9
La sera dopo aspetto Matt in una zona che non conosco di West London e mi sento molto positiva e determinata. Okay, ieri poteva andare meglio, ma non importa. Stasera sarà diverso.
Siamo rimasti al pronto soccorso fino all’una. Quando finalmente lui è stato medicato e ha finito di firmare moduli, era troppo tardi perché ce la sentissimo di imbarcarci in qualcosa di più romantico che andare a crollare ciascuno nel proprio letto.
Abbiamo deciso di rivederci oggi dopo il lavoro, e Matt ha detto che mi sarebbe venuto a prendere al metrò.
Perciò ho tirato una bella linea su tutto quanto. Stasera si riparte da zero. Harold e io andiamo a casa di Matt e finalmente conoscerò la sua vita!
«Sei emozionato?» chiedo tenera a Harold. «Andiamo a trovare Matt! Il nostro nuovo amico! Oh, guarda, eccolo!»
Dio, che spettacolo. Cioè, chiunque direbbe che è stupendo. Si avvicina camminando a passo sciolto, i capelli che brillano al sole, gli occhi che già sorridono, i muscoli che guizzano a ogni movimento. (Okay, è vestito di tutto punto, però i muscoli me li immagino benissimo.)
Mi saluta con un bacio e prende il mio enorme borsone.
«Ciao! Come va il braccio?» gli chiedo, preoccupata.
«Benissimo» mi sorride. E poi, sollevando il borsone: «Pesa, eh? Che c’è qui dentro?».
«La roba di Harold» spiego. «Ho portato il suo letto e la copertina… qualche giocattolo… siamo così emozionati tutti e due! Vedremo casa tua! E conosceremo i tuoi coinquilini!»
Ci avviamo, e mi guardo intorno con grande interesse, perché questo è il quartiere di Matt. Fa parte di lui. Ed è una zona magnifica di Londra: vie carinissime, una dopo l’altra. E guarda, una piazza con il giardinetto! Incrocio le dita augurandomi che lui viva in una piazzetta come questa e abbia la chiave del giardino. Ci vedo già, sdraiati sull’erba al sole, che grattiamo la testa di Harold e beviamo vino e ce la godiamo. Per sempre.
«Allora, parlami delle persone che fanno parte della tua vita» gli chiedo. «Cominciamo dai tuoi genitori.»
Mi interessano sempre, i genitori degli uomini con cui esco. Non cerco nuovi genitori, no no, è solo che… ecco, mi piace sentir parlare delle famiglie felici.
Ho raccontato a Matt dei miei la scorsa notte, mentre aspettavamo sulle sedie di plastica del pronto soccorso. Ho parlato di mio padre che è ancora vivo ma ha divorziato da mia mamma quando ero molto piccola e si è trasferito a Hong Kong. Gli ho detto che ogni tanto ci vediamo, sì… ma non è come con un vero padre. Non c’è un rapporto spontaneo e rilassato, tra noi. È più come incontrare uno zio, un amico di famiglia o qualcosa del genere.
E gli ho parlato di mia mamma che è morta quando avevo sedici anni. Ho cercato di descrivergliela, di dipingerla per lui. I suoi occhi azzurri, il grembiule macchiato di colore (era insegnante di pittura) e l’eterna sigaretta. Quel suo modo adorabile di capire una battuta lievemente in ritardo e poi esclamare: “Ah, ecco, certo, che ridere!”.
Poi gli ho descritto Martin, che è stato il mio patrigno per dodici anni. La sua faccia affettuosa, il suo amore per il jazz, il suo famoso curry ai sei legumi. Gli ho raccontato di quanto fosse distrutto quando la mamma è morta, ma che poi ha incontrato una cara signora, Fran, e altre due figliastre, e di come io sia felice per lui, naturalmente, ma che per me è una situazione un po’ difficile. Ogni anno mi invitano per Natale e una volta ho provato ad andarci, però non ha funzionato granché. Perciò l’anno seguente sono andata da Maud, ed è stato un Natale rumoroso e caotico e rilassato, il migliore possibile.
E poi mi sono aperta sul serio con Matt. Gli ho detto che ogni tanto mi rendo conto di essere veramente sola al mondo, con un padre lontano e niente fratelli o sorelle, e che questa cosa mi fa un po’ paura. Poi però mi ricordo che ho le mie amiche e Harold e tutti i miei progetti di recupero e il mio lavoro…
Ho parlato tantissimo, immagino, ma nella sala d’aspetto del pronto soccorso non c’era molto altro da fare. E, quando stavo per chiedere a Matt dei suoi, l’infermiera ci ha chiamati.
Così adesso tocca a me scoprire qualcosa del suo background. Voglio sapere tutto dei suoi genitori. Le loro simpatiche stranezze… le tradizioni familiari… le importanti lezioni che gli hanno impartito mentre diventava un uomo… In sostanza, voglio scoprire perché li amerò.
Una volta Nell mi ha detto: “Ava, non è necessario che tu sia pronta ad amare qualunque cosa ti capiti di incontrare”, ma esagerava. Non è così. E comunque, in questo caso non è “qualunque cosa”, in questo caso è Matt! Io lo amo! E sono pronta ad amare anche la sua famiglia.
«Parlami dei tuoi genitori» insisto, stringendogli una mano. «Dimmi tutto di loro. Non tralasciare niente.»
«Okay.» Matt annuisce. «Allora. C’è mio padre.»
