Capitolo Quattro

Mezz’ora dopo indossavo di nuovo la mia uniforme: pantaloni neri, cintura di Armani (dismessa da uno dei Business Brothers), camicia nera a maniche lunghe con i polsini arrotolati fino ai gomiti. E il collare, naturalmente. Dall’alto, Sant’Agostino fissava austero l’ufficio, a ricordarmi che ero lì per sostenere Poppy, non per sognare top e pantaloncini da corsa a occhi aperti. E volevo starle vicino per aiutarla. Mi tornava in mente il pianto silenzioso nel confessionale e mi si stringeva il cuore.
L’avrei aiutata a costo di morire.
Poppy arrivò in anticipo di un minuto. Il modo in cui varcò la soglia, disinvolto ma determinato, mi fece intuire che fosse abituata alla puntualità, che ci provasse gusto e che fosse il genere di persona che non riusciva a spiegarsi come mai gli altri invece non giungessero in orario. Al contrario, tre anni di sveglia alle sette non avevano ancora reso me una persona mattiniera e, il più delle volte, la mia messa iniziava alle otto e dieci invece che alle otto.
«Ciao» salutò mentre le indicavo il posto accanto a me.
Avevo scelto le due poltroncine nell’angolo dell’ufficio, perché detestavo parlare alle persone da dietro la scrivania, come se fossi stato il preside di una scuola media. E, nel caso di Poppy, volevo essere in grado di consolarla, toccarla se necessario, farle avere un’esperienza della religione più personale rispetto a quella nell’Antica Cella della Morte.
Si accomodò in un modo elegante e aggraziato, così ammaliante che fu come osservare una ballerina allacciarsi le scarpette o una geisha versare il tè. Sulle labbra aveva di nuovo quella tonalità di rossetto incandescente, rosso acceso, e indossava un paio di pantaloncini a vita alta con una camicetta annodata al collo. Sembrava pronta più per una gita in barca del sabato che per un incontro nel mio squallido ufficio. Ma i capelli erano ancora umidi e sulle guance le era rimasto il rossore dovuto alla corsa, e provai una breve ondata di orgoglio possessivo per aver visto quella donna raffinata in momenti in cui era un po’ sfatta. E questo era un pessimo impulso, che ricacciai indietro.
«Ti ringrazio per avermi concesso questo incontro» disse lei, passando a un tono più confidenziale, mentre accavallava le gambe e poggiava la borsetta. Che non era proprio una borsetta, ma un’elegante borsa porta computer, piena di cartelline dai colori vivaci. «Ho pensato molto alla possibilità di intraprendere un percorso simile, ma non sono mai stata religiosa in passato, e una parte di me cerca ancora di tirarsi indietro…»
«Non devi pensare che sia un percorso religioso» suggerii. «Non sono qui per convertirti. Perché non parliamo e basta? Magari scoprirai delle attività o dei gruppi adatti alle tue esigenze.»
«E se non ci fossero? Mi consiglierai i metodisti?»
«Non lo farei mai» affermai con finta gravità. «Faccio sempre prima riferimento ai luterani.» E con questo mi guadagnai un altro sorriso. «Allora, come sei finita a Kansas City?»
Esitò. «È una lunga storia.»
Mi appoggiai allo schienale della poltroncina, mostrandole che mi mettevo comodo.
«Ho tutto il tempo.»
«È noiosa» mi avvertì.
«La mia giornata è composta da prassi di leggi liturgiche che risalgono al Medioevo. Posso sopportare la noia. Lo prometto.»
«Okay. Allora, non so bene da dove cominciare, quindi immagino di dover partire dall’inizio.» Il suo sguardo si spostò sulle scaffalature piene di libri, mentre tormentava il labbro inferiore con i denti, come se stesse cercando di decidere quale fosse davvero l’inizio.
