Dalla nave che si appresta a fare scalo a Casablanca, prima di proseguire per l’America, Simone Weil scrive agli amici appena lasciati a Marsiglia parole colme di sentimenti contrastanti, intrise di nostalgia, di struggente lacerazione. Sigilla, con lettere destinate a restare memorabili, il rapporto privilegiato stretto con il padre Joseph-Marie Perrin, con Gustave Thibon, Joë Bousquet e Antonio Atarés, amici capaci di vera attenzione ai quali ha fatto le confidenze più segrete e affidato i pensieri venuti, per grazia, a posarsi in lei.

Di aver trovato nella città mediterranea un rifugio, una patria dello spirito in tempo di guerra, era già consapevole dopo meno di un anno di permanenza, quando annotava sul libro d’oro della piccola Françoise, figlia dei coniugi Ballard, queste parole: «Perché i suoi genitori conservino una traccia del passaggio di qualcuno che per merito loro si sentiva bene a Marsiglia, quando tanta gente vi si sentiva esiliata»1.

Senza sottrarsi alla tragedia della guerra, a Marsiglia e nel sud della Francia ha vissuto un periodo di tregua, di serenità pensosa, di straordinaria creatività, un arresto del tempo che le ha permesso di fruire dei giorni con maggior pienezza2, prima di avviarsi a realizzare la vocazione che le imponeva di assumere su di sé una parte di sventura conforme al dramma del momento. Lì ha ritrovato vecchi amici e ha stretto nuove amicizie, decisive per la sua evoluzione spirituale; lì ha realizzato, almeno in parte, con una radicalità purificata dalle asprezze giovanili, un ideale di amicizia su cui aveva preso a riflettere già nel primo Quaderno, redatto a Parigi nel 1934:

È una colpa desiderare di essere capiti prima di aver chiarito se stessi ai propri occhi – significa cercare dei piaceri nell’amicizia, e non meritati – è qualcosa di più corruttore anche dell’amore. Venderesti la tua anima per l’amicizia3

Impara a respingere l’amicizia, o piuttosto il sogno dell’amicizia. Desiderare l’amicizia è una colpa grave. L’amicizia deve essere una gioia gratuita, come quelle che dona l’arte, o la vita (come le gioie estetiche). Occorre rifiutarla per essere degni di riceverla: essa appartiene all’ordine della grazia […]. È fra le cose che sono «date in sovrappiù». Ogni sogno di amicizia merita di essere infranto. [Non è per caso che tu non sei mai stata amata…]. Desiderare di sfuggire alla solitudine è una debolezza. L’amicizia non deve guarire le pene della solitudine, ma duplicarne le gioie. L’amicizia non si cerca, non si sogna, non si desidera; si esercita (è una virtù).

O piuttosto (poiché non bisogna sfrondare in se stessi con troppo rigore) tutto ciò che, nell’amicizia, non si trasforma in scambi effettivi deve trasformarsi in pensieri riflessi. È del tutto inutile rinunciare alla virtù ispiratrice dell’amicizia. Ciò che deve essere severamente interdetto è fantasticare sui piaceri del sentimento. È una corruzione. […] L’amicizia non ammette di essere disgiunta dalla realtà, non più che il bello. Essa costituisce un miracolo, come il bello. E il miracolo consiste semplicemente nel fatto che essa esiste4.

Ci troviamo, come si vede, di fronte a un nucleo di idee di straordinaria lucidità. Vi è l’intuizione che l’amicizia sia pura gratuità, dono, evento che irrompe nell’esistenza con la stessa misteriosa forza rigeneratrice della bellezza. Essa non va vista come antidoto alla solitudine, che deve invece essere vissuta come sorgente di ricchezza interiore, come apertura alla contemplazione. Ma l’amicizia andrebbe soprattutto affrancata dal domino dell’immaginazione, della fantasticheria, del desiderio: disposizioni d’animo che spingono all’illusione di dominare la realtà soggiogandola ai propri bisogni, in cui si esprime un sogno di potenza che impedisce di praticare la virtù purificatrice del distacco.

Vi sono già, in nuce, alcuni dei grandi temi che giungeranno a maturazione proprio negli anni di Marsiglia, in quella sosta forzata nella città degli esuli dove era naturale vivere il tempo come attesa, come sospensione, ma anche come contemplazione compassionevole delle sofferenze dei propri simili, ancor più visibili in quel «porto di mare» in cui transitavano e si intrecciavano i destini di tanti sradicati, strappati alle proprie sicurezze dalla violenza della guerra, delle discriminazioni, degli odi. Forse non vi era posto migliore per riflettere sull’amicizia, non astrattamente ma vivendola, spendendovi le proprie energie e scontandone tutte le contraddizioni, in una vibrante atmosfera di incontri, collaborazioni, condivisione di difficoltà, di problemi, di idee e di progetti.

I «Cahiers du Sud».

Avamposto mediterraneo in tempo di guerra

Partita precipitosamente in direzione di Nevers, il 13 giugno 1940, Simone Weil giunge a Marsiglia il 15 settembre dopo aver sostato, per qualche tempo, a Vichy e a Tolosa. Fino all’ultimo, ha resistito a tutte le pressioni, incapace di abbandonare Parigi, la città appassionatamente amata, nel momento in cui andava misurandosi con l’estremo oltraggio dell’occupazione nemica.

Marsiglia le appare «piuttosto lugubre a causa dei numerosi postulanti o detentori di visti che vi si trovano bloccati come mosche nel fondo di una bottiglia»5. Nella città cosmopolita che in apparenza mostra il volto vivace e chiassoso di sempre, «la tragedia dell’esilio si percepisce ovunque, annamiti, neri, arabi, stranieri, tutti finiti qui, aspettano…»6. In breve tempo, infatti, politici e funzionari indesiderati, artisti, scrittori, intellettuali in disgrazia, rifugiati tedeschi, ebrei in fuga hanno raggiunto Marsiglia, l’hanno presa d’assalto cercando lì qualche appoggio in vista di un’eventuale via di fuga, o soggiornandovi in clandestinità, in attesa di tempi migliori.

Verso la fine di settembre, qualche settimana dopo il suo arrivo nella città, sale le scale di un vecchio immobile, al numero 10 del Cours du Vieux-Port, dove, in quattro stanze malandate dell’ultimo piano, adattate a centro di accoglienza, ha sede la redazione dei «Cahiers du Sud». Qui, dal 1940 al 1942, oltre ai collaboratori fissi della rivista, alcuni dei quali presto diventeranno suoi amici, passeranno numerosi scrittori, intellettuali e uomini di cultura: Benjamin Crémieux, Walter Benjamin, André Breton, André Masson, René e Vera Daumal, Marcel Abraham, Lanza del Vasto7

Rivista di poesia, di critica e di filosofia, i «Cahiers du Sud» si nutrono dell’humus meridionale senza mai chiudersi in un gretto regionalismo, ma riuscendo a interpretare e a tradurre, con sensibilità e rigore, le intuizioni originarie della civiltà mediterranea e della grande stagione occitana. Nella rivista, Jean Ballard8 è riuscito a far coabitare due diverse sensibilità culturali: l’ispirazione propriamente mediterranea del gruppo marsigliese (Gabriel Bertin, Léon-Gabriel Gros, Henri Fluchère e Jean Tortel) e la spiritualità di ascendenza catara, propria a quello di Carcassonne (Joë Bousquet, Claude Estève, René Nelli, Ferdinand Alquié, Henri Féraud, Pierre e Maria Sire, Franz Molino). A Carcassone, nella camera dalle imposte sempre chiuse di Joë Bousquet, meta di pellegrinaggi dell’amicizia, si recherà anche Simone Weil, e lì avrà una straordinaria occasione di incontro, in un luogo dove «tutto il rumore degli stupidi, tutta l’orgogliosa bassezza del tempo avevano il loro contrappeso di silenzio e di pensiero, ciò che rincuorava appieno lo spirito di coloro per i quali il numero non conta se il valore scompare»9.

I «Cahiers du Sud» potevano nascere solo a Marsiglia, «città abituata a veder transitare sia le correnti provenienti dalla capitale che i messaggi di un Mediterraneo sentito come patria spirituale»10. Il Mediterraneo è mare che unisce: le civiltà fiorite sulle sue rive condividono una stessa sensibilità e un’analoga visione del mondo, un rapporto particolare con lo spazio, con abitudini di vita, forme di religiosità e valori di tolleranza mai del tutto scomparsi.

Col tempo, la rivista era riuscita ad accumulare un ricco patrimonio di idee inspirate a un umanesimo etico in cui erano confluite la filosofia greca, le religioni misteriche e la tradizione dei monoteismi. Prendendo le distanze dal «genio latino», esaltato dal regime di Vichy, i «Cahiers du Sud» prediligevano la «fonte greca» che, se per un verso aveva eletto l’uomo a misura e coscienza di tutte le cose, per l’altro, come testimoniano le sue tragedie e i suoi poemi, ne aveva coraggiosamente smascherato l’hybris, la dismisura, la cecità di fronte ai propri limiti. Alcuni numeri speciali della rivista, dedicati proprio a questi temi11, sono certamente arrivati tra le mani di Simone Weil, attratta dalla saggezza antica e pronta, in questa fase del suo itinerario intellettuale, ad aderirvi anche spiritualmente. Come nei primi anni di militanza politica «La Révolution prolétarienne» le aveva fornito le basi documentarie per una critica tempestiva dello stalinismo, allo stesso modo ora trova nei «Cahiers du Sud» lo stimolo per approfondire la riflessione sulle radici greche della cultura occidentale e offrire agli amici alcuni scritti di prim’ordine, capaci di interpretare, superandolo, l’orizzonte delle loro stesse ricerche12.

Émile Novis, «la freccia che sale più alta delle nubi…»

Progettato fin dal 1935 e affidato alle cure di Joë Bousquet e René Nelli, il numero monografico intitolato Le génie d’oc et l’homme méditerranéen, dedicato alla civiltà occitana, dopo una lunga e difficile gestazione, vedrà la luce solo nel 1943 con due contributi essenziali di Simone Weil13. Il valore di questi saggi, firmati con l’anagramma Émile Novis per sfuggire alla censura, è nella loro capacità di rispondere a una domanda di cambiamento radicale, fornendo solidi argomenti a chi aveva cominciato a riflettere sulla disfatta della Francia e dell’Europa in una prospettiva etica, spirituale, e non soltanto militare. La decisione di Ballard di coinvolgere Simone Weil nella redazione di un numero speciale sulla civiltà occitana è contestuale alla pubblicazione, sulla stessa rivista, del saggio L’Iliade, ou le poème de la force14, scritto a Parigi prima della disfatta e destinato, in un primo momento, a «La Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan.

Redatti in momenti diversi, il saggio sull’Iliade e i due contributi sulla civiltà occitana sono il frutto di una stessa preoccupazione: riflettere a fondo sulla natura della violenza che si abbatte in uguale misura sulle vittime e sui carnefici, trascinandoli in un destino comune di sventura. Con lo stesso sguardo di amorosa pietà e di fraterna amicizia nel dolore, è possibile posarsi sulle vite sradicate di tanti eroi omerici, greci e troiani, come sulle vittime della furia sterminatrice che aveva portato alla distruzione della civiltà occitana all’inizio del Tredicesimo secolo, da parte dei francesi venuti dal Nord: una civiltà fondata su equilibri culturali e spirituali davvero prodigiosi.

In questa proposta di collaborazione, Simone Weil intravede l’opportunità di salvare dall’oblio ciò che ancora resta di una civiltà miracolosa, nella quale i rapporti umani traevano ispirazione dal senso greco della misura e dall’amore cristiano. Nella biblioteca municipale di Marsiglia legge, in parallelo, le due parti di cui si compone il poema epico noto col nome di Chanson de la croisade contre les Albigeois (la Canso de la crosada), il cui testo, nella prospettiva da lei privilegiata, le consentirà di ricostruire lo splendore, l’agonia e la morte della civiltà occitana15.

Le considerazioni sviluppate nel saggio L’Iliade, ou le poème de la force16 rendono plausibile e convincente il parallelo tra Tolosa, assediata dai crociati, e Troia minacciata di distruzione dagli achei. Il poeta anonimo della seconda parte della Canso ritrova, in modo spontaneo, gli accenti struggenti di Omero e la purezza del suo canto17. Il suo poema è vero e, come ogni vero capolavoro, offre un frammento di quella «grande rivelazione» che è dato rintracciare nelle esperienze religiose autentiche.

La distruzione della civiltà occitana, di fatto, era stata terribile e totale: le armi avevano davvero avuto il sopravvento sullo spirito, tanto che «la concezione della libertà spirituale che allora morì non risuscitò più»18. La lingua, equivalente della patria per le genti d’Oc, aveva ricevuto un colpo mortale, trascinando nella rovina anche quei valori di tolleranza, di libertà, di obbedienza, di amore, che la società occitana aveva saputo tradurre in un equilibro prodigioso tra l’idea di valore (Prix) e quella di uguaglianza (Parage)19.

Simone Weil si china su questa civiltà, perché in essa ritrova gli stessi princìpi che ammira ed esalta nei greci: «Un mondo in cui gli uomini si sentivano tra loro legati da rapporti di mutuo rispetto, di caritatevole servizio, di franchezza, di salvaguardia dei diritti di ciascuno»20, un mondo che, ispirandosi alla morale antica, si era sforzato di arginare l’orgoglio e la dismisura.

I crociati, col pretesto di contrastare l’eresia catara, avevano colpito a morte una civiltà nascente in cui circolavano valori profondamente condivisi. Sterminati gli uomini, i princìpi che essi avevano incarnato si erano ridotti a pura materia di erudizione. Cionondimeno, la vicenda di Tolosa, per Simone Weil, non è un mero episodio del passato: è un avvenimento che ci riguarda ancora, perché la distruzione di quella particolare concezione del mondo aveva fortemente compromesso i destini d’Europa. Dopo di allora, infatti, «l’Europa non ha mai più ritrovato allo stesso livello la libertà spirituale perduta a causa di questa guerra»21; inevitabilmente, la forza era diventata il marchio del potere, strumento unico di soluzione dei conflitti tra gli uomini22.

Tuttavia, se è vero che quel che è andato distrutto non può essere riportato artificiosamente in vita, è pur sempre possibile volgere lo sguardo al passato, con amore, per trarne ispirazione. Le poche e splendide vestigia della grandezza raggiunta dalla civiltà occitana nel Dodicesimo secolo – le sculture della cattedrale di Saint-Sernin a Tolosa, gli scritti catari che custodiscono frammenti della saggezza platonica e pitagorica, la poesia dei trovatori con la loro dottrina di amore, la stessa Chanson23 – se contemplate con desiderio e con attenzione, possono suscitare un’adesione sincera ai valori in essa contenuti, favorendo, in determinate circostanze, la nascita di una civiltà affine almeno per ispirazione.

Tra il primo e il secondo saggio trascorre quasi un anno. A fronte dei molteplici contributi pervenuti, Jean Ballard ha la sensazione che al Quaderno manchi un centro, un’anima, un testo capace di dare unità e significato a tutta l’impresa. Non vorrebbe che restasse una semplice opera di erudizione. Nelle sue intenzioni lo sforzo di riscoprire la ricchezza culturale della stagione occitana dovrebbe rispondere alla sfida hitleriana di un’Europa razzista, fondata sull’esaltazione e l’uso sistematico della forza, contrapponendole un modello di civiltà nutrita di valori completamente diversi: il rispetto, l’amicizia, l’amore. Sarà Joë Bousquet a esprimere, con forza, quest’esigenza: il Quaderno non deve essere opera di «professori», non deve limitarsi a offrire la ricostruzione letteraria di un’epoca passata, deve essere opera di poesia, e perciò fare tutt’uno con la vita, avendo come interlocutori gli uomini viventi del proprio tempo. I tempi bui che la Francia sta vivendo, a suo giudizio, esigono un’opera di illuminazione, in quanto è indispensabile «dare una risposta alla verità seppellita nei fatti in vista di un avvenire che occorre preparare»24, favorendo l’emergere di testi capaci di mobilitare energie spirituali ancora in gestazione.

La fitta corrispondenza tra Ballard e Bousquet da un lato, e Ballard e Nelli dall’altro, come pure il testo a più voci che conclude il Quaderno25, documentano le difficoltà incontrate nel definire che cosa si intenda per «essenza della civiltà occitana». Il primo scritto di Simone Weil, agile nella forma e brillante nelle idee, come riconosce Ballard in una lettera a Bousquet del 18 gennaio 1941, risponde già in parte a quest’esigenza, ma ancora non è sufficiente26. Il poeta di Carcassonne, libero da altri impegni, si mette all’opera e redige Conscience et tradition d’Oc. Fragments d’une cosmogonie, un testo che gli costa gran fatica ed è portato a compimento attraverso una sorta di lotta con l’angelo27.

Tuttavia, anche questi tentativi di Bousquet lasciano insoddisfatto Ballard, al punto che tra loro si infittisce una corrispondenza in cui le esigenze dei lettori, addotte dall’editore, si trovano a cozzare con la consapevolezza, espressa dal poeta, di una verità che può prender forma solo se accetta di accompagnarsi a un’inevitabile oscurità28. È questo il contesto in cui Simone Weil, sollecitata da Ballard, si accinge a redigere il suo secondo contributo, En quoi consiste l’inspiration occitanienne29, finalizzato a illustrare la specificità dell’ispirazione occitana. Portato a compimento in un solo mese, compatto, felice nella forma, denso di contenuti, suscita l’entusiasmo di Ballard, che lo invia subito a Bousquet, ricevendone senza indugio questo giudizio ammirato:

[…] [L’] articolo [di Novis] è proprio quello che mancava al fascicolo: la freccia che sale più alta delle nuvole. Se ognuno saprà attingervi come ho fatto io tutti gli spunti di meditazione, avremo compiuto un’opera davvero solida. L’idea dell’armonia dei contrari mi sembra straordinariamente feconda. Penso che non metteremo mai abbastanza in evidenza il suo testo. Non ve n’è alcuno che possa prendere il suo posto30.

Si tratta di un parere che depone a favore dell’onestà di Bousquet. Ritiratosi dalla direzione del Quaderno dopo lo scambio epistolare con Ballard, immune da qualsiasi risentimento, addita nel contributo di una giovane sconosciuta (che però comincia a desiderare di conoscere) lo scritto che conferisce una coerenza, un’anima, un’ispirazione unitaria a tutta l’impresa, augurandosi che anche altri, come lui, ne traggano uno stimolo per pensieri orientati alla vita. Bisogna tuttavia riconoscere che probabilmente Simone Weil aveva attinto da Bousquet, chiarificandole, alcune intuizioni: prima tra tutte, forse, l’idea del primo e vero Rinascimento conosciuto dalla Francia tra l’Undicesimo e il Dodicesimo secolo. Nei testi del poeta aveva colto, intuitivamente, alcuni grumi di pensiero non ancora esplicitati, riuscendo a tradurli in maniera originale e conferendo loro forza e coerenza. È la prova che entrambi hanno lo sguardo orientato nella stessa direzione, pur provenendo da orizzonti tanto diversi. Per questo, tra loro nasce subito una profonda sintonia, si instaura uno scambio felice, quasi perfetto, al punto che si fatica – ma è poi così importante quando si ha di mira la verità? – a discernere, tra l’uno e l’altra, chi dà e chi riceve. Il poeta di Carcassonne, infatti, scrive:

La cultura d’Oc ha la sua filosofia, la sua poesia, il suo modo specifico di sentire, le sue leggi di amore, la sua religione così differente dalla nostra da apparirci quasi inconcepibile; conosce un’unica legge, la legge della salvezza, e ogni suo sforzo mira a servirla. Essa non coltiva l’uomo, bensì la vita, con lo scopo di subordinarla all’esigenza segreta dell’anima, pensa che la vita sia un tramite per lo spirito. La sua morale avvolge la sua estetica. Arte e religione nella cultura d’Oc sono una sola cosa. La stessa letteratura popolare è totalmente impregnata della sconvolgente dottrina in base alla quale il conoscere diventa la genesi del dovere31.

Nel suo secondo contributo, Simone Weil parte dal presente, dall’Europa sprofondata nella catastrofe e minacciata di annientamento dal nazismo. Come sempre accade nei grandi testi, in cui la nitidezza della forma si pone tutta a servizio del contenuto, esso è semplice, limpido, ma leggibile a più livelli. Fornisce una descrizione degli elementi essenziali della civiltà d’Oc, colta nel momento del suo massimo splendore, prima che la forza esercitata dai francesi, venuti dal Nord, ne decretasse la distruzione. Tuttavia, nella vicenda occitana e nel suo tragico epilogo, non è difficile scorgere, per analogia, l’equivalente di ciò che minaccia l’Europa sottoposta alla brutalità nazista32.

Chinandosi con amore sul passato di quella «patria morta», non si pretende certo di farla rivivere ma si può, contemplandola a lungo, attingervi un’ispirazione spirituale per il presente. E questo è possibile perché il Mediterraneo, in cui è nata la patria occitana, ha conosciuto, in passato, la saggezza fiorita in Egitto, in Persia, in India e in Cina, ha nutrito nel proprio seno la «vocazione spirituale» della Grecia antica, nella quale – come testimoniano la scienza, l’arte, l’architettura, la poesia, la religione – i rapporti tra gli uomini, almeno idealmente, si fondavano sulla nozione di armonia, di proporzione, di equilibrio.

Anche la civiltà occitana aveva tentato di realizzare l’equilibrio dei contrari – sacro e profano, libertà e obbedienza, onore e dedizione – attraverso il rifiuto della forza e facendo spazio alla legge dell’amore: un amore puro, soprannaturale, di cui in ambito profano l’amor cortese offriva un’immagine più o meno fedele. Questo amore, proprio come nella concezione platonica, era un «ponte» tra la finitezza dell’uomo e la trascendenza di Dio. La purezza e la verità, che nella società occitana ispiravano i rapporti tra pari, ma anche quelli tra i sudditi e il signore, e tra l’uomo e la donna, erano altresì fonte di ispirazione per l’arte, come testimonia l’equilibrio ineguagliabile tra i diversi elementi architettonici di una cattedrale romanica. La poesia dei trovatori, proprio come quella dei greci, era riuscita a esprimere «il dolore con una tale purezza che al fondo dell’amarezza senza mescolanza risplendeva la serenità perfetta»33. L’equilibrio dei contrari aveva ispirato sia i legami personali che la vita collettiva della città: la libertà si era nobilitata nell’obbedienza a un uomo, il signore, rispettato non in quanto detentore della forza, ma in quanto garante della sovrana impersonalità della legge.

È evidente che Simone Weil non chiude affatto gli occhi sulla presenza del male anche nella società occitana del Dodicesimo secolo, e sui conflitti che l’agitavano, ma individua nei valori su cui essa si fondava una fonte di ispirazione universalmente condivisa, capace di contrapporsi al predominio schiacciante della forza. Per questo fa notare:

L’essenza dell’ispirazione occitana è identica a quella dell’ispirazione greca. Essa è costituita dalla conoscenza della forza. Questa conoscenza appartiene solo al coraggio soprannaturale. Il coraggio soprannaturale contiene tutto ciò che noi chiamiamo coraggio e, in più, qualcosa di infinitamente più prezioso. Ma i vili scambiano il coraggio soprannaturale per debolezza di animo. Conoscere la forza significa riconoscerla come pressoché assolutamente sovrana in questo mondo, e rifiutarla con disgusto e disprezzo. Questo disprezzo è l’altra faccia della compassione per tutto ciò che è esposto ai colpi della forza34.

E nei Quaderni, in cui annota le sue intuizioni e le sue riflessioni in vista di un superamento della civiltà occidentale, fondata sulla forza, e perciò inevitabilmente votata alla dominazione e alla guerra, scrive:

Oc, Grecia, civiltà senza adorazione della forza. Perché per esse la temporalità è un ponte. E inoltre non cercano l’intensità negli stati di animo, ma amano la purezza dei sentimenti. È puro quel che è sottratto alla forza.

L’amore era per loro puro desiderio, senza spirito di conquista. Tale è l’amore che l’uomo ha per Dio35.

Alcuni valori della civiltà occitana erano timidamente ricomparsi, molto tempo dopo la crociata, nel sedicente Rinascimento, ma spogliati di quell’elemento soprannaturale che ne era stato, al tempo stesso, fonte e coronamento. L’Umanesimo aveva, infatti, riconosciuto che «la verità, la bellezza, la libertà, l’uguaglianza hanno un valore infinito, ma [aveva avuto il torto] di credere che l’uomo possa procurarsele senza la grazia»36.

Come rendere nuovamente attiva, nella moderna civiltà occidentale, l’ispirazione che era stata «la missione unica dell’uomo d’Oc»37? Come rendere ancora possibile l’incontro tra il «miracolo greco» e il messaggio evangelico? Con una sicurezza che può nascere solo dalla fiducia nella forza dello spirito, Simone Weil risponde:

Nella misura in cui contempleremo la bellezza di quell’epoca con attenzione e amore, nella stessa misura la sua ispirazione discenderà in noi e a poco a poco renderà impossibile almeno una parte delle bassezze di cui è satura l’aria che respiriamo38.

I due saggi, in definitiva, contengono un unico e identico monito: «Rivolgiamo il nostro sguardo verso il passato occitano, in primo luogo perché solo uno sguardo che sa vedere con attenzione e amore può salvare, e poi perché l’ispirazione occitana è greca nella sua essenza e quella occorre salvare se oggi vogliamo salvarci»39.

