Capitolo Ventiquattro

Mi sarebbe piaciuto poter dire che uscii dallo strip club e reagii a quell’ultimo definitivo addio rimettendo insieme la mia vita. Avrei voluto poter dire che una colomba bianca scese svolazzando, i cieli si aprirono e il Signore mi disse di preciso dove andare e cosa fare. Più di tutto, avrei voluto dirvi che il rosario e il messaggio implicito che recava con sé curarono il mio cuore spezzato e che non trascorsi più le notti a pensare a Poppy, e i giorni a setacciare internet, in cerca di risultati con il suo nome.
Ma ci volle più tempo.
Trascorsi le due settimane successive proprio come le due settimane prima di ricevere indietro il rosario: ascoltavo la colonna sonora di Garden State e compilavo, apatico, domande per diversi corsi di laurea, mentre immaginavo fin nei più vividi dettagli cosa stesse facendo Poppy in quel momento (e con chi). Frequentavo la chiesa di Jordan e biascicavo preghiere per tutta la messa; facevo esercizio con regolarità e poi, appena finivo, rendevo vano tutto lo sforzo mangiando cibo spazzatura e bevendo più dei miei fratelli scapoli irlandesi.
Arrivò il Natale. Durante il nostro pranzo, la tradizione della famiglia Bell prevedeva che ognuno di noi dicesse quale, secondo il suo parere, sarebbe stato il regalo perfetto: una promozione, una nuova auto, una vacanza, quel genere di cose. Quando fummo intorno al tavolo, mi resi finalmente conto di cosa desideravo di più.
«Vorrei fare qualcosa» dissi, ricordandomi del giorno in cui ero rimasto steso sulla panca nella chiesa di Jordan e avevo fantasticato di spiagge lontane e colline polverose.
«E allora fallo» rispose Aiden. «Puoi fare tutto quello che vuoi. Hai qualcosa come un milione di lauree.»
Due. Ne avevo due.
«Ne ho tutta l’intenzione» decisi.
«E di cosa si tratta?» chiese mamma.
«Non ne ho idea. Ma non è qui.»
Due settimane dopo, ero su un aereo diretto in Kenya, in un viaggio di missione a tempo indeterminato per scavare dei pozzi a Pokot. Per la prima volta correvo verso qualcosa e non via da qualcosa.

Sette mesi dopo
«Ti sei dato al look da boscaiolo, adesso?»
«Fottiti.» Lanciai la sacca contro il petto di Sean per pescare delle monete dalla tasca, per la macchinetta dell’aeroporto. Dr Pepper, la Fonte della Giovinezza. Quasi mi commossi quando trangugiai il primo sorso, la prima cosa fresca, dolce e gassata che bevevo da quando ero atterrato all’aeroporto di Nairobi, sette mesi prima.
«Non c’erano bibite in Africa, eh?» mi chiese Aiden quando mi ripresi la sacca e ci incamminammo fuori dall’aeroporto.
«E a quanto pare non c’erano neanche rasoi» aggiunse Sean, avvicinandosi e strattonando la mia barba con forza.
Gli tirai un pugno sul bicipite. Strillò come una ragazzina.
Era vero che avevo la barba piuttosto lunga, oltre a un’intensa abbronzatura e un corpo decisamente più magro.
«Niente più muscoli da palestrato, eh?» sottolineò papà dopo avermi abbracciato, quando arrivammo a casa. «Questi sono muscoli da lavoro vero.»
Mamma increspò le labbra. «Sembri Charlton Heston in I Dieci Comandamenti.»
Mi sentivo un po’ come Mosè, in effetti, uno straniero sia in Egitto sia nel territorio di Madian, uno straniero ovunque andassi. Più tardi quella sera, dopo la doccia più lunga che ricordassi di aver mai fatto (mesi di docce tiepide da un minuto mi avevano trasmesso un profondo amore per l’acqua calda che mi scorreva lungo il corpo), mi stesi sul letto e ripensai a tutto. Ai volti delle persone, sia i lavoratori sia gli abitanti del villaggio, che ero arrivato a conoscere a un livello molto intimo. Conoscevo la ragione dei nomi dei loro figli e sapevo che amavano il calcio e Top Gear, e sapevo quale dei ragazzi volevo nella mia squadra quando la sera improvvisavamo delle partite di rugby. Il lavoro era stato duro, stavano costruendo una scuola superiore e migliori infrastrutture idriche, e i giorni lunghi: c’erano state volte in cui mi ero sentito sgradito o necessario oltremisura, altre come se il lavoro fosse privo di senso, del tipo tentare di salvare il Titanic con una tazzina da caffè, avrebbe detto papà. Andavo a dormire con le preghiere che mi giravano nella testa e mi svegliavo il giorno successivo rigenerato e determinato a fare meglio.
Non sarei tornato così presto se, durante la chiamata satellitare mensile, la mamma non avesse accennato al mucchio di lettere di ammissione che mi attendevano a casa. Potevo scegliere tra molte università e, dopo averci pensato a lungo, avevo deciso di rientrare a casa e conseguire un dottorato a Princeton… Non un seminario cattolico, ma mi andava bene lo stesso. I presbiteriani non erano poi così male.
Tirai fuori il rosario di Lizzy dalla tasca e osservai la croce girare su se stessa, illuminata dalle deboli luci della città che filtravano dalla finestra. Me l’ero portato a Pokot, e molte sere mi ero addormentato tenendolo stretto in pugno, come se, aggrappandomi a quello, potessi tenermi stretto a qualcuno, anche se non sapevo chi stessi cercando di sentire vicino: forse Lizzy, o il Signore. O Poppy.
I sogni erano iniziati la seconda notte che mi trovavo in Africa. All’inizio erano sogni lenti, prevedibili. Sogni di sospiri e carne. Sogni così realistici che mi svegliavo con il suo profumo nelle narici e il suo sapore persistente sulla lingua. E poi erano mutati, trasformandosi in strane visioni in codice di tabernacoli e chuppah, scarpette da ballerina e pile di libri che crollavano. Occhi color nocciola lucidi, velati di lacrime, labbra rosse curvate verso il basso, a causa di una costante infelicità.
“Sogni dell’Antico Testamento” aveva detto Jordan quando lo avevo chiamato una volta. “I tuoi anziani sogneranno sogni, i tuoi giovani avranno visioni” aveva citato.
«Che razza di uomo sono?» mi ero chiesto ad alta voce.
Non importava quanto pregassi, quanto lavorassi sodo durante il giorno, i sogni non se ne andavano. E non avevo idea del loro significato, sapevo solo che Poppy era ancora molto presente nel mio cuore, non importava quanto mi distraessi durante le ore della giornata.
Volevo rivederla. E non era più l’amante ferito a volerlo, non erano più la rabbia e il desiderio a chiedere di essere soddisfatti. Volevo solo sapere che stava bene e volevo restituirle il rosario. Era un regalo, avrebbe dovuto tenerlo.
Anche se stava con Sterling, cazzo!
Una volta deciso di volerla rivedere, fu impossibile togliermi dalla testa quel pensiero, e così iniziai a studiarne la fattibilità. Mi sarei trasferito nel New Jersey, e New York City non era poi così lontana. Avrei trovato Poppy e le avrei dato il rosario.
Insieme al tuo perdono, un pensiero silenzioso sbucò dal nulla. Un pensiero di Dio. Lei deve sapere che l’hai perdonata.
Lo avevo fatto? L’avevo perdonata? Toccai un lato del crocifisso per farlo girare di nuovo. Credevo di sì. Faceva male, nel profondo, pensare a lei e Sterling insieme, ma la rabbia si era riversata sulla polvere africana, sparsa sul terreno, come il sudore, le lacrime e il sangue.
Sì. Sarebbe stato un bene per entrambi. Una chiusura. E, forse, una volta consegnato il rosario, i sogni sarebbero finiti e sarei potuto andare avanti con il resto della mia vita.
Il giorno successivo, l’ultimo a casa, la mamma sfoltì la mia barba con le forbici, con una gioia quasi inquietante.
«Non ero poi così male» borbottai mentre lei tagliava.
Ryan era appoggiato al bancone, per una volta senza telefono tra le mani. Al suo posto, aveva un sacchetto di Cheetos.
«No, fratello, lo eri proprio, a meno che non stessi cercando di assomigliare a Rick Grimes di The Walking Dead.»
«Perché no? È il mio idolo.»
