Capitolo Diciannove

La differenza tra invidia e gelosia è sottile, ma netta, una volta che si sono provate entrambe. Gelosia è volere quello che ha qualcun altro, come, per esempio, volere la stessa auto o la stessa casa di un vicino (o voler essere l’uomo che possiede il cuore della tua ragazza, piuttosto che uno stronzo WASP1 che probabilmente ha un cassetto solo per tutti i suoi gemelli).

Invidia è detestare che qualcun altro abbia qualcosa che non hai e odiare quella persona perché ce l’ha, e, per esempio, avere voglia di tagliare le gomme dell’auto del tuo vicino perché non si merita una BMW e tutti lo sanno, e se tu non puoi averla allora non è affatto giusto che ce l’abbia lui.

Sterling rientrava nell’ultima categoria. Non voleva Poppy più di tutto, probabilmente non più di quanto volesse altre cose nella sua vita: una nuova casa per le vacanze, un nuovo yacht, un nuovo fermacravatta. Ma l’idea che qualcun altro l’avesse gli rodeva dentro, come un parassita affamato di possesso che si faceva strada nelle sue budella.

Quel giorno avevo avuto molto tempo per rifletterci, perché a quanto pareva Poppy risultava dispersa. All’inizio, dopo che Sterling se ne era andato, avevo cercato di mantenere la calma, facendo su e giù nel mio ufficio mentre la chiamavo e le mandavo dei messaggi; la busta gialla come una lettera scarlatta che bruciava sulla mia scrivania. Ma cosa le avrei detto se avesse risposto? Che Sterling mi aveva fatto visita e, oh, ci aveva pedinati e, dimenticavo, mi stava anche ricattando per fare in modo che la lasciassi in un venerdì come un altro e insomma… che ne pensava di guardare insieme qualcosa su Netflix quella sera?

Ma non rispose alle chiamate o ai messaggi, e di solito lei rispondeva subito, così trascorsi una lunga ora a camminare in tondo nel mio ufficio. Sarei andato a casa sua, decisi. Era una questione davvero importante e dovevamo parlarne subito, ma avevo ancora il confronto con Millie in testa, per non parlare dei maledetti segreti contenuti in quella busta, che infiammavano i miei sensi di colpa e le mie paure. Ero troppo spaventato per andare a piedi da lei, temevo di essere beccato… di nuovo.

Ma poi avrei voluto sgridare me stesso per essere una tale femminuccia. Dovevamo risolvere la questione e quello era più importante di qualsiasi altra cosa. Sarei andato a farmi un’altra corsetta, tutto lì. Gli abitanti della cittadina erano abituati a vedermi correre a tutte le ore del giorno e della notte e, se durante la corsa, mi fossi avvicinato alla vecchia casa degli Anderson, a nessuno sarebbe parso strano.

Mi cambiai in fretta indossando indumenti sportivi, attaccai il cellulare al braccio e in meno di due minuti giunsi a casa di Poppy. La sua Fiat era parcheggiata nel vialetto, ma quando mi inoltrai nel giardino – ancora una volta grato per i cespugli incolti che fornivano un’ottima protezione – e bussai alla porta, non ottenni risposta. Dove diavolo era finita? La situazione era grave e piuttosto urgente e lei non era disponibile? Stava facendo un pisolino? Era sotto la doccia?

Bussai di nuovo e attesi. Mandai un messaggio, bussai ancora e continuai ad aspettare. Camminai su e giù, bussai un’ultima volta e, sbraitando un «vaffanculo», aprii la porta con la chiave nascosta sotto al vaso della pianta di bambù.

Come entrai, mi resi conto che non dormiva e non era sotto la doccia. In casa c’era il genere di silenzio dato dal vuoto, dall’assenza, e infatti vidi che il cellulare e la borsa non erano al solito posto sulla scrivania, anche se le chiavi dell’auto erano ancora lì. Era forse andata in centro a piedi? Al bar o in biblioteca? Mi voltai per andarmene, ma un pensiero si formò nella mia mente e fu come ricevere una pugnalata al petto con una lama ghiacciata.

E se fosse uscita con Sterling?

Mi afflosciai contro il muro. Aveva senso. Davvero avevo pensato che fosse venuto a Weston solo per lanciarmi un avvertimento? Che, dopo avermi dichiarato guerra, avrebbe temporeggiato prima di andare all’attacco? No, probabilmente, dopo essere uscito dalla chiesa era andato dritto da Poppy e, mentre io facevo su e giù come un idiota sul logoro tappeto del mio ufficio, lui era impegnato a persuaderla a seguirlo da qualche parte. A cena. A bere qualcosa. In qualche hotel elegante a Kansas City, dove l’avrebbe scopata contro una finestra panoramica.