Assumere su di sé la sventura del proprio tempo

C’è un lato, rimasto a lungo in ombra, dell’impegno di Simone Weil durante il soggiorno a Marsiglia, sul quale vale la pena di soffermarsi per misurare a pieno lo stretto legame che sussiste in lei tra pensiero e azione. Esso riguarda il desiderio – assecondato da Jean Tortel40, uno dei redattori dei «Cahiers du Sud» che per primo ne intuì la ricchezza interiore e il tormento, descrivendola, al tempo stesso, «appartata e presente» – di mettersi in contatto con i primi e ancora incerti tentativi di opposizione a Hitler e al regime di Vichy.

La scoperta recente, negli Archivi giudiziari di Aix-en-Provence, di un dossier intitolato a Simone Weil, contenente, in particolare, una Domanda per essere ammessa in Inghilterra, i verbali degli interrogatori e alcune lettere a lei indirizzate, testimonia tutta la serietà e la determinazione del suo precoce coinvolgimento nella Resistenza41.

La volontà di non arrendersi dopo la sconfitta, di continuare a lottare contro il nazismo, è immediata in lei e costituisce la traduzione pratica delle idee espresse nel lungo saggio sulle origini dell’hitlerismo, già redatto a Parigi al momento dello scoppio della guerra42. Un impegno personale nel movimento di Resistenza corrisponde a quella che sentiva essere la sua vocazione, che le imponeva di assumere su di sé la sventura della Francia. Le prime righe della Domanda esprimono, in modo inequivocabile, la volontà di prender parte a un’azione efficace per la causa, che non esclude, ma accoglie preventivamente, tutta la parte di sofferenza che potrà comportare:

Desidero ardentemente andare in Inghilterra perché auspico appassionatamente la vittoria inglese per il bene della Francia, dell’Europa e dell’intera umanità; ma anche perché voglio prendere parte ai pericoli e alle sofferenze della gente che lotta per una causa che considero anche mia. Se, sventuratamente, gli inglesi dovessero essere vinti, non mi auguro di sopravvivere a una simile disfatta; se conseguono la vittoria, desidero, prima di vedere questa vittoria, di aver sopportato per essa una quantità di sofferenze e di pericoli uguale a quella di coloro che ne subiscono in misura maggiore. Questo è il mio più ardente desiderio43.

A quest’esordio fa seguito l’illustrazione di un progetto relativo ad alcuni procedimenti, offensivi e difensivi, capaci di tener conto del valore determinante del «fattore morale» nella conduzione della guerra. A tale scopo propone di paracadutare «un gruppo di donne, volontarie naturalmente, con il compito di trovarsi, in ogni momento della lotta, nei posti più pericolosi»44. Il progetto, accompagnato da referenze relative ad alcune personalità note al governo inglese, contiene un curriculum vitae che ha lo scopo di avvalorare la sua candidatura a parteciparvi, qualora venga accolto. Il testo in questione costituisce la versione abbreviata del Progetto d’una formazione di infermiere di prima linea che, più volte rimaneggiato, e sottoposto al vaglio di Joë Bousquet, come si vedrà più avanti, per il tramite di Maurice Schumann, finirà senza alcun esito nelle mani dei responsabili della propaganda di France Combattante.

Questo progetto è rivelatore di un atteggiamento costante in Simone Weil: una volta convinta della necessità di combattere Hitler anche per mezzo delle armi, diventava obbligatorio per lei prendere parte, non solo moralmente, ma personalmente e attivamente, alla lotta. I continui rimaneggiamenti cui sottopone il testo nascono sia dal progredire della riflessione sulla natura del nazismo, sia dalla necessità di adattarlo agli sviluppi delle operazioni belliche, evidenziandone sempre più la portata simbolica45. Al nazismo che, con le SS, può disporre di uomini in grado di colpire con coraggio brutale qualsiasi bersaglio prescelto – ma anche di influire simbolicamente sull’immaginazione del nemico e sull’opinione pubblica – contrappone l’esempio di un coraggio, altrettanto intrepido, ma di natura radicalmente diversa. Le infermiere di prima linea, presenti nel punto di massimo pericolo, non per uccidere ma per soccorrere i feriti e i morenti, avrebbero dovuto offrire un esempio di abnegazione e di amore, capace di affiancare all’uso inevitabile della forza le armi della compassione, fino al sacrificio di sé46.

Le considerazioni contenute in questi documenti sono sorrette da una riflessione rigorosa sulla guerra, sull’uso della violenza, sull’accettazione, se necessario, della propria morte, di cui recano testimonianza le note disseminate nei primi Quaderni, redatti quotidianamente a Marsiglia, in concomitanza con la lettura dei racconti della Passione di Cristo e della Bhagavadgītā:

Per quanto sia giusta la causa del vincitore, per quanto giusta sia la causa del vinto, il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile. Sperare di sfuggirvi è proibito. Per questo il Cristo non è disceso dalla croce e neppure si è ricordato, nel momento più doloroso, che sarebbe risuscitato. Per questo l’altro (Arjuna, l’eroe della Bhagavadgītā) non ha deposto le armi e fermato la battaglia. […]

Prendere le armi; pensare a tutto ciò che si perderà se si è vinti, e che, se si vince, si farà perdere ad altri che si ama come se stessi. Assumere su di sé questa perdita, lasciare loro ogni licenza, non può essere permesso. Cristo l’ha fatto, ma nella posizione di un semplice privato condannato dalle legittime autorità. Ma se si sente il freddo del ferro, ci si limiterà, anche a prezzo di grandi rischi, lo si deporrà non appena si sia allontanata un po’ la minaccia47.

Con questi sentimenti intende partecipare alla tragedia contemporanea, accettando di infliggere la propria parte di male, disposta a esporsi alla morte per abbreviare o diminuire il peso della sventura collettiva. Non vi è in lei – e le riflessioni contenute nei Quaderni lo confermano – alcuna volontà suicida o morbosamente sacrificale. Vi è, questo sì, la precisa volontà di accettare che la condivisione della sventura comporti un rischio di morte. In questo senso, e solo in questo, la morte le appare l’unico modo per realizzare la sua personale vocazione. Perciò, la follia che qualcuno ha preteso di vedere nel Progetto non è stata giudicata tale da chi veramente la conosceva, Joë Bousquet e Maurice Schumann, che ebbero modo di comprendere più a fondo la sua maturazione interiore.

La temporanea impossibilità di realizzare il coinvolgimento totale che auspica la convince a dare, finché è ancora a Marsiglia, un contributo non meno importante, anche per lo stretto legame con la sua riflessione, a un tipo di Resistenza che aveva scelto di adottare «le armi dello spirito»48. Indirizzata da padre Perrin, già da tempo attivo in quell’ambito, il 21 dicembre 1941 Simone Weil incontra, nel parlatorio dei Domenicani, in via Edmond Rostand, Marie-Louise David49, responsabile regionale della rete di distribuzione dei «Cahiers du Témoignage chrétien», impegnandosi a partecipare all’impresa fino al momento della partenza per l’America, che sarebbe avvenuta nel maggio dell’anno successivo.

L’opposizione all’invasore nazista e al regime collaborazionista di Vichy si era venuta organizzando in Francia per gradi. Prima di tradursi, da parte di una minoranza, in un’azione diretta attraverso sabotaggi e attentati, la Resistenza aveva assunto la forma della controinformazione. La stampa clandestina, la «guerra delle parole», era diventata fondamentale nell’informare e nel formare le coscienze. A questa consapevolezza, dopo lo stordimento della disfatta, contribuivano gruppi di cattolici, guidati da alcuni coraggiosi e intelligenti religiosi, gesuiti e domenicani, preoccupati dell’acquiescenza, e perfino della connivenza con il regime, di parte della gerarchia50. Tra le iniziative promosse in ambito cristiano, la diffusione capillare dei «Cahiers du Témoignage chrétien» è stata di certo la più importante, dal punto di vista culturale e spirituale, e la più efficace sotto il profilo organizzativo51.

Simone Weil, come Malou Blum testimonia con passione, ha aderito incondizionatamente all’impresa, accettandone la disciplina, lo spirito e i contenuti. I tre quaderni che contribuisce a diffondere, in ragione di trecento esemplari per numero, sono molto interessanti nella misura in cui affrontano, in modo argomentato e inequivocabile, la questione del razzismo e dell’antisemitismo52. Questo suo impegno è rilevante in sé, come contributo alla Resistenza, ma anche perché le ragioni che lo sostengono aiutano, almeno in parte, a capire come il suo sostanziale antigiudaismo abbia potuto, paradossalmente, coesistere con una lotta vigorosa contro ogni forma di discriminazione. Infatti, non vi è dubbio che fosse al corrente della situazione degli ebrei e della gravità che andava assumendo la persecuzione nei loro confronti. Con sobrio e pudico disincanto, ai primi di settembre del 1940, ad un’alunna che le offriva rifugio nella sua casa di campagna, aveva risposto in termini molto espliciti:

Ciò che mi scrivi, che in caso di bisogno ci sarebbe un posto alle Trouillières per la mia famiglia e per me, mi suscita nei tuoi confronti e nei confronti dei tuoi genitori – che hai sicuramente consultato – un sentimento di viva e profonda gratitudine. Nelle circostanze attuali, nulla è più commovente di una proposta del genere; e il fatto stesso di ricevere tale proposta, che la si accetti o meno, comporta lo stesso obbligo. Comunque, anche in caso di bisogno, non credo di dover accettare53.

A sostegno del suo rifiuto, aveva addotto due ragioni: la volontà di patire, senza privilegio di sorta, i disagi della povertà che le circostanze imponevano agli altri e la consapevolezza del pericolo che un simile gesto avrebbe comportato per chiunque volesse proteggere gli ebrei, nel momento in cui un’ondata di razzismo stava per abbattersi sulla Francia. In rapporto alla seconda ragione, precisava:

C’è una cosa alla quale, suppongo, non hai pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria che induce a imitare i vincitori, la pressione dei vincitori, l’esasperazione della miseria, e diversi altri fattori apporteranno quasi sicuramente in Francia, entro breve tempo – durante l’inverno, suppongo – una forma più o meno accentuata di razzismo. In questo caso, io mi troverò nel novero dei paria. A conti fatti, me ne dispiace; soffrire per qualcosa che non si è personalmente scelto e per cui non si nutre alcun attaccamento mi sembra stupido. Ma alla fine, sta di fatto che io sarò nel novero. Non ho alcuna possibilità di sottrarmi. È in mio potere, invece, non far subire il contagio di questa sventura a quanti non hanno avuto in sorte dalla nascita una simile maledizione, anche e soprattutto se sono abbastanza generosi per non temere questo contagio54.

Le osservazioni contenute in questa lettera confermano ciò che Malou Blum ha testimoniato con sobrietà, rievocando le conversazioni avute quotidianamente con Simone Weil nei cinque mesi di attività clandestina vissuti insieme. Al corrente del reale pericolo in cui si trovavano gli ebrei, non è stata certo la sua condizione di ebrea, potenzialmente minacciata, a motivarne la partecipazione all’iniziativa dei «Cahiers du Témoignage chrétien». D’altra parte, però, l’impegno prodigato non avrebbe potuto reggere senza che vi fosse, da parte sua, un’accettazione incondizionata dei contenuti e delle argomentazioni sviluppate nei quaderni da lei distribuiti, in cui il razzismo dei nazisti era definito «una mostruosa divinizzazione del sangue e della razza». Cionondimeno, le appariva intollerabile che qualcuno, soprattutto una giovane come Malou David, potesse rischiare ogni giorno la sua vita per lei. Per questa ragione, cercava di farle capire che acconsentiva a lottare non a causa, ma malgrado l’antisemitismo. Prendere parte a quella forma di resistenza voleva dire opporsi a un sistema la cui perversità andava oltre il caso specifico della persecuzione degli ebrei: un sistema che comportava il totale annientamento di quel che rimaneva ancora della civiltà dell’Occidente e tendeva a instaurare il governo assoluto della forza e della violenza55.

Solo gli amici sanno ascoltare.

Il dialogo esigente con Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon

Le attività a favore di prigionieri e internati, la collaborazione alle riviste, gli impegni concreti per sollecitare la coscienza dei connazionali durante l’occupazione descrivono la trama esteriore, visibile, della vita di Simone Weil a Marsiglia56. La parte più segreta, nascosta tra le pieghe dell’anima, solo gli amici possono, almeno parzialmente, dischiuderla. A tempo debito, lo hanno fatto con pudore, onestà e rispetto della verità. Le loro testimonianze, suffragate da una ricca corrispondenza, ci permettono di misurare a pieno l’importanza che Simone Weil riconosceva all’amicizia, al punto da sentirla come «la sorgente più possente e più pura di ispirazione».

Le lettere non possono certo restituire l’immediatezza e l’intensità delle conversazioni tra lei e gli amici, in particolare il domenicano padre Joseph-Marie Perrin e il filosofo contadino Gustave Thibon, ma ne custodiscono indubbiamente la parte più pura, più cristallina. Solo la lontananza che scava la distanza indispensabile a una comunicazione schietta, libera, impersonale, rende possibile non soltanto lo scambio di confidenze, ma la condivisione di pensieri nati dal «soggiorno nel fuoco dell’amore di Dio». Dal distacco nasce il confronto sincero nella ricerca del bene che porta, se necessario, a esprimere i giudizi severi e i consigli esigenti che solo i veri amici, obbedendo a un’ispirazione interiore, riescono a scambiarsi.

L’incontro con il giovane domenicano Joseph-Marie Perrin57 si è rivelato subito carico di avvenire e le ha fornito l’occasione, imprevedibile, per la sua evoluzione spirituale. Il primo dialogo tra loro si è svolto a Marsiglia, nel disadorno parlatorio del convento dei Domenicani, in rue Edmond Rostand, il 7 giugno 194158. Il profondo legame sorto tra loro va senz’altro annoverato in quella singolare sequela di amicizie che hanno arricchito la storia spirituale dell’umanità. Nel 1941, a trentasei anni, padre Perrin era già una figura autorevole, impegnato in ambito sociale e nel ministero giovanile, animatore di circoli ecumenici e di gruppi di amicizia giudeo-cristiana, in prima linea nel sostegno a iniziative volte a scuotere i cristiani dal torpore e a restituire loro dignità e coraggio di fronte al nazismo e alla tragedia della guerra. Quando incontra Simone Weil, ha già dato vita, stimolato da Juliette Molland e coadiuvato da Charlotte Rivet e Solange Baumier, a un’istituzione laica, posta sotto l’egida di Santa Caterina da Siena, che prefigura il modello degli istituti secolari e delle fraternità. Le sue molteplici iniziative apostoliche nascono da una sorta di sovrabbondanza, perché il giovane domenicano è un vero uomo spirituale, una guida, un maestro, non soltanto un uomo di Chiesa. Dentro la Chiesa si muove a suo agio, con sovrana libertà. Questo, invece, a Simone Weil non sarà mai possibile.

La cecità, che ha saputo trasformare in una vocazione, in un suo modo specifico di stare nel mondo e nella Chiesa, ha favorito in lui una diuturna familiarità con i testi sacri, in gran parte appresi a memoria e perciò immediatamente presenti allo spirito nelle conversazioni e negli scritti spirituali. I suoi libri, quelli già pubblicati quando incontra Simone Weil e i successivi, non si presentano come l’opera di un erudito, ma di un uomo spirituale, di un mistico che annuncia l’amore di Dio. Lei ha intuito immediatamente la profondità della sua vita spirituale e, per questo, il loro rapporto è cresciuto in fedeltà e amicizia. La stessa cosa non è avvenuta con altri uomini di Chiesa, monaci e sacerdoti, con i quali è entrata in contatto. Tra loro l’amicizia è fiorita entro uno spazio condiviso di amore per Dio, un amore da cui ha tratto nutrimento il dialogo che li ha profondamente impegnati.

Non è un caso che prima di affidare alle mani del giovane domenicano gli scritti più belli su L’Amore di Dio e la sventura e sulle Forme dell’amore implicito di Dio, sintesi del suo pensiero religioso, lei abbia accolto, nelle sue, le pagine ancora dattiloscritte del Mistero della carità, il libro nel quale egli andava trasferendo il succo dei suoi studi e delle sue meditazioni59. Entrambi – con parole purificate, cristalline, intrise di sventura, la giovane filosofa; con parole calde, sovrabbondanti, intrise di gioia, il giovane religioso – parlano di quell’amore di Dio che, con modalità diverse ma in maniera inequivocabile, li aveva ugualmente catturati.

Se il rapporto tra loro, non privo di sofferenza per entrambi, non è mai venuto meno, è stato perché non ha assunto la forma del legame tra maestro e discepolo, ma quella dell’amicizia autentica. Anche in seguito ai contrasti con la famiglia Weil, emersi al momento della pubblicazione delle lettere, padre Perrin non ha mai guardato al rapporto con lei in maniera diversa. In una lettera scritta qualche anno prima di morire, torna col ricordo all’incontro che ha segnato la sua vita, parlandone sempre in termini di amicizia, un’amicizia che la morte prematura dell’amica ha reso solo più salda e intima:

La specificità dell’amicizia è la perfetta trasparenza, la comunione totale che esclude ogni segreto, ogni atteggiamento chiuso. Per tutti, si è un personaggio, un’immagine, un’espressione, per l’amico si è se stessi; per questo niente è così importante, così illuminante per conoscere qualcuno quanto le lettere all’amico. È con questo intendimento che bisogna avvicinarsi alle lettere che Simone Weil mi ha scritto, specialmente le ultime tre, la quarta, la quinta e la sesta, raccolte in Attente de Dieu. Il fatto che siano indirizzate a un sacerdote non diminuisce la loro importanza poiché si tratta di vera amicizia. Le si scoprirà dopo la mia morte.

Oggi, mi accontento di ricordare che esse sono le lettere a un amico, a qualcuno a cui si augura tutto il bene possibile e con il quale si desidera avere la più perfetta trasparenza. Quel che dice del contatto reale con il Cristo, della seduzione per l’Eucaristia, della sua esperienza della Misericordia divina, sono da considerare confidenze di amici, che esprimono realtà vissute60.

Con una sorta di ideale simmetria, queste affermazioni di padre Perrin trovano conferma nella Lettera d’addio, inviata poco prima di salpare per l’America, in cui Simone Weil, come in un testamento, si interroga sulla natura del loro rapporto e sulle divergenze che ancora lo attraversano, mantenendolo però intatto, anzi ancor più puro. Cosa ha rappresentato per lei il religioso con il quale ha trascorso tante ore nel parlatorio del convento, con cui ha lavorato, gomito a gomito, sui testi più belli del passato che parlano dell’amore di Dio? Egli non le ha di certo dato il Cristo, se è vero che, quando si sono conosciuti, il Cristo «l’aveva già presa»61, l’aveva già trascinata con forza nella «camera nuziale» fornendole la prova sperimentale dell’amore di Dio. Non ha favorito la sua conversione attraverso la direzione spirituale dell’anima, perché la parola conversione le era del tutto estranea, visto che l’amore di Dio, nella forma implicita, non era mai stato assente dalla sua vita, fin dall’adolescenza, come si legge in un frammento di lettera: «Sebbene mi sia accaduto tante volte di varcare una soglia non ricordo un solo istante in cui io abbia mutato direzione»62.

Ma una cosa, certamente, ha fatto per lei padre Perrin: l’ha costretta «a guardare in faccia – a lungo, da vicino, e con piena attenzione – la fede, i dogmi e i sacramenti come cose verso le quali aveva obblighi che occorreva discernere e adempiere»63. Egli non le ha amministrato il battesimo, non le ha aperto la porta della Chiesa con l’accesso ai sacramenti, dal momento che la sua vocazione era di restare sulla soglia, ma attraverso l’amicizia ha indirizzato il suo sguardo verso Dio in modo permanente:

Lei ha conquistato la mia amicizia grazie alla sua carità, di cui non avevo mai visto l’equivalente, e mi ha fornito così la fonte di ispirazione più potente e più pura che si possa trovare tra le cose umane. Fra queste nessuna, infatti, più dell’amicizia per gli amici di Dio permette di tenere lo sguardo fisso su Dio con intensità sempre maggiore64.

Nello scambio spirituale con lui, la sua visione religiosa si è arricchita, arrivando a quella completezza che, a causa dell’insistenza sull’esperienza personale della sventura, avrebbe potuto mancarle: infatti il contatto con Dio, come ha testimoniato in ogni suo atto la vita del domenicano, può realizzarsi anche attraverso la dimensione della gioia pura. Diverse possono essere le strade che conducono all’esperienza del divino e quando Simone Weil, contestualmente alle ultime lettere, redige L’amore di Dio e la sventura, ha ormai compreso che «gioia e dolore sono doni ugualmente preziosi, che bisogna assaporare a fondo, ciascuno nella sua purezza, senza cercare di volerli mescolare»65.

Riconosciuto questo debito nei confronti del religioso, nell’ultima lettera, spedita il 26 maggio 1942 da Casablanca, il tono si fa, se possibile, ancor più intransigente. Sicura ormai che non avranno più occasione di rivedersi, ritiene necessario porre nella luce della verità la loro amicizia, fugando ogni residua ambiguità. Resteranno certamente uniti, ma nella diversità delle rispettive vocazioni: lui dentro la Chiesa visibile, alla quale la pesantezza sociale impedisce di assolvere pienamente la funzione ecumenica di ricettacolo di tutte le ricchezze spirituali presenti nel mondo; lei trattenuta all’esterno, perché convinta che tali ricchezze siano una parte irrinunciabile di quella Chiesa invisibile i cui confini coincidono con quelli del mondo.

Di certo, il contenzioso sul battesimo e su alcune questioni inerenti al dogma cattolico non ha impedito a padre Perrin, ispirato dall’amore, di individuare più di ogni altro il «deposito d’oro puro» che c’era in lei e di renderne testimonianza, già nel primo scritto che le dedica nel 1950, quando, dopo aver finalmente recuperato le lettere sequestrate dalla Gestapo, nell’Introduction di Attente de Dieu scrive:

Simone Weil «faceva la verità» mediante lo sforzo eroico per amare il prossimo «come se stessa», il prossimo, chiunque fosse. Se è consentito parlare dei segreti di Dio, è forse per questo che, senza conoscere Dio, senza pregarlo consapevolmente, senza fede esplicita nel Cristo, ebbe accesso di colpo alle meraviglie della vita mistica, che Dio comunica ai suoi amici di elezione. Mi pare che il suo amore appassionato, assoluto per la verità – che era allora a sua insaputa una forma dell’amore di Dio – e la sua compassione interamente fraterna nei confronti del prossimo – inconsapevolmente teologale fino alla grande illuminazione – la hanno innalzata al livello dove la carità si fa «sapore» e luminosa scoperta di Dio66.

L’amicizia con padre Perrin, inoltre, facilita l’incontro di Simone Weil con Gustave Thibon, altro interlocutore privilegiato conosciuto durante il soggiorno marsigliese. Ospite della sua famiglia, in una vecchia casetta abbandonata, nei pressi di Saint-Marcel-d’Ardèche, ha potuto vivere per qualche tempo un’esperienza di solitudine e di meditazione, scrivendo numerose pagine dei Quaderni, scoprendo la forza della preghiera e leggendo San Giovanni della Croce.

Se padre Perrin, al momento del loro incontro, è attivamente impegnato a favore degli ebrei e nella diffusione clandestina dei «Cahiers du Témoignage chrétien», Gustave Thibon67 non solo non è sconosciuto al regime di Vichy, ma di tanto in tanto è sollecitato a fornire il suo apporto alla formazione dei giovani. Eppure, un così diverso orientamento politico, apertamente riconosciuto, non ha ostacolato minimamente il dispiegarsi del dialogo e dell’amicizia tra il filosofo, cattolico e tradizionalista, e la giovane insegnante, sospesa dall’insegnamento dal regime di Vichy.

Si è voluto talvolta rintracciare, nel rapporto con Gustave Thibon, un influsso sull’evoluzione intellettuale di Simone Weil: sembra più conforme al vero riconoscere che il rapporto tra loro, più che a livello intellettuale, ha dato i suoi frutti nell’amicizia spirituale che ne è scaturita, un’amicizia basata su una profonda affinità etica, sostenuta dall’onestà reciproca e da uno spirito evangelico di correzione fraterna. In un suo libro autobiografico, Gustave Thibon si lascerà andare a una confidenza sull’amica da tempo ormai scomparsa:

All’inizio non ho provato nessun tipo di amicizia, ho avvertito piuttosto, non direi una repulsione – la parola sarebbe eccessiva – un’assenza preoccupante di simpatia. L’amicizia è venuta dalla rivelazione della sua grandezza […]. Sono stato in certo modo vinto, mio malgrado, dalla purezza della sua anima, dalla qualità del suo spirito68.

Questo giudizio, espresso a distanza di anni, sulla scia di un ricordo trasformatosi in sostanza di vita, affiora già in una lettera del gennaio 1942, quando, dopo qualche mese di frequentazione, la loro amicizia aveva avuto modo di consolidarsi:

Credo di non essere presuntuoso se dico che c’è, in lei e in me, al di là del piano puramente contingente e relativo in cui spesso siamo molto distanti l’uno dall’altro, una tensione di fedeltà all’eterno che rende la nostra amicizia profondamente fraterna69.

Molto apprezzato negli ambienti cattolici per la sua origine contadina, Gustave Thibon aveva scelto l’aforisma come forma di scrittura. Le raccolte che lo avevano reso popolare, vivaci e fortemente impregnate del sapore della terra, rischiavano tuttavia di essere un ostacolo al raggiungimento di una scrittura essenziale, nuda, esclusivamente orientata alla verità.

In una lettera dell’agosto 1941, indirizzata ai genitori da Saint-Marcel-d’Ardéche, durante il mese in cui è ospite dei coniugi Thibon, Simone Weil non manca di rilevare, anche con una certa durezza, il pericolo che insidia colui che è destinato a divenirle amico:

[In] Thibon, la deformazione dell’autodidatta, che in un primo momento non avevo notato, mi si è manifestata in seguito; è stato un vero contadino fino a ventidue anni, ha studiato e lavorato contemporaneamente fino a venticinque anni, poi Maritain ne ha fatto un mezzo intellettuale, vale a dire che vive in parte della collaborazione a riviste, libri, conferenze, ecc. La cultura (in senso proprio) è passata in secondo piano. Questo naturalmente ha creato, come capita sempre in simili casi, una situazione falsa nei confronti dei due ambienti, dei contadini e degli intellettuali70.

Col coraggio straordinario di cui solo una vera amicizia è capace, Simone Weil lo mette in guardia in una delle prime lettere del loro ricco epistolario. Al pari dell’esperienza mistica, per lei la scrittura autentica comporta l’attraversamento della notte oscura, quindi una totale spoliazione cui solo i geni e i santi sanno acconsentire. Tenta di suggerire all’amico questa via, molto ardua, anche se subito dopo, quasi spaventata, si affretta a precisare che, probabilmente, la sua vocazione non esige tanto e gli addita nella gioia una strada, ugualmente valida, per accostarsi alla verità interiore:

Ho letto i suoi testi dattiloscritti – che giudico molto superiori a quelli pubblicati – con gran piacere e interesse; poi li ho riletti, più di una volta, per soppesarli. Contengono, a mio avviso, cose di prim’ordine (ciò che vuol dire molto per me); tuttavia non in gran quantità e in così gran quantità come le prefazioni dei suoi amici lascerebbero supporre. Lei sa, perché mi conosce abbastanza in proposito, che nessuna considerazione può impedirmi di essere, per quanto è in mio potere, interamente onesta nei miei giudizi. Questo, è ovvio, non significa solo che sono sincera, ma che l’amicizia, la gratitudine e gli altri sentimenti analoghi non possono diminuire, ma solo aumentare il mio scrupolo e la mia attenzione nel valutare con giustezza.

Volevo dirle, dopo aver letto i suoi libri (ma non ne ho avuto l’occasione) che sicuramente ha già attraversato la notte oscura, ma che, a mio avviso, le rimane ancora, probabilmente, molto cammino da fare prima di riuscire a dare la sua vera misura, perché è ancora lontano dall’aver raggiunto nell’espressione, e quindi nel pensiero, il grado di spoliazione, di nudità, di forza penetrante, indispensabile per il suo genere. Da questo punto di vista, le pagine dattiloscritte sono migliori e contengono persino alcune formule soddisfacenti (malgrado l’apparenza, credo che non ci possa essere elogio più grande). Tuttavia, più o meno, il mio parere rimane lo stesso71.

La ricerca di effetto che traspare dalla scrittura di Thibon è forse il segno che non ha ancora purificato il suo strumento espressivo, trasformandolo in puro tramite della verità depositata in lui. L’amica è convinta invece che la perfezione, che investe sia il pensiero che la forma, possa essere perseguita solo attraverso la sofferenza. Se, nella ricerca della verità, si soffre poco oppure molto, ma non abbastanza, si finisce per restare a un livello mediocre, anche se questo non impedisce certo di acquisire celebrità e gloria.

A mio avviso la vera maniera di scrivere è scrivere come se si stesse traducendo. Quando si traduce uno scritto in una lingua straniera, si cerca di non aggiungere nulla, al contrario, ci si fa uno scrupolo religioso di non aggiungere nulla. È in questo modo che ci si deve sforzare di tradurre un testo non-scritto72.

Quel che suggerisce all’amico è un comportamento volto a tradurre la sua vocazione di scrittore in una forma specifica di santità: l’ascesi nelle scelte di vita dovrebbe ispirare e reggere un’analoga ascesi nella scrittura, accettando in anticipo che essa possa recare gioia, come è possibile, o, come è più probabile, un dolore puro e fecondo. In questo secondo caso:

Se la sua vocazione la dovesse obbligare un giorno, nel pensiero e nell’arte di scrivere, a raggiungere la nudità, la spoliazione, la purezza, la vera grandezza, allora dovrà soffrire ancora molto e non sarà felice. Posso solo augurarle di portare a compimento la sua vocazione autentica, qualunque essa sia73.

Sono parole dure da accogliere e contengono un giudizio sulla creazione artistica che non fa appello ad alcuna teoria letteraria, ma addita una zona profonda dell’anima da cui la parola, filosofica o poetica, prima ancora di essere formulata, attinge la propria sostanza, la propria ragion d’essere. Per questo il giudizio sui suoi scritti, indubbiamente severo, capace di determinare, in contesti ordinari, una rottura o almeno un allentamento del rapporto, non provoca in Gustave Thibon alcuna reazione negativa. Al contrario, le considerazioni dell’amica, custodite e meditate a fondo, generano quella reciprocità che è il segno dell’amicizia vera. Infatti, dopo alcuni mesi, quando tra loro il dialogo si è dispiegato su numerosi altri argomenti – il Cristianesimo, il ruolo della Chiesa, la filosofia di Platone… – giunge il momento in cui è lui a doversi esprimere con sincerità sulla scrittura dell’amica, sul valore della sua poesia che, in quel momento, rappresenta per lei un vero cruccio74. Riesce a farlo con una capacità di intuizione straordinaria, sapendo leggere in quella poesia, che per molti versi ammira, la traduzione di uno stato interiore che non ha ancora raggiunto un punto ideale di equilibrio. Nei suoi versi, scrive all’amica: «Scorgo una mancanza di connessione, di scioltezza verbale, un che di rigido e di discontinuo. Lei possiede, indubbiamente, la profondità e la purezza, ma le manca ancora quella lievità nella profondità e nella purezza che accompagna sempre le opere veramente grandi»75. E subito dopo precisa:

Noto ancora nella sua espressione poetica, un’ombra di quella rigidità, di quel modo di essere impacciato di cui le avevo parlato a Saint-Julien, quel giorno in cui stava asciugando i piatti… Ciò dipende probabilmente da una mancanza di unità tra la terra e il cielo, di cui avevamo parlato. Solo la santità, credo, le apporterà la lievità suprema76 .

Ciò che resta di irrisolto, nella poesia di Simone Weil, si decanta, invece, nella prosa dei Quaderni «che si vanno riempiendo a un ritmo rapidissimo in questo periodo»77. In essi, come Thibon ha intuito dopo averne letto solo alcuni estratti, si dispiega la sua vera poesia, che è conoscenza soprannaturale. La scrittura dei Quaderni, infatti, diventa per lei uno strumento essenziale di ricerca della verità e di purificazione quotidiana78. Essi divengono, in senso etimologico, un esercizio ascetico, che impone un lavoro su di sé, un controllo dei propri atti e, al tempo stesso, uno sforzo di precisione, di attenzione, di ordine: «L’espressione corretta di un pensiero produce sempre un mutamento nell’anima; il pensiero è rafforzato oppure superato»79. Quel che più li caratterizza non è la novità dei temi, che riaffiorano con andamento circolare – la sventura attuale e quella consustanziale all’uomo, il soprannaturale e il modo in cui esso opera nel mondo, Dio e la bellezza dell’universo che lo manifesta, le vestigia di una rivelazione primordiale presenti nelle diverse tradizioni religiose e il loro rapporto con la rivelazione cristiana… – quanto piuttosto la tenacia con cui li riprende, per chiarificarli o rafforzarli, e le analogie con le quali instancabilmente li illustra, nello sforzo di diventare un puro strumento di mediazione di una verità che è al di là della parola.

Fra i temi di riflessione, negli ultimi mesi di permanenza a Marsiglia, spicca, più che mai, l’amicizia di cui ha potuto beneficiare in maniera insperata. È del tutto naturale quindi che, nelle ultime lettere inviate all’amico, mentre attende da un giorno all’altro di partire, senta il bisogno di manifestargli la gratitudine per l’amicizia di cui lui le ha fatto dono. Si è trattato di un evento molto significativo, e la prova è nella sofferenza che entrambi sentono di fronte alla necessità della separazione. Ma è proprio nella disponibilità ad accettare sia l’incontro che la separazione, con uguale obbedienza all’ordine del mondo, che un’amicizia si fortifica, diventa autentica, liberandosi dalle illusioni e dai sentimentalismi in cui si trovava avviluppata. Colui che ha consentito il loro incontro è lo stesso che ora lascia avvenire la separazione, perché «l’incontro e la separazione sono due forme dell’amicizia, contengono lo stesso bene, in un caso sotto forma di piacere, e nell’altro sotto forma di sofferenza»80.

Alla separazione inevitabile è dunque necessario accordare il proprio consenso, nella consapevolezza che «la distanza è interamente intessuta di amicizia, poiché coloro che non si amano non possono essere separati»81. Questa osservazione, con un possente colpo d’ala, la innalza a quelle altezze di pensiero che Gustave Thibon avrà modo di conoscere quando, di lì a poco, avrà tra le mani Le forme dell’amore implicito di Dio di cui l’Amicizia incarna la forma più elevata:

L’incontro e la separazione sono le figure umane dell’unione assoluta tra il Padre e il Figlio nella Trinità, e della lacerazione ineffabile tra il Padre e il Figlio nel momento della parola «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Perciò, quaggiù, a noi uomini si addice di più la separazione. Perché abbiamo la felicità di essere stati gettati per nascita ai piedi della Croce82.

Gli scritti – i grandi testi destinati a padre Perrin e i Quaderni – che redige tra la fine del 1941 e il maggio del 1942, mentre attende di partire con i genitori per gli Stati Uniti, sono impressionanti non solo per la mole, ma per la qualità dell’ispirazione che li pervade. Essi si impongono per la tranquilla sicurezza che emanano, per lo stile trasparente, cristallino, che sempre più li caratterizza. Appare plausibile ravvisare in ciò l’indizio di un cambiamento, di una trasformazione interiore che non può essere ricondotta solo agli sforzi indubbi dell’intelligenza o alla ricchezza delle letture compiute, ma rinvia a una forma di illuminazione, un’esperienza eccezionale, uno stato di «grazia».

Nella lettera inviata da Casablanca, in cui affida undici dei suoi quaderni a Thibon, riconosce che soltanto gli amici capaci di vera attenzione possono prendersi cura di questi scritti che, in modo inspiegabile, sono «discesi in lei»:

Non auguro niente di meglio alle idee che sono venute verso di me di un luogo in cui stabilirsi, e sarei molto felice che potessero trovare ospitalità sotto la sua penna mutando forma in modo da riflettere la sua immagine. Ciò attenuerebbe un poco in me il senso di responsabilità e il peso schiacciante dovuto al pensiero della mia inadeguatezza, e alle mie diverse tare, a servire la verità come mi si presenta, dal momento che essa acconsente, a quanto pare, a farsi intravedere da me per un eccesso inconcepibile di misericordia83.

Poter affidare all’amico i suoi scritti, insieme ad alcuni libri che non può portare con sé in America, l’aiuta a partire con animo sgombro. Le rimane solamente un cruccio: non potergli confidare tutto ciò che si porta ancora dentro. Ma perfino quest’impossibilità è di poco conto, visto che ciò che avverte in sé o è privo di valore, oppure «risiede fuori di lei in una forma perfetta, in un luogo puro dove non può subire ingiuria alcuna e da dove può sempre ridiscendere»84.

Da New York, dove vive uno dei periodi più inquieti della sua esistenza per la difficoltà a realizzare il Progetto, il 10 settembre 1942 invia un’ultima lettera a Gustave Thibon che è il suggello della loro amicizia:

Se le capita di pregare per me chieda che io possa compiere o il progetto per cui sono venuta o qualcosa di equivalente; e se non ne sono degna, che mi venga accordato di diventarlo. Solo allora il dolore della separazione sarà per me puro e libero da rimorsi. In questo momento il semplice ricordo delle strade di Marsiglia o della mia casetta vicino al Rodano mi lacera il cuore.

È possibile, come lei dice, che Dio si sia servito di me per attirarla un po’ più vicino. Egli si serve di qualsiasi cosa. Pratica il recupero degli scarti85.

Vivendo queste amicizie, e riflettendo sul loro significato, Simone Weil ha potuto intravedere, nell’amore per il prossimo e per gli amici, una delle forme dell’amore implicito di Dio, una sorta di sacramento preparatorio all’incontro con Lui, un amore che conserva intatto tutto il suo valore anche dopo che il contatto si è realizzato. Convinta che «i due amici accettano pienamente di essere due e non uno, [che essi] rispettano la distanza imposta dal fatto di essere due creature distinte»86, non si è ritratta di fronte al rischio di farli soffrire o di ferirli, additando a Thibon il pericolo insito nella sua vocazione di scrittore non pienamente disposto a passare attraverso la notte oscura della spoliazione, e ripetendo a padre Perrin il suo sofferto rifiuto del battesimo, per obbedire all’impulso interiore che le imponeva di persistere in attesa, sulla soglia della Chiesa.

Entrare nel paese puro: l’amicizia folgorante con Joë Bousquet

Un’amicizia non si misura sulla durata ma sull’intensità. L’amicizia tra Joë Bousquet87 e Émile Novis ha avuto appena il tempo di sbocciare: il loro dialogo, a Carcassonne, nella stanza dalle imposte sempre chiuse, non è andato oltre una tarda serata, sconfinata nella notte tra la domenica 29 e il lunedì 30 marzo 194288. Eppure lo scambio di lettere seguito all’incontro, per i temi affrontati, per la ricchezza di contenuti spirituali, si può accostare alla corrispondenza indirizzata, durante lo stesso periodo, a padre Perrin89.

Occasione dell’incontro è il desiderio di sottoporre al giudizio del ferito della Grande Guerra il Progetto d’una formazione di infermiere di prima linea. In realtà, il colloquio notturno le conferma quello che aveva già intuito dalla scarna lettura dei suoi scritti90: la certezza di aver incontrato un uomo eccezionale, che la sventura non era riuscita a piegare. Essere costretto a tornare col ricordo sull’evento che aveva cambiato tutta la sua vita – la pallottola che il 27 maggio 1918, colpendolo alla spina dorsale, lo aveva immobilizzato per sempre poteva diventare per lui l’occasione di assumere consapevolmente la sventura, trasformandola nello strumento per realizzare la propria specifica vocazione.

Durante l’incontro, vissuto da entrambi come «evento prezioso», Simone Weil scopre un uomo capace di autentica attenzione, per il quale «le cose e gli esseri esistono realmente». L’ammirazione nei suoi confronti è immediata, dal momento che considera l’attenzione «la forma più rara e più pura di generosità». Anche lei, del resto, ha sempre ricercato questa perfezione e, benché ne sia ancora lontana, non ha mai cessato di implorare questo dono che la sventura, quando è accettata, dispone ad accogliere pienamente. Pur tanto diversi tra loro, l’uno e l’altra sentono che la tensione che li abita, in quelle ore febbrili, costituisce il terreno sul quale può nascere un’amicizia pura.

Nella risposta alla prima lettera alla quale sono affidati questi pensieri, Joë Bousquet chiama la sua interlocutrice «mia cara amica», si dice «assai felice di conoscerla» e sicuro della «comune amicizia». Ciò che l’amica gli ha scritto è arrivato dritto al suo cuore e perciò, senza indugi, riconosce in lei la persona che «più di qualsiasi altro, sarebbe in grado di aiutarlo ad annientare tutto quel che resta in lui di non evoluto, di ereditato»91. Non esita a tracciare di se stesso un ritratto in cui il pericolo che ne insidia l’esistenza è portato alla luce senza remore: sente di vivere in sé un perenne dissidio, come se «un altro io lo inseguisse ovunque, sempre pronto a riafferrarlo, come se, per effetto del suo dispotismo, non avesse l’opportunità di crescere se non negli altri»92, ovvero al di fuori di sé e della propria coscienza. La divaricazione tra sogno e realtà lo sollecita, di continuo, a «non cercare altro che la felicità e l’oblio della morte»93, rendendolo incapace di intuire il bene e di avvertire il senso del male. L’altro che si porta dentro, in certi momenti, gli fa talmente paura che non esita a chiamarlo il suo morto, «un essere da cui solo la fine lo libererà»94.

Ciò a cui aspira, per rendersi finalmente padrone del suo destino, è nobile e contiene qualcosa di titanico, che descrive all’amica come un progetto romantico che dovrebbe valere per tutti gli uomini, ma vale soprattutto per chi ha deciso di vivere poeticamente:

Essere creati da Dio vuol forse dire incarnare l’essere del suo essere, noi siamo le immagini del suo potere e probabilmente il suo stesso pensiero, quando ne siamo consapevoli. Questo deve farci tremare, farci sentire la nostra indegnità, ma non farci dubitare della capacità di rivelazione che è in ciascuno di noi95.

Dopo questa sorta di professione di fede, dedica tutta la sua attenzione alla giovane amica, alla quale suggerisce che potrà dare il meglio di sé trasferendo la poesia che è in lei non solo nella tragedia alla quale sta lavorando – Venezia salva – ma dando forma scritta alle sue «impressioni mistiche». Ha compreso, infatti, che la sua onestà intellettuale e la sua rigorosa ricerca della verità la pongono al riparo da qualsiasi «compiacenza femminile», consentendole di esprimere l’esperienza dell’amore di Dio in forme poetiche scevre da ogni eccesso di sentimentalismo96. Tra loro, a questo punto, il dialogo si è innalzato su un piano dove la confidenza o è assoluta o deve cessare.

Dopo una lettera dell’amica, che sollecitava una risposta sul Progetto che gli aveva sottoposto, Joë Bousquet consente a esprimere un giudizio sulla praticabilità e utilità di una formazione di infermiere di prima linea, dichiarando la sua gratitudine perché la domanda che gli è stata posta «lo invita a evocare la sua esperienza di guerra e quella ferita sulla quale va edificando dolorosamente il suo pensiero, la sua filosofia, tutta la sua opera letteraria»97. Simone Weil è profondamente commossa dalla rievocazione che le ha fatto della guerra e del clima che sempre regna al fronte, dove le infermiere da lei immaginate avrebbero dovuto assolvere il loro compito di assoluta dedizione. Grata di questo racconto, sente ormai di potersi esprimere in totale sincerità sia nei confronti dell’amico che di se stessa.

La lettera che gli scrive il 12 maggio 1942, pochi giorni prima dell’imbarco per gli Stati Uniti, è uno dei testi più alti e ardui del suo pensiero religioso, un pensiero divenuto ormai una cosa sola con la vita. Ciò che dice, anche di se stessa, è il dono esigente che il clima di guerra, il sentimento di precarietà del momento, e soprattutto l’amicizia, le ordinano di affidare a colui che è diventato veramente un amico.

Intanto, e in primo luogo, la condizione di sventura in cui egli versa è il pensiero che sovrasta ogni altro. I suoi amici, quelli che si recano da lui, lo ammirano per la sua creazione artistica, ma non lo vedono veramente: non scorgono in lui quel grumo irrisolto che attende di essere sciolto, non hanno percezione del «suo grido silenzioso per essere letto altrimenti»98. Lei, senza alcun merito, sentendo di essere soltanto un tramite, desidera assumere nei suoi confronti il compito di levatrice.

Ciò che intende dirgli non è per nulla facile: la sofferenza, che da più di vent’anni lo tiene inchiodato al letto, è il privilegio che consente a lui, più che alla maggior parte degli uomini, di guardare in profondità la realtà della guerra. I suoi commilitoni, vittime della stessa atroce realtà, o non hanno potuto elaborarne il senso perché stroncati dalla morte, oppure, tornati incolumi dal fronte «hanno tutti ucciso il passato con l’oblio». È pressoché impossibile, infatti, quando si è ormai affrancati, riportare volontariamente il pensiero alla sventura. Lui, invece, tramite una memoria pungolata senza tregua dal dolore, non ha mai smesso di scrutare il suo destino, anche se non l’ha ancora accolto, fino in fondo, come la necessità alla quale dare il proprio assenso.

Ponendosi in sintonia con la sensibilità poetica dell’amico, Simone Weil ricorre a un’immagine simbolica, di origine orfica, per suggerirgli una via di uscita dalle tenebre verso la luce della verità: egli è prigioniero nell’uovo del mondo visibile e non ha ancora rotto il guscio per liberare dentro di sé il pulcino, che è l’amore di Dio, che è Dio stesso «che abita nel profondo di ogni uomo, come un germe invisibile». Solo quando sarà uscito da quel guscio, gli sarà possibile vedere il mondo senza più veli ed elaborare pienamente la sventura della guerra, riuscendo a pensarla con assoluta lucidità. Proprio lui, che porta quel ricordo conficcato come una spina nella carne, è nella condizione privilegiata per accogliere, in senso universale, la sventura che è la realtà del mondo. Infatti,

per pensare la sventura, bisogna portarla nella carne, conficcata in profondità, come un chiodo, sopportarla così a lungo che il pensiero abbia tempo di farsi forte quanto serve per guardarla99.

Non è lontano il momento in cui potrà pronunciare il sì che sancisce la scelta irreversibile del bene. Ciò che finora gli ha impedito di dare il suo pieno assenso alla sventura è l’impulso ad abbandonarsi al sogno, al turbinio dell’immaginazione. E questo perché non ha mai cessato di essere prigioniero, non ha ancora rotto il guscio. La radice del male, che lui per primo sente di non saper individuare dentro di sé, affonda in quella trama di artifici, di consolazioni – piaceri, arte, religione… – in cui si è avvolto per alleviare il peso della sventura100. Fare la scelta definitiva, abbandonare ogni conforto illusorio per una lucidità che si apparenta con la follia, significa accettare pienamente di portare la sua croce, una croce incarnata nei giorni e nelle notti senza fine della camera buia di Carcassonne. Eppure, solo allora, solo quando la trasformazione sarà pienamente compiuta, «sarà perdonato il proiettile che un giorno gli è si è conficcato al centro del corpo e, per suo tramite, a tutto l’universo che lo aveva guidato»101.

Queste verità così crude, che sente di dovergli dire, non nascono da lei: le parole si servono, suo malgrado, della sua penna, ma è Dio stesso che gliele invia. Tanta sicurezza, che può apparire presunzione, si fonda su una realtà di fatto: da tempo, in modo molto imperfetto, è sorella di sventura del poeta. Da dodici anni ormai, è «abitata da un dolore, situato in prossimità del punto centrale del sistema nervoso, alla giunzione dell’anima e del corpo, che persiste anche durante il sonno»102. Questa sofferenza, che solo il pensiero di una morte probabile o volontaria finora le ha consentito di sopportare, si è incontrata fin dall’inizio, durante l’esperienza di lavoro in fabbrica, con la degradazione fisica della massa umana.

L’esperienza mistica, su cui l’amico le ha rivolto una domanda, e che lei sommessamente gli confida, si era verificata proprio in un momento di sofferenza estrema, in modo del tutto gratuito e inaspettato, quando ancora «Dio non aveva alcun posto nei suoi pensieri»:

In un momento di intenso dolore fisico, mentre mi sforzavo di amare, ma senza credere di aver diritto di dare un nome a quell’amore, ho avvertito, senza esservi minimamente preparata – dal momento che non avevo mai letto i mistici – una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile sia ai sensi che all’immaginazione, simile all’amore che traspare nel sorriso più tenero di un essere amato103.

Questa confidenza, facilitata forse dalla particolare condizione in cui si trova Joë Bousquet, precede, sia pur di poco, quella fatta a padre Perrin: anche in questo caso, per una ragione che va oltre la sua persona e riguarda l’assoluta libertà di Dio di scendere in ogni uomo, dentro o fuori dei confini della Chiesa. La scelta di due confidenti tanto diversi può certo stupire, perché effettivamente tutto sembra opporre il poeta al religioso: la loro formazione, il loro passato, il loro atteggiamento rispetto alla vita. Tuttavia, senza la pretesa di venire a capo di un’esperienza misteriosa – in cui può aver avuto un certo peso la tendenza di Simone Weil a proiettare sull’altro, sulla scorta di indizi, la sua personale concezione della purezza – è forse possibile trovare una certa congruenza in questa scelta. Padre Perrin e Joë Bousquet incarnano due diverse modalità dello stesso sacramento che rende possibile il contatto personale con Dio: quello che ha luogo attraverso la gioia pura, in un caso, e quello che sta al fondo di un percorso di sventura, nell’altro. Questo, almeno, è quanto è suggerito dalla chiusa della lettera, nella quale, componendo in un mosaico le tessere della propria esperienza e di quella che ha intravisto nei suoi amici, offre una sintesi potente delle vie possibili per accostarsi all’amore di Dio:

Sono convinta che la sventura da un lato, e dall’altro la gioia intesa come adesione totale e pura alla perfetta bellezza, poiché entrambe comportano la perdita dell’esistenza personale, siano le due sole chiavi grazie a cui si entra nel paese puro, nel paese respirabile, nel paese reale104.

Per molto tempo si è creduto che questa fosse la lettera di addio, prima che il mare interponesse tra loro la distanza propizia a riascoltare, nel silenzio interiore, l’eco delle parole scambiate. Ma proprio in essa, era contenuta la promessa di continuare il dialogo sulle molte cose che restavano ancora da approfondire. Altre due lettere, casualmente ritrovate alcuni anni fa105, intrise della dolente percezione di una fine imminente, imprimono il sigillo su una concezione della vita in grado di dare tutto il suo significato alla morte.

Della morte, del resto, si parla anche nella lettera autobiografica a padre Perrin, quando si dice che essa costituisce «la norma e la meta della vita, […] l’istante in cui, per una frazione infinitesimale di tempo, la verità pura, nuda, certa, eterna penetra nell’anima»106. Con accenti ancor più intensi, questa stessa verità è ripetuta a Joë Bousquet, che le aveva confidato di vivere nell’oblio della morte, in contraddizione con quella volontà di tenerla in pugno di cui scriveva, nello stesso periodo, a Gabriel Sarraute, il cappellano militare che doveva tenersi pronto a somministrargli gli ultimi sacramenti:

Tengo molto a ricevere la morte a occhi aperti, con eleganza, sapendo quello che faccio. Mi sembrerebbe troppo triste aver sfiorato una bella morte sull’altopiano di Brenelle per poi entrare venticinque anni dopo nella morte, a occhi bendati107.

Ma non è una morte eroica quella che Simone Weil implora per sé e suggerisce all’amico: per lei la morte dovrà coincidere con l’assenso definitivo all’amore di Dio, che è presente nel mondo sotto il velo della necessità e che, nell’ultimo istante, si svelerà come bellezza assoluta dell’universo. Ciò che le fa paura non è il trapasso, ma il rischio di trovarsi impreparata «nell’ultimo istante di vita, [in cui] vedremo con i nostri sensi la bellezza del mondo assolutamente spoglia e al pari di un intermediario, consegneremo la bellezza del mondo, nella sua completa nudità, a Dio che scenderà per unirsi ad essa nei nostri occhi»108.

Le ultime due lettere, una spedita in extremis da Marsiglia e l’altra da Casablanca, durante il viaggio, oltre a questa stupenda evocazione di una morte rivelatrice della bellezza dell’universo, e oltre al sentimento di lacerazione per la partenza, contengono un dono all’amico per colmare il tempo dell’assenza. Si tratta, come abitualmente faceva con chi amava, di alcuni frammenti da lei tradotti dall’Iliade e dai tragici greci e di un racconto del folklore scozzese, tradotto e interpretato in maniera ardita e allusiva, conforme alla sua esegesi sapienziale.

Nel racconto intitolato Le tre notti del principe di Norvegia, la protagonista è una fidanzata, vestita di stracci, che va alla ricerca del principe amato, scomparso e conteso da un’altra donna. Con uno stratagemma ottiene dalla rivale di trascorrere tre notti con lui. Solo all’ultimo istante, prima dell’alba del terzo giorno, il principe si sveglia, riconosce l’amata e scaccia la rivale. Il commento occupa meno di due righe: «La sposa è il Cristo, la falsa fidanzata è la carne che Dio acquista mediante la bellezza»109.

Commento che può sembrare un po’ criptico, ma che non era certo incomprensibile a Joë Bousquet, dopo averla ascoltata: per sfuggire all’istante limite in cui deve scegliere il bene, l’anima, incapace di reggere la presenza bruciante di Dio, cerca scampo dietro il velo della carne. Il desiderio carnale, quindi, rappresenta un male quando è una forma di corruzione, una degradazione dell’amore di Dio. Affidandosi alla delicatezza poetica di una fiaba, offre all’amico un’occasione estrema per riflettere su se stesso, sulle ambiguità, sulle ombre che attendevano di essere dissipate in lui.

Joë Bousquet, dopo la morte di Simone, ha confidato a Hélène e Pierre Honnorat di aver sperato invano che la fine della guerra gli restituisse l’amica che «aveva il dono di pronunciare parole dal significato umano illimitato»110. Solo col tempo aveva imparato a leggere, nella sua morte volontaria e prevedibile, «l’ordine di vivere con gli assenti», riandando spesso con la memoria ai pensieri scambiati con lei e prolungando, nel silenzio, il loro dialogo. L’eco «dei pensieri in cui lei riposava mentre a lui toglievano il riposo»111 risuona, con naturalezza, in molte pagine dei Diari che il poeta ferito ha continuato ad annotare fino al 1950, anno della morte112. In una delle ultime pagine, ricordando la notte delle confidenze, scrive: «Ascoltavo la voce pacificata di Émile Novis…»113.

L’amicizia a distanza con Antonio Atarés

L’amicizia tra padre Perrin e Simone Weil ha potuto fruire di un tempo disteso per il dialogo faccia a faccia e per il lavoro comune sui testi dell’amore di Dio. Gustave Thibon ha condiviso con lei un momento sereno della sua esistenza, a Saint-Marcel-d’Ardèche: hanno mangiato insieme, hanno letto e commentato Platone, hanno dialogato e talvolta si sono scontrati. L’intimità di cui entrambi gli amici hanno potuto godere ha reso preziosa la loro testimonianza che, giunta assai per tempo, prima che il personaggio si imponesse, ha restituito almeno in parte le fattezze e le movenze di una persona concreta114. L’amicizia con Joë Bousquet, sbocciata in un incontro fugace ma intenso, ha portato i suoi frutti nel silenzio interiore e ha pervaso, a livelli profondi, la poesia e la riflessione degli ultimi anni del poeta.

Al contrario, l’amicizia con Antonio Atarés, il contadino aragonese rinchiuso in un campo di internamento, si è interamente costruita nell’assenza, nella lontananza, ha lasciato traccia solo su pochi fragili fogli che un tempo terribile di distruzioni e di morti ha miracolosamente risparmiato. Da quelle pagine esce quel poco che si sa della sua vita quotidiana, delle sofferenze, del lavoro al quale era costretto, visto che non disponiamo delle lettere del prigioniero. Per ricostruirne la figura, fino a qualche tempo fa, oltre alle lettere a lui indirizzate, ci si doveva accontentare di qualche allusione, sparsa qua e là nella corrispondenza tra Simone Weil e i familiari, e del brano di una lettera, scritta da Casablanca a padre Perrin, in cui Antonio incarna un esempio di «fede implicita», possibile anche fuori dei confini della Chiesa:

Teoricamente lei ammette pienamente la nozione di fede implicita. E in pratica la sua larghezza di vedute e la sua probità intellettuale sono eccezionali. Ma secondo me sono ancora alquanto insufficienti. Solo la perfezione è sufficiente.

Spesso, a torto o a ragione, mi è parso di riconoscere nel suo atteggiamento una qualche parzialità. Segnatamente una certa riluttanza ad ammettere di fatto la possibilità della fede implicita in alcuni casi particolari. Questa è stata perlomeno la mia impressione quando le ho parlato di Joë Bousquet e soprattutto di un contadino spagnolo che io considero non molto lontano dalla santità115.

Queste parole contengono un giudizio positivo sul suo corrispondente, ma è anche possibile scorgervi l’indizio di un legame tra Simone Weil e Antonio Atarés che merita a pieno il nome di amicizia: un’amicizia vissuta in condizioni eccezionali, non un semplice episodio, certamente nobile, di compassione verso un uomo privato della libertà, ingiustamente incarcerato. Rievocando la figura di Nicolas Lazarévitch, anarchico e precoce antistalinista, Boris Souvarine porrà in evidenza la dimensione della compassione:

Durante la guerra, Nicolas fu internato nel campo del Vernet, in quanto belga, dunque straniero, dunque sospetto. Simone rimase in corrispondenza con lui, nella misura in cui le circostanze anormali lo permettevano, prima di lasciare la Francia. Nicolas l’aveva messa in rapporto epistolare con un povero spagnolo, abbandonato da tutti, ugualmente internato al Vernet, e lei si era sforzata di aiutare questo sconosciuto con la sua inesauribile bontà116.

Il campo del Vernet, nell’Ariège, a trenta chilometri dalla frontiera pirenaica, era stato allestito nel 1939, al momento della disfatta della Repubblica spagnola, per ammassarvi migliaia di combattenti della Colonna Durruti. Dallo scoppio della guerra fino al 1942, vi furono imprigionati stranieri indesiderati, intellettuali antifascisti, superstiti delle Brigate internazionali e altri esuli spagnoli. Nicolas Lazarévitch, di origine ebraica, amico di Simone Weil fin dagli anni della comune collaborazione a «La Révolution prolétarienne» e suo interlocutore sui temi della condizione operaia e dell’organizzazione del lavoro, durante i mesi di giugno e luglio 1940 aveva anche lui conosciuto i rigori del campo del Vernet. Liberato grazie all’intervento di un comitato americano, aveva ritrovato l’amica, sfollata a Marsiglia, impegnata con qualche successo ad alleviare i disagi degli immigrati annamiti, vergognosamente segregati in abitazioni fatiscenti. Grazie a lui, Simone Weil aveva potuto conoscere le condizioni di vita in cui versavano i prigionieri nei campi, in particolare coloro che, a differenza degli intellettuali, scrittori e artisti, non ricevevano aiuti e non beneficiavano di alcun appoggio117. Tra questi dimenticati si trovava Antonio Atarés, contadino e militante anarchico, che vi rimase prigioniero, anche dopo che il campo del Vernet era divenuto un luogo di transito per gli ebrei arrestati nella regione, fino alla fine del 1941, quando fu trasferito a Djelfa, città coloniale sull’altopiano dell’Atlante sahariano, in Algeria.

Chi era Antonio Atarés? Fino a non molto tempo fa, dietro a questo nome si celava il ritratto un po’ stereotipato di un anarchico e di uno stoico, assai coraggioso nel sopportare la dura condizione di prigioniero. Grazie ad alcuni documenti rinvenuti negli archivi dei campi del Vernet e di Djelfa, la sua immagine si è venuta, in parte, arricchendo118. Le schede, compilate con approssimazione dai sorveglianti dei campi, se opportunamente interpretate, forniscono dei dettagli sulle vicende di questo militante anarchico, combattente nella Guerra Civile spagnola.

Antonio Atarés Oliván, agricoltore spagnolo, nasce il 9 ottobre 1909 – è dunque coetaneo di Simone Weil – ad Almudévar, un villaggio dell’Aragona. Frequenta, in modo molto irregolare, la scuola elementare del villaggio e, con i fratelli, conosce assai presto il pesante lavoro dei campi. Costretto a un lungo servizio militare, nel 1930, si trova coinvolto nel sollevamento dei capitani Galán e Garcia Hernández. Al ritorno in paese, a causa della militanza nel sindacato anarchico della Cnt, viene, per ben due volte, incarcerato. Nel 1936 partecipa alla resistenza antifranchista, particolarmente eroica nella regione aragonese e, in particolare, attorno al suo villaggio. Sfugge alla cattura, mentre tre dei suoi fratelli sono catturati e uccisi. La madre rimarrà, fino alla morte, rinchiusa in un manicomio. Ferito in uno scontro, Antonio è trasferito in ospedale a Barcellona. Nel febbraio 1939 partecipa al grande esodo (la retirada) verso la Francia e verso la libertà, ma il volgere degli eventi gli farà ben presto conoscere i rigori del campo di internamento.

Il ritratto che dà di lui Simone Weil in una lettera di raccomandazione, recentemente ritrovata, depurato dai tratti agiografici, propri del genere letterario, non contrasta, nelle linee generali, con le notizie fornite dalla documentazione storica:

Antonio è un contadino aragonese: contadino per condizione ma poeta per temperamento, caso non raro tra i suoi compatrioti. Le sue lettere sono perlopiù delle effusioni liriche, che, se fossero scritte in versi e non fossero farcite di forme dialettali, potrebbero pari pari uscire da una pièce di Calderon o di Lope de Vega. Non conosco qualcuno come lui capace di godere in modo così intenso e puro delle bellezze della natura. Se potesse trovarsi come bracciante, con un padrone un po’ umano, in un bell’ambiente naturale, conoscerebbe la pienezza della gioia. Al contrario, è dietro il filo spinato da un anno e mezzo. Eppure, nella nostra corrispondenza, non mi ha mai chiesto niente, e non si è mai lamentato, salvo nelle ultime due o tre lettere, perché il suo stoicismo comincia a indebolirsi.

Ha una trentina d’anni. Aveva delle simpatie per il sindacalismo e per la causa repubblicana. I nemici, durante la guerra civile, gli hanno massacrato la madre e tre fratelli, per questa ragione non vuole più tornare nel suo Paese. È venuto in Francia con l’ondata dei vinti, dove ha lavorato. Arrestato, per decreto di Mandel, nel giugno 1940 con una folla di sventurati come lui, è stato spedito senza alcuna ragione in un campo di indiziati, il campo del Vernet. Nella primavera scorsa, tutti gli spagnoli presenti nel campo del Vernet sono stati spediti in Africa; lo hanno rinchiuso nel campo di Djelfa, un campo di rappresaglia. Bisognerebbe farlo ritornare in Francia, dove la mano d’opera agricola scarseggia, e sistemarlo presso un agricoltore119.

Nel campo del Vernet, dove Nicolas Lazarévitch aveva conosciuto Antonio Atarés, era stato recluso per qualche tempo anche Arthur Koestler, autore di Un testamento spagnolo, un fortunato racconto autobiografico che Simone Weil andava leggendo e commentando, nei Quaderni, proprio in quel periodo. Militante politico, combattente a fianco dei repubblicani nella Guerra Civile spagnola, questo scrittore ebreo, di origine ungherese, racconta la sua esperienza di prigionia in un altro scritto autobiografico, le cui pagine consentono di immaginare, con qualche plausibilità, la vita molto dura che si conduceva nel campo in cui era rinchiuso Antonio Atarés:

Il campo del Vernet aveva una superficie di cinquanta ettari. La prima impressione era quella di un ammasso di fili spinati che circondavano il campo in tre lunghe file molto ravvicinate, che partivano in diverse direzioni, con delle trincee parallele.

La terra era arida, sassosa e polverosa quando era secco, fangosa da sprofondare fino alle caviglie appena pioveva, disseminata di zolle gelate durante i grandi freddi. […]

Le baracche erano di assi ricoperte di carta incatramata. Ogni baracca conteneva duecento uomini. Lunga trentacinque metri e larga cinque, era costituita da due grandi piattaforme sovrapposte che correvano lungo i muri lasciando solo uno stretto passaggio nel mezzo. […]

Le assi erano ricoperte da un sottile strato di paglia, e la paglia era il solo mobilio trasportabile della nostra baracca. In effetti, assomigliava ad una stalla. Non c’erano finestre, ma solo un’ampia apertura ritagliata nella parete di assi che serviva da lucernario. […] Il campo non aveva refettorio, non c’era un tavolo né un appoggio nelle baracche; non c’erano né piatti, né posate per mangiare, né sapone per lavarsi; una parte degli internati aveva i mezzi per acquistarne, l’altra era ridotta al livello dell’età della pietra120.

La testimonianza prosegue fornendo notizie sul cibo, che consisteva in una razione quotidiana di cento grammi di pane, una tazza di caffé nero non zuccherato al mattino e una scodella di brodaglia ogni sera. Per sei ore al giorno – un tempo ridotto per mancanza di luce e per la debilitazione dovuta alla scarsità di cibo – si lavorava alla costruzione di strade e alla sistemazione del campo, in condizioni pietose, rivestiti di stracci e senza scarpe.

A simili condizioni di disagio Simone Weil allude più di una volta nelle lettere, ma si ha l’impressione che nelle sue risposte, che possiamo solo immaginare, Antonio Atarés non si attardasse più di tanto sugli aspetti dolorosi della vita nel campo. I soprusi e le sofferenze sono il punto di partenza, il contesto concreto della corrispondenza, ma questa poi si staglia, presto, a un livello alto di riflessione, da cui diventa possibile dominare le contingenze materiali. Anche la questione del denaro e degli aiuti concreti è subito archiviata, non interferisce con il loro rapporto, che vuole essere uno «scambio di pensieri in forma di parole». Ben poco traspare dell’agitazione del campo in cui, per la prevalente presenza di politici, intellettuali e scrittori, vi erano spesso moti di protesta e mobilitazioni. Il dialogo tra i due amici sembra collocarsi in spazi isolati, separati dal tumulto circostante.

Private delle risposte di Atarés, le sedici lettere scritte da Simone Weil provocano in noi una sensazione di disagio, quasi ci trovassimo di fronte a un’amputazione. Possiamo solo sforzarci di immaginare che, dopo lo stupore provocato dalle prime lettere, Antonio si sia sentito spinto a elevarsi o, perlomeno, a stare al passo con la sua interlocutrice che, senza minimamente sottovalutare la dura condizione in cui l’amico si trova, lo invita a farvi fronte cercando in se stesso e attorno a sé, soprattutto nella natura, un ausilio essenziale per non lasciarsi travolgere. Il tumulto del campo, anche se entra affievolito nel dialogo, ne costituisce in ogni caso il presupposto, ed è perciò che le riflessioni sulla sventura non sono mai un mero esercizio retorico. Se a qualcuno può sembrare poco credibile che un contadino avesse i pensieri che l’amica filosofa gli attribuisce, bisogna ricordare che la militanza nell’anarchia l’aveva, in qualche modo, predisposto a delle riflessioni non banali sul senso del vivere e del patire.

Più o meno nel momento in cui prende avvio la loro corrispondenza, Simone Weil annota questo pensiero nei Quaderni che va riempiendo a Marsiglia:

L’altro. Percepire ogni essere umano (immagine di se stessi) come una prigione in cui abita un prigioniero, con tutto l’universo intorno121.

L’altro qui descritto sta certo a indicare una condizione umana universale ma, in quel preciso momento, non è difficile immaginare che Antonio Atarés, rinchiuso nel campo del Vernet, fosse per lei l’immagine eloquente e concreta di una condizione di sradicamento, di privazione, di sventura che stava diventando dolorosamente reale per milioni di uomini. Nel momento in cui si china sulla sua sofferenza, facendone oggetto di attenzione e di compassione, egli incarna pienamente per lei la misura dell’amore con cui «si vorrebbe poter amare in maniera particolare ciascuno degli esseri che compongono la specie umana»122. La preferenza verso un essere umano, che è lo specifico dell’amicizia, è determinata «dall’irrompere casuale della sventura che suscita lo scambio di compassione e di gratitudine»123.

Sono questi i sentimenti che ispirano lo scambio epistolare, che però poi procede lungo un sentiero di semplicità, in cui essi sono impliciti e presupposti. Per creare un clima di connivenza con l’interlocutore lontano, Simone Weil torna col ricordo alla Spagna, alla sua breve partecipazione alla guerra al seguito della colonna dell’anarchico Buenaventura Durruti. Lì, diversamente dai numerosi intellettuali e militanti francesi che neppure si accorgevano di quei contadini in nome dei quali pretendevano di combattere, nelle pause dell’azione lei era andata a interrogarli, li aveva ascoltati nelle piazze, aveva annotato le loro reazioni, i sentimenti. Poi, nel 1938, quando la guerra era ormai degenerata in un regolamento di conti tra fazioni, aveva scritto con amarezza a Georges Bernanos:

[…] Questi miseri e magnifici contadini, rimasti fieri in mezzo a tutte le umiliazioni, per i miliziani non costituivano neppure un motivo di curiosità. Senza insolenze, senza ingiurie, senza brutalità […], un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione inerme, un abisso del tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Questo si avvertiva nell’atteggiamento sempre umile, sottomesso, spaventato degli uni, e nella sicurezza, nella disinvoltura, nella condiscendenza degli altri124.

Con i volti dei contadini di Aragona ancora impressi nella memoria, dà inizio alla corrispondenza con l’anarchico dimenticato nel campo del Vernet:

Sono stata, per qualche tempo, nel suo bel Paese, persino in certi piccoli villaggi dove gli stranieri non si spingono mai. Credo che sia la sua regione. Non ho mai dimenticato i contadini che ho visto nelle campagne; mi hanno lasciato un’impressione indimenticabile. Per questo, quando Nicolas mi ha parlato di lei, m’è parso di conoscerla da tanto tempo125.

La guerra di Spagna l’aveva segnata in modo indelebile: nel dilagare della barbarie, nel trionfo della forza aveva letto la manifestazione, più violenta, di quel male che da tempo ormai contaminava tutta la storia dell’Occidente. Quella violenza si era abbattuta su Antonio, facendo di lui uno sventurato. Ma la sventura non lo aveva annientato, perché, istintivamente, egli era entrato nella schiera di quei rari individui che sanno trasformare la sofferenza in gioia. Al contadino che i detentori della forza potevano far soffrire, senza fargli veramente del male, lei addita «i veri saggi vissuti prima dell’era cristiana e quelli vissuti dopo [che] hanno saputo elevare la propria anima fino a un luogo, sconosciuto alla maggior parte degli uomini, dove il dolore è gioia e la gioia è dolore»126. Con mirabile semplicità di linguaggio gli mostra la verità nella luce della Grecia e il vertice della perfezione nel comportamento di quegli stoici di cui è inconsapevolmente diventato fratello:

I filosofi greci chiamati stoici dicevano che bisogna amare il destino; che bisogna amare tutto ciò che il destino apporta, anche quando apporta la sventura. Fin dall’infanzia, ho sempre creduto che questa sia la virtù più bella. È molto difficile nella sventura, soprattutto se la sventura si prolunga; ma proprio per questo è tanto più bella. Tu la possiedi a un livello molto raro, e non so dirti quanto ti ammiri per questo127.

Al ritmo di una lettera ogni due o tre settimane, che raggiungono Antonio prima tra le montagne dei Pirenei, e poi, attraversando il Mediterraneo, fin sull’altopiano sassoso e desertico di Djelfa, Simone Weil esprime, sull’amor fati e sulla bellezza dell’universo, gli stessi pensieri che tornano nei Quaderni e nelle lettere inviate agli altri amici di Marsiglia e di Carcassonne. Le riflessioni che condivide con l’amico alludono a una filosofia pratica, una saggezza di vita, un cammino spirituale che ogni uomo può percorrere. Contemplando l’ordine necessario del mondo, che comporta inevitabilmente anche la sventura, può scoprire una bellezza di cui nessuno potrebbe privarlo: può ammirarla nelle vette dei Pirenei e nel cielo di velluto disseminato di costellazioni delle notti di Djelfa, «al tramonto o al sorgere del sole, anche se tutt’intorno gli uomini parlano e fanno rumore, si può sentire il silenzio che discende dall’alto e si dilata in lontananza come il cielo»128. Obbedendo alle leggi dell’universo, accettando la propria sorte, con lo spirito degli stoici Antonio può fare della sua vita un’opera d’arte, al pari di chi «fa una bella poesia, un’opera di filosofia, una scoperta scientifica, o qualsiasi altra cosa del genere»129.

Come ormai usa fare, acclude alle lettere qualche poesia, traduce per l’amico i versi di Eschilo che esprimono le invettive scagliate contro gli dèi da Prometeo inchiodato alla roccia. Trascrive anche la copla de Las aves de Arabia «che vivono eternamente perché ignorano le sofferenze»130. Tradurre poesie e farne dono a chi ama, è per lei il segno privilegiato dell’amicizia.

Quando la corrispondenza si fa più difficile, nell’ultima commovente lettera, prima di salpare per l’America, affida «alle stelle, alla luna, al sole, all’azzurro del cielo, al vento, agli uccelli, alla luce, all’immensità dello spazio, i suoi pensieri per l’amico, perché gli donino ogni giorno la gioia che desidero per lui e che egli sicuramente merita»131.

Dopo questa lettera, Antonio non scompare dalla vita e dalle preoccupazioni di Simone: ogni volta che può, chiede notizie dell’amico e incarica sia i genitori che il fratello André di scrivergli. Col tempo, il suo nome diventa una sorta di codice di cui i genitori si servono per designare l’Algeria, il Paese in cui desidererebbero recarsi e dove, forse, potranno incontrarlo finalmente libero.

Antonio Atarés, nel maggio 1943, otterrà l’autorizzazione a lavorare fuori del campo e, infine, la libertà132. Nell’unica sua lettera rimasta, indirizzata all’amica il 18 gennaio 1944, ancora ignaro della sua morte, ricordando l’amore per la natura che lo aveva sostenuto durante la prigionia, egli scrive:

Nel marzo del ’43, ho ricevuto una tua lettera a cui ho immediatamente risposto; ma non ho avuto più tue notizie. Il tuo silenzio prolungato non mi preoccupa molto, in primo luogo perché sono consapevole del tempo in cui viviamo. E poi, perché penso che, se ti fosse capitato qualcosa di inatteso, i tuoi genitori, al corrente dell’amicizia che ci lega, me l’avrebbero subito comunicato. […]

In questa città (Orano), la mia anima è immersa in un’atmosfera molto piacevole. Infatti vi ho trovato tutti gli elementi che più mi appagano, come il mare, le montagne rivestite di tanti alberi e abbellite di magnifici paesaggi. E ciò che è più prezioso per l’uomo che pensa, la libertà133.

Nelle Forme dell’amore implicito di Dio Simone Weil ha distillato, con cristallina purezza, le esperienze di amicizia di cui si è nutrito il suo soggiorno a Marsiglia. Come un canto gregoriano, lento e struggente, questo scritto ci ha accompagnato in tutta la nostra ricostruzione. Le espressioni purificate, impersonali, ardue che lo compongono, restituiscono l’eco di situazioni vissute, di parole effettivamente scambiate tra amici. È possibile persino rintracciarvi delle pudiche allusioni, degli affettuosi messaggi indirizzati a ciascuno di loro. È infatti difficile non pensare a padre Perrin, quando confessa, in un sussulto di tenerezza, che «trattare con amore il prossimo che giace nella sventura è un po’ come battezzarlo…»134; o a Gustave Thibon quando ricorda che, se la scelta di una parola risponde «alla ricerca dell’effetto nella composizione di una poesia, non c’è vera ispirazione»135; o a Joë Bousquet laddove ricorda «che tutte le bellezze secondarie possiedono un valore immenso in quanto squarci sulla bellezza universale, ma se ci si limita ad esse sussistono come veli e dunque tendono a corrompere»136.

L’amicizia pura, che il testo esalta, è sentita come un dono soprannaturale che può essere solo implorato, una virtù capace di ispirare il comportamento, un crogiuolo in cui bruciare e purificare le scorie dei nostri fragili amori: un’impresa impossibile, una follia, la follia di amore. D’altra parte, solo quelli che si lasciano contagiare da simile follia sono i veri saggi. Come recita una copla, trascritta per Antonio e offerta anche a Joë Bousquet: «Gli amori possibili sono per i deboli, i saggi scelgono gli amori impossibili»137.

Solo attraverso l’impossibile si dà il passaggio al trascendente.