Capitolo Sei

«E questo è il mio vero peccato» concluse Poppy. «La mia grande vergogna. Non riesco a dormire la notte al pensiero di avergli permesso… di aver lasciato che io…» Si interruppe e ci fu un momento di silenzio che non volli disturbare, sia per rispetto nei suoi confronti, sia perché non mi fidavo della mia voce. La sua confessione era stata così cruda, così dannatamente ricca di particolari, che ero colmo di rabbia nei confronti di quello stronzo di Sterling e pieno di dispiacere per lei, ma anche preda di una gelosia feroce e indomabile perché, solo poche settimane prima, lui era stato dentro di lei e non se lo meritava, neanche un po’.

Ma soprattutto, ero talmente eccitato da non riuscire a concentrarmi.

«Sono venuta» disse alla fine, la voce calma e triste. «È un uomo sposato, mi ha tradita per anni e non era neanche dispiaciuto, ma non solo sono andata a letto con lui, ho anche avuto un orgasmo. Anzi due. Che importa che l’abbia fatto andare via subito dopo che era successo? Che tipo di ragazza avrebbe agito così?»

Avrei dovuto parlarle, aiutarla, ma, maledizione, era difficile concentrarsi su qualcosa di diverso dall’immagine del suo viso premuto sulla panca e di lei che, ansimante, raggiungeva orgasmi multipli. Sarei andato all’inferno anche solo per questo, soprattutto perché avevo voglia di prendere Sterling a pugni sulla trachea per il suo ruolo in tutto ciò, ma pensare che quella situazione rude l’avesse fatta venire era eccitante in modo quasi insopportabile. Perché quel tipo di cose avevano lo stesso effetto su di me, ed era passato così tanto tempo da quando avevo fatto gemere una donna col mio tocco…

Non sei migliore di lui, mi rimproverai. Maledizione, ricomponiti. I sentimenti, concentrati sui suoi sentimenti. «Come ti ha fatta sentire?»

«Come è stato? È stato fantastico. Come se lui mi stesse reclamando dall’interno e quando è venuto dentro di me, quasi a marcarmi come una sua proprietà, è stato il suo orgasmo a farmi venire di nuovo. Non posso farci niente, un ragazzo che viene è la cosa più eccitante che ci sia, soprattutto se lo sto sentendo dentro di me…»

La mia testa ricadde contro il legno del confessionale con un tonfo udibile. «Volevo dire…» riprovai con voce strozzata «… come è stato dal punto di vista emotivo

«Ah» disse e poi fece una risatina affannata, e, maledizione, sarei andato all’inferno, perché a quel punto non riuscii a evitare di toccarmi. Ero così duro da sentire ogni rilievo e curva di me stesso nei pantaloni. L’altra mano giocava con la cerniera mentre mi accarezzavo cercando di mantenere il respiro silenzioso. Sarei riuscito a tirare giù la lampo abbastanza piano da non farmi sentire? Potevo masturbarmi proprio lì, nel confessionale, senza che lei se ne accorgesse?

Perché a quel punto non sarei potuto sopravvivere se non lo avessi fatto. Le sue parole si erano impresse nella mia mente, e sarebbero rimaste lì per sempre.

«Credo di essermi sentita come se Sterling avesse ragione. Sono una prostituta, no? Ho partecipato al ballo delle debuttanti, la mia famiglia è impegnata nel sociale e ho vinto dei trofei di dressage, ma ciò non cambia chi sono dentro. Penso che nel profondo ho sempre saputo che Sterling non mi amasse davvero, ma ero disposta ad accettare il sesso al posto dell’amore perché lo volevo, tanto quanto volevo la storia d’amore, e quale donna si comporta così, Padre? Preferire del sesso senza amore piuttosto che non fare sesso? E cosa faccio adesso? È possibile morire di vergogna, pur sapendo che questi bisogni sono una parte fondamentale di me?»

