Capitolo Venti

«Sveglia, dormiglione.»

La voce penetrò attraverso il velo opaco di un sonno pesante, le onde sonore e i recettori nervosi lavorarono insieme per destare il mio cervello, per convincermi a svegliarmi e tornare nel mondo.

Il cervello non sembrava però essere d’accordo. Mi rigirai, ma al posto di un cuscino, la mia faccia incontrò della pelle nuda. Gambe, erano gambe. Vi avvolsi un braccio intorno in un gesto automatico, affondando il viso in quella pelle morbida dal profumo dolce.

Delle dita si intrecciarono ai miei capelli. «È ora di alzarsi.»

Grazie a quelle gambe, più che alla sua richiesta, finalmente riuscii a obbligare i miei occhi ad aprirsi e, dopo averlo fatto, me ne pentii.

«Uff» mugugnai. «Mi sento uno schifo.»

«Per colpa dell’alcol o per come ti sei comportato?»

Tenni la faccia premuta contro la coscia di Poppy. «Entrambi» biascicai.

«È quello che pensavo. Bene, è ora che tu ti riprenda. Ti ho messo dei vestiti sul letto.»

Le cosce si allontanarono e quello mi rattristò. Lei buttò le gambe sul bordo del letto e si alzò in piedi, stirando le braccia come se fosse stata nella stessa posizione per molto tempo; ma non era nuda, indossava un abito corto con una cintura in vita e sandali alla schiava.

«Te ne sei andata» la accusai.

Annuì. «Non mi posso presentare dove stiamo andando con addosso una delle tue canottiere e di certo non avevo intenzione di rimanere con i vestiti sporchi. Sono stata via solo pochi minuti, te lo giuro.»

Mi sedetti con calma e accettai l’acqua e l’ibuprofene che mi porgeva.

«Adesso vestiti» ordinò. «Abbiamo un appuntamento.»

Mezz’ora dopo imboccammo l’autostrada con la sua Fiat. Indossavo un paio di jeans neri e un morbido maglione di lana, che Sean mi aveva regalato il Natale precedente nella speranza di migliorare il mio guardaroba. Era un abbigliamento informale, nonostante il prezzo assurdo del maglione, e mi chiesi se non ci stessimo dirigendo verso la città per recarci in qualche posto elegante e caro.

«Dove andiamo?» chiesi.

All’inizio Poppy non rispose, controllò gli specchietti e allungò il collo mentre si districava nel fitto traffico del sabato sera. Decisi di non insistere, anche se la curiosità mi consumava, insieme al vago timore che qualcuno potesse vederci insieme.

Finalmente, aprì bocca: «In un posto in cui ti volevo portare già da un po’. Ma prima di tutto: ieri. Dobbiamo parlare di ieri.»

Sì, dovevamo farlo ma, dopo aver saputo che non era andata a letto con Sterling, una parte di me voleva evitare quell’amaro confronto. Gli ultimi avvenimenti ci avevano spinti di nuovo fuori dalla finzione – oltre il luogo in cui potevo immaginare che il mondo esterno fosse irrilevante, proprio come una tempesta che batteva contro la finestra senza produrre alcun effetto – e lo detestavo, perché oltre quel luogo mi aspettavano tutte le decisioni e le discussioni che avrebbero distrutto la mia vita, un pezzo per volta.

«Allora, ieri Sterling è venuto a casa mia» disse. «Dopo essere stato da te.»

Lo sapeva?

Come se mi avesse letto nella mente, proseguì: «Sterling ama vantarsi delle sue conquiste. In affari, nelle vendette e nelle questioni di cuore, di qualsiasi tipo di vittoria si tratti. Pensava che sarei rimasta colpita dal fatto che ci avesse incastrato così bene con le prove fotografiche della nostra relazione.»

Dio, che presuntuoso!

«Comprendimi, sapevo che alla fine sarebbe venuto e che avrei dovuto dirgli, in modo chiaro e definitivo, che non volevo stare con lui. Non si sarebbe arreso se non ne avessimo discusso a quattr’occhi senza fretta, e poi mi sentivo in dovere di concedergli almeno una cena, durante la quale avrei avuto tutto il tempo di farglielo capire. Voglio dire, siamo stati insieme per anni…»

«Anni in cui lui ti ha tradita» borbottai.

Si girò verso di me, con sguardo pungente. «Ciò nonostante,» proseguì, con una punta di agitazione nella voce, «ho accettato di andare in città e di cenare insieme. Abbiamo parlato talmente a lungo che alla fine mi sono addormentata nella sua camera in hotel.»

Quel dettaglio non mi piacque. Non mi piacque affatto.

«Ma, come ho detto,» aggiunse «non è successo niente. Ho sonnecchiato sul divano fino al mattino e poi il suo autista mi ha riportata a casa. Da te.»

«Quindi, ora è consapevole che con te è finita? Se ne va?»

Esitò. «Sì?»

«È una domanda? Mi stai dicendo che non ne sei sicura?»

Il suo sguardo rimase fermo sulla strada. «Quando me ne sono andata, stamattina, ha detto che capiva perfettamente la mia decisione. Ha aggiunto che non voleva che stessi con lui contro la mia volontà, che a lui importava dei miei sentimenti. E quindi si sarebbe fatto da parte.»

Ripensai alla persona che avevo conosciuto il giorno precedente, a quegli occhi blu ghiaccio e alla voce calcolatrice. Non sembrava il tipo di uomo che si tirava indietro. Sembrava, piuttosto, il genere di uomo che avrebbe finto di tirarsi indietro.

«Quindi, le foto che ci ha fatto fare… tutta la fatica per mettere in piedi un potenziale ricatto e lascia perdere così?»