La mamma sentenziò: «Gli studenti di Princeton non assomigliano a Paul Bunyan, il boscaiolo gigante, Tyler. Stai fermo… no, non puoi mangiare i Cheetos mentre sto lavorando.»
Avevo allungato una mano verso Ryan e lui mi aveva lanciato il sacchetto dopo essere saltato giù in cerca del telefono.
Sospirai e posai il sacchetto di Cheetos.
«Mi mancherai» disse la mamma, all’improvviso.
«È solo una scuola. Tornerò a trovarti di continuo.»
Finì con le forbici e le mise via. «Lo so. È solo che vi ho sempre avuti tutti vicino casa, prima che tu partissi per l’Africa. Forse mi avete viziata.»
E poi scoppiò in lacrime, perché non eravamo tutti lì, non lo eravamo più dai tempi di Lizzy.
«Mamma…» Mi alzai e la strinsi forte. «Ti voglio bene. E non è per sempre. Solo per qualche anno.»
Annuì appoggiata al mio petto, poi tirò su col naso e si allontanò. «Sono triste perché mi mancherai, ma non sto piangendo perché voglio che resti.» I suoi occhi verdi uguali ai miei incontrarono il mio sguardo. «Voi ragazzi dovete vivere le vostre vite senza essere legati da obblighi morali o dal lutto. Sono felice che tu faccia qualcosa di emozionante, qualcosa di nuovo. Vai e crea nuovi ricordi, e non preoccuparti per la tua sciocca mamma qui a Kansas City. Me la caverò benissimo, e poi ho sempre Sean, Aiden e Ryan.»
Anche se avevo voglia di fare una battuta, non ci riuscii. Sean e Aiden a modo loro erano premurosi, non si perdevano mai una cena di famiglia, si ritagliavano del tempo per chiamare durante il resto della settimana, e papà era sempre qui. Tuttavia, mi preoccupavo lo stesso.
«Okay.»
«Mettiti seduto, così finisco con questo orrore di barba.»
Mi sedetti e pensai a me che andavo via di casa. Avevo visto abbastanza lutti, come prete, da sapere che le persone non riuscivano mai davvero a voltare pagina, almeno non in maniera lineare, seguendo le fasi che, in base alla nostra cultura, ci si aspettava. Al contrario, mamma avrebbe ancora avuto degli alti e bassi, giorni in cui sarebbe tornata sul proprio dolore e altri in cui sarebbe riuscita a sorridere, e ad agitarsi per cose come una barba o il costo dell’assicurazione dell’auto di Ryan.
Soprattutto, sapevo di non poter portare il suo dolore al posto suo, anche se fossi rimasto qui. Ognuno di noi doveva trovare il proprio modo di convivere con il fantasma di Lizzy e lo avremmo fatto, ognuno con i propri tempi. Sentivo di aver già iniziato e forse anche la mamma.
«Adesso, vai a raderti» mi ordinò, sfregando il mio volto con un asciugamano asciutto e schioccandomi un bacio leggero sulla fronte. «A meno che tu non ti sia scordato come si fa.»

Trasferirmi non fu difficile. Trovai un appartamento poco costoso non lontano dal campus e usai quello che era rimasto dei miei risparmi per pagare la caparra. Avrei lavorato come assistente mentre studiavo, e lo stipendio era sufficiente a coprire le spese di vitto e alloggio, anche se avrei dovuto richiedere un prestito per le tasse universitarie. Il trasloco non fu affatto faticoso, visto che tutti i miei mobili precedenti erano appartenuti alla chiesa e avevo lasciato i pesi a Kansas City. Vestiti, libri, un futon e un tavolo, che avevo recuperato da un annuncio online.
Dopo che mi fui sistemato, dedicai un giorno o due a cercare di scovare un nuovo indirizzo di Poppy su internet, anche solo quello di un posto di lavoro, ma non trovai niente. Era stata molto attenta o molto riservata o entrambe le cose. Gli ultimi risultati che ero riuscito a trovare su di lei risalivano al periodo della laurea alla Dartmouth, più una manciata di spettacoli di danza organizzati all’interno del campus, per i suoi studi all’università del Kansas di qualche anno prima.
Non riuscii a trovare altre tracce, e mi spinsi persino a chiamare i suoi genitori ai numeri che avevo trovato sul sito dell’azienda di suo padre e della non profit di sua madre. Ma erano ben protetti da orde di assistenti e centraliniste, nessuno dei quali si mostrò disponibile a rilasciare informazioni su Poppy o a passarmi i genitori. Non che li biasimassi, neanche io avrei fornito informazioni a uno sconosciuto, tuttavia fu frustrante da morire.
Perché se ne era andata da Weston? Perché aveva lasciato il rosario? Forse, se non l’avesse fatto, non sarei stato logorato dal pensiero di restituirglielo.
C’era qualcuno che sapevo sarebbe stato quasi certamente disposto a parlarmi di Poppy e, anche se il pensiero di vederlo di nuovo mi ripugnava, le mie opzioni iniziavano a scarseggiare. Il semestre sarebbe iniziato presto e non avrei avuto tempo per gironzolare sulla costa orientale in cerca della mia ex… ragazza? Amante? E non riuscivo neanche a immaginare di dovermi trascinare fino a Natale con quella missione ancora in testa.
Dopo due ore tra bus e treni sovraffollati, mi trovai nel quartiere finanziario di Manhattan, a fissare l’enorme edificio in acciaio e vetro appartenente alla famiglia Haverford. Girovagai all’interno, circondato da marmo, persone indaffarate e in generale da un’atmosfera di solerte operosità, la stessa che persisteva anche al sessantesimo piano, come scoprii una volta arrivato con l’ascensore all’ufficio centrale. Non c’era da stupirsi che Poppy avesse scelto Sterling. Non sarei mai stato in grado di offrirle niente di simile. Non possedevo una flotta di auto nere e un pacchetto di investimenti, non avevo un impero con pavimenti in marmo. Tutto quello che avevo avuto erano un collare e una casa, di cui non ero neanche proprietario, e al momento non avevo nemmeno più quelli.
Dio, ero stato un tale idiota a pensare di poter avere Poppy Danforth per me. Quello era il mondo da cui proveniva ed era ovvio che a quello sarebbe tornata.
L’addetta alla reception all’interno era una bella ragazza bionda e, da vero idiota, mi chiesi se Sterling fosse andato a letto anche con lei, dato che la sua vita era solo un’ostentazione, continua e priva di conseguenze, di soldi e infedeltà, e la sua unica preoccupazione era ottenere ciò che voleva.
«Ehm, buongiorno» dissi, avvicinandomi alla scrivania. «Mi chiedevo se fosse possibile vedere il signor Haverford.»
Non alzò neanche lo sguardo dallo schermo del computer. «Ha un appuntamento?»
«Temo di no» risposi.
«Non è possibile entrare senza appuntamento…» la sua voce si spense quando alzò lo sguardo. Poi spalancò gli occhi. «Oddio, tu sei il ragazzo dei meme di Prete Sexy!»
Sospirai. «Sì, sono io.»
Abbassò la voce con fare cospiratorio. «Seguo spesso le Tylerette su Tumblr. È vero che sei andato in Africa? Ti stavi nascondendo? In TV, a Entertainment Tonight, hanno detto che ti nascondevi.»
«Ero in una missione» dissi. «A scavare pozzi.» La mancanza di internet, a Pokot, aveva avuto i suoi vantaggi.
Emise un acuto e prolungato «ooooh» scrutandomi con i suoi grandi occhi marroni e sembrando all’improvviso molto giovane. «Sei andato lì per aiutare le persone? È così dolce!»
Si morse il labbro e si guardò intorno nella sala d’aspetto vuota. «Sai, il signor Haverfort non tiene mai traccia dei suoi appuntamenti. Non scoprirà mai che non eri in agenda.» Premette qualche tasto. «E adesso ufficialmente ci sei.»
«Wow, grazie» risposi, provando davvero un sentimento di gratitudine, almeno fino a quando non mi passò un biglietto da visita con un numero scarabocchiato sul retro.
«È il mio numero di telefono» disse un po’ timida. «Nel caso in cui volessi di nuovo infrangere i voti.»
Sospirai di nuovo. «Grazie» risposi nel modo più educato possibile. Non aveva senso spiegarle il mio attuale status, o che avevo infranto i miei voti solo per una ragione, la stessa per cui mi trovavo lì, nella fortezza del nemico.
