L’amicizia: una delle forme dell’amore implicito di Dio

Il testo che segue fa parte di uno scritto più ampio, Formes de l’amour implicite de Dieu, che Simone Weil volle consegnare al padre Perrin nel maggio 1942, al momento di partire per gli Stati Uniti con i genitori1. In esso è svolta un’approfondita riflessione sulle esperienze di amore che precedono e preparano l’incontro mistico, «quando Dio viene personalmente a prendere la mano della sua futura sposa»2. Queste esperienze sono l’amore per il prossimo, la bellezza del mondo e le cerimonie religiose, cui va aggiunta l’amicizia che, rispetto alla più universale carità, ha caratteri specifici che vanno analizzati. Questa premessa è necessaria per affrontare correttamente la lettura del testo: l’argomentazione che esso sviluppa presuppone, come quadro di riferimento, la possibilità di un contatto col soprannaturale capace di modificare, in modo radicale, l’insieme dei rapporti umani. Se questo non è tenuto presente, se si pensa che l’autrice abbia inteso svolgere una riflessione di natura solo psicologica sull’affettività, le conclusioni alle quali il testo giunge possono lasciare perplesso il lettore di oggi, avvezzo a un’analisi intimistica dei sentimenti e a una lettura delle difficoltà relazionali in chiave esclusivamente psicologica. Le parole con le quali si confronterà in questo scritto, di primo acchito, potrebbero apparirgli inattuali proprio perché in esse prende corpo un linguaggio molto diverso da quello che oggi domina il senso comune.

Il testo si apre con la definizione di che cos’è, nella sua verità profonda, un’amicizia pura: «Un presentimento e un riflesso dell’amore di Dio». In quanto tale, essa partecipa della medesima essenza della bellezza: entrambe rivelano l’universale nel particolare, offrendo all’uomo un’esperienza in cui possono essere rinvenute le tracce di una realtà spirituale altrimenti invisibile. La concezione dell’amicizia che il testo propone è certamente frutto di una lunga gestazione di pensiero, oltre che dei rapporti che Simone Weil ha potuto concretamente vivere, soprattutto negli anni di Marsiglia, e di cui si è parlato con ampiezza nella prima parte del libro.

Non dimentichiamo poi che quello fu il tempo in cui maturò in lei la riflessione sulla confluenza degli elementi più vitali del pensiero greco nel Cristianesimo delle origini. Proprio in quei mesi dedicò una lettura molto attenta ai Dialoghi di Platone e ai tragici, Eschilo e Sofocle in particolare, ma anche a Eraclito, ai pitagorici e agli stoici. Come per la bellezza, così per l’amicizia e, in senso più generale, per l’amore, la fonte principale di ispirazione del suo pensiero va ricercata entro questo orizzonte culturale: in particolare nei due dialoghi platonici, Simposio e Fedro, la cui lettura la impegna con fervore proprio nel periodo in cui va scrivendo questo testo3. Le annotazioni e i commenti con cui accompagna la traduzione di entrambi i dialoghi mettono in risalto non solo la lucidità intellettuale, ma l’intensità del suo coinvolgimento emotivo nel lavoro ermeneutico: coglie a pieno la dimensione mistica dell’eros platonico, l’insaziabile sete di conoscenza di un amore che, sollecitato dalla bellezza dei corpi, si protende verso un Sommo Bene avvertito come inattingibile e, tuttavia, fonte di un desiderio che mai può esaurirsi.

In quegli stessi mesi, proprio a lei la vita aveva fatto dono di un’esperienza completamente diversa: l’amore soprannaturale, non cercato, le era stato offerto in modo inatteso e gratuito. Aveva potuto vivere, nell’incontro mistico col Cristo, la trasformazione indotta da uno stato di grazia al quale l’anima non giunge per effetto di uno sforzo di volontà, ma attraverso un abbandono, uno svuotamento di sé, che si dà solo se prima vi è stato un faticoso cammino di rinuncia al proprio io e a molti falsi beni terreni4. Se la lettura attenta di Platone l’aveva posta di fronte alla via dell’eros, l’esperienza mistica, intimamente e segretamente vissuta, l’aveva illuminata su un altro versante, quello dell’agape cristiana.

Non le sfuggiva però che anche quest’esperienza, se dall’eccezionalità della dimensione mistica, come una sorta di modello ideale, è trasposta sul piano ben più fragile del rapporto tra gli uomini, proprio a causa della finitezza di tutto ciò che è umano e delle ambiguità psicologiche che rendono spuria ogni relazione, rischia fatalmente di cadere nella trappola dell’attaccamento, della dipendenza, del desiderio di dominare o di essere dominati e perfino di una rassegnata inerzia di fronte all’azione disgregatrice che il tempo opera su qualsiasi legame affettivo. La comprensione non solo intellettuale, ma sperimentale, di tutto questo le permette di cogliere in modo assolutamente nitido quella tensione tragica che, in ogni rapporto amoroso, è sottesa alle due esigenze opposte che vanno faticosamente bilanciate: il bene proprio e il bene dell’altro, la libertà interiore, con la sua imprescindibile esigenza di solitudine, e l’apertura all’amato come totale ascolto e donazione di sé. Si tratta di una tensione tragica proprio perché fondata sulla necessità che i due estremi sussistano e coesistano in un’armonia dinamica che si dà solo laddove esiste un punto centrale di mediazione. Questa funzione mediatrice, però, non può essere esercitata da una virtù naturale, una risorsa interiore dell’uomo alla quale attingere nei momenti di crisi, né tanto meno dall’ambito sociale, malato degli stessi mali dell’individuo e, molto spesso, afflitto da un’insufficienza ancor più grave. La mediazione può essere compiuta solo dal soprannaturale, che agisce come un incessante flusso di luce che, con una sorta di moto circolare, transita fra Dio e le creature. Vi è un’immagine molto viva dei Quaderni che cerca di dar corpo a quest’indicibile esperienza:

L’amore puro delle creature; non amore in Dio, ma amore che è passato attraverso Dio come attraverso il fuoco. Amore che si distacca completamente dalle creature per ascendere a Dio, e ne ridiscende associato all’amore creatore di Dio. Così si uniscono i due contrari che lacerano l’amore umano: amare l’essere umano così com’è e volerlo ricreare5.

Questa figura dell’armonia dei contrari veniva a Simone Weil da un’altra fonte greca alla quale, nelle sue letture, attingeva avidamente in quegli stessi anni: il pensiero pitagorico. Nei frammenti ai quali aveva potuto accostarsi, aveva trovato l’espressione pienamente compiuta di questa idea, tipicamente greca, di un’armonia che non azzera le differenze, ma crea tra gli uomini un equilibrio dinamico che è l’immagine pura della giustizia, intesa come uguaglianza capace di rispettare le diversità6. Figura per nulla statica, per nulla pacificata, ma anzi esposta continuamente al rischio di soccombere al peso della forza, che è l’esatto opposto dell’amore, ma ha radici profonde nell’uomo e perciò, ad ogni istante, può sbilanciare i pesi e mettere a repentaglio ogni equilibrio parziale che sia stato raggiunto. Non è casuale il fatto che, in questo stesso arco di tempo, negli scritti di Simone Weil torni più volte a presentarsi l’immagine della bilancia come simbolo dell’inadeguatezza di una giustizia in cui il bilanciamento delle forze, se affidato soltanto alla saggezza umana, è costantemente in pericolo7.

Vi è poi un altro aspetto sul quale occorre soffermarsi. In realtà, al di fuori della corrente di pensiero mistico – in cui, come si vede, Simone Weil si muove sia sul versante dell’eros platonico che su quello dell’agape cristiana – la concezione di amicizia che dal mondo greco è giunta fino a noi, attraverso tutto l’arco del pensiero occidentale, al punto da permeare di sé il comune sentire di chi torna a interrogarsi su questi temi, è piuttosto quella ampiamente tematizzata nell’Etica Nicomachea di Aristotele8. Questo tipo di amicizia, che i greci chiamavano philia, ha il suo fondamento in una condizione di uguaglianza già acquisita, in quanto tale giusta, tra gli individui che intrecciano la relazione; un’uguaglianza che, nelle forme più nobili e durature, culmina in quella affinità spirituale che è il terreno fecondo per la crescita virtuosa di un legame. «Perfetta è l’amicizia tra i buoni e coloro che sono simili per virtù», è quanto sostiene, senza possibilità di equivoci, Aristotele che, tuttavia, è pienamente consapevole dell’eccezionalità di un incontro di questo tipo, se avverte l’esigenza di aggiungere: «È ragionevole che tali amicizie siano rare: uomini di tal sorta non sono frequenti […]»9.

Si tratta quindi di una relazione eccezionale per la qualità del rapporto, che tuttavia si esplica in un orizzonte radicalmente umanistico, in cui l’esercizio della virtù è sostenuto da attitudini etiche che, per svilupparsi, hanno bisogno di un’adeguata paideia, di un processo di formazione elitario, di alto profilo culturale e spirituale. Inoltre, nello sviluppo del rapporto, l’esistenza di un equilibrio è un presupposto già dato poiché, fin dal principio, vi è uguaglianza tra i soggetti, che manifestano entrambi il possesso della virtù, già prima che la relazione amorosa o amichevole li coinvolga. Ma un equilibrio del genere, proprio in quanto si basa su un fondamento esclusivamente umano, finisce col trovarsi costantemente esposto alla precarietà. Qualsiasi mutamento di sorte, del tutto imprevisto, può mettere a repentaglio l’armonia: «Quando si determina una gran differenza di virtù o di vizio, di ricchezza o di qualche altra cosa, […] in tal caso gli amici non rimangono più tali, e nemmeno lo pretendono»10. Si può individuare, per Aristotele, un limite oltre il quale la distanza, divenuta eccessiva tra le persone che si amano, rende assolutamente impossibile il persistere della relazione. Significativo che, per esemplificare questo limite estremo, egli dica: «[…] Ma se la distanza è grandissima, come quella che ci separa da un dio, l’amicizia non permane più»11. Immagine di straordinaria evidenza e coerenza, dal momento che neppure per ipotesi è pensabile che un Dio, perfettamente autosufficiente come quello di Aristotele, possa entrare in amicizia con l’uomo.

Ebbene, è proprio questo il punto di massima divaricazione tra la concezione aristotelica dell’amicizia e quella, che potremmo definire pitagorico-cristiana, di Simone Weil, per la quale non un Dio di assoluta e imperturbabile trascendenza, ma un Dio «che si è fatto carne» ha potuto stringere con la creatura un patto completamente nuovo di amicizia, che passa attraverso la mediazione di amore di Cristo12. Riflettendo su questo tema, in un altro scritto degli stessi anni, azzarda un’ardita analogia tra l’immagine pitagorica dell’armonia dei contrari e il mistero della relazione intra-divina così come si cristallizza nel dogma trinitario:

Se si interpreta la definizione di amicizia come un’eguaglianza perfetta di armonia secondo la definizione di armonia come il pensiero comune dei pensanti separati, è la Trinità stessa che è l’amicizia per eccellenza […] se si pensa che la sola mediazione tra Dio e l’uomo è un essere che è contemporaneamente Dio e uomo, si passa direttamente da questa formula pitagorica a quelle meravigliose formulazioni del Vangelo di san Giovanni13.

Quel che rende il legame di amicizia tra gli uomini libero da qualsiasi condizionamento sociale o psicologico, sollevandolo da una dimensione esclusivamente orizzontale, consiste nel pensarlo e viverlo come icona della relazione di amore fra il Padre e il Figlio e di quella che, tramite la mediazione del Cristo, Dio Padre propone come dono gratuito a qualsiasi essere umano. L’assolutezza con cui Egli si svuota del suo potere e, mediante la passione del Figlio, accetta di farsi materia inerte, vittima di un sacrificio folle, diventa per ogni creatura il modello della relazione con i propri simili. Concepita in questi termini, essa va necessariamente ancorata alla scelta di decrearsi, ossia di staccarsi dal proprio io, dal suo naturale egoismo, e da tutti quei beni ingannevoli che, solo quando la rinuncia è ormai compiuta, senza più mistificazioni, rivelano la loro autentica natura di idoli.

Ma la decreazione agisce anche come un esercizio preparatorio all’unica forma possibile di amore unitivo, quella mistica. Non stupisce perciò che, in un’amicizia fondata sulla capacità di decrearsi, ossia di porre un limite al proprio io a favore di un tu, si incarni, sul piano degli affetti, una di quelle forme implicite dell’amore di Dio, di cui Simone Weil non esita a dire che, nell’esperienza quotidiana, lavorano in noi con la stessa misteriosa energia dei sacramenti:

L’insieme di questi amori costituisce l’amore di Dio nella forma che si conviene al periodo preparatorio, ovvero la forma nascosta. Essi non si dissolvono quando nell’anima si desta l’amore di Dio propriamente detto; diventano anzi infinitamente più forti, e nel loro insieme confluiscono in un unico amore.

Ma la forma nascosta dell’amore viene necessariamente per prima e spesso per molto tempo regna da sola nell’anima; in molti forse fino alla morte. Questo amore nascosto può raggiungere livelli molto elevati di purezza e di forza.

Ciascuna delle forme in cui esso si esprime, nel momento in cui entra in contatto con l’anima, ha l’efficacia di un sacramento14.

Che un amore umano possa fiorire con la forza rigeneratrice di un sacramento anche nelle esistenze di chi, «fino alla morte», vive in un orizzonte di affetti che esclude l’adesione a qualsiasi credo religioso, è davvero un’ipotesi vertiginosa, che mostra quanto la spiritualità di Simone Weil fosse profondamente abitata dalla fede e tuttavia laica fino in fondo, se giunge a concepire una virtù sacramentale in grado di operare nell’uomo senza mediazione sacerdotale, al di fuori di un determinato ambito ecclesiale e perfino in assenza di un’esplicita adesione religiosa. Certamente, oggi, un livello così elevato «di purezza e di forza» attribuito all’amicizia, o ad altri nostri poveri amori terreni, può apparire una proposta troppo ardua, audace fino all’azzardo, talmente al di fuori della nostra portata che, di primo acchito, saremmo tentati di escluderla o rifiutarla. Eppure, vale forse la pena di prenderla in considerazione e, se non altro, di vederla come uno di quei modelli ideali di perfezione in assenza dei quali diventa insopportabile lo smarrimento di fronte alla follia di un mondo che non sa più amare. L’insicurezza, la precarietà di molte scelte affettive, che maturano in ambiti nei quali è difficile porsi domande sul significato delle proprie relazioni, dovrebbe spingerci non a cercare nuove risposte accomodanti, ma a tentare di riformulare a un livello più alto quella «domanda di bene» che, per Simone Weil, è la voce segreta e impersonale che in ciascuno di noi grida e implora, spesso invano, di essere ascoltata.

Questa nota introduttiva si apre con un accenno all’inattualità del testo che proponiamo. Ora però, da ciò che è stato detto, emerge l’inconsistenza di un simile sospetto. In realtà, quel che ci sostiene è proprio la speranza di un’utilità effettiva che il lettore di oggi potrà trarre da questo scritto, accogliendolo come un invito a riflettere sui propri amori, guardandoli da una prospettiva che si discosta e diverge nettamente dal modo abituale di leggere la condizione umana. Certo, quello che Simone Weil ci lascia intravedere può apparirci un cammino troppo scosceso, la sua asprezza può spaventarci, forse perfino infastidirci, come tutte le esperienze che reclamano un distacco radicale dal proprio modo di essere, una metanoia dolorosa, che non ha nessun approdo garantito. Non è né consueto né facile guardare a noi stessi come ai prigionieri della caverna platonica costretti, nostro malgrado, con uno sforzo immane, a risalire verso la luce per poi di nuovo, un istante dopo, ridiscendere nelle tenebre. Del resto, sulla difficoltà non solo di accogliere quest’immagine dell’amore ma di lasciarsela penetrare nella mente e nel cuore, Simone Weil stessa non aveva dubbi, dal momento che la sua conoscenza dei limiti e della fragilità dell’essere umano non lasciava spazio alle illusioni. Ne abbiamo una conferma da un altro testo, contemporaneo, nel quale con grande forza di immagini, riconosce l’estrema rarità di un amore che ha l’audacia di sfiorare i confini di ciò che è folle e impensabile:

L’amore è sovrannaturale quando è incondizionato. Un amore incondizionato è una follia. L’amore di una madre ne è l’immagine migliore quaggiù. Ma non è che un’immagine. Perfino l’amore di una madre si esaurisce se non sussiste nessuna delle condizioni del suo rinnovarsi. Solo l’amore per Dio e l’amore anonimo per il prossimo sono incondizionati.

Vi si può aggiungere l’amore (l’amicizia) tra due amici di Dio, giunti sulla via della santità oltre quel punto in cui la santità è qualcosa di definitivo. Infatti, la sola condizione di questa amicizia è la perseveranza nella santità dell’uno e dell’altra; ma solo quando il loro persistere nella santità è una cosa definitiva e il suo perdurare non è sottoposto ad alcuna condizione, si può pensare a questa amicizia come incondizionata. Ma un simile livello di santità è molto raro, e di conseguenza anche una simile amicizia. È quello dell’amicizia che Cristo ha aggiunto come un terzo comandamento, ovvero come una terza forma di amore perfettamente santo, ai due amori di Dio e del prossimo.

Tutti gli altri amori sono condizionati, malgrado i giuramenti, e si esauriscono gradualmente quando le condizioni mancano.

Per quanto riguarda l’amore coniugale, se i due sposi sono dei santi, c’è l’amicizia tra santi; se uno solo lo è, l’amore anonimo del prossimo, applicato da lui verso l’altro, costituisce l’unico valore stabile della loro relazione. Se non lo è nessuno dei due, mancano le condizioni, l’amore coniugale si esaurisce e scompare, malgrado il sacramento. L’odio non è mai incondizionato15.

Dire che «l’odio non è mai incondizionato» significa riconoscere il limite, la finitezza del male, anche nelle sue forme più brutali, anche quando va ad annidarsi nelle profondità del cuore umano, indossando le vesti dell’odio. Il suo potere è enorme e tuttavia non è assoluto, perché «il male in noi è finito, bisogna solo tagliare il canale per il quale giunge a noi, e a poco a poco morrà»16.

In questa prospettiva, diventare «santi» può voler dire imparare quotidianamente, con piccoli gesti, a «tagliare il canale». La santità, vista così, non è una condizione eccezionale, ma un permanente orientamento al bene, uno sguardo che non si stanca mai di restare fisso in direzione della luce. Solo il mettere radici in questa forma di santità può favorire la graduale distruzione del male. Questo e non altro è il contenuto essenziale della speranza:

La speranza è la conoscenza che il male che si porta in sé è finito, e che il minimo orientamento dell’anima verso il bene, fosse pure di un istante, ne abolisce un poco; che nell’ambito spirituale ogni bene, infallibilmente, produce il bene17.

Questo «orientamento al bene» diventa una virtù dell’anima solo attraverso un esercizio metodico e perseverante. Il cammino, tuttavia, è lungo e faticoso, gli ostacoli non si contano, le cadute sono eventi ordinari. Ma se la direzione dei passi è giusta, ogni metro guadagnato è una conquista e l’incertezza della meta si rivela un’inquietudine con cui il tempo ci abitua a convivere. Non si tratta, del resto, di un percorso al buio: la luce c’è, anche se proviene da una fonte lontana ed è frammista a molte ombre, a volte angoscianti. Chi cammina ha il compito di liberare la strada dalle erbacce, dissodando il terreno perché sia pronto a ricevere qualche granello di senape, se mai il vento lo porterà.

Ci piace chiudere questa nota con un altro pensiero, scritto anch’esso negli anni di Marsiglia, che ricorre a un’immagine di straordinaria forza poetica per evocare l’incontro misterioso, dall’esito assolutamente incerto, tra la potenza salvifica della grazia e la libera accettazione da parte dell’uomo:

Noi siamo come naufraghi in mare aggrappati a tavole e sballottati in modo del tutto passivo dal moto dei flutti. Dall’alto del cielo Dio lancia a ciascuno una corda. Chi afferra la corda e non la lascia malgrado il dolore e la paura, resta come gli altri esposto agli urti delle onde; solo che questi urti si combinano con la tensione della corda per formare un insieme meccanico diverso18.