Vergogna. Sì, conoscevo quella sensazione; la provavo in quel momento in effetti. Costrinsi le mani a rimanere sulle cosce, ben lontane dall’erezione. Concentrati, mi dissi. E quando sarai da solo, potrai occuparti del tuo… problema.

«Dio ci ha creati come creature sessuali, Poppy» dissi e mi augurai che le parole suonassero più rassicuranti di quel che sembrava. Con la voce soffocata e il respiro a malapena controllato, somigliavano a una minaccia oscura. Una minaccia oscura e imminente.

«Allora Lui mi ha creata troppo sessuale» sussurrò lei. «Perfino adesso, io…» Ma si interruppe.

«Anche adesso, cosa?» chiesi di nuovo con quella voce, e stavolta il pericolo fu evidente.

Mi accorsi che si spostava sulla sedia. «È meglio che io vada» rispose. La sentii raccogliere la borsetta, poi il rumore della maniglia, ma in un secondo mi fiondai fuori dal confessionale e mi portai al suo fianco, in piedi, mentre la porta si spalancava. Appoggiai le mani su entrambi i lati della porta (che cazzo stavo facendo?) per impedirle di scappare, perché dovevo sapere, avevo bisogno di sapere cosa stava per dire. Se non me lo avesse detto, sarei potuto impazzire.

Mentre le incombevo addosso, Poppy alzò lo sguardo verso di me e gli occhi color nocciola si spalancarono. «Oh» sussurrò.

Ci fissammo per un momento.

Sarebbe potuta finire proprio lì. Era ancora possibile, nonostante il rossetto rosso, gli occhi luminosi e i capezzoli duri che aderivano alla sottile camicetta di seta che indossava. Nonostante le mie spalle ampie che bloccavano la porta del confessionale e l’ondata di potere, soddisfazione e lussuria che derivava dal posizionare il mio corpo contro quello di una donna in maniera primordiale e dominante.

Sarebbe finita, lo giuro.

Ma poi lei si mordicchiò il labbro, quei denti un po’ troppo grandi indugiarono sul bordo inferiore carnoso, il bianco puro scavò nel rosso più intenso e sanguigno che si potesse immaginare; e ancora, sfregò le cosce tra loro, mentre un piccolo rumore sfuggiva alla sua gola.

Non vidi più una penitente.

Non vidi più una figlia di Dio.

Non vidi più un agnellino smarrito in cerca di un pastore.

Vidi solo una donna bramosa, preda di un desiderio urgente e consapevole.

Feci un passo indietro, un respiro profondo, una parte coraggiosa della mia coscienza cercò di riconnettersi, mentre lei muoveva un passo esitante fuori dal confessionale, con gli occhi ancora inchiodati ai miei. La lasciai camminare oltre, non perché volessi lasciarla andare o per far cessare la tentazione. No, più come se le stessi dando un’ultima possibilità di scappare, e, se non lo avesse fatto, allora che Gesù la aiutasse, perché dovevo assaggiarla e sarebbe successo in quel maledetto istante.

Poppy fece qualche passo indietro fino a scontrarsi con il pianoforte a mezza coda che si trovava sotto al coro. Rimase ancora in silenzio, ma non c’era bisogno di parlare: ero in grado di leggere ogni suo tremito, ogni respiro, ogni brivido. Tra i denti continuava a stringere il labbro inferiore e io volevo dare un morso a quel labbro, morderlo così forte da farla gridare.

Avanzai verso di lei, che osservava ogni mio passo con una fame ben più che palpabile, opprimente, feroce.

«Voltati» le ordinai e, maledizione, obbedì subito. Si girò e strinse le mani contro il bordo del legno scuro. Sfregò ancora le cosce tra loro quando raggiunsi il piano e mi fermai proprio dietro di lei. Tracciai la linea della sua spalla col dito indice e percepii ogni millimetro di quella porzione di pelle. «Allora, cosa stavi per dire nel confessionale?» le chiesi a bassa voce. «E ricorda che mentire è peccato.»

Lei ebbe un fremito. «Non posso dirlo. Non qui. Non a te.»

Raggiunsi la sua spalla con la mano. I capelli erano legati in uno chignon morbido, in modo da lasciare scoperta la nuca color avorio e la accarezzai con la voglia di divorare ogni brivido, ogni respiro affannato. Poi le appoggiai il palmo della mano tra le scapole e la spinsi contro il piano, in modo che fosse piegata in due, con un lato del viso premuto contro il legno lucido. Era così minuta che doveva stare in punta di piedi; le ballerine di cuoio si sfilarono dai talloni, i muscoli dei polpacci si contrassero e formarono due collinette rigide.

Indossava una gonna al ginocchio a vita alta e, una volta chinata, lo spacco si alzò abbastanza da esporre un assaggio di pelle rosata.

«Poppy,» dissi in tono pericoloso «sei venuta qui senza biancheria intima?»

La mia mano era ancora sulla sua schiena, le dita appoggiate al collo, quando lei annuì.

«L’hai fatto apposta?»

Una pausa. Poi annuì di nuovo.

Lo schiocco risuonò per tutta la chiesa e lei sobbalzò alla sensazione della mia mano che le schiaffeggiava il culo. Poi gemette e spinse il fondoschiena più in alto.

Non la sculacciai di nuovo, anche se Dio solo sapeva quanta voglia avessi di farlo. Invece, spostai l’altra mano dalla spalla fino al suo fianco e sentii la curva del suo seno premuto contro il piano, la depressione del punto vita, il rigonfiamento sodo del suo sedere. Ripetei lo stesso movimento con entrambe le mani, lasciando che quella volta scivolassero giù fino all’orlo della gonna. Quando la presi bruscamente per la vita, trascinando la gonna verso l’alto con quel movimento, trattenne il respiro.

Mi inginocchiai dietro di lei e le spalancai le gambe, allargandole in modo che la sua fica fosse gloriosamente messa a nudo per me. «Il mio Agnellino» sussurrai. «Sei davvero molto bagnata in questo momento.»

Era così, anzi, non era solo bagnata, ma dannatamente fremente, rosa, morbida e tremante, proprio davanti alla mia faccia.

Le afferrai il sedere tra le mani e affondai le dita, sporgendomi in avanti in modo che il mio respiro le solleticasse la carne sensibile.

Lei gemette.

«Tutto questo è sbagliato» dissi avvicinando ancora di più la bocca. Riuscivo a sentire il suo odore, sapeva di paradiso, di sapone e pelle, e del delicato profumo femminile che ogni uomo bramava. «Solo un assaggio» sussurrai, parlando più a me stesso che a lei. «Dio non mi punirà solo per un assaggio.»

Mi feci strada con la lingua dal clitoride alla sua apertura e, che Dio mi perdonasse, nessun vino di comunione e nessuna salvezza erano mai stati così dolci, e un assaggio non bastava più.

«Per favore,» sussurrai contro la sua pelle «solo un’altra volta.» Appiattii la lingua contro il clitoride e la assaporai di nuovo, mentre il mio uccello era così duro da farmi male.

Poppy urlò contro il legno del pianoforte, e io quasi ne morii, per quei gemiti e quel sapore.

Che io vada pure all’inferno!

Mi tuffai dentro di lei come un uomo posseduto, le dita scavarono nelle sue natiche per tenerla aperta per il mio assalto. La scopai con la lingua, le labbra e i denti, la mangiai, la divorai come un affamato. La sua fica era perfetta, proprio come avevo immaginato durante tutte le mie docce ghiacciate notturne e quella volta in cui ero esploso pensando di fare proprio quello.

Le darò un orgasmo, decisi in quel preciso momento. L’avrei fatta venire sulla mia faccia, e il solo pensiero mi fece contrarre le palle e sobbalzare il cazzo nei pantaloni. C’era la reale possibilità che io stesso raggiungessi l’orgasmo, senza neanche toccarmi.

La accarezzai con un dito, poi lo feci scivolare dentro, piegandolo verso il basso per trovare il punto sensibile che l’avrebbe fatta andare fuori di testa. Poppy si sfregava senza pudore contro la mia faccia, le unghie graffiavano il legno del pianoforte, piccoli sospiri e gemiti le uscivano dalla gola.

Lei era tutto quello che volevo respirare e assaggiare, poi però alzai lo sguardo e vidi il crocifisso nella parte anteriore della chiesa, un Gesù tragico e angosciato che pendeva in sacrificio, e il mio cuore ebbe un sussulto. Che diavolo stavo facendo? Chiunque sarebbe potuto entrare in quel momento, superare la porta principale e trovare il proprio prete assieme a una donna china sul pianoforte, inginocchiato come se stesse pregando, con il viso sepolto in lei.

Cosa avrebbe pensato? Dopo che avevo faticato così tanto per riparare le ferite di questa città, per insegnare a questa comunità ad avere di nuovo fiducia nella Chiesa?

E più di questo… i miei voti? Un voto che avevo fatto dinnanzi alla mia famiglia e a Dio? Cosa significava per me un giuramento se, ad appena tre anni dal voto di castità, stavo ficcando la lingua nella fica bagnata di una donna?

Ma poi Poppy venne e il suo grido fu l’inno più bello che avessi mai sentito in vita mia, e tutto il resto svanì; rimase solo lei, col suo odore, il sapore e la sensazione del suo corpo che si contraeva intorno al mio dito.

Riluttante mi tirai indietro, con la voglia di farle provare ancora un altro orgasmo, di seppellire di nuovo la faccia tra le sue gambe, ma sapevo che non potevo, non dovevo, e allora mi alzai e la vidi osservarmi incantata da sopra la spalla, come se io fossi la cosa più incredibile che avesse mai visto.

«Nessuno mi aveva mai fatto questo prima d’ora» sussurrò.

Scoparla con la lingua in una chiesa? Piegarla su un pianoforte e leccarla fino a sfinirla?

Aggrottai la fronte e lei rispose alla mia domanda inespressa: «Intendo che nessuno mi ha mai fatta venire con la bocca prima.» Sulle guance c’era ancora un rossore che le si irradiava verso il collo.

Non capivo. «Nessun ragazzo ti ha mai praticato del sesso orale?»

Lei scosse la testa e poi chiuse gli occhi. «È stato così bello.»

Ero sconvolto. Com’era possibile che non avesse mai ricevuto del sesso orale?

«È un peccato, Agnellino» dissi. Non riuscii a trattenermi e schiacciai la mia erezione contro il suo culo. «Nessuno, prima d’ora, si è preso cura di te come si deve.» Lasciai scivolare una mano in basso per trovare di nuovo il suo clitoride, e dentro di me gemetti quando mi resi conto che era ancora gonfio, caldo, pulsante di desiderio. «Ma non mentirò. Mi eccita da morire sapere di essere stato il primo uomo ad assaggiarti.»

Le mie stesse parole mi riecheggiarono nella testa, mentre le pronunciavo, e all’improvviso mi schiantai contro la realtà.

Che diavolo stavo facendo? Che cazzo avevo fatto?

E perché lo avevo fatto qui, tra tutti i posti possibili?

Feci un passo indietro, con il respiro affannato, mentre l’unico pensiero che occupava la mia testa era quello di andare via, da qualche altra parte, prima di essere devastato dal senso di colpa e dal rimorso.

Poppy si raddrizzò di scatto e si voltò, la gonna ancora stretta intorno alla vita, gli occhi fiammeggianti. «Non ci provare» mi intimò. «Non ti azzardare ad abbandonarmi adesso.»

«Mi dispiace» replicai. «Io… io non posso.»

«Puoi» insisté e fece un passo avanti. Poggiò un palmo sulla mia erezione e mi slacciò la cintura mentre io spostavo lo sguardo in basso.

«Non posso» ripetei, ma continuavo a guardare la sua mano che mi tirava fuori l’uccello. Nel momento in cui le sue dita sfiorarono la mia pelle nuda mi sentii morire, perché no, nei miei ricordi e nelle mie fantasie, non avevo affatto enfatizzato la sensazione stupenda che si provava.