«Possiamo fare un selfie?» E prima che potessi rispondere, si alzò e venne dall’altra parte della scrivania, in piedi al mio fianco, con il telefono proteso davanti a noi. «Sorridi» disse incollandosi a me, la testa bionda contro la mia spalla
Sorrisi come richiesto, rendendomi conto, allo stesso tempo, di quanto la presenza di Poppy fosse ancora in circolo nel mio organismo. Avevo una bionda slanciata, spiaccicata su di me, calda e pronta, e avevo solo voglia di allontanarmi da lei. Avrei preferito essere nella stanza accanto, a litigare con Sterling, piuttosto che sopportare le avances civettuole di quella ragazza. Sean si sarebbe vergognato di me.
«Ora puoi entrare se vuoi, ha una pausa tra un appuntamento e l’altro» disse poi, sempre con aria cospiratoria; intanto sentii che digitava velocemente sullo schermo per postare il selfie in rete.
L’ufficio di Sterling era notevole come tutto il resto dell’edificio: una vista impressionante, una massiccia scrivania, un basso mobile bar pieno di costose bottiglie di scotch. E lui, seduto come un re sul trono, che firmava risme di fogli coperti da una scrittura fitta.
Alzò lo sguardo, aspettandosi evidentemente di trovarsi davanti uno dei suoi impiegati, e, quando invece vide me, la sua bocca si spalancò. Mi aspettavo che fosse arrabbiato o trionfante, che magari mi chiedesse di andarmene, ma non avrei mai immaginato che si alzasse per venirmi incontro, allungando il braccio per una stretta di mano, come se fossimo vecchi soci in affari.
Ignorai la mano protesa: ero stato un prete, ma persino io avevo i miei limiti.
Tuttavia, non sembrò minimamente colpito della mia maleducazione. «Tyler Bell, scusa, Padre Bell» disse, indietreggiando per guardarmi in faccia. «Come diavolo stai?»
Mi sfregai la nuca, a disagio. Mi ero preparato per ogni possibile sfumatura dell’idiozia di Sterling mentre venivo lì in treno, ma neanche per un secondo avevo considerato la possibilità che potesse mostrarsi, per così dire, amichevole. «A dire il vero non sono più Padre. Ho lasciato il clero.»
Sterling si produsse in un ghigno. «Spero non sia stato a causa di quelle foto. Mi sono sentito un po’ in colpa dopo averle pubblicate, sarò sincero. Vuoi qualcosa da bere? Ho questo fantastico Lagavulin 21.»
Ehm… «Perché no?»
Sterling si spostò verso l’angolo bar e detestai ammetterlo con me stesso, ma in quel momento, in cui non mi considerava più un suo nemico, riuscii a vedere cosa Poppy ci avesse trovato in lui. Aveva un particolare carisma nei modi, abbinato a una sorta di eleganza che ti faceva sentire elegante a tua volta, solo standogli vicino.
«Allora, immagino che tu sia qui per gongolare, e me lo merito, lo ammetto. Mi comporterò da uomo.» Stappò il Lagavulin e ne versò un bel bicchiere per ciascuno. Venne verso di me e me ne porse uno. «Mi stupisce, piuttosto, che tu non sia venuto prima.»
Non avevo la più pallida idea di cosa diavolo stesse dicendo. Bevvi un sorso di scotch per nascondere la confusione.
Sterling si appoggiò contro il bordo della scrivania e fece ruotare il liquido ambrato con fare esperto. «Lei come sta?»
Parlava di Poppy? Non poteva essere; lui stava con Poppy, ma tuttavia era l’unica lei che avevamo in comune. «In realtà, sono qui per farti la stessa domanda.»
Sterling sollevò un sopracciglio. «Quindi voi due…» disse e usò il bicchiere per gesticolare «… voi non state insieme?»
Strinsi gli occhi su di lui. «Pensavo che tu stessi insieme a lei.»
Un lampo di dolore, reale dolore, non delusione o rabbia, gli passò sul viso. «No. Noi non siamo… Non eravamo quello che credevo.»
Mi ritrovai a provare dispiacere per lui, il che era ridicolo. E poi iniziai ad assorbire le sue parole e un piccolo barlume di speranza si accese nel mio petto. «Ma vi ho visti mentre vi baciavate.»
Aggrottò un sopracciglio. «Davvero? Ah, dev’essere stato a casa sua.»
«Il giorno in cui hai pubblicato quelle foto.»
«Mi dispiace per quello, lo sai.»
Sì, sì, sì. Non era proprio acqua passata, ma ero molto più interessato a capire come fossero passati dal baciarsi nella camera da letto di lei al non stare più insieme. Dovevo reprimere quella speranza, prima che sbocciasse del tutto, ma non riuscivo a spingermi a farlo… eppure, se non stava con Sterling, perché allora non aveva mai provato a mettersi in contatto con me?
Una domanda per volta, mi imposi.
Sterling dovette leggere la mia espressione perché bevve un sorso, posò il bicchiere e iniziò a spiegare: «Tornando a quel giorno… alla fine mi ero stufato di aspettare, quindi tornai in macchina in quel buco di città, senza offesa, e le dissi che avrei pubblicato le foto se non mi avesse promesso di tornare con me. Era in piedi vicino alla finestra, e poi d’un tratto mi portò nella sua camera e mi tolse la giacca. La baciai, pensando che fosse quello che voleva. Invece no. Dopo un solo bacio mi spinse via e mi cacciò di casa.» Il modo in cui si sfregò il mento mi fece supporre che nel cacciarlo fosse compreso anche uno schiaffo o un pugno in faccia. Sperai davvero che fosse andata così. «Sono andato avanti e ho pubblicato le foto perché ero furioso… comprensibile, credo, date le circostanze.»
Mi lasciai cadere sulla sedia più vicina e fissai il whisky che avevo in mano, cercando di capire cosa significasse tutto quello. «L’hai baciata solo una volta? Non ha lasciato il Missouri per stare con te?»
«Ovviamente no» rispose. «Davo per scontato che fosse tornata di corsa da te.»
«No, non l’ha fatto.»
«Oh, che sfortuna, vecchio mio» disse con simpatia.
Metabolizzai anche quello. Poppy aveva baciato Sterling una volta e poi gli aveva chiesto di andarsene. O Sterling era un pessimo baciatore o lei non voleva affatto stare con lui, ma, se non lo voleva, allora perché non era rimasta con me? E dopo quelle foto, dopo che avevo lasciato il clero, non mi aveva contattato neanche una volta. Avevo supposto che il motivo fosse perché stava con Sterling, ma adesso che sapevo che non era andata così, mi bruciava un po’ di più. Avrebbe potuto almeno dirmi addio, o scusarsi o altro, qualsiasi cosa.
Il mio cuore si contorse ancora di più, uno straccio usurato che veniva nuovamente strizzato.
Il rosario, ricordai a me stesso. Vuoi restituirle il rosario e concederle il tuo perdono. E non puoi perdonarla, se provi ancora rancore per quello che è successo.
Inoltre, quantomeno non stava con Sterling. E quello mi era già di conforto.
«Sai dove si trova adesso?» chiesi. «Vorrei parlarle.»
Ovvio che lo sapesse. Tornò dietro alla scrivania, prese il cellulare e, pochi secondi dopo, avevo tra le mani un pezzo di carta con la sua calligrafia in stampatello. Un indirizzo.
«Ho smesso di tenerla d’occhio l’anno scorso, ma questa è una proprietà che la Fondazione Danforth per le Arti ha acquistato, poco dopo il mio ritorno a casa. È una scuola di danza, qui a New York.»
Esaminai l’indirizzo, poi alzai lo sguardo su di lui. «Grazie.» E lo dissi sul serio.
Alzò le spalle e finì quello che restava del suo scotch. «Non c’è di che.»
Per qualche motivo, allungai il braccio, sentendomi un po’ in colpa per aver ignorato il suo gesto di prima. Ricambiò e ci demmo una breve stretta di mano di cortesia. Eccolo lì, l’uomo che aveva rovinato la mia carriera e che credevo mi avesse portato via Poppy. Me ne andai senza provare alcun odio o rancore, e non solo grazie allo scotch da millecinquecento dollari, ma perché lo avevo perdonato. E perché stavo per uscire da quella porta, trovare Poppy e restituirle il rosario, dopo di che finalmente sarei andato avanti con la mia vita.