Passeggiamo in silenzio mentre aspetto che prosegua. Poi mi rendo conto che ha finito.
«Com’è tuo papà?» lo stimolo, e lui corruga la fronte come se gli avessi sottoposto un problema parecchio arduo.
«È… alto» mi risponde poi.
«Alto» lo incoraggio. «Wow!»
«Non esageratamente» chiarisce. «Circa uno e ottantacinque. Forse uno e ottantasette. Se vuoi posso controllare.» Tira fuori il telefono. «Gli mando un messaggio.»
Apre la pagina dei contatti e io mi affretto a dire: «No! No, l’altezza esatta non ha importanza. E così è parecchio alto. Fantastico!».
Spero che Matt aggiunga qualche particolare, ma lui annuisce, mette via il telefono e continuiamo a camminare, mentre io sento montare una certa frustrazione.
«E poi?» chiedo alla fine.
«È…» Riflette per un attimo. «Be’… lo sai.»
Reprimo il desiderio di ribattere: “No, non lo so, è proprio questo il punto”. So che rovinerebbe l’atmosfera, e perciò dico invece, tutta sorridente: «E tua madre? Che tipo è?».
«Oh.» Di nuovo Matt ci pensa su parecchio. «È… be’, sai… difficile dirlo.»
«Vale tutto…» insisto, cercando di nascondere la mia irritazione crescente. «Qualunque cosa. Un particolare. Grande o piccolo. Descrivimela.»
Dopo un altro silenzio, conclude: «Direi che anche lei è piuttosto alta».
È alta anche lei? È tutto quello che ha da dire? Comincio a pensare che avrò a che fare con una famiglia di giganti. Sto per chiedergli se ha fratelli o sorelle quando Matt annuncia: «Eccoci arrivati!» e io alzo la testa, sorpresa. Una sorpresa che si trasforma in un orrore incredulo.
Ero talmente presa dalla conversazione che non mi ero accorta di quanto fosse cambiato il quartiere lungo il nostro percorso. Non siamo più in una graziosa piazza con il giardino, o in una via pittoresca. Siamo di fronte all’edificio più brutto che io abbia mai visto e Matt me lo sta indicando con orgoglio. «Casa!» specifica, come per chiarire eventuali dubbi. «Che ne pensi?»
Quello che ne penso, sinceramente, è che non riesco a credere che qualcuno abbia progettato questa roba. O l’abbia costruita. È un comprensorio di cemento con delle finestre rotonde molto sinistre e inquietanti strutture rettangolari che si diramano in tutte le direzioni. In tutto sono tre palazzi, collegati da passerelle e scale di cemento, più qualche strana piattaforma angolare. Mentre lo osservo, scorgo una faccia su in alto, dalla tromba delle scale, tutta in vetro trasparente tipo prigione.
Poi però mi pento di queste considerazioni così critiche. Cercare casa a Londra è un incubo. Non è colpa di Matt se non è riuscito a trovare qualcosa di meglio.
«Wow» dico. «È… be’, il mercato immobiliare a Londra è un disastro, lo so che è difficile, perciò…» Gli faccio un sorriso comprensivo e lui mi risponde, raggiante: «Veramente. Sono stato fortunato a vedere l’annuncio. Ho dovuto sbaragliare tre concorrenti».
A momenti svengo. Tre concorrenti?
«È uno straordinario esempio del brutalismo anni Sessanta» continua entusiasta, mentre apre il portone e mi fa entrare in un atrio di cemento.
«Giusto» riesco a dire con voce flebile. «Assolutamente! Puro brutalismo.»
Mi spiace, ma secondo me una parola che deriva da “brutale” non può indicare niente di buono.
Saliamo al quarto piano con il classico ascensore da thriller violento, e Matt apre una porta dipinta di nero che dà su un ingresso. Le pareti sono di un grigio opaco e vedo una console di metallo, uno sgabello di cuoio e una scultura sistemata proprio davanti alla porta che mi fa sobbalzare terrorizzata.
È un viso di creta senza occhi e con un lungo collo, che sporge da un pannello montato nel muro, come se volesse urlarmi contro o mangiarmi. È la cosa più spaventosa e grottesca che abbia mai visto. Mi giro disgustata, e mi trovo di fronte a un’opera d’arte molto simile piazzata sul muro adiacente: in questo caso però si tratta di dieci mani tese verso di me, tipo quelle che vedi negli incubi. Ma chi fa cose del genere? Mi chino a rassicurare Harold, dicendogli: «È… è bellissimo, vero, Harold?».
Lui, però, uggiola disperato guardando la faccia di creta e non posso certo biasimarlo.
«Non aver paura» gli dico. «È arte.»
Harold mi guarda stravolto come per dire: “Ma dove mi hai portato?” e io lo accarezzo, per consolare me tanto quanto lui.
«Mi dai la giacca?» chiede Matt, e io gliela porgo, cercando disperatamente qualcosa di positivo da dire. Con la coda dell’occhio intravedo un’altra scultura, che mi pare raffiguri un corvo. Okay, un corvo può andare. Mi avvicino, con tutte le intenzioni di fare qualche complimento, poi mi accorgo che nel becco ci sono denti umani.
Non riesco a trattenere un grido di orrore, poi mi metto una mano sulla bocca.
«Che c’è?» Matt si gira: stava mettendo le giacche in un armadio così discreto che non l’avevo neanche notato. «Tutