesso alla verità passi attraverso l’impossibile, in un testo di tutt’altra natura, scritto negli ultimi mesi di vita, parlerà di una presenza di Dio nel mondo che, paradossalmente, si lascia cogliere proprio attraverso le assurdità, le contraddizioni insanabili nelle quali l’essere umano quotidianamente si imbatte: cfr. Professione di fede, in Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 19.

38. In realtà, nei Vangeli, in più occasioni, Gesù prega perché gli uomini siano liberati dal pesante fardello dei dolori, sia fisici che morali, che gravano su di loro. Per Lazzaro, implora e ottiene la resurrezione; nella sua passione, chiede che sia allontanato da sé l’amaro calice, anche se subito dopo si rimette alla volontà del Padre, accettandola senza riserve. Qui si può pensare che Simone Weil alluda al fatto che il Cristo, benché straziato dalla sofferenza dei suoi simili, non cede mai alla tentazione di chiedere a Dio che, attraverso la sua mediazione, in quel preciso momento della Storia, il male possa essere sconfitto una volta per sempre, in modo definitivo. Egli è venuto a testimoniare la possibilità di una liberazione, è venuto ad annunciare il Regno, ma non ha avuto la pretesa si portarlo a compimento. Al contrario, la croce è il segno di una sconfitta accolta e patita fino in fondo.

39. Potrebbe sembrare masochistica quest’affermazione sui «piaceri fisici e spirituali che scaturiscono dalla sofferenza fisica». Per comprendere in che senso ciò sia vero è utile riandare a un passo dei Quaderni: «Avere l’anima vulnerabile alle ferite di ogni carne, senza eccezione, come a quelle della propria carne, né più né meno. Ad ogni morte come alla propria morte. Significa trasformare ogni dolore, ogni sventura subita (– e che si vede subire – e che si infligge) in sentimento della miseria umana. […] La contemplazione della miseria umana strappa verso Dio» (QII, pp. 224-225). Il «piacere» di cui si parla in questa lettera non può che essere di ordine mistico: nasce dalla capacità di sentire ogni dolore, il proprio e quello altrui, come segno di una più universale «miseria umana» la cui contemplazione, anziché annichilire l’anima, la «strappa verso Dio».

40. Il linguaggio che tenta di approssimarsi al mistero della morte assume un’intonazione quasi liturgica: richiama il rito dell’offertorio questo gesto finale con cui l’essere umano, da intermediario, riconsegna nuda tutta la bellezza del mondo a Dio che discende per ricongiungersi ad essa. Il contato tra il Creatore e la sua creazione, nell’istante limite, è affidato all’uomo, allo sguardo di amore con cui lui solo, tra le creature, è in grado di abbracciare, di comprendere la bellezza di tutte le cose. Alla capacità umana di farsi custode del bello, e di esserne responsabile verso Dio, è qui riconosciuto un valore altissimo.

41. Racine, Fedra, atto V, scena 7, vv. 1643-1644,

42. Non è la morte in se stessa a incuterle timore, ma il rischio di arrivare impreparata al dono misterioso di cui essa è portatrice. In un concerto, tra l’attesa cosciente del primo tocco di violino e il suono che effettivamente si leva dallo strumento, intercorre una frazione infinitesimale di tempo, quasi impossibile da percepire. Eppure, è lì che si gioca la possibilità di una piena concentrazione nell’ascolto. Ancor più, rispetto alla morte, vi è una tremenda responsabilità dell’uomo nel giungervi distratto o impreparato.

43. Ciò che desidera portare a compimento è sempre il suo Progetto.

44. Simone Weil è particolarmente legata a questo racconto e infatti ne offre una versione breve nei Quaderni (Q III, pp. 21-22) e una più lunga, in cui è evocata la ricerca dell’uomo da parte di Dio e la Passione, ben espressa nel «quaerens me sedisti lassus», nelle Intuitions préchrétiennes (OC IV 2, pp. 153-155). Due aspetti, nell’interpretazione della fiaba, appaiono di notevole rilevanza teologica: la sposa, che incarna la presenza divina, deve indossare le vesti di una sguattera, ossia deve farsi povera se vuole accostarsi al principe, che simboleggia l’anima in cerca di amore. A sua volta il principe è «narcotizzato» dai doni, cioè dall’offerta di amore che proviene dalla carne (la falsa fidanzata): un’offerta non negativa in sé, ma inadeguata a rispondere a una domanda di amore assolutamente pura. Significativo anche il fatto che, alle prime luci dell’alba, un attimo prima che la possibilità dell’incontro svanisca, il riconoscimento avvenga mediante uno scambio di sguardi, figurazione dell’incontro mistico attraverso la bellezza.