La lama di ghiaccio continuò a pugnalarmi, alla gola, alla schiena, al cuore. Non provai nemmeno a combattere i due draghi gemelli, gelosia e sospetto, che si attorcigliavano ai miei piedi, perché sapevo senza ombra di dubbio di avere ragione. Non esisteva altro motivo per cui lei avrebbe ignorato le mie chiamate e i messaggi.

Era con Sterling. Era con Sterling e non con me, e io non avevo alcun potere di cambiare le cose.

Dopo aver verificato che Poppy non si trovava a casa, mi recai al bar, in biblioteca e in vineria, per essere assolutamente certo che non fosse uscita per andare a lavorare da qualche altra parte, invece che alla sua scrivania. Ma no, non l’avevo trovata in nessuno di quei posti e, quando tornai a casa e mi tolsi il cellulare dal braccio, lei non aveva ancora chiamato né risposto ai miei messaggi.

Il vescovo Bove, invece, aveva chiamato.

Non lo richiamai.

Quella sera, con il gruppo giovanile fui un disastro. Un disastro arrabbiato e distratto, ma per fortuna la serata era dedicata a giocare con la Xbox e frustrazione e tensione si mimetizzarono nel chiasso prodotto dai ragazzi che si sfidavano. A fine serata, recitai solo una breve preghiera.

«Signore, l’autore del salmo ci dice che la Tua Parola illumina i nostri passi. Anche se non sempre sappiamo dove ci stai portando, prometti di mostrarci il passo successivo. Ti preghiamo affinché Tu mantenga quella luce accesa per noi, così che il prossimo passo, la prossima ora, il prossimo giorno siano chiari. Amen.»

«Amen» mormorarono i ragazzi.

Poi tornarono a casa, alle loro preoccupazioni, che, buon per loro, non erano problematiche e stressanti come le mie: i compiti, le infatuazioni, i genitori inflessibili e la laurea che sembrava sempre troppo lontana. Mi ricordavo bene di quei problemi, anche se erano stati pesantemente messi in ombra dalla morte di Lizzy. Gli adolescenti vivevano le emozioni diversamente dagli adulti, in maniera piena e potente, senza il supporto dell’esperienza a ricordare loro che a un brutto voto o a un amore non corrisposto si poteva sopravvivere.

Ma io avevo quell’esperienza. E allora, perché mi sentivo ugualmente come se stessi per andare in pezzi?

Quando i ragazzi se ne andarono, mi sedetti in sala con il cellulare in mano, a chiedermi se avrei dovuto richiamare il vescovo, se Millie o Jordan gli avevano detto dei miei voti infranti ed era per quel motivo che mi aveva telefonato; mi domandavo pure se sarei stato in grado di tenere in piedi la messinscena nel caso non lo sapesse. E in quel momento lo vidi: il messaggio MMS.

Proveniva da un numero sconosciuto, ma capii di chi si trattava non appena lo aprii e vidi la foto: uno scatto di Poppy in un’auto, il volto girato verso il finestrino. La luce era tenue, come se la persona che aveva scattato la foto non avesse usato il flash; sembrava fosse stata scattata dal sedile posteriore, cosa che mi fece pensare che avessero un autista. Riuscii appena a distinguere ciuffi di capelli intorno al collo e alle orecchie, il luccichio dei piccoli orecchini con diamante che a volte indossava, i riflessi cangianti della camicetta elegante.

Sterling voleva che io sapessi che Poppy era con lui. Ero consapevole che poteva essere qualcosa di innocente, come una cena e una conversazione, ma, a dire il vero, quando mai una cena con un ex era del tutto innocente?

Cercai di mandar giù la sensazione di tradimento. Quali diritti avevo sul suo tempo, quando io potevo concederle solo frammenti rubati del mio? E comunque, non ero mai stato il tipo di ragazzo che pretendeva di sapere cosa la sua lei facesse in ogni istante, di conoscerne ogni pensiero, nella gelosa speranza che questo servisse a farla rimanere fedele. Anche se avessi avuto il diritto di pretendere la sua fedeltà, e non era così visto che a modo mio le ero infedele (tradendola con la Chiesa), comunque non lo avrei fatto. L’amore consisteva nel concedersi liberamente e senza condizioni, persino io lo sapevo.