Lei si mordicchiò un labbro, controllò nello specchietto e cambiò di nuovo corsia. Mi piaceva il suo modo di guidare: veloce, abile, con una sfumatura di aggressività che non si traduceva mai in qualcosa di pericoloso.

«Non so» rispose, con il tono di chi non nutriva grandi speranze. «Sembrava così convinto e… hai ragione, è difficile immaginare che se ne vada dopo tutti i suoi sforzi, ma non riesco neanche a pensare che possa avermi mentito.»

«Io sì» mormorai tra i denti.

Mi sentì. «Ascolta, Sterling non è un santo, ma non è giusto demonizzarlo solo perché è un mio ex. Sì, ha fatto delle cose sgradevoli, ma non è che sia uno psicopatico. È solo un ragazzino viziato a cui nessuno ha mai detto di no. A essere sincera, non penso che farà niente con quelle foto.»

Lo sta difendendo? Sembrava di sì e la cosa mi infastidiva un bel po’.

«Si è offerto di darti i file? O magari di cancellarli?»

«Cosa? No, ma…»

«Allora non penso che abbia in mente di andare da nessuna parte» aggiunsi tenendo lo sguardo fuori dal finestrino, sui campi al tramonto che scomparivano per fare posto ai sobborghi della città. «Ha detto quello che volevi sentirti dire, ma per lui non è finita, Poppy. E non lo sarà fino a quando non avrà ottenuto ciò che vuole. Cioè te.»

La sua mano scivolò sulla mia e per un minuto reagii stizzito, ignorandola, non intrecciando le dita alle sue. Non sapevo neanche io se per ferirla o per mostrare il mio disaccordo.

Dio, ero un tale idiota.

Poco dopo, la presi e la afferrai stretta. «Mi dispiace» dissi. «È solo… è come un tridente puntato dritto al mio cuore. Potrei perdere te o il mio lavoro, o entrambi.»

«Non mi perderai» insistette lanciandomi un’occhiata. «E non perderai il tuo lavoro. A meno che non lo voglia tu.»

Appoggiai la testa contro il vetro fresco del finestrino. Ed eccola… la scelta. Bianco o nero, giorno o notte, l’una o l’altro, Poppy o Dio.

«Millie lo sa» esordii dal nulla.

Sentii la sua mano irrigidirsi nella mia e, di nuovo, quella strana rabbia tornò: perché mai si preoccupava più di Millie, la straordinaria, affidabile Millie, che di Sterling? Presi dei lunghi respiri, rifiutandomi di provocare una nuova discussione tra di noi, che potesse portare a una frattura.

Non lo avrei permesso.

«Non ha intenzione di dirlo a nessuno» rassicurai Poppy. E poi le raccontai cosa mi era successo il giorno prima, confidandole ogni singolo dettaglio, perfino i miei orribili e stupidi pensieri, perché glielo dovevo. Sentivo di doverglielo. Inoltre, cos’avevo da perdere? In fondo, ero già vicino a perdere tutto. Tanto valeva essere onesto.

Mi ascoltò mentre le raccontavo tutto: di Millie, del ricatto di Sterling, di come avevo intuito che si trovava con lui ancora prima che lui mi mandasse il messaggio, e di tutti i sentimenti negativi e la gelosia che si erano aggrovigliati nel mio petto. E, quando finii, le sue labbra erano compresse a formare una linea rossa, nascondendo i denti che trovavo così sexy, e i tratti tirati le facevano assumere un’espressione seria che in qualche modo era altrettanto attraente.

«So che non ci conosciamo da molto» spiegò. «Ma non devi mai temere che ti tradisca. Non succederà. Io non tradisco.»

«Non intendevo…» faticai a trovare le parole giuste. «Ti conosco, la vera te, e sono certo che non faresti niente che mi possa ferire. Ma so anche che Sterling è molto più che un ex-fidanzato per te. So che tra voi due c’è un legame antico e potente e credo che sia ciò che mi ha fatto preoccupare, non qualche debolezza immaginaria nella tua personalità.»

«I trascorsi tra me e Sterling non contano. Non ti tradirò mai. Non è nella mia natura.»

Sperai fosse vero. Lo volevo così tanto. La verità era che non avrei mai potuto avere la sicurezza che lei non mi tradisse: non esisteva alcuna garanzia nel fidarsi della persona amata e nessun tribunale a cui appellarsi, se alla fine si veniva traditi. Amarla, scegliere di fidarmi di lei riguardo a Sterling, mi avrebbe reso vulnerabile.

Eppure, lei lo era già, visto che amava un uomo che, di fatto, non era autorizzato a ricambiare il suo amore; per questo, forse, eravamo pari.

Per sdrammatizzare, dissi: «Credo di capirlo. Sean e Aiden hanno perfino un nome per spiegare le persone come te. Lo chiamano il gene della monogamia.»

«Il gene della monogamia» ripeté. «Direi che è più o meno così.»

Mi rilassai. Il centro di Kansas City si iniziava a intravedere: monoliti di vetro e cemento si ergevano contro il cielo color lavanda; il fiume un serpente grigio sotto di essi.

«Di solito scherzano anche sul mio gene del celibato,» proseguii «anche se adesso non sono più così sicuro di averlo.» Intanto, Poppy si destreggiava con abilità nel traffico rallentato dai semafori, per raggiungere il cuore della città. «Forse non c’è mai stato un gene del celibato» aggiunsi, più a me stesso che a lei. «Forse è solo che ti stavo aspettando da sempre.»

Lei inspirò con forza e sterzò di colpo in una traversa tra due edifici. Prima che le potessi chiedere cosa stesse facendo, parcheggiò l’auto e si spostò per sedersi sul mio grembo, cosa che fece rianimare il mio cazzo.

Le sue labbra incontrarono le mie con urgenza, una brama sensuale e risoluta, e le sue mani corsero ovunque, impazienti, tra i miei capelli, sul mio petto, sul bottone dei miei jeans.

«Ti amo» sospirò, più e più volte, e la tensione si sciolse. «Ti amo, ti amo, ti amo. E mi dispiace così tanto per tutto quello che è successo.»

Cercai il suo fondoschiena sotto al vestito e lo strinsi, poi spostai le dita lasciandole scorrere lungo il bordo del perizoma e lo trovai umido. Ma prima che potessi approfondire il nuovo interessante sviluppo, lei si tirò indietro, a corto di fiato.

«Ci attende una lunga notte e non voglio rovinarla con un inizio anticipato» disse con un sorriso. «Ma non sai cosa mi fai quando dici queste cose.»

«Sono tutte vere» le sussurrai. «Tengo a te da morire e vorrei solo…» La strinsi forte, il petto sul mio viso, il suo culo schiacciato sull’erezione coperta dai jeans. «Vorrei solo che fosse sempre così. Io e te. Nessuna decisione. Nessun problema. Solo… noi.»

Mi baciò la fronte. «Be’, se sei in cerca di evasione, questa serata ti piacerà.»

In un primo momento, pensai che Poppy avesse perso la testa, perché invece di dirigerci verso un ristorante, un teatro o qualsiasi altro luogo tipico per un appuntamento, parcheggiò nel garage di un edificio adibito a uffici (lo sapevo solo perché i Business Brothers lavoravano a due grattacieli di distanza e, per qualche tempo, Aiden era uscito con una ragazza che lavorava in quello in cui entrammo noi).

Proseguimmo fino all’atrio e Poppy passò una tessera sull’apertura magnetica della porta di sicurezza. Quando quella si aprì con un click, mi condusse nell’ascensore a vetri, passò di nuovo la tessera e schizzammo al trentesimo piano.

Alla fine, mi azzardai a chiedere: «Dove andiamo?»

Mi fece un sorrisino, uno di quelli che ogni volta mi lasciavano folgorato alla vista della sua bocca. «Nel mio ufficio.»

Ebbi appena il tempo di ragionarci sopra, prima che entrassimo, prima che Poppy annuisse alla donna alla reception (che indossava un completo sartoriale, come se lavorasse in un’azienda finanziaria e non in un locale di spogliarelli). Poppy mi spinse tra le porte di vetro oscurato e la seguii, e così ci trovammo in uno dei locali più esclusivi della città, il luogo che aveva indotto una laureata alla Dartmouth a restare, quando Wall Street non ci era riuscito.

Proseguendo all’interno, mi accorsi che, lungo il perimetro, davanti alle finestre, erano state alzate delle pareti; supposi per impedire che di notte si vedessero le luci dall’esterno (e perché la luce del sole non filtrasse all’interno, durante il giorno). Si venivano così a creare delle intercapedini piuttosto ampie tra quelle pareti e le finestre, di modo che i clienti potessero bere qualcosa o ammirare la vista della città. Vidi molti uomini fare proprio quello, mentre altri sembravano impegnati in telefonate di lavoro.

Passando oltre, guidato da Poppy, intravidi di sfuggita la sala principale. Due o tre donne ballavano da sole dentro cabine di vetro, altre erano fuori e si dimenavano sul pavimento. D’istinto voltai lo sguardo da un’altra parte, per evitare la vista di tutta quella carne femminile in mostra: forse, in fondo, ero ancora un prete.

I miei occhi furono attirati, allora, dall’abito corto di Poppy e dal tessuto che sagomava la forma del suo culo.

Okay, forse no.

Ci infilammo in uno dei varchi e Poppy mi condusse all’interno di una stanza.

«Cosa stiamo facendo qui?»

«Il mio capo ha detto che posso usare queste stanze ogni volta che voglio. E voglio farlo adesso.»

«Per me?»

«Per te. Adesso aspetta qui» disse con un sorrisetto prima di uscire, chiudendosi alle spalle la pesante porta di legno con un click.

Quindi, quelle erano le famose stanze private di cui avevo tanto sentito parlare, e in una di quelle si era scopata Sterling. Quel pensiero mi fece sprofondare nell’ormai familiare spirale di gelosia, ma poi ricordai ciò che era successo in macchina, i suoi “ti amo” disperati. Lei era lì… con me. Non con lui.

Ma perché quel serpente di rabbia strisciava ancora nella mia pancia? Odiavo che ci fosse, però non riuscivo a scacciarlo, non sapevo estirparlo. Strisciava attraverso le vene, andando a stuzzicare dall’interno la punta delle mie dita per l’urgenza di… di cosa? Prenderla a sculacciate per aver trascorso del tempo con il suo ex senza il mio permesso? Scoparla fino a farla gridare e fino a quando il mio cazzo fosse l’unica cosa che riuscisse a ricordare?

Dio, ero proprio un dannato filisteo.

Per distrarmi, mi guardai intorno. Non ero mai stato in uno strip club prima, ma dovevo ammettere che fosse più carino di quello che pensavo. C’erano una sedia e un divano, entrambi in pelle (facili da pulire, una vocina avvelenata mi fece notare) e un palco in mezzo alla stanza, abbastanza ampio da ospitare un palo e con spazio sufficiente da permettere a una ballerina di danzare anche senza di esso.

La luce era bassa, con sfumature di blu e viola, e la musica alta ma non al punto da risultare fastidiosa. Il volume era regolato in modo che il suono penetrasse nel sangue con un ritmo vibrante e coinvolgente, che si fondeva con i pensieri e faceva accelerare il battito cardiaco, facendo sì che l’adrenalina si impennasse in maniera lenta e costante.

Mi sedetti sul divano e mi inclinai in avanti, a guardarmi le mani. Cosa ci facevo lì? Perché mi ci aveva portato? Di tutti i posti…

Poi la porta si aprì e l’unica cosa che riuscii ancora a pensare fu chiedermi quando avrei potuto spingere il mio cazzo dentro di lei, perché… maledizione.

Indossava una parrucca azzurro confetto ed era truccata in maniera così pesante che riuscii solo a immaginare i suoi occhi, sottolineati dalla matita, scrutarmi dal basso mentre me lo succhiava. E capii subito cosa volesse dire quando mi aveva confidato che nel locale venivano assunte ragazze dall’aria costosa. Anche se non mi intendevo per niente di biancheria intima, capivo persino io che la delicata stoffa ricamata degli slip trasparenti non era il tipico abbigliamento di una spogliarellista. Così come il reggiseno a balconcino coordinato e i copricapezzoli di pizzo, tutto dello stesso color champagne. Una fascia di seta dello stesso colore era legata al collo con un fiocco e mi fece venir voglia di scartarla come un regalo, lì e subito. Era sempre stupenda, vestita o nuda, ma in quel frangente si era trasformata, mostrando una Poppy che avevo intravisto appena nei momenti più intimi.

Attraversò la stanza dirigendosi verso di me, leggiadra sulle scarpe altissime come lo era sulle ballerine, e allungò una mano. «Dammi il portafoglio.»

Confuso, lo tirai fuori dai jeans (all’improvviso molto stretti) e glielo porsi. Lei sfilò una mazzetta di banconote da cinquanta e da cento dal reggiseno, le infilò con cura nel portafoglio e me le restituì. «Voglio fare un gioco» disse.

«Va bene» replicai con la bocca secca, all’improvviso. «Facciamo un gioco.»

Si leccò le labbra e mi resi conto di non essere il solo eccitato da morire in quel momento. «Sei solo un cliente e io una ballerina, okay?»

«Okay» le feci eco.

«E sai che ci sono determinate regole sulle stanze private, vero?»

Scossi la testa, incapace di impedire al mio sguardo di perlustrare ogni centimetro delle sue forme, la biancheria intima costosa, il nastro di seta legato intorno al collo che in un attimo avrebbe potuto diventare un guinzaglio…

«Be’, come prima cosa devi pagare per stare qui.» Si portò una mano su un fianco: sembrava impaziente e sexy, e ogni argomentazione filosofica che Tyler Il Bravo Ragazzo avrebbe potuto presentare sul fatto che fingere fosse degradante, per non parlare del trovarsi in un locale di quel genere, si dissolse.

Quando le misi delle banconote in mano, l’atmosfera cambiò all’istante. Il gioco svanì e quella divenne la nostra realtà. Non importava che ci amassimo e che quelli non fossero neanche i miei soldi; l’avevo pagata, lei aveva accettato ed era salita sul palco, una mano sul palo, gli occhi su di me.

Iniziò a ballare e io mi appoggiai all’indietro, con la voglia di memorizzare ogni dettaglio: le sue gambe avvinghiate al palo mentre ondeggiava, i capelli blu che le sfioravano le spalle, i muscoli delle braccia e delle spalle in tensione.

La luce bassa, la musica alta, l’anonimato del sesso in bella mostra davanti a me, tutto combinato con la fiamma accesa nei suoi occhi, come se volesse me, proprio me e proprio in quel momento. Capii come mai Erode aveva offerto a Salomè qualsiasi cosa volesse, dopo che aveva danzato per lui. C’era qualcosa di così stuzzicante nel gioco di potere tra di noi; avevo creduto di detenere tutto il controllo e la dignità in quella situazione, ma di fatto era vero il contrario. Lei mi seduceva, mi rendeva suo schiavo, fino a farmi desiderare di offrirle tutto, non solo i soldi che aveva messo nel portafoglio, ma la mia casa, la mia vita, la mia anima.

Poppy e la sua danza dei sette veli.

E poi si piegò a novanta gradi, e venni distratto dal suo culo in primo piano, dalla posizione che mi permetteva di intravedere l’ombra delle sue pieghe attraverso la stoffa, e avrei prestato qualsiasi giuramento pur di poterla accarezzare lì.

Mi spostai, nel tentativo di fare più spazio alla pressione nei miei jeans, ma senza risultato. E subito dopo lei fu davanti a me, le mani sulle mie ginocchia, che spalancò per potersi mettere nel mezzo. Si voltò portando il suo culo davanti al mio viso, così vicino che avrei potuto baciare i singoli fiori ricamati sulla biancheria, e non resistetti dall’allungare un dito.

Mi afferrò la mano. «Se vuoi toccare, devi pagare di più» miagolò, e seguii Erode nel suo cammino di perdizione, perché per Poppy nessun prezzo era troppo alto.

Le diedi i soldi senza protestare e lei li infilò nel reggiseno. Poi guidò le mie mani sul suo bacino, facendole scorrere prima giù, lungo i fianchi, poi in alto sul seno. Giocai con i copricapezzoli, provando per un attimo un sentimento di amore odio verso la sensazione estranea di vedermi negati i suoi capezzoli.

Si sedette sulle mie gambe, premendo il culo contro la mia erezione e protendendo la testa all’indietro sulla mia spalla mentre le accarezzavo il seno.

Mi strusciai contro il suo collo. «Scommetto che lo fai con tutti quelli che vengono qui.»

«Solo con te» disse con voce vellutata, dimenandosi contro di me, mentre lo sfregamento sul mio cazzo mi faceva gemere piano. Si voltò per mettersi a cavalcioni. «Sai,» disse, con la stessa voce bassa da gattina, «non ho mai permesso ad altri di farlo, ma se vuoi, ti lascerò vedere la mia fica.»

Sì, ti prego.

«Lo voglio.» Mi sentii molto orgoglioso per essere riuscito a non squittire come un adolescente.

Lei allungò la mano e io recuperai di nuovo il portafoglio. Per fortuna si trattava solo di un gioco, altrimenti non sarei mai stato in grado di permettermi Poppy con lo stipendio da prete.

Dopo essere stata pagata, salì sul palco, si abbassò sulle ginocchia e spalancò di nuovo le gambe, spostando il perizoma di lato per farmi vedere ciò che volevo. Era bagnata e di un seducente colore rosa nella tenue luce blu della stanza: il colore che i pittori del Rinascimento avrebbero dovuto usare per dipingere la luce del Paradiso.

Rimasi a fissarla, ipnotizzato, mentre pian piano spostava la sua mano dal collo al seno e poi più giù fino al dolce rilievo del pube. Una volta lì, tracciò dei cerchi ampi e leggeri intorno alla fica, una spirale lungo il basso ventre e l’interno coscia, avvicinandosi sempre di più, e, quando finalmente sfiorò il clitoride, mi scappò un respiro affannato che non mi ero accorto di aver trattenuto.

Anche lei sospirò al suo tocco, le anche dondolarono come se inconsciamente cercasse di scopare l’aria e io iniziai a perdere la nozione di tutto a esclusione della sua fica. Non sapeva che potevo riempirla? Non sapeva che avrei potuto farla stare bene, se solo me lo avesse permesso?

Mi alzai e camminai verso il palco. I nostri sguardi erano allo stesso livello, e io mantenni fisso il mio mentre facevo scivolare le mani dalle sue ginocchia verso l’interno coscia, con i pollici che si avvicinavano sempre più alla sua apertura. Lo feci di nuovo, osando avvicinarmi di più e chiedendomi se me lo avrebbe consentito, se il suo desiderio avrebbe avuto la meglio sulle regole. I miei pollici percorsero le sue pieghe e lei rabbrividì, e anch’io, perché, merda, era bagnata, talmente bagnata che avrei potuto riempirla tutta, senza incontrare alcuna resistenza.

«Vuoi infilare le dita dentro di me?» chiese.

Annuii, con i pollici schiusi le intime labbra, così che l’entrata fosse del tutto esposta, implorante di ricevere delle dita o… altro.

«Ti costerà» disse maliziosa poggiando una mano sulla mia.

«Poni delle dure condizioni» ansimai. Duro era la parola esatta per descrivere me. Entro tre secondi mi sarei tirato giù la cerniera dei jeans e avrei preso in mano la situazione (per così dire).

Recuperai una banconota, la piegai per il lungo così che le fosse più facile riporla, ma quella volta non la prese con le dita bensì con la bocca. Le sue labbra sfiorarono le mie dita e fu davvero degradante, così magnificamente degradante che l’Erode dentro di me esultò sul suo trono; ero deliziato dalla regale soddisfazione di vedere lei con i soldi tra i denti e sapere che la sua fica ora fosse mia, da toccare quanto volevo.

Poppy si mise in ginocchio, per alzarsi in piedi, ma volevo quello per cui avevo pagato, e in quell’istante, così le circondai la vita con un braccio e la rimisi giù, proprio sulle due dita che già la attendevano. Emise un grido e io sorrisi, cupo, programmando di sfruttare al massimo quel particolare servizio. Facendo pressione col braccio ancora intorno alla sua vita, la spinsi ancora più giù, facendola strofinare tutta contro la mia mano (che in quel momento era schiacciata contro il palco, ma non mi importava); in quel modo anche il caldo fascio di nervi del clitoride si sfregava senza sosta sul palmo. Le mie dita erano piegate in avanti, in cerca del punto in rilievo che l’avrebbe condotta al culmine.

Le mossi mentre in un orecchio le canticchiavo: «Se ti faccio venire, mi dovrai pagare?»

Lei rise ma, non appena premetti più forte con la mano, quel suono sfumò subito in un sospiro spezzato. Le mordicchiai la clavicola e la pelle morbida intorno ai copricapezzoli, e la sua carne fremette contro la mia mano, mentre quel fiocco di seta implorava di essere avvolto attorno ai suoi polsi; poi, lei venne con un suono acuto, scalciando invano contro di me che la tenevo stretta e la massaggiavo con più vigore, per estorcerle fino all’ultima goccia di piacere.

Il suo orgasmo scemò e il suo corpo si rilassò contro il mio, ma io tutto ero tranne che calmo. Sfilai la mano da lei e portai le dita alle sue labbra, per farle succhiare il suo stesso sapore, mentre con l’altra mano mi sbottonavo i jeans.

Poppy guardò verso il basso e poi di nuovo la mia faccia. «Vuoi che te lo prenda in bocca?» chiese, lanciandomi uno sguardo che annullò del tutto la mia capacità di formare pensieri coerenti.

Afferrai alcune banconote e gliele infilai nel reggiseno. Poi presi il nastro di seta e lo slegai, piano, scoprendo l’adorabile collo da succhiare e mordere; feci scivolare la seta tra le mani, con… riverenza, la stessa che avrei riservato alla stola o al cingolo.

Mi spostai indietro e ne avvolsi un lembo intorno al suo collo, legandolo con un nodo che avrei potuto strattonare senza preoccuparmi del fatto che stessi stringendo troppo.

Ne ricavai un guinzaglio, lo arrotolai una volta intorno alla mano e lo tirai per fare una prova; lei si spostò in avanti con un gridolino di sorpresa, ma aveva le pupille dilatate e i battiti accelerati erano visibili sul suo collo, quindi mi sentii libero di tirare di nuovo, obbligandola a scivolare giù dal palco e mettersi in ginocchio. La feci gattonare fino a me, mentre mi accomodavo sulla sedia, godendomi la vista del suo seno che ondeggiava.

Una volta che fu tra le mie ginocchia, tirai verso l’alto, forse un po’ più forte del dovuto, ma a quel punto ero quasi perso nella lussuria, smarrito tra il cavernicolo e l’Erode che c’erano in me, e ciò che entrambi volevano con urgenza era quella bocca rossa sul cazzo.

Quando infilò le dita nell’elastico dei miei boxer attillati e li tirò giù, il mio uccello balzò fuori dalla chiusura lampo sbottonata. Avvolsi l’estremità del guinzaglio intorno alla mano un altro paio di volte fino a che la seta si tese, poi spinsi la sua testa sul mio cazzo, ma lei non aprì la bocca e le labbra rosse rimasero sigillate. Recavano, però, l’accenno di un sorriso che, associato allo sguardo di sfida deliziato, mi fece ricordare di quando, sul bancone della mia cucina, aveva voluto che i baci le venissero rubati. Anzi, no, non rubati: aveva voluto che glieli prendessi con la forza.

Allora, avvolsi di nuovo il guinzaglio alla mano e tirai forte, in modo che la sua bocca premesse contro la parte inferiore del mio pene. Sentire il suo respiro contro la pelle fu sufficiente a rendermi un selvaggio.

Gioca, Tyler.

«Ti ho pagata per succhiare» sibilai. «Puoi farlo da sola o posso costringerti. Quindi, a meno che non sia proprio questo che desideri, ti conviene aprire quella bella boccuccia e fare il tuo dannato lavoro.»

Lei aveva la pelle d’oca ovunque e non mi sfuggì il fatto che cercasse di sfregare le gambe tra loro.

Impaziente, le piantai un dito tra le labbra forzandole ad aprirsi. «Mettilo in bocca» la avvertii «o la pagherai cara.»

Non c’era bisogno di essere un astuto osservatore per notare l’ulteriore bagliore di interesse che accese il suo sguardo all’idea; voleva che gliela facessi pagare, ma allo stesso tempo voleva succhiarmelo, perché alla fine posò le labbra color mela caramellata sulla punta, e, guardandomi negli occhi, fece scivolare la bocca su e giù, la lingua piatta e infuocata contro la mia lunghezza.

Mantenni la mano stretta sul guinzaglio e mi chinai per godermi meglio lo spettacolo del suo seno che si muoveva mentre mi lavorava, di quegli occhi color nocciola che mi osservavano con un’espressione tale che mi avrebbe fatto diventare duro nella doccia per gli anni a venire. E quelle labbra erano come un’aureola rossa intorno al mio uccello… l’unica aureola che volevo ancora, un cerchio di desideri perversi e delizie diaboliche.

Andò su e giù, a volte facendo volteggiare la lingua, altre facendola scorrere in una passata calda e ampia dalla base alla punta. Mi spinsi verso l’alto per andarle incontro, toccando il fondo della sua gola, e, abbandonando ogni parvenza di pazienza, le afferrai la nuca per impedirle di tirarsi indietro. Le tenni la testa con entrambe le mani e spinsi in quel modo per diversi lunghi secondi; le scopai la gola come avrei fatto con la fica, forte e senza chiedere scusa, e se lo era meritato per essere una tale provocatrice, sfrontata e spudorata.

«Ti piace così?» chiesi. Respirava con attenzione dal naso avendo la bocca occupata, quindi risposi io per lei: «Lo so. Ti piace quando un cliente che paga ti tratta in questo modo. Ti fa bagnare essere trattata come la troia che sei, vero?»

Emise un suono che poteva essere un , un no o anche solo un gemito di puro piacere. Qualsiasi cosa fosse, sentii una stretta alla pancia e le mani si strinsero sulla sua testa; le palle erano tese per il bisogno di scaricarmi, ma non volevo venirle in bocca.

«Basta» ordinai tirando il guinzaglio.

Obbedì, si staccò dal mio uccello con gli occhi lucidi e il trucco sbavato, e uno dei sorrisi più grandi che le avessi mai visto sul volto.

Usai il guinzaglio per portare il suo viso all’altezza del mio mentre mi chinavo su di lei. «Quanto vuoi per scopare?»

Il sorriso svanì sostituito da un’espressione più torbida, che prometteva tutto ciò che io avessi voluto. «Noi… non è previsto che lo facciamo» affermò con voce flebile.

«Non mi importa» ringhiai. «Ti voglio scopare. Quant’è?»

«Tutto quello che ti resta» disse, le sopracciglia inarcate con aria di sfida, e in silenzio elogiai la sua dedizione al gioco. Presi dal portafoglio i rimanenti contanti, erano circa settecento dollari (cazzo, Poppy aveva un sacco di soldi), e lanciai le banconote in aria. Fluttuarono piano fino al pavimento.

«Raccoglili con la bocca.»

«No.»

«No?» Tirai il guinzaglio, quanto bastava a ricordarle che c’era. «Voglio quello per cui ho pagato. Ora. Raccoglili. Forza.»

Mi accorsi del momento esatto in cui si arrese grazie alla postura delle sue spalle, ma quando iniziò a piegarsi per prendere la banconota più vicina, vi misi una scarpa sopra. «Prima, togliti le mutandine.»

Si morse il labbro inferiore e non avrei saputo dire quale fosse la mia espressione, ma in ogni caso, dovette convincerla che fosse meglio non mettermi alla prova. Si alzò in piedi, agganciò i pollici ai lati degli slip e li fece scivolare; un tacco dorato, prima, poi l’altro si staccarono dal pavimento mentre si sfilava l’intimo.