45. La persona alla quale si riferisce, naturalmente, è padre Perrin. I «testi greci» sono quelli da lei tradotti nell’ambito della ricerca avviata, insieme al domenicano, su alcuni classici – in prevalenza brani di tragedie greche, frammenti pitagorici e dialoghi di Platone – in cui maggiormente emergono quegli elementi di spiritualità che hanno sorretto la costruzione filosofica del Cristianesimo delle origini. Questo materiale le era servito per alcune conversazioni tenute nella Cripta dei Domenicani. I testi in questione sono ora raccolti in OC IV 2, pp. 361-380.

46. Di questo «insieme eterogeneo» di testi (gli originali in lingua greca, le traduzioni, le note di commento), prima della partenza da Marsiglia, Simone Weil aveva affidato una gran parte a padre Perrin. Da una lettera all’amica Solange Baumier apprendiamo che, durante la sosta a Casablanca, completò lo scritto intitolato A proposito della dottrina pitagorica. L’insieme di questo paziente lavoro di raccolta, traduzione ed esegesi di testi greci, dapprima confluito nel volume Intuitions préchrétiennes – titolo giudicato infelice dallo stesso padre Perrin che lo aveva scelto – è ora raccolto negli Écrits de Marseille, Le domaine grec, in OCIV 2, pp. 147-293. Gilbert Kahn è stato depositario di un duplice foglio, di gran formato, su cui erano trascritti alcuni di questi testi il cui destinatario, secondo il desiderio espresso da Simone Weil proprio in questa lettera, probabilmente era Joë Bousquet. Gli originali greci, con le traduzioni e i commenti di Simone Weil, sono parzialmente riuniti in OC IV 2, pp. 312-322.

47. Si riferisce al Progetto. Dalle parole traspare una certa ansia sull’esito della sua proposta: ansia che andrà facendosi sempre più febbrile, quando si troverà a New York e si renderà conto dell’estrema difficoltà di farlo prendere in considerazione da chi, se avesse voluto, avrebbe potuto sostenerlo.

48. Comunicata da Florence de Lussy, conservatrice della Biblioteca Nazionale di Parigi, a Michel Narcy, la lettera è pubblicata come Postscriptum al suo articolo Visite à Joë Bousquet, in «CSW», n. 2, giugno 1983, p. 129. Gli amici sconosciuti, in realtà, sono Hélène Honnorat, amica di Simone, di cui si è detto nella Parte Prima, e Pierre, suo fratello, compagno di corso di André Weil alla École Normale.

49. Algernon Charles Swinburne (Londra, 1837 – Putney, 1909) poeta inglese dell’età vittoriana, ebbe un’esistenza spregiudicata, di cui dà testimonianza la sua poesia, visionaria e ricca di suggestioni simboliche. Non meraviglia che Simone Weil abbia sottoposto alcuni suoi scritti alla lettura di un poeta come Bousquet, non meno estroso e visionario. Proporre all’amico, contemporaneamente, la lettura del Vangelo in lingua greca e quella delle poesie di Swinburne è un ulteriore segnale della sua libertà e originalità di pensiero.

50. Le lettere ad Antonio Atarés, qui tradotte, sono state pubblicate per la prima volta in «CSW», n. 2, giugno 1996, pp. 201-217. In conformità al loro tono colloquiale, in questo caso, talvolta, ci riferiamo ai due interlocutori col solo nome proprio, Simone e Antonio.

51. Infra, p. 137.

52. Simone Weil, come vedremo meglio anche attraverso la lettura di Amicizia, in varie circostanze ha lasciato intendere la sua distanza rispetto alla concezione romantica dell’amore-passione, ne ha individuati i limiti e le insidie, facendo un’opzione di principio molto ferma nei confronti dell’amicizia. È infatti persuasa che l’esperienza di unione piena sia attingibile solo nel mistero dell’incontro mistico con Dio, mistero da consegnare al silenzio e non dissipare nella retorica delle parole.

53. Di Nicolas Lazarévitch si è parlato nella Parte Prima.

54. Secondo un calcolo di Simone Pétrement, la lettera potrebbe essere stata scritta tra fine giugno e inizio luglio 1941.

55. Questo pensiero ha ispirato il titolo di una plaquette in cui sono pubblicate tre delle lettere qui presentate: cfr. Le stelle nell’anima. Lettere a Antonio Atarés 1941-1942, a cura e con una nota introduttiva di Domenico Canciani, Edizioni Lavoro, Roma, 1993.

56. Gli uccelli d’Arabia / Vivono in eterno. / Vivono perché non sanno / Che cosa sono le pene / Se dovessero penare / Nel mondo non ci sarebbero / Uccelli d’Arabia. Nell’Appendice IX del primo volume dei Cahiers si trova una raccolta di coplas trascritte da Simone Weil (OC VI 1, pp. 437-451).

57. Quel che dice in questa lettera si riferisce, probabilmente, ai tentativi da lei fatti, presso i responsabili dell’organizzazione internazionale Cimade, di cui parliamo nella Parte Prima, volti a far liberare Antonio, procurandogli un lavoro come operaio agricolo.

58. Simone Pétrement ricostruisce la probabile datazione delle poesie scritte da Simone Weil proprio nel periodo del soggiorno marsigliese: Nécessité risale alla fine di luglio del 1941, La porte probabilmente fu scritta durante i giorni della vendemmia, La mer tra novembre e dicembre dello stesso anno e, sempre a dicembre, dovrebbe risalire anche la composizione Les astres, un testo che, nel gennaio successivo, Simone Weil avrebbe inviato sia all’amica Pétrement che ad Antonio. (Cfr. La vita di Simone Weil, cit., p. 573). Le poesie di Simone Weil sono state pubblicate in volume con la Venezia salva, nel 1968: cfr. Bibliografia. In italiano sono disponibili alcune buone traduzioni: segnaliamo quella di Adriano Marchetti (Poesie e altri scritti, In forma di parole, Bologna,1989) e di Roberto Carifi (Poesie, Le Lettere, Firenze, 1993). Qui di seguito, offriamo la versione italiana di Astres di Adriano Marchetti: «Astri di fuoco che abitate la notte e i cieli lontani, / Sfere mute che ruotate ciecamente sempre gelate, / Voi strappate i giorni di ieri al nostro cuore, / Ci gettate nel domani senza il nostro consenso. / Piangiamo e i nostri lamenti a voi sono vani. / Poiché dobbiamo, vi seguiremo, le braccia legate, /Gli occhi rivolti al vostro scintillio puro e amato. / Al vostro cospetto poco importa ogni tormento. / Noi taciamo, vacilliamo sul nostro cammino. / D’improvviso è nel cuore il loro fuoco divino». (pp. 72-73). Nell’Introduzione, Marchetti non si limita a offrire un giudizio estetico sui componimenti poetici di Simone Weil, ma li interpreta alla luce degli altri suoi scritti (pp. 7-22).

59. Si tratta della moglie del dottor Louis Bercher, amico di Simone Weil fin dai tempi de «La Révolution Prolétarienne», alla quale anch’egli collaborava con lo pseudonimo di Péra. Bercher ha scritto, per padre Perrin, un’ampia testimonianza, frutto di alcune conversazioni avute con Simone Weil durante il soggiorno marsigliese.

PARTE TERZA

L’amicizia

1. Redatto nella prima metà di maggio, prima di partire per l’America, questo scritto fu affidato ad Hélène Honnorat perché lo consegnasse a padre Perrin, che lo ha pubblicato, con la corrispondenza, in Attente de Dieu. Ora ha trovato la sua naturale collocazione negli Écrits de Londres, OC IV 1, pp. 285-336. Questo è il testo adottato per la nostra traduzione.

2. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 284.

3. Gli scritti, in parte frammentari, come già ricordato, pubblicati in Intuitions préchrétiennes e La source greque, sono ora raccolti negli Écrits de Marseille, OC IV 2.

4. Non con oscuro simbolismo, ma con vivace concretezza di immagini, Simone Weil riferisce la sua esperienza mistica in un testo, il Prologo, per il quale espresse il desiderio che, in un’eventuale pubblicazione dei suoi scritti, potesse fare da introduzione all’intera raccolta. Oggi, infatti, può essere letto all’inizio di Q I, pp. 103-105.

5. Q III, p. 350. Questa bella immagine, alla quale Simone Weil ricorre per descrivere l’azione mediatrice del soprannaturale, involontariamente rimanda all’ordo amoris agostiniano e alla sua matrice neoplatonica. Interessante, in questo senso, quel che dice Remo Bodei: «Lordo amoris […] ricostruisce infaticabilmente il ponte, spesso interrotto o crollato, che unisce ciascuno alla parte più intima di se stesso, a Dio, interior intimo meo, e la parte più alta delle sue facoltà alla sommità del Creatore. [.] Sotto questo profilo, l’amor di Agostino ha alcuni tratti comuni con l’aspirazione plotiniana della congiunzione dell’anima con l’Uno. (Ordo amoris, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 92).

6. Simone Weil ricorre più volte, anche in altri scritti, al linguaggio dei pitagorici per esprimere l’idea di amicizia come armonia tra i contrari e trova particolarmente efficaci due formule di Filolao: «L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia» image e «Il pensiero comune dei pensanti separati» image: cfr. OC IV 2, pp. 244-248 e 255-293.

7. Su questo tema scrive: «La nostra anima è una bilancia. La direzione dell’energia negli atti è l’ago della bilancia che segna questa o quella cifra. Ma la bilancia non è esatta. Quando Dio, il vero Dio, occupa in un’anima tutto il posto che gli è dovuto, la bilancia è diventata giusta. Dio non dice quale cifra deve indicare l’ago, ma per il fatto che Egli è là l’ago segna giusto» (Q IV, p. 190).

8. Cfr. Etica Nicomachea, Libri VIII e IX, a cura di Carlo Natali, Laterza, Bari, 2003. Più in generale, per una ricognizione del significato dell’amicizia nel mondo antico, cfr. Luigi Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico, classico e cristiano, Einaudi, Torino, 1993. Recentemente la rivista «Esodo» ha dedicato due interi fascicoli al tema dell’amicizia: Legami. I volti dell’amicizia, n. 3, luglio-settembre 2012 e Legami. Le radici dell’amicizia, n. 4, ottobre-dicembre 2012. In questo secondo fascicolo, i curatori di questo libro, Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, hanno sintetizzato il pensiero di Simone Weil sull’argomento. Cfr. L’amicizia in Simone Weil, cit., pp. 10-17.

9. Etica Nicomachea, cap. VIII, 1156 b, p. 319.

10. Ivi, 1159 a, p. 331.

11. Ibidem.

12. Simone Weil ha compiuto una lettura degli scritti aristotelici più limitata e meno approfondita rispetto ad altri testi della filosofia greca, soprattutto quelli platonici: ne è prova il numero esiguo di citazioni aristoteliche presenti nei Quaderni. In particolare, non risulta una lettura diretta dell’Etica Nicomachea. Ciononostante, nei Quaderni troviamo un giudizio molto duro sulla concezione dell’amicizia sviluppata in quel testo, al quale allude in modo indiretto, con una citazione che si potrebbe definire di terza mano, perché presa in prestito da uno scritto di Jacques Maritain in cui riporta un brano tratto dai Commentari di san Tommaso al Libro VIII dell’Etica Nicomachea. La citazione è accompagnata da una breve annotazione nella quale si dice che un simile modo di intendere l’amicizia è agli antipodi rispetto al pensiero cristiano. Bersaglio di questa stroncatura non è dunque solo Aristotele, ma lo sono ancor più Tommaso e Maritain, per aver commesso l’errore di tentare una conciliazione tra modelli di pensiero antitetici. Vale la pena di rileggere parte del brano in questione: «È assolutamente il contrario del Cristianesimo. Come fanno costoro a credersi cristiani? Si potrebbe chiedere loro se la giustizia ha reso uguali l’uomo e Dio prima che potesse esserci unione di amore. Se il samaritano non ha avuto un moto di amicizia verso l’uomo caduto in mano ai ladri. Aristotele è l’albero cattivo che dà solo frutti marci. Perché non lo si vede?» (Q IV, pp. 388-389). Conveniamo con Michel Narcy che, dietro questa critica alla fonte aristotelica, emerge l’atteggiamento severo con cui Simone Weil guardava a una certa idea di umanesimo cristiano, di cui Maritain era il rappresentante più convinto nella Francia di quegli anni. Vi leggeva una pericolosa illusione: il rischio di perdere di vista la straordinaria capacità di conversione espressa dal messaggio evangelico, trasformandolo in un vago umanitarismo che finisce per smorzarne la forza liberatrice e profetica, riducendolo a supporto di un’etica dei diritti che non ha bisogno di un fondamento religioso e, ancor meno, della fede cristiana. La novità sconvolgente del Cristo, insomma, è di averci insegnato ad amare il nemico, non ad amare il nostro simile: per questo, sarebbe stata sufficiente l’etica di Aristotele (cfr. Michel Narcy, La parole pacifiée d’Émile Novìs, in «Sud», nn. 87-88, 1990, pp. 127-136). In più occasioni, animata da una febbrile ricerca della verità, Simone Weil è incorsa in omissioni o in oltranze di giudizio sugli autori con cui andava confrontandosi. Questo limite le fu fatto notare da padre Perrin, proprio in rapporto al pensiero di san Tommaso che, a suo giudizio, le era meno estraneo di quanto lei pensasse, soprattutto sul tema che era oggetto della sua meditazione in quel momento: le forme dell’amore implicito di Dio. Su questo singolo punto, cfr. Introduzione a AD, pp. 35-37). Sull’argomento in generale, cfr. Emmanuel Gabellieri, Être et don. Simone Weil et la philosophie, cit., pp. 453-462.

13. OC IV 2, pp. 263 e 266, passim.

14. Formes de l’amour implicite de Dieu, OC IV 1, p. 286.

15. Q IV, p. 160

16. Q III, p. 192.

17. Q II, p. 256

18. Intuitions préchrétiennes, OC IV 2, p. 287.

19. Questa sezione del testo, dedicata all’Amicizia, si apre con una congiunzione avversativa, qui omessa, perché nella parte conclusiva delle pagine precedenti, dedicate all’amore per le pratiche religiose, si parla del duplice aspetto, personale e impersonale, dell’amore dell’uomo per Dio. L’amicizia, invece, si configura come amore personale e umano.

20. Nel primo capitolo, in cui si tratta dell’amore del prossimo, viene sottolineata la piena coincidenza evangelica tra giustizia e carità, purché si comprenda che la giustizia racchiusa nelle parole di Gesù, «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», è cosa radicalmente diversa dalla semplice giustizia naturale, di cui si dà un esempio citando il racconto che, ne La guerra del Peloponneso, Tucidide fa del rifiuto opposto dagli ateniesi all’invocazione di pietà da parte dei meli. La giustizia naturale è quella che, non per ragioni contingenti, ma per un suo limite costitutivo, resta sottomessa alla legge del più forte e, perciò, non è in grado di suscitare compassione in chi è vincitore né gratitudine in chi è sconfitto. Solo il comandamento nuovo di Cristo, l’amore verso tutti, anche verso i nemici, ha in sé la forza soprannaturale che elimina la distanza tra giustizia e carità: «Solo l’identificazione assoluta della giustizia e dell’amore rende possibile al tempo stesso da una parte la compassione e la gratitudine, d’altra parte il rispetto della dignità della sventura negli sventurati, per se stesso e per gli altri» (Formes de l’amour implicite de Dieu, cit., p. 287).

21. Sull’ineluttabile azione disgregatrice delle illusioni che il tempo compie nelle nostre vite, Simone Weil riflette anche in altri testi, con un amaro disincanto che richiama alla mente accenti leopardiani: «L’avvenire è fatto della stessa sostanza del presente. […] Se si soffre per la malattia, per la miseria, per la sventura, si crede che, il giorno in cui questa sofferenza avrà fine, si sarà felici. Ma, anche in questo caso, si sa che ciò è falso; perché nel momento in cui ci si è abituati alla cessazione del dolore si comincia a desiderare un’altra cosa. […] Non bisogna mai confondere il bisogno con il bene. Ci sono moltissime cose di cui si crede di aver bisogno per vivere. Spesso è falso, perché si potrebbe sopravvivere alla loro perdita. Ma anche se è vero, se la loro perdita può far morire o almeno distruggere l’energia vitale, non per questo esse sono dei beni. Infatti nessuno è soddisfatto a lungo di vivere puramente e semplicemente. Si desidera sempre qualcosa d’altro. Si vuole vivere in funzione di qualche altra cosa. Basta non ingannare se stessi per sapere che non vi è nulla quaggiù per cui si possa vivere. Basta rappresentarsi tutti quei desideri soddisfatti. Dopo qualche tempo, si sarebbe di nuovo scontenti. Si desidererebbe dell’altro, e si sarebbe infelici di non sapere ciò che si vuole» (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 280-284).

22. Questa osservazione allude, chiaramente, a Joë Bousquet che faceva uso di stupefacenti, come diciamo sia nella Parte Prima che nelle note di commento alle lettere.

23. «Ma sento che in tutto questo dovrò morire». Nel lamento di Arnolfo si esprime quella gelosia possessiva che finisce per consumare le energie vitali di un individuo esponendolo al rischio della morte. Cfr. Molière, La scuola delle donne, atto IV, scena I.

24. Si tratta del protagonista de L’avaro di Molière.

25. Sulla distanza tra il Bene e la necessità, cfr. Platone, Repubblica VI, p. 493 C. Questa citazione ricorre più volte anche nei Quaderni, segno dell’importanza attribuitale da Simone Weil.

26. Qui il termine necessità che, nell’accezione greca di ananke, è assolutamente centrale nel suo pensiero, assume il significato più specificamente psicologico di dipendenza. Allude, infatti, a una condizione psichica di progressivo logoramento della libertà interiore, con il conseguente rischio di soggiacere alla volontà dell’altro sentita come un assoluto, e perciò concepita in forma idolatrica: condizione da cui l’uomo esce impoverito spiritualmente e deprivato della propria dignità. Lo stesso processo può avvenire in senso contrario, quando l’io impone se stesso al tu, alimentando in lui una forma altrettanto idolatrica di attaccamento. L’esito è sempre e comunque non solo il fallimento della relazione tra i due, ma la perdita dell’armonia interiore in ciascuno di loro.

27. Simone Weil esprime più volte la convinzione che la dimensione oblativa dell’amore non debba mai compromettere il valore irrinunciabile della «libera disposizione di sé». Può essere però utile precisare che la sua concezione della libertà si colloca a una distanza siderale dall’esaltazione esasperata del principio di autoaffermazione dell’io che la cultura occidentale rivendica come diritto inalienabile. Ciò a cui si riferisce è l’autonomia dell’intelligenza, fondamento irrinunciabile nella ricerca della verità. Del resto, che questa convinzione non sia frutto di rigore ideologico né di orgoglio, ma di un dilemma vissuto in prima persona, è dimostrato dalla dolorosa scelta di «restare sulla soglia» della Chiesa cattolica. Pur desiderando più di ogni altra cosa il contatto sacramentale col Cristo, se ne priva rinunciando al battesimo e decidendo di mantenersi al di fuori dell’istituzione ecclesiale, proprio per non abdicare alla «libera disposizione di sé». Cfr. la Lettera V, indirizzata a Solange, in AD*, pp. 40-47.

28. Per un processo naturale i figli tendono a staccarsi dai genitori, a uscire dalla dipendenza, a rivendicare la libera disposizione di sé. Perciò rifuggono da quella cristallizzazione del legame affettivo alla quale i genitori spesso si abbarbicano, timorosi di vedere esaurita la funzione protettiva verso la prole e, quindi, messo in crisi il proprio ruolo. Nei legami fraterni, generalmente, l’evoluzione delle personalità porta a una differenziazione delle esperienze e, quindi, a una graduale trasformazione del rapporto che, nei casi migliori, esce dalla dimensione infantile, incentrata sul nesso rivalità/attaccamento, e tende a stabilizzarsi in forme adulte di sostegno e di condivisione di ricordi.

29. Qui simpatia è proprio da intendersi nel significato etimologico del sun-pathein, del sentire insieme, del condividere valori, gusti, prospettive, progetti, insomma tutto ciò che rientra, in modo naturale, nello spazio dell’affinità.

30. Nella relazione che ciascuno di noi ha con il tempo particolare della propria esistenza si gioca il nostro destino di creature. Il tempo è la grande occasione che ci è offerta: possiamo permettere che la distrazione e l’impazienza lo brucino, divorati come siamo dall’ansia di consumarlo o dalla pretesa di tenerlo sotto controllo, e possiamo invece viverlo veramente, trasformando ogni attimo in uno spiraglio sull’infinito. Molto spesso la nostra miseria spirituale ci preclude questa possibilità. In tal caso, viene meno qualsiasi possibilità d’incontro con Dio: «Dio e l’umanità sono come un amante e una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione…» (Q IV, p. 178).

31. Basti pensare alla pratica, in passato molto diffusa anche nella società occidentale, dei «matrimoni combinati», frutto di mera convenienza economica tra famiglie. Ma si pensi anche a tutte le circostanze, frequenti ai nostri giorni, in cui i legami di ogni tipo tra individui sono determinati o dal bisogno di riconoscimento del prestigio personale o dalla disponibilità ad asservirsi a un altro uomo, per ricavarne dei benefici.

32. Per Simone Weil l’immaginazione è una conoscenza ingannevole, da cui è sedotta la parte inferiore dell’anima, che si nutre di idoli da essa stessa fabbricati. Quando ciò accade, l’uomo non vive ma sogna e, da questo letargo dell’intelletto, può liberarsi solo grazie a uno sforzo eroico dell’attenzione, che è la risorsa spirituale che apre l’intelligenza al soprannaturale. Se però si cade nella sventura, diventa quasi sempre impossibile rinunciare alla menzogna come antidoto contro l’angoscia: «Il pensiero posto dalla costrizione delle circostanze al cospetto della sventura fugge nella menzogna con la prontezza dell’animale minacciato di morte e davanti al quale si apre un rifugio. Talvolta, nel suo terrore, sprofonda sempre più nella menzogna; perciò capita spesso che quelli che sono o sono stati in una condizione di sventura, abbiano contratto la menzogna come un vizio, al punto talvolta da aver smarrito in tutte le cose il senso stesso della verità» (L’amour de Dieu et le malheur, in OC IV 1, p. 364). Questo saggio sull’amore di Dio, parzialmente pubblicato in Attente de Dieu, ristabilito nella sua integralità, è ora ripreso nel volume da cui citiamo. Il lettore, comunque, può leggerlo anche nella nuova traduzione italiana che, nell’appendice agli scritti, riporta la prima versione della parte mancante: cfr. L’amore di Dio e la sventura, in AD*, pp. 171-189 e pp. 234-257.

33. Che la sventura si possa convertire in esperienza purificatrice è convinzione più volte espressa da Simone Weil, la cui fonte va ricercata nei tragici e, in particolare, nel image (la conoscenza attraverso il dolore) di Eschilo. Questo processo di purificazione, che non solo rende l’uomo consapevole della sua finitezza, ma crea in lui un’apertura al soprannaturale, richiede però un prezzo di dolore che solo pochi esseri umani sono pronti a pagare: «Non è facile come si crede, perché la crescita del seme dentro di noi è dolorosa. Inoltre, proprio perché accettiamo questa crescita, non possiamo fare a meno di distruggere ciò che l’ha generata, di strappare le erbe cattive, di tagliare la gramigna; e purtroppo questa gramigna fa parte della nostra stessa carne e perciò le cure del giardiniere sono un’operazione violenta» (L’amour de Dieu et le malheur, cit., p. 358).

34. Il riferimento è alla tragedia Andromaca, dove Pilade e Oreste sono complici più che amici.

35. Sull’attaccamento che si crea tra la parte mediocre dell’anima e i desideri e i piaceri, Simone Weil riflette anche in altri scritti dello stesso periodo, convinta che sia proprio la nostra mediocrità spirituale a impedirci di compiere quella rinuncia alla centralità dell’io che apre all’esperienza del Bene. Per l’uomo, è molto più facile aggrapparsi agli idoli, che possono essere di natura sociale, come il benessere, il prestigio e l’esercizio del potere, o legati alla sensibilità soggettiva, come il piacere e il dolore: «Falsi dèi che chiamiamo Dio», di cui crediamo erroneamente di non saper fare a meno e dei quali, proprio per questo, diventiamo volontariamente schiavi. (cfr. Réflexions sans ordre sur l’amour de Dieu, fine aprile 1942, ora in OC IV 1, pp. 272-279).

36. Riemerge, in queste parole, la memoria di un amore unitivo possibile solo nella visitazione del tutto inattesa da parte del Cristo, esperienza da lei vissuta e tenuta pudicamente sotto silenzio quasi con tutti. Va però sottolineata anche l’ispirazione platonica di questi pensieri, ancor più esplicita in un altro scritto dello stesso periodo, in cui vi è un’accurata analisi del discorso di Aristofane, nel Simposio, sul mito dell’androgino originario. Simone Weil commenta: «La nostra vocazione è l’unità. La nostra sventura è di essere in una condizione di dualità, sventura dovuta a una macchia originaria di orgoglio e di ingiustizia. La divisione dei sessi non è che un’immagine sensibile di questo stato di dualità che è la nostra tara essenziale, e l’unione carnale è una falsa apparenza di rimedio. […] L’unità è lo stato in cui il soggetto e l’oggetto sono una sola e medesima cosa, lo stato di colui che conosce se stesso e ama se stesso. Ma Dio solo è così e noi possiamo divenire così solo grazie all’assimilazione a Dio operata dall’amore di Dio» (Intuitions préchétiennes, in OC IV 2, p. 185).

37. Qui è evidente che l’analisi dell’affettività che Simone Weil sta compiendo non è né astratta né ingenuamente idealistica. Sa bene che qualunque legame, per la finitezza costitutiva della condizione umana, è gravato da una parte inevitabile di pesantezza. Per liberarsene, dovrebbe affrancarsi dalla sua peculiarità di esperienza finita e diventare una realtà soprannaturale. Ma questo è umanamente impossibile, per cui la scelta di trasformare un rapporto di amore in amicizia non esprime una fuga da emozioni sentite come portatrici di errore e di pericolo, ma costituisce una tappa essenziale in un cammino di purificazione che, passando attraverso la forza dell’eros, risale per gradi verso forme di maggior spiritualità che dovranno poi incarnarsi in nuove esperienze di vita, in un ritmo circolare potenzialmente infinito.

38. Si tratta di una forma di universalismo incarnato che, assumendo come centrale la dimensione dell’amore, supera l’astrattezza priva di pathos del filantropismo di matrice illuministica, e quindi anche la dimensione esclusivamente morale dell’imperativo categorico kantiano. Solo un atto di amore autentico consente, almeno in potenza, il pieno calarsi dell’universale nel particolare.