«Padre Bell, sei un bravo prete» affermò, la mano che si abbassava per esplorare, per poi prendere a coppa i testicoli. «Ma sei anche un brav’uomo. E un uomo buono non merita un po’ di indulgenza, di tanto in tanto?»

Mi strinse più forte, iniziando ad accarezzarmi sul serio. Osservai la sua mano muoversi su e giù lungo la mia erezione come fossi ipnotizzato. «Non faremo sesso» promise. «Senza sesso, non si infrangono le regole, giusto?»

«Ti sbagli» risposi logorato, chiudendo gli occhi alla vista di lei che mi massaggiava il cazzo.

«Allora che ne dici di un’altra confessione?» proseguì, mentre trascinava le unghie dal mio bacino all’ombelico, facendomi contrarre gli addominali. «Dopo averti parlato il primo giorno, ti ho cercato online. Non riuscivo a smettere di pensare alla tua voce, in un certo senso era come se potessi ancora sentirla risuonare nella mia mente. E poi ho visto la tua foto sul sito ed eri… Be’, sai come sei. È stata la prima volta che mi sono masturbata pensando a te.»

«Ti sei toccata pensando a me?» L’ultimo brandello residuo del mio autocontrollo si sgretolò, minacciando di spezzarsi.

«Più di una volta» ammise, continuando a far scorrere le dita sugli addominali, sotto la mia camicia. «Perché vedere il tuo corpo, quella prima volta in cui ci siamo incontrati mentre correvamo… e poi il tuo viso, l’ultima volta che abbiamo parlato. Dio, il tuo viso era così dannatamente tenebroso, come se volessi divorarmi proprio lì… Mi sono dovuta masturbare tre volte prima di potermi concentrare su qualsiasi altra cosa.»

E a quel punto, quel poco di autodisciplina che mi era rimasta se ne andò, e tutto ciò che rimase fu un maschio, non Tyler, non Padre Bell, ma qualcosa di più primitivo ed esigente.

«Fammelo vedere» le ordinai.

«Cosa?»

«Sdraiati sul pavimento, allarga le gambe e mostrami come ti masturbi pensando a me.»

La sua bocca si schiuse e lei arrossì; poi, si stese sul tappeto, con la mano tra le cosce. Rimasi in piedi sopra di lei, ad accarezzarmi l’uccello, arrendendomi del tutto, cedendo a qualsiasi cosa, purché finisse con lei ricoperta dal mio orgasmo.

«Perché non hai indossato la biancheria intima?» chiesi, guardandola tracciare dei cerchi intorno al clitoride.

«L’ultima volta, quando abbiamo parlato, mi sono eccitata sentendo la tua voce. Ho pensato che se fosse successo di nuovo, oggi, sarebbe stato più facile se non avessi indossato le mutandine. Occuparmene… intendo. E lo è stato.»

Mi inginocchiai tra le sue gambe e le catturai i polsi sottili nella mano. Mi stesi su di lei, inchiodandole le braccia al pavimento sopra la sua testa, il cazzo che sfregava contro la sua fica e la sua gonna arrotolata. «Mi stai dicendo» iniziai «che ti stavi masturbando nel confessionale di fianco a me?»

Annuì spaventata. «Mi fai bagnare così tanto» rispose. «Non riesco a resistere.»

Ci volle tutto il mio autocontrollo per non spingermi dentro di lei. Ogni volta che muovevo i fianchi, il mio uccello scivolava contro le sue pieghe, così calde. Così bagnate.

Lasciai cadere la testa sul suo collo. Sapeva di pulito, di lavanda, con il vago accenno di un profumo esclusivo, qualcosa che probabilmente costava più di quello che guadagnavo in un mese. Per qualche strana ragione, quell’eccesso, quel lusso decadente, alimentò il mio bisogno di farla a pezzi. Le morsi il collo, la clavicola, le lasciai dei segni sulle spalle con i denti, mentre tenevo il cazzo piantato contro il clitoride e le palpavo il seno, con l’intenzione di farle raggiungere un secondo orgasmo, quasi punitivo. La stavo castigando per essersi presentata in chiesa e aver fatto crollare la mia vita, costruita con cura, come un castello di carte.

Si dimenò sotto di me, ansimò e gemette affannata, le sue mani si mossero contro il pavimento senza risultato, mentre le tenevo bloccate lì con una sola mano. Era talmente bagnata, sarebbe stato così facile, solo un leggero cambiamento di angolazione e avrei potuto infilarmi dentro il suo corpo.

Lo volevo. Lo volevo, lo volevo, lo volevo. Avevo voglia di scopare quella donna più di quanto avessi mai voluto qualsiasi cosa in vita mia. E, per assurdo, il fatto di non poterlo fare, perché sbagliato su tutti i fronti – morale, professionale, personale – lo rendeva ancora più eccitante. Faceva sì che la visione, la sensazione immaginata, l’ossessione che provavo si concentrasse in un singolo punto luminoso, che mi attirava e al contempo mi spingeva a lottare con lei, succhiandola e mordendola, come se divorando ogni centimetro della sua pelle potessi bruciare quel desiderio fino a ridurlo in cenere.

«Oddio» sussurrò lei. «Sto per… Oddio…»

Mi sarei fustigato ogni giorno per il resto della mia vita pur di poterla scopare in quel momento, pur di sentirla contrarsi intorno al mio cazzo, pur di percepire i suoi brividi. Ma starle sopra era quasi altrettanto bello, perché sentivo ogni respiro irregolare e affannato, ogni colpo selvaggio del suo bacino, e, quando incontrai i suoi occhi, erano feroci e penetranti, ma anche sorpresi, come se avesse ricevuto un regalo inaspettato e non sapesse se doverne essere grata o diffidente.

Prima che io potessi immergermi in quello sguardo, lei inarcò la schiena e mi fece perdere l’equilibrio, ribaltandomi in modo da farmi rotolare supino e mettersi sopra di me.

Senza esitazione, mi tirò su la camicia mettendo in mostra il mio addome, e non mi sfuggì il modo in cui serrò la mascella e il suo sguardo si accese. Mi graffiò lo stomaco, con violenza, quasi furiosa per il fatto che fossi tonico e muscoloso, arrabbiata col mio fisico che aveva la colpa di farla eccitare. E avrei mentito se avessi detto che questo non mi faceva eccitare.

Si sedette su di me, la sua fessura scivolosa a contatto con il mio cazzo, e iniziò ad accarezzarmi in quel modo, per masturbarmi. Mi alzai sui gomiti per poter vedere, osservare come la sua carne premeva contro la mia e come la sua fica depilata lasciasse intravedere il clitoride gonfio. Era talmente bagnata che, grazie alla pressione e al peso del suo corpo che si schiacciava contro di me, le sensazioni che avvertivo erano simili a una vera scopata, forse troppo simili, ma di fatto non era ancora sesso, mentii a me stesso, e forse non contava, forse non era peccato.

Ma anche se lo fosse stato, maledizione, non mi sarei fermato.

Era così sporco: il modo in cui teneva la gonna ancora arrotolata sui suoi fianchi, i miei pantaloni tirati giù quanto bastava a liberare le palle, il vecchio tappeto che mi graffiava il sedere. Il modo in cui lei si inclinava senza pudore, così che la mia erezione andasse a toccarla in tutti i punti giusti, quanto eravamo lubrificati, solo dalla nostra eccitazione e nient’altro, e, Dio, volevo sposare quella donna o legarla o metterla in gabbia. Volevo possederla, farmela, prenderla; volevo restare con lei su quel vecchio tappeto per sempre, con i suoi capelli spettinati, i capezzoli duri e la fica impertinente, che spremeva il mio cazzo per fargli dare tutto ciò che poteva.