Infine si rimise giù e iniziò a raccogliere i soldi.

Tenevo ancora un lembo del guinzaglio mentre lo faceva, ma lo srotolai un po’ in modo da darle maggiore spazio di manovra, leccandomi le labbra alla vista della gonfia perfezione esposta tra le sue gambe. Una volta ritornati a casa, l’avrei venerata con la bocca, facendola venire sulla mia lingua più e più volte. Il mio Agnellino se lo meritava, per essersi dato così tanto da fare per me, per aver organizzato questo gioco in cui potevo prendere da lei tutto ciò che volevo. Sì, l’avrei premiata, in seguito.

Ma intanto…

Mi abbassai sul pavimento dietro di lei, anch’io in ginocchio, e non se ne accorse a causa della musica alta. Lei era completamente piegata, il volto sul pavimento, il culo per aria, allora presi il mio uccello e glielo sbattei dentro con una sola ruvida spinta, dandole, nello stesso momento, una forte sculacciata. Lei strillò, un suono giocoso, e tanto bastò per tenere la mia coscienza a bada mentre la scopavo più forte di come avrebbe fatto un gentiluomo; non proprio più in fretta, solo forte e profondo, con degli affondi che le facevano curvare le dita dei piedi e mi permettevano di sbattere le palle contro il suo clitoride.

E poi il serpente, quel rettile arrabbiato e astioso, si insinuò di nuovo, nel momento in cui mi ricordai che non ero il primo uomo a fare quello a Poppy allo strip club, che era già stata scopata così, proprio là, e quella rabbia mi fece prudere le mani e attorcigliare le budella.

Volevo punirla. Volevo farle del male quanto lei ne aveva fatto a me, per i cattivi pensieri che mi aveva instillato, ma, invece di farlo, mi tirai fuori e mi alzai in piedi; il cazzo, bagnato e duro come il ferro, pulsava dal desiderio di continuare a scopare quella fica ancora sollevata e offerta a me.

Non volevo essere Erode. Niente affatto.

Mi sedetti sulla sedia. «Vieni qui.» Indicai con uno scatto della testa il mio uccello per chiarirle cosa volessi, e lei non esitò a salirmi in grembo e ad affondare su di me, così stretta e calda, con i seni a un centimetro dalla mia faccia.

E allora, visto che potevo guardarla in volto e non potevo più essere brutale, confessai: «Non posso, in quel modo. Mi fa venire voglia di…»

Ma non riuscii a dirlo ad alta voce. Era troppo orribile. Invece, affondai il viso nei suoi seni, sentendo il profumo di lavanda, il tessuto pulito che la ricopriva appena.

Lei mi tirò i capelli per spostare indietro la mia testa. «Vuoi farmi male?»

Chiusi gli occhi. Non riuscivo a guardarla. Doveva odiarmi, ma continuava a cavalcarmi, dondolando avanti e indietro come facevano le donne, e non su e giù, usando il mio cazzo per masturbarsi come se tutto il resto non contasse.

Dio, quanto era eccitante.

«Ci ho pensato proprio oggi» disse. «Per questo ti ho portato qui.»

Spalancai gli occhi. «Cosa?»

«Sei un uomo, Tyler. Non importa cosa io ti dica o cosa tu scelga di credere… ci sarà sempre questo Neanderthal dentro di te che vuole rivendicarmi. E allora rivendicami, se necessario, e ho pensato che qui…» Rallentò i movimenti e per la prima volta mi sembrò incerta. «Ho pensato che se avessimo giocato, per te sarebbe stato più facile lasciarti andare. Soddisfare quella parte di te che non vuoi riconoscere. Quella che nascondi. Perché è una parte più grande di quanto pensi.»

Per dimostrare la sua tesi, mi graffiò forte l’addome con le unghie, e la mia mano la sculacciò così in fretta che a malapena mi resi conto di cosa avevo fatto. Lei emise un piccolo gemito e affondò su di me.

«Vedi? Ne hai bisogno. E anche io. Ti porterò in tutti i posti in cui sono stata e mi farò scopare lì, così potrai riscrivere la mia storia come se fosse la tua, se lo vuoi» promise. «Lascia che faccia questo per te.»

La guardai con stupore. Con gratitudine. Era così intelligente e generosa, e non c’era bisogno che io mi preoccupassi del suo benessere. Come sempre, era lei a detenere il controllo su entrambi, anche quando decideva di cederlo a me.

«Non so cosa dire» ammisi.

«Dimmi di sì. Dimmi che porterai a termine il gioco.»

Mi ero sbagliato. Non era Salomè. Era Ester, che usava il suo corpo per salvare il suo regno, il nostro regno, mio e suo. E come potevo lasciarmi andare agli istinti più primordiali e rivendicarla, sapendo questo? Sapendo quanto fosse generosa e coraggiosa?

«Non mi sembra giusto trattarti così… rivendicarti come se fossi una proprietà. E, soprattutto, non voglio farti del male.»

«Io voglio che tu mi rivendichi come tua proprietà» rispose, sussurrandomelo nell’orecchio. Il cambiamento di inclinazione fece stringere maggiormente la fica intorno alla mia lunghezza e trattenni un respiro. «Se mi farai male, te lo dirò. Confida che ti chiederò di fermarti, in quel caso, come io confido che ti fermerai se te lo chiederò. Va bene così?»

Maledizione sì, andava benissimo. Sembrava troppo bello per essere vero, ma d’altronde quella era la mia Poppy, come se Dio stesso l’avesse creata apposta per me. Magari era davvero così.