39. In Forme dell’amore implicito di Dio, nelle pagine dedicate all’amore per l’ordine del mondo, la salvezza è additata nella capacità, da parte dell’uomo, di decentrarsi, ovvero di rinunciare al proprio punto di vista parziale sulla realtà. Si rimanda alla suggestiva immagine citata nella nota 26.

40. Si tenga presente che, in questo ambito di discorso, l’uso del termine illegittimo per qualificare un certo tipo di amore non ha alcuna connotazione moralistica, ma sta a indicare un orientamento spirituale distorto che impedisce di trasformare il sentimento amoroso in esperienza di liberazione interiore. Del resto, già in Platone vi è un’accezione simile dello stesso termine: «E per l’ordine e l’armonia dell’anima la parola giusta è “legittimità” e “legge”: di qui derivano gli uomini osservanti della legge e dei costumi ordinati. E in questo consiste la giustizia e la temperanza”» (Platone, Gorgia, 504 d, cit., p. 912).

41. Simone Weil, sapendo che il suo ideale di amicizia è tanto vicino alla perfezione da rasentare l’impossibile, ricorre a un linguaggio estremo, venato di manicheismo, che le consente di disegnare una sorta di idealtipo dell’amore: un principio regolativo che ha il compito di illuminare un percorso di ricerca, senza alcuna illusione che sia facile raggiungere la meta.

42. La scuola delle donne di Molière e Fedra di Racine sono ripetutamente evocate non perché contengano l’ideale dell’amore puro, che Simone Weil tenta di descrivere, ma perché in esse, come dice altrove, la miseria umana è messa a nudo proprio in relazione all’amore.

43. Qui è posto in evidenza, con la forza del riferimento agli apostoli, il rischio insito nel vivere l’amicizia come esperienza esclusivamente sentimentale. Alla radice, vi è la pretesa di possedere già, a un livello solo emozionale, ciò che dovrebbe essere frutto di un lungo percorso di conoscenza e di trasformazione. Il brusco risveglio da quest’illusione produce la metamorfosi immediata dell’amore nel suo esatto contrario, l’odio. La modalità violenta che ai nostri giorni caratterizza molte rotture di legami potrebbe trovare una chiave di lettura convincente in queste riflessioni sulle quali, peraltro, tornano anche altri scritti: «Bisogna solo sapere che l’amore è un orientamento non uno stato d’animo. Se lo si ignora, si cade nella disperazione al primo colpo di sventura» (L’amour de Dieu et le malheur, in OC IV 2, p. 359).

44. Come spesso le avviene, Simone Weil cita a memoria, e adatta, il testo evangelico: in questo caso si tratta di Matteo 18,15.

45. Sul mistero trinitario come immagine pura dell’amicizia torna, significativamente, anche in un altro testo: «Se si interpreta la definizione dell’amicizia come un’uguaglianza perfetta di armonia secondo la definizione dell’armonia come il pensiero comune dei pensanti separati, è la Trinità stessa l’amicizia per eccellenza.[…] La formula: “L’amicizia è un’uguaglianza fatta di armonia” racchiude in sé, d’altra parte, le due relazioni nella Trinità indicate da sant’Agostino, uguaglianza e connessione. La Trinità è la suprema armonia e la suprema amicizia» (Intuitions préchrétiennes, in OC IV 2, pp. 263-264). Va precisato che la concezione trinitaria dell’amicizia sviluppata da Simone Weil appare fortemente debitrice sia nei confronti del pensiero di sant’Ambrogio che di sant’Agostino, benché le citazioni agostiniane, nei Quaderni, siano piuttosto esigue e denotino una ridotta frequentazione dei suoi testi, dovuta a una scarsa consonanza spirituale che, talvolta, è sfociata in critiche severe su alcuni punti specifici. Tuttavia, anche attraverso la lettura degli scritti di padre Perrin sull’amore trinitario, si era quasi inconsapevolmente impregnata di immagini e di concetti teologici agostiniani, che sono poi confluiti in testi come quello che stiamo leggendo, senza che la fonte effettiva di molte sue idee venisse esplicitamente riconosciuta. Per un’informazione sintetica, ma molto precisa e accurata sulla riflessione patristica, e in particolare agostiniana, sul tema dell’amicizia, si rimanda di nuovo a Luigi Pizzolato, cit., pp. 216-338.

46. È di rara forza espressiva questa metafora euclidea delle rette parallele destinate a persistere all’infinito in un’armonia a cui è indispensabile la separazione, che consente la contemplazione a distanza. Il punto d’incontro, dunque, si sposta all’infinito: una visione nella quale la consapevolezza tragica dei limiti dell’umano fa tutt’uno con l’apertura al soprannaturale come possibilità escatologica che solo la fede lascia intravedere.