«Vieni» mi disse con voce roca. «Devo vederti venire. Ne ho bisogno

Avevo la mascella troppo serrata per rispondere, c’ero quasi, e una sensazione che da anni non era così intensa mi divorò alla base della colonna vertebrale facendosi strada attraverso il bacino.

«Non ti trattenere» mi implorò, premendo ancora di più, e, maledizione, eccolo. «Dammelo. Dammi ogni goccia.»

Dannazione, quella donna era indecente. E perfetta. E fu per puro istinto che le afferrai i fianchi e la mossi più forte e più veloce su di me, mentre la mente si riempiva della vista di lei a cavalcioni, del suo clitoride rosa, ancora gonfio e bramoso, e del ricordo del suo sapore e del suo odore sulla mia bocca, sulla faccia, e poi mi sommerse… no, mi bruciò e mi corrose, emettendo un lieve gemito alla vista del mio orgasmo che schizzava sul mio addome. Ed era così tanto, che mi sembrò di rimanere sospeso a pulsare per ore invece che secondi, mentre tutto il corpo si liberava.

E in quel momento, al mio culmine massimo, al culmine del suo avido trionfo, i nostri sguardi si agganciarono e superammo ogni barriera: non eravamo più due sconosciuti, non più sacerdote e penitente, né Tyler e Poppy, eravamo solo maschio e femmina, come Dio ci aveva creati, Adamo ed Eva, nella loro forma più elementare ed essenziale. Eravamo biologia, l’incarnazione della creazione, e intuii il momento in cui anche lei avvertì che, in un certo senso, ci eravamo fusi. Uniti da un legame indissolubile e innegabile, a creare qualcosa di unico e totale.

Il mio orgasmo si placò; a malapena riuscivo a respirare, a elaborare ciò che avevo appena provato, ma poi Poppy si morse il labbro, mi passò un dito sullo stomaco bagnandolo con il mio sperma e se lo portò alla bocca. Il mio uccello sobbalzò mentre la guardavo succhiare.

Abbandonai la testa contro il pavimento, sopraffatto dalla profonda consapevolezza che non sarei più stato in grado di far uscire quella donna dalla mia esistenza. Era il tipo di donna che riusciva a farmi eccitare più e più volte, una con cui avrei potuto fare sesso per una settimana di seguito e non averne ancora abbastanza. E questa era una brutta notizia per il mio autocontrollo, che pian piano tornava in vita, insieme alla mia coscienza, sconfitta e ferita.

«Ti farà impazzire sapere che mi toccherò, a pochi centimetri da te, ogni volta che verrò a confessarmi?» chiese qualche istante più tardi.

Emisi un gemito. Dannazione, sì.

«Poppy» iniziai, ma poi mi interruppi. Cosa avrei mai potuto dire in quel momento che avesse un qualche valore? Una frase che potesse racchiudere i torrenti impetuosi di vergogna e senso di colpa, e che allo stesso tempo esprimesse quanto lei mi era entrata nel profondo.

«Lo so» bisbigliò. «Dispiace anche a me.»

Si alzò in piedi e si sistemò i vestiti, mentre io mi asciugavo lo stomaco con la camicia e mi sedevo. Era passato soltanto un minuto da quando l’intero universo si era ristretto solo a me e lei, ai nostri rumori e al nostro sudore, al nostro fare sesso senza farlo davvero? La chiesa, in quel momento, mi sembrò immensa e vuota: una grotta con solo il condizionatore sovraccarico a scacciare il silenzio opprimente.

La chiesa era vuota. I fedeli non erano riuniti nel vestibolo, pronti a lanciare pietre contro di me o a esiliarmi. Mi era andata bene.

E in un certo senso questo mi faceva stare anche peggio.

Io e Poppy non ci salutammo. Ci guardammo l’un l’altra, arruffati e umidi, con addosso l’odore del sesso; poi lei se ne andò senza dire una parola.

Tornai con calma alla casa parrocchiale, appiccicoso e di nuovo eccitato, e per questo mi odiai senza pietà.