Decisi di fidarmi di lei. Di fidarmi di Lui.

Una volta presa la decisione, le afferrai le cosce e mi alzai in piedi, tenendo il suo bacino incollato al mio mentre mi spostavo verso il divano. La baciai, un bacio dolce e rovente, per ricordarle quanto la amassi prima che la parte violenta di me prendesse il sopravvento, cosa che successe appena le nostre bocche si separarono. Misi giù Poppy e la capovolsi a pancia sotto, sul bracciolo del divano, così che il suo culo fosse più in alto rispetto alla testa, e poi infilai la punta del mio cazzo nella sua apertura.

«Chiudi le gambe» ordinai. «Rendila più stretta.»

Obbedì e io affondai con un gemito.

«Sì, stretta così» riuscii a dire. «Mi fai stare bene.»

Mi ritirai per spingermi di nuovo dentro, talmente forte che i suoi piedi si sollevarono da terra, e proseguii così, con il suo bel culo tra le mani e la fica liscia intorno al mio uccello, e i suoi gemiti mentre sfregava il clitoride contro il solido bracciolo del divano.

E nel momento in cui Poppy, vestendo i panni di Ester, mi dimostrò tutto il suo amore per noi e per un futuro tanto effimero da risultare inesistente, compresi che lì non c’era peccato. Quello era amore, era sacrificio: l’esatto opposto del peccato e forse ero folle a pensare che Dio fosse lì con noi, in una stanza sul retro di un locale per spogliarelli, ma era così. Poppy aveva accolto il peggio di me e lo aveva cancellato con il suo amore, proprio come il Signore faceva con noi peccatori ogni momento di ogni giorno.

Il sentimento che io e Poppy avevamo condiviso in chiesa, la sensazione della presenza e della promessa di Dio, era con noi anche in quel momento e mi stringeva il petto mentre la sola forza dell’aria mi dava capogiri, e ancora una volta mi sentii come uno sposo, un uomo che urlava la sua felicità agli amici e ai familiari, e quella stanza era il nostro chuppah, la nostra tenda nuziale, le tenui luci blu erano le lampade di dieci vergini, i nostri corpi riecheggiavano l’unione che Dio aveva già forgiato tra le nostre anime immortali.

Come poteva non valere quanto un matrimonio? Come poteva non essere altrettanto vincolante e intimo l’essere solo noi, nudi, in presenza di Dio? Era quantomeno un fidanzamento, una promessa, un giuramento.

Sculacciai la mia promessa sposa, desiderando poter bere i suoi strilli come se fossero scotch e ingoiare i suoi gemiti. La presi con forza, accogliendo i capelli blu che le ricadevano sulla schiena, la linea delicata del punto vita stretto che si allargava sui fianchi e nei glutei perfetti, la fica bagnata che si serrava a me, e l’apertura rosea del suo culo: tutto questo era mio. Ero il monarca di tutto quello che osservavo, no, ero il padrone di tutto ciò, e la sculacciai, la graffiai e la penetrai ripetutamente, fino a quando, finalmente, emise un suono a metà tra un rantolo e un lamento; poi, pulsò intorno a me e le sue mani graffiarono la pelle del divano, perché si era persa del tutto, mentre il suo corpo rispondeva solo al mio.

Anch’io mi sentivo perso, in quel momento avevo riscritto la storia, la storia del suo corpo, facendo sì che quella stanza e gli orgasmi che le avevo procurato appartenessero solo a me. L’avevo resa mia e di nessun altro uomo, le avevo fatto una promessa di matrimonio nel mio cuore, e fu il sapere che fosse mia che mi fece uscire da lei, voltarla e metterla in ginocchio. Volevo che fosse testimone del mio orgasmo, volevo che vedesse cosa mi donava.

Tenendo il guinzaglio in una mano, con l’altra serrai il cazzo con pressione brutale, usando l’umidità che Poppy aveva lasciato su di me come lubrificante; mi ci vollero solo un paio di spinte decise per farmi esplodere getti di sperma sulle sue labbra in attesa, sul collo da cigno e sulle lunghe ciglia.

La punta della sua lingua, rosea e appuntita, leccò una goccia dal suo labbro superiore e poi lei mi rivolse uno sguardo tenero e soddisfatto che fece fuoriuscire da me ancora un fiotto di liquido che le atterrò sulla clavicola.

Per qualche istante entrambi respirammo pesantemente. L’aria era ancora satura del nostro piacere, ma era l’unica cosa che si percepiva: la tensione, l’amarezza e la rabbia di poco prima erano svanite. Aveva funzionato, il gioco di Poppy aveva funzionato. Avevo dato fuoco, fino a ridurli in cenere, alla gelosia e agli istinti primordiali, e, nel frattempo, anche a qualcos’altro; forse al mio senso di colpa o alla sensazione di aver peccato. Qualcosa si era spostato, come mi era già successo sull’altare, quando la linea di demarcazione tra sacro e profano si era confusa del tutto e mi ero sentito come se stessi prendendo parte a qualcosa di sacro e come se avessi appena premuto le mani nude sul trono del Dio misericordioso, in una nuvola di incenso e sudore.

Mi inginocchiai davanti a Poppy, slegai il nastro di seta e lo usai per rimuovere con delicatezza i residui del mio orgasmo dal suo volto. «Game over» mormorai piano, tracciando i contorni del suo volto con la punta del naso.

«Chi pensi abbia vinto?» sussurrò.

La avvolsi tra le braccia e la strinsi a me, baciandole la fronte. «È il caso di chiedere? Hai vinto tu, Agnellino.» Si accoccolò su di me e io la cullai avanti e indietro: il mio bene prezioso, la mia dolce donna. «Vinci sempre tu.»