Inoltre, era proprio ciò che voleva ottenere Sterling. Voleva che io mi arrabbiassi, che rimuginassi sulla sua vittoria, ma non gli avrei dato quella soddisfazione e non avrei arrecato danno a Poppy mandandole accuse via SMS o registrazioni in segreteria.

Avrei aspettato, per parlarne con lei quando sarebbe tornata. Questa era la cosa razionale da fare. Stranamente, però, avere un piano d’azione (o un piano di non azione, per così dire) non aiutò. Provai a guardare la televisione e a leggere, ma a ogni pausa tra un dialogo e l’altro, a ogni paragrafo, mi tornava in mente quella foto di Poppy ed elaboravo orribili immagini di lei e Sterling che parlavano, si toccavano e facevano sesso. Alla fine, lasciai perdere tutto e scesi nel seminterrato della casa parrocchiale per alzare pesi e fare piegamenti, fino a quando la luna non iniziò a calare. A quel punto mi scolai quattro dita di Macallan 12 e andai a letto.

Al mattino, mi svegliai con i muscoli doloranti, la coscienza che faceva ancora più male e sul telefono nessuna chiamata persa né messaggi. Nella mia testa creai una fantasia in cui facevo cadere il cellulare in una pentola d’acqua bollente o magari lo facevo cuocere nel microonde, per punirlo di tutto ciò che era andato così male nelle ultime ventiquattro ore; invece decisi semplicemente di abbandonarlo lì e andai a prepararmi per la messa e poi per la colazione a base di pancake.

Per tutta la mattinata mi mossi come un automa, soprattutto dopo che Millie mi avvisò che Poppy si era data malata per il volontariato. Mentre lo diceva, mi lanciò uno sguardo che non era proprio feroce, ma sicuramente scontroso. Dovetti sembrarle abbastanza patetico, perché prima di andarsene cedette e mi diede un bacio asciutto sulla guancia.

Arrivai al sabato pomeriggio con niente altro da fare se non cercare di tacitare le emozioni, e cosa feci? Decisi di fare ancora un po’ di esercizio.

E bere. Anche quello.

Quando finalmente terminai di pulire il seminterrato della chiesa e tornai a casa, vidi che il vescovo Bove aveva chiamato di nuovo e mi aveva anche mandato un messaggio piuttosto confuso che includeva una serie di emoticon che immaginai avesse inserito per sbaglio.

Dovrei richiamarlo.

Invece, mi cambiai indossando i pantaloncini da palestra, afferrai la bottiglia mezza vuota di scotch e mi fiondai al piano inferiore, dove alzai al massimo il volume di Britney e devastai i miei muscoli doloranti con altri pesi, flessioni e addominali mentre, tra una serie e l’altra, mi scolavo il whisky direttamente dalla bottiglia.

Volevo bere e sudare fino a dimenticare l’esistenza di Sterling. Dannazione, avrei bevuto fino a scordare che Poppy esistesse. E ci andai quasi vicino. Da ubriaco, le flessioni si fecero scomposte, evidenziando quanto il mio corpo non amasse la combinazione di sbornia e sforzo; le mie braccia stavano per cedere quando la musica si interruppe di colpo e sentii chiamare il mio nome dall’unica voce che volevo udire.

Stupefatto, mi sollevai in ginocchio mentre Poppy camminava verso di me, con indosso la stessa camicia chiara che aveva nella foto della sera prima. Significava che aveva passato la notte con Sterling? Il Macallan e la stanchezza mi destabilizzavano abbastanza da farmi venire voglia di chiederle, anzi, accusarla proprio di quello.

Ma poi anche lei si mise in ginocchio e, senza esitazione, passò le mani tra i miei capelli sudati e avvicinò la sua faccia alla mia.

Non appena le sue labbra mi toccarono, tutto il resto divampò e divenne cenere, come carta in fiamme lanciata in aria. Dimenticai i motivi per cui stavo punendo il mio corpo, perché stavo bevendo e perché non ero riuscito a dormire durante la notte.

Poppy fece scivolare le braccia intorno alla mia vita e socchiuse le labbra, invitandomi nella sua bocca e io andai laddove ero stato convocato, cercai la sua lingua con la mia e la baciai con trasporto. Le afferrai la nuca con la mano e strinsi Poppy, come non avrei potuto fare con la sua dedizione o il suo tempo, mentre l’altra mia mano si spostava sotto alla longuette stropicciata e trovava il pizzo del perizoma, spostandolo di lato per incontrare la pelle morbida tra le sue gambe. Senza tanti complimenti, spinsi un dito nella sua fica, stretta e non ancora del tutto pronta per me, anche se potevo sentire che iniziava a bagnarsi.

Lei gemette nella mia bocca per l’intrusione e, quando iniziai a sfregare il clitoride con il pollice curvando il dito dentro di lei, interruppe con un sussulto il nostro bacio.

Si inclinò verso di me mentre la masturbavo, e, che Dio mi perdonasse, ero così geloso che Sterling potesse averla toccata la sera prima che non riuscivo a distinguere se la stavo toccando per il suo piacere o per il mio, come se farla venire mi permettesse di rivendicarla.

Vederla ansimare sulla mia spalla, con i capelli e il trucco del giorno prima, i vestiti stropicciati, il classico aspetto da camminata della vergogna, era eccitante e allo stesso tempo fottutamente irritante. E irritato lo ero, più che irritato, al punto che lei trasalì per il tono della mia voce quando dissi: «Mettiti carponi. Girata dall’altra parte.»

Deglutì e lentamente obbedì. «Tyler…» iniziò, come se per la prima volta si fosse resa conto che magari mi doveva una spiegazione.

«No, non puoi parlare.» La mia voce era roca per gli esercizi e per lo scotch. «Non una fottuta parola.»

Il mio cazzo si era irrigidito fin da quando avevo sentito la sua voce chiamarmi, ma, nel momento in cui le sollevai la gonna sopra i fianchi e le abbassai il perizoma alle ginocchia, divenne così duro da far male.

Dovrei avvisarla che ho bevuto. Dovrei avvertirla che sono arrabbiato.

Invece, tirai giù i pantaloni per liberare il mio uccello, nella mente nient’altro che quella dannata fica, infilai il glande nella sua fessura e, in quel momento, la gelosia ebbe la meglio su di me. La gelosia e forse la mia coscienza che, per quanto percossa e imbavagliata, non mi consentiva di scoparla da ubriaco e arrabbiato.

Allora, mi ritrassi e, invece di fare sesso con lei, impugnai il mio pene e mi masturbai fissando il suo culo. Non fui silenzioso, gemevo ogni volta che la mia mano tornava sul glande, in più si sentiva il tipico rumore da sfregamento, tanto che Poppy si girò verso di me.

«Non è giusto!» protestò. «Non farlo, Tyler… prendimi. Voglio che mi scopi!»

«Voltati.»

«Non mi lasci neanche guardare?» chiese e parve ferita, tagliata fuori.

Be’, sai che paura, pensò Macallan Tyler e Tyler Il Bravo Ragazzo trasalì. Ma no. No, lei doveva fare ammenda. In qualche modo.

La sculacciai e lei si sfregò contro la mia mano, lasciando andare un piccolo gemito col quale mi chiedeva di più, e io glielo avrei voluto dare, ma allo stesso tempo una parte di me non voleva darle niente, non fino a quando non mi avesse detto che non era tornata con Sterling. Ma poi, al diavolo, avrebbe potuto essere parte della sua espiazione, e la sculacciai di nuovo: il mio palmo piatto atterrò sul suo fondoschiena, una natica per volta, fino a che non diventarono rosse.

Vidi che era sempre più bagnata, la fica quasi piangeva per me, ma non me ne curai; lasciai che piangesse, mi attraversò una scossa violenta, e venni sopra i suoi abiti del giorno prima, con un orgasmo potente e perverso, veloce e insoddisfacente, perché lei non era lì a goderne con me. Poppy non era soddisfatta, di conseguenza non lo ero neanche io, anche se ciò che mi aveva mosso non riguardava tanto la soddisfazione, quanto la vendetta, e, Dio, ero un maledetto stronzo.

Mi sedetti sui talloni, le guance arrossate per la vergogna. Volevo toccarla, spalancarle le gambe e leccarla fino a farla venire. Che razza di bastardo ero stato a comportarmi così con lei, mentre ero ubriaco e geloso, e senza nemmeno restituirle il piacere? Ma come potevo toccarla, quando mi sentivo così disgustoso per i miei peccati e i miei fallimenti, quando ero ancora così sospettoso e sconvolto da non potermi fidare di me stesso nell’avere il controllo sul suo corpo?