«Non sono la tipica ragazza scappata di casa» disse un minuto dopo. «Non sono sgattaiolata fuori da una finestra quando avevo sedici anni né ho rubato l’auto di mio padre e guidato fino all’oceano più vicino. Sono stata diligente e obbediente, la preferita di papà fino al giorno in cui sono salita sul palco della Dartmouth per ricevere il mio MBA, il Master in Business Administration, in forma ufficiale. Ho dato un’occhiata ai miei genitori e finalmente mi sono resa conto di quello che vedevano quando mi guardavano: un’altra risorsa, dell’altro materiale da aggiungere al portfolio. Eccola, la nostra figlia più giovane, li ho immaginati mentre lo dicevano al resto della famiglia. Laureata con lode, sapete, e ha sempre studiato solo nelle migliori scuole. Ha trascorso le ultime tre estati a fare volontariato a Haiti. In pratica aveva già un posto assicurato alla Juilliard, ma la nostra ragazza con la testa sulle spalle ha scelto di dedicarsi al mondo degli affari.»
«Hai fatto volontariato a Haiti?» la interruppi.
Annuì. «Presso un ente di beneficenza che si chiama Maison de Naissance. Offre assistenza prenatale e al parto alle madri haitiane delle zone rurali. Oltre alla casa per le vacanze a Marsiglia, è l’unico posto in cui il francese che ho studiato alla scuola privata mi sia stato vagamente utile.»
Dartmouth, Marsiglia, scuola privata. Avevo intuito che Poppy provenisse da una famiglia altolocata, l’avevo immaginato quando aveva citato Newport e i privilegi e la ricchezza di cui aveva goduto a un certo punto della sua vita, ma in quel momento mi resi conto con esattezza di quanti privilegi, di quanta ricchezza. Osservai la sua espressione: lasciava trasparire una vivace sicurezza di sé, rispetto dell’etichetta ed educazione all’antica, senza però risultare snob o arrogante.
«Ti piaceva lavorare lì?»
Il volto le si illuminò. «Sì! È un luogo stupendo, pieno di persone meravigliose. Ho aiutato a far nascere sette bambini durante l’ultima estate lì. Due di loro erano gemelli… erano molto piccoli, e l’ostetrica più tardi ha detto che se la madre non fosse venuta da MN, lei e i bambini quasi sicuramente non sarebbero sopravvissuti. La madre mi ha perfino permesso di aiutarla a scegliere i nomi dei figli.» Assunse un’espressione quasi timida e mi accorsi che, con ogni probabilità, era la prima volta che riusciva a condividere con qualcuno una forma di gioia così pura. «Quel posto mi manca.»
Le sorrisi. Non riuscii a evitarlo, era proprio raro vedere qualcuno così entusiasta per aver aiutato delle persone in difficoltà.
«L’idea di carità dei miei genitori consiste nell’ospitare una raccolta fondi a scopo politico» proseguì, mentre il mio sorriso a trentadue denti incrociava il suo sarcastico. «O fare una donazione cospicua per una causa animalista, così da poter mostrare la foto con in mano un assegno gigante. Poi, però, calpestano i senzatetto in città. È vergognoso.»
«È normale.»
Scosse la testa con fermezza. «Non dovrebbe esserlo. O almeno, io mi rifiuto di vivere così.»
Buon per lei. Anch’io non lo accettavo, però ero anche cresciuto in una famiglia dedita alla religione, al volontariato. Per me era stato semplice, ma non credevo che maturare quella convinzione fosse risultato altrettanto facile per lei. Avrei voluto interrompere il suo racconto, per saperne di più della sua permanenza a Haiti e spiegarle tutti i modi in cui avrebbe potuto aiutare i meno fortunati alla St. Margaret. Avevamo bisogno di persone come lei, persone che ci tenessero, che volessero fare volontariato e offrire il loro tempo e le capacità, non solo le loro ricchezze. Di fatto, me lo lasciai quasi sfuggire. Per poco non mi buttai in ginocchio per pregarla di aiutarci con la raccolta di cibo o la colazione a base di pancake, cose per cui eravamo perennemente a corto di personale; avevamo bisogno del suo aiuto e, a essere onesto, l’avrei voluta in ogni attività, desideravo vederla ovunque.
Ma forse questa non era la cosa giusta da fare. Cercai di ricondurre la conversazione verso l’argomento precedente, più sicuro. «Allora, eri arrivata alla tua laurea…»
«La laurea. Giusto! E mentre osservavo i miei genitori, mi sono resa conto di essere tutto ciò che volevano. Che mi avevano preparata per quello. Rappresentavo il pacchetto completo, con la manicure impeccabile, i colpi di sole raffinati, gli abiti costosi.»
Lei era tutte quelle cose. Era davvero il pacchetto perfetto in superficie… ma, al di sotto, sentivo che c’era molto di più. Disordinata e passionale, schietta e creativa, un ciclone costretto in un guscio d’uovo. Non c’era da stupirsi che il guscio, a un certo punto, si fosse rotto.
«Ho impreziosito ulteriormente la loro vita, già ricca di fin troppe auto, troppe stanze, troppi pranzi e galà di beneficenza. Una vita già riempita da altri due figli, anch’essi laureati alla Dartmouth, che in seguito avevano sposato altri ricchi simili a loro, coi quali avevano avuto piccoli bambini agiati. Ero destinata a lavorare in un qualche grande edificio dotato di una immensa hall a vetri, e a guidare una Mercedes S-Class, almeno fino al matrimonio. A quel punto, un po’ alla volta, avrei dovuto ridimensionare le ore dedicate al lavoro per impegnarmi di più nelle attività di beneficenza, fino a quando, naturalmente, non avrei dato alla luce dei piccoli ricchi per completare il quadro di famiglia.» Si guardò le mani. «È probabile che tutto ciò appaia ridicolo. Come un moderno romanzo di Edith Wharton o qualcosa di simile.»
«Non sembra affatto ridicolo» la rassicurai. «Conosco benissimo il genere di persone di cui parli.» Ed era vero, non lo dicevo tanto per dire. Ero cresciuto in un quartiere piuttosto carino e, su scala molto ridotta, vigeva lo stesso genere di mentalità: le famiglie con belle case, un paio di figli che erano i primi della classe e giocavano nella squadra di lacrosse, i genitori che si assicuravano di mettere tutti al corrente del fatto che i loro robusti rampolli del Midwest fossero degli emblematici americani di successo.
«Rifiutai questa realtà» confessò. «La vita da romanzo della Wharton. Non la volevo seguire. Non potevo farlo.»
Certo che non poteva. Era talmente al di sopra di quella vita. Riusciva a vedersi? Era in grado di percepirlo, anche se non poteva vederlo? Perché la conoscevo appena e persino io avevo capito che era il tipo di donna che non poteva vivere senza uno scopo, un obiettivo potente e reale nella vita. E non l’avrebbe trovato al di là di quel palco della Dartmouth.
«Avevo il cuore infranto per Sterling, sì,» proseguì continuando a esaminarsi le mani «ma avevo anche il cuore spezzato per aver aperto gli occhi sulla mia vita futura. Ho preso il finto diploma di laurea, quello che ti danno prima di spedirti l’originale, sono scesa dal palco e subito sono filata via dal campus. Non sono rimasta neanche per il lancio di rito del cappello, per le foto o la cena troppo costosa che i miei genitori avrebbero insistito per fare. Sono andata nel mio appartamento, ho lasciato un messaggio inequivocabile alla segreteria telefonica di mio padre, infilato le mie cose in macchina e me ne sono andata. Niente più stage per me. Basta con le raccolte fondi da diecimila dollari a testa. Nessun altro appuntamento con uomini che non fossero Sterling. Mi sono lasciata quella vita alle spalle, insieme a tutte le carte di credito di papà. Mi sono rifiutata di toccare il mio fondo fiduciario. Sarei rimasta in piedi con le mie forze, oppure niente.»
«È stata una mossa coraggiosa» mormorai. Chi era questo Sterling che continuava a nominare? Un ex ragazzo? Un ex amante? In ogni caso, di sicuro un idiota per aver lasciato andare Poppy.
«Coraggiosa o incosciente» rise. «Ho gettato una vita di studi, studi costosi. Immagino che i miei genitori ne siano stati devastati.»
«Immagini?»
Sospirò. «Non ho più parlato con loro da quando me ne sono andata. Sono passati tre anni, e so che saranno furiosi…»
«Non puoi saperlo.»
«Non puoi capire» disse, le parole erano di rimprovero ma il tono era amichevole. «Sei un prete, per l’amor del cielo. Scommetto che quando glielo hai detto i tuoi genitori ne sono stati felicissimi.»
Mi misi a fissare le mie scarpe. «In realtà, mia mamma è scoppiata a piangere quando l’ha saputo, e mio padre non mi ha parlato per sei mesi. Non sono neanche venuti alla mia Ordinazione.» Non mi piaceva rivivere quel ricordo.
Quando alzai lo sguardo verso di lei, le labbra rosse erano serrate in una linea. «È terribile. Sembra quello che farebbero i miei genitori.»
«Mia sorella…» mi fermai e mi schiarii la voce. Avevo parlato di Lizzy infinite volte durante le omelie, nei piccoli gruppi e nelle sessioni di consulenza, ma, in un certo senso, spiegare la sua morte a Poppy era più intimo, più personale. «È stata molestata dal nostro parroco per anni. Non l’abbiamo mai saputo, non abbiamo mai sospettato nulla…»
Poppy mise la mano sopra la mia. L’ironia di lei che confortava me era decisamente palpabile, ma allo stesso tempo mi faceva piacere. Mi faceva stare bene. Non c’era stato nessuno a confortarmi quando era successo; ognuno di noi era rimasto chiuso nel proprio bozzolo di dolore. Nessuno che mi avesse ascoltato e basta, nessuno a cui fosse stato a cuore come mi ero sentito. Nessuno a cui importasse che io mi sentissi ancora così.
«Si è suicidata a diciannove anni» proseguii, come se il tocco di Poppy avesse scatenato una reazione a condividere che non potevo più fermare. «Ha lasciato un biglietto, con i nomi degli altri bambini ai quali era stato fatto del male. Siamo riusciti a fermarlo; è stato processato e condannato a dieci anni di carcere.»
Ripresi fiato, mi fermai un attimo, perché era impossibile non sentire quei due draghi gemelli, rabbia e dolore, lottare nel mio petto, e scaldarmi il sangue. Avvertivo una furia così profonda ogni volta che pensavo a quell’uomo, che a esser sincero credevo sarei stato in grado di uccidere, e non importava quante volte avessi pregato per essere liberato da quell’odio, non importava quante volte mi fossi imposto di ripetere ti perdono, ti perdono figurandomi la sua faccia: quella rabbia non se ne era mai andata via davvero. Né quel dolore.
Finalmente ritrovai la padronanza di me stesso e andai avanti: «Le altre famiglie della parrocchia, non so se non volevano crederci o se si sentivano umiliate per essersi fidate di lui, ma qualunque fosse il motivo, erano furiose con noi per aver richiesto il suo arresto, arrabbiate con Lizzy per aver dichiarato al mondo il suo ruolo di vittima, per aver avuto la faccia tosta di lasciare una lettera, in cui descriveva nei minimi malati dettagli cosa fosse successo e a chi altri fosse accaduto. I diaconi cercarono di impedire che per lei venissero celebrati funerale e sepoltura cattolici, e persino il nuovo prete ci ignorò. A quel punto tutta la famiglia smise di andare in chiesa, mio padre e i miei fratelli smisero anche di credere in Dio. Solo mia madre è ancora credente, ma non tornerà mai più in una chiesa. A parte farmi visita alla casa parrocchiale, non è mai più entrata in una chiesa da allora.»
«Ma tu invece sì» puntualizzò Poppy. «Tu credi ancora.»
La sua mano era rimasta sulla mia, calda rispetto al getto dell’aria condizionata in ufficio. «Per molto tempo non è stato così» ammisi.
Restammo seduti in silenzio per un po’, sgomitando tra ragazze morte, genitori critici e tragedie che persistevano come l’odore delle foglie secche in una foresta.
«Dunque,» disse un attimo dopo «immagino tu sappia cosa significa affrontare la disapprovazione dei propri genitori.»
Riuscii a fare un sorriso e provai a non farlo venire meno quando lei tolse la mano. «Cosa hai fatto dopo aver lasciato la Dartmouth?» chiesi, visto che avevo bisogno di cambiare argomento e parlare di qualsiasi altra cosa che non fossero Lizzy e i dolorosi anni seguiti alla sua morte.
«Be’,» disse muovendosi un po’ sulla sedia «ho fatto molte cose. Il fatto è che sono riuscita a trovare una marea di lavori da sola, grazie al mio MBA, ma come potevo essere sicura che volessero davvero la mia preparazione, i tirocini, il master, e non piuttosto una Danforth che lavorasse per loro? Dopo sei mesi in un ufficio di New York, mi sentivo come se avessi tatuato DANFORTH sulla fronte, e me ne sono andata, all’improvviso, come quando ho lasciato il New Hampshire, guidando fino a non poterne più. Ed è così che sono finita a Kansas City.»
Fece un bel respiro. Attesi.
«Non avevo intenzione di finire in quel locale» proseguì, con la voce che si faceva più bassa. «Pensavo che magari avrei potuto trovare una piccola organizzazione non profit in cui lavorare o forse qualche impiego banale all’inizio, come fare la cameriera. Ma avevo sentito da un barista che c’era un club nascosto da qualche parte in città, privato, esclusivo, discreto. E cercavano ragazze. Ragazze dall’aria costosa.»
«Ragazze come te?»
Poppy non si offese. Rise di nuovo, la solita risatina roca che mi mandava un’ondata di calore nella pancia ogni volta che la sentivo. «Sì, ragazze come me. Ragazze bianche borghesi. Il genere che piace alla gente ricca. E sai cosa? Era perfetto. Dovevo solo ballare. Per così tanto tempo avevo ballato solo alle serate di gala. A dirla tutta, era un posto piuttosto elegante. Cinquecento dollari obbligatori per il guardaroba. Settecentocinquanta dollari per un tavolo, mille dollari per un balletto privato. Nessun palpeggiamento istigato dal proprietario. Due consumazioni al massimo. Era pensato per una clientela specifica; in pratica mi sono ritrovata a spogliarmi per gli stessi uomini che, in un’altra vita, mi avevano assunta o che mi avrebbero sposata, gli stessi che in passato avevano donato alle mie raccolte fondi animaliste. Lo adoravo.»
«Lo adoravi?»
Ragazzaccia.
Il pensiero arrivò dal nulla, senza invito, e non se ne volle andare, bisbigliava tra sé e sé in continuazione nella mia mente. Sconcia ragazzaccia.
Spostò gli occhi nocciola su di me. «È sbagliato? È un peccato? No, non rispondere, non voglio davvero saperlo.»
«Perché ti piaceva?» chiesi, solo per una curiosità da consulente, ovviamente. «Se non sono indiscreto.»
«Perché non dovrei dirlo? Dopo tutto mi sono offerta io di raccontartelo.»
Si sistemò, i pantaloncini misero un po’ più in mostra le gambe sode. Gambe da ballerina, adesso lo sapevo. «Mi piaceva come mi faceva sentire. Avere degli uomini che mi guardavano con gli occhi fuori dalle orbite, che desideravano me e solo me, non la mia istruzione, il mio albero genealogico o le conoscenze della mia famiglia. Ma ancora di più, a un grezzo, primordiale livello, amavo come gli uomini reagivano al mio corpo. Mi piaceva troppo farli eccitare.»
Mi piaceva troppo farli eccitare.
Per poco non mi strozzai e la mia mente si spaccò in due parti gemelle: una convinta a proseguire quell’incontro con grazia e compassione e l’altra determinata a farle sapere quando avesse eccitato me.
Lei sembrava ignara della mia lotta interiore. «Adoravo vederli diventare quasi dei selvaggi per il desiderio di toccarmi, al punto da offrirmi somme di denaro esagerate per andare a casa con loro, lasciare il locale e diventare la loro amante. Ma non ho mai accettato, anche se molti erano affascinanti e non mi trovavo di certo in una posizione in cui poter fingere che i soldi non contassero. Ma qualcosa della mia vera natura si opponeva, e non riuscivo a immaginare di accettare nessuna di quelle offerte. Non sono un ridicolo paradosso? Una spogliarellista che insiste nel preservare la propria virtù?»