Non potevo. Mi ero comportato da bastardo, ma toccarla con quei sentimenti dentro di me sarebbe stato ancora peggio. Rimisi l’uccello nei pantaloni, presi un asciugamano e pulii come meglio potevo il mio sperma dai suoi vestiti.

«Tu non… noi non stiamo…» Lei si voltò e mi guardò, senza preoccuparsi di coprirsi e la vista della sua nudità mandò una scossa dritta al mio uccello. Sarei stato di nuovo duro in un minuto.

Mi sforzai di guardare da un’altra parte. «Ti aiuto ad alzarti. Poi penso che tu debba andare a casa.»

Poppy si rimise in piedi appoggiandosi a me. «Hai bevuto» affermò guardandomi in faccia. «Stai uno schifo.»

Cercò di accarezzarmi una guancia, ma le afferrai la mano, la tenni ferma in aria mentre ricacciavo indietro le più oscure tentazioni, dovute alla sensazione che, se l’avessi scopata abbastanza forte, avrei espulso il ricordo di Sterling da lei.

La lasciai andare.

«Vai a casa» dissi stanco. «Per favore, Poppy.»

Il suo sguardo si indurì, le sue iridi divennero enormi pietre d’agata di determinazione. «No» rispose, con la sua voce da dirigente. La voce da presidentessa del consiglio. «Di sopra. Subito.»

Non avevo intenzione di discutere, sia per il tono della sua voce sia perché di sopra era comunque la strada che doveva fare per andare via, ma una volta arrivati in soggiorno, mi poggiò le mani sulle spalle e mi guidò in bagno. Dovevo essere molto più ubriaco di quel che pensavo, perché riuscii a malapena a non andare a sbattere contro il muro e, dannazione, mi accorsi che fuori era ancora giorno. Ero riuscito a ridurmi da schifo e a masturbarmi sulla donna più perfetta al mondo, e tutto prima delle quattro del pomeriggio.

Tyler Bell: l’eroe americano.

Lasciai che Poppy mi guidasse fino al bordo della vasca, dove mi sedetti.

«Perché non vai a casa?» chiesi con tono lamentoso. «Per favore, vai.»

Lei si inginocchiò e mi slacciò le scarpe, tirando le stringhe con impazienza. «Non ti lascio conciato così.»

«Non ho bisogno di essere accudito, cazzo.»

«Perché? Perché ti senti troppo vulnerabile? È per questo che non mi vuoi scopare? O toccarmi? O anche solo guardarmi negli occhi?»

«No» farfugliai, ma sapevamo entrambi che era la verità.

«Alzati in piedi» mi ordinò, di nuovo con il tono da generale, e obbedii.

Non gradivo la sottomissione, ma mi piaceva quell’interazione, il modo in cui lei si occupava di me, come se le importasse. Come se mi amasse.

Mi tolse i pantaloni lasciandomi nudo, poi mi superò per aprire la doccia. «Dentro.»

Abbozzai una protesta quando la vidi slacciarsi la camicia e sfilarsi le scarpe col tacco. Aveva intenzione di unirsi a me.

Il getto caldo sui miei muscoli doloranti fu paradisiaco, poi mi accorsi di Poppy, con un panno di spugna in una mano e un flacone che odorava di pulito nell’altra, e per un attimo sentii solo il profumo fresco del sapone, il massaggio del panno e la pioggia leggera, calda e confortevole. Quando mi spinse a inginocchiarmi per passare lo shampoo tra i miei capelli, cedetti senza fare domande, premendo la faccia contro la sua pancia e chiedendomi se ci fosse una parola per definire la sua pelle in quel punto, un termine che indicasse qualcosa di più che “flessuosa, morbida e sexy” o che esprimesse tutte quelle cose assieme.

Chiusi gli occhi e gemetti mentre mi massaggiava il cuoio capelluto; le sue dita esercitavano la giusta pressione per rilassarmi e stimolarmi allo stesso tempo. Voltai il viso e le baciai l’ombelico, un bacio supplichevole. Non avrei saputo dire per cosa supplicassi.

Sapevo per certo, però, che, per la prima volta in ventiquattro ore, non mi stavo logorando con furiose emozioni, non rimuginavo per il senso di colpa, non punivo me stesso. Ero con Poppy e la tentazione era così vicina alla mia bocca, che mi piegai a baciarla proprio lì, facendola fremere.

Poi mise le mani sulle mie spalle e mi spinse. «Non fino a quando non ho finito di prendermi cura di te» affermò decisa e mi sciacquò lo shampoo dai capelli.

Mi fece rimettere in piedi e si lavò velocemente il corpo e i capelli. Non stava dando spettacolo, non cercava di eccitarmi, tuttavia fu una delle scene più sensuali che avessi mai visto: il modo in cui i capezzoli le scivolavano tra le dita mentre si insaponava il seno, la schiuma che le scendeva lungo l’addome disegnando un percorso sul suo pube e sulle cosce, le gocce che ricadevano sul suo culo mentre tendeva la testa all’indietro rimanendo sotto al getto dell’acqua.

Quando chiuse il rubinetto, ero duro come una pietra, e notai che fissava la mia erezione con la coda dell’occhio: la guardava con desiderio e bramosia, e mi fece venir voglia di prenderla proprio lì, sul pavimento del bagno.

Ma stavo anche tornando sobrio, appena un po’, e, mentre tentavo di scendere a patti con il coglione che ero stato nel seminterrato, mi resi conto di non meritare il trattamento dolce che mi aveva concesso. Decisi, allora, di non placcarla, mi asciugai e, senza opporre resistenza, lasciai che mi trascinasse verso il letto.

«Stenditi» mi ordinò. «E dormi.»

Non restava con me? Merda. «Poppy, mi dispiace tanto. Non so cosa…»

«Non sai cosa ti sia preso?» finì lei per me. «A quanto pare, mezza bottiglia di scotch.» Abbassò lo sguardo. «Ma credo di essermelo meritato.»

«No» ribattei, risoluto, ma forse non così risoluto come pensavo visto che, con la testa appoggiata sul cuscino, mi ero accorto che la stanza stava girando. «Non meritavi nulla del genere. Mi vergogno di me stesso e sono io a non meritare che tu sia qui. Dovresti andare.»

«Non ho intenzione di andarmene» rispose con la risolutezza che io non ero riuscito a mostrare. «Fai un pisolino, intanto io leggo un libro e, quando ti sveglierai, troverai di sicuro un modo per farti perdonare. Va bene?»

«Va bene» sussurrai, ma non ero neppure certo di meritare l’opportunità per farmi perdonare da lei. Comunque, volevo che sapesse perché ero stato un tale idiota, perché mi ero comportato da bastardo. Era lo stupido desiderio umano di giustificare le proprie azioni, nella convinzione, forse errata, che una volta che lei avesse compreso le mie ragioni, sarebbe stato possibile cancellare tutti gli errori.

Considerato che parte del mio lavoro consisteva proprio nell’ascoltare le cattive azioni delle persone e le loro motivazioni, avrei dovuto pensarci prima ed evitare di fare cazzate. Ma provavo un disperato bisogno che lei non mi odiasse a morte e, sì, forse c’era una piccola parte di me che voleva addossarle la colpa, perché diciamocelo, aveva trascorso la notte con Sterling e si era presentata da me con i vestiti del giorno prima, quindi come cazzo avrei dovuto reagire?

«So che eri con lui ieri sera» mi lasciai sfuggire e poi trattenni il fiato, terrorizzato che me lo confermasse e, ancora di più, che lo negasse.

Ma Poppy non fece nessuna delle due cose.

Invece, sospirò e mi rimboccò la coperta fino al petto. «So che lo sai» disse. «Sterling mi ha detto di averti mandato quella foto.» Spostò lo sguardo e aggiunse: «Lo odio tantissimo.»

Quello mi rincuorò abbastanza. Forse non avevano fatto sesso dopotutto. Difficile che la sua frase potesse essere interpretata come un elaborato preludio all’annuncio che intendeva lasciarmi per Sterling.

«Tyler, non me lo sono scopato» disse, tornando a sostenere il mio sguardo. E le credetti.

Forse per come lo disse, in modo aperto e trasparente. Forse per i suoi occhi, grandi e innocenti. O, forse, per qualcosa di più evanescente, quella specie di connessione spirituale che sentivo scorrere tra noi.

In ogni caso, scelsi di credere che mi stesse dicendo la verità.

Poppy prese un respiro profondo: «Ne parleremo bene quando ti sveglierai. Ma io non ho fatto… non è successo niente. Non l’ho toccato… e lui non mi ha sfiorata.» Cercò la mia mano e la strinse, e quella stretta fu l’asse su cui si inclinò, ubriaca, la stanza. «Voglio solo te, Padre Bell.»