Non sembrava aspettarsi una risposta e difatti continuò: «La cosa triste è che ero davvero affamata di sesso nonostante rifiutassi tutte quelle offerte. Di sicuro hai conosciuto la sensazione, Padre, come se la minima brezza ti facesse andare su di giri, e la tua stessa pelle fosse infiammabile.»
Dio, conoscevo molto bene quella sensazione. La provavo proprio in quel momento. Le feci un sorrisino debole, che lei ricambiò.
«Ero così focosa, Padre Bell. Mi bagnavo nel guardare gli uomini che si toccavano attraverso i pantaloni cuciti su misura. Nelle stanze private, spostavo il perizoma di lato e li lasciavo osservare mentre mi masturbavo. A loro piaceva, adoravano vedere come mi stuzzicavo, mi sfregavo e cavalcavo la mia mano fino a gemere e sospirare.»
Mi resi conto di aver afferrato i braccioli della sedia con forza, nell’inutile tentativo di spazzare via le immagini evocate dalle sue parole, ma lei proseguì, ignara del mio improvviso disagio, ingenuamente sicura, nell’errata convinzione che io fossi solo un depositario di informazioni, e un elaboratore di consigli, e non un ragazzo di ventinove anni.
«Ma masturbarmi non era la stessa cosa» aggiunse. «Volevo essere scopata, scopata e usata. Volevo essere riempita dall’uccello di qualcuno, volevo delle dita che mi penetrassero la bocca e la vagina. E il fondoschiena.» Prese un respiro.
Io, al contrario, non riuscivo a respirare.
«Com’è chiamato questo peccato? Deve avere un nome. È solo lussuria… o qualcosa di peggio? Che tipo di preghiera dovrei recitare per quello? E se non mi pento per ciò che ho fatto, e per le cose che volevo fare? Anche adesso, anche dopo tutto ciò che è successo il mese scorso, lo vorrei ancora. Mi sento ancora sola. Ho ancora voglia di essere scopata. E questo mi confonde da morire, perché ci sono momenti in cui non riesco a pensare a niente altro.»
Nonostante tutto, volevo ancora rispondere all’ultima frase, che era poi l’obiettivo primario dell’incontro nel mio ufficio. Avrei voluto prenderle la mano e trasmetterle una tranquilla perla di saggezza, ma, dannazione, non c’era niente di tranquillo in me adesso.
Le sue parole.
Le sue maledette parole.
Era già stato abbastanza difficile ascoltarla quando aveva raccontato del suo lavoro in quel locale, ma poi la descrizione di lei che si toccava, che si masturbava fino a raggiungere l’orgasmo, mi aveva portato a immaginarmi nei panni di uno di quei bramosi uomini d’affari che la guardavano, a provare la loro stessa tentazione di offrirle tutto quello che avevo nel portafoglio, solo per poter vedere la sua fica luccicante che pulsava di piacere. Avrei potuto vederla adesso se avessi voluto… Avrei potuto metterla in piedi contro il muro, tirarle giù i pantaloncini, farle aprire le gambe in modo che fosse in mostra per me…
Non c’era una possibilità al mondo che resistessi ancora un minuto a questo incontro.
Il Signore doveva aver sentito la mia preghiera silenziosa perché le squillò il telefono, una suoneria professionale, e lei lo tirò fuori dalla borsa. «Mi dispiace» sussurrò rispondendo alla chiamata.
Le feci segno che andava tutto bene, mentre cercavo di risolvere il problema principale, cioè come alzarmi senza mostrare l’effetto che le sue parole avevano avuto su di me.
Concluse la chiamata velocemente. «Mi dispiace» si scusò di nuovo. «È saltata fuori una questione di lavoro e…»
Sollevai una mano. «Non ti preoccupare. In ogni caso ho una riunione parrocchiale tra poco.» Era una bugia. L’unico incontro che stava per avere luogo era quello tra la mia mano e il mio cazzo. Ma dubitavo fosse una cosa da dire a una promettente proselita. (Presi l’appunto mentale di chiedere perdono anche per la bugia, oltre che per quello che stavo per fare).
«Io, be’, spero comunque di vederti presto.»
Mi lanciò un sorriso smagliante mentre si alzava in piedi e afferrava la borsa. «Anch’io, Padre.»
Non riuscii neanche ad aspettare di essere sicuro che fosse uscita dalla chiesa. Non appena Poppy se ne andò, mi alzai e chiusi la porta a chiave, trovai solo il tempo di andare alla scrivania così da potermi appoggiare alla superficie con una mano, mentre armeggiavo con la cintura.
Non ci fu tempo per sentirsi in colpa, chiedersi i motivi o per qualsiasi altro simile e remoto pensiero. Tirai giù i pantaloni, quel tanto che bastava per liberare il mio cazzo, e poi mi masturbai, forte e veloce, con in mente la sola idea di scaricarmi.
Provai a pensare a qualcun altro, a qualsiasi altra persona che non fosse la donna che era appena venuta da me in cerca di perdono da Dio e di rassicurazione, ma la mia mente continuava a tornare su di lei: la immaginai al club, che si muoveva solo e soltanto per me, che spostava il perizoma di lato per mostrarmi ciò che agognavo di più.
Gesù, aiutami.
La sentii montare, una corrente elettrica nel bacino, e spinsi nella mia mano, mentre desideravo scopare Poppy Danforth, la sua bocca, la fica o il culo, non importava, finché esplosi su tutta la scrivania, pulsai, schizzai, immaginando che ogni singola goccia di me si versasse sulla sua pelle candida.
La mano si fermò, il respiro rallentò e la realtà mi ripiombò addosso. Ero lì, con l’uccello in mano, il calendario liturgico imbrattato di sperma e una foto di Sant’Agostino che mi osservava dal muro con aria di rimprovero.
Merda.
Merda.
Stordito, mi abbottonai i pantaloni, strappai via la prima pagina del calendario e la buttai nel cestino; il rumore forte della carta sembrava accusarmi e, dannazione, che diavolo avevo fatto?
Mi sedetti e fissai Sant’Agostino.
«Non fingere di non sapere com’è» borbottai. Poggiai i gomiti sulla scrivania e affondai i palmi delle mani sulle palpebre.
Poppy Danforth non aveva intenzione di andarsene. Viveva qui. Sarebbe tornata, perché avevamo solo sfiorato la superficie delle sue confessioni “carnali”.
E dovevo essere in grado di ascoltarla senza eccitarmi come un adolescente. Oltre ad ascoltare, dovevo rispondere con gentilezza, empatia e compassione, quando tutto ciò a cui riuscivo a pensare era la sua bocca con i denti leggermente imperfetti.
Le stelle mi danzavano dietro alle palpebre, ma non spostai le mani. Non volevo vedere l’ufficio o Sant’Agostino. Non volevo vedere i bordi del calendario strappato o la pagina macchiata nel cestino.
Avevo bisogno di pregare, nel buio totale. Non volevo che niente si frapponesse tra i miei pensieri e il Signore, tra questa donna e la mia vocazione. Avevo bisogno di mettere a fuoco il mio peccato tramite le esplosioni luminose nei miei occhi.
Mi dispiace, pregai. Mi dispiace tantissimo.
Ero dispiaciuto per aver tradito la fiducia di una fedele del Signore. Ero amareggiato, perché bramavo una persona che era venuta da me in cerca di conforto e guida e avevo mancato di rispetto alla santità di quel luogo e alla vocazione. Mi dispiaceva di non essere riuscito a controllare il mio desiderio abbastanza a lungo da poterlo estinguere con una doccia fredda, o andando a correre o ricorrendo a un qualsivoglia trucchetto per mettere un freno agli istinti, come avevo imparato negli ultimi tre anni.
Soprattutto…
Soprattutto, mi scuso per non essere dispiaciuto.
Maledizione, non lo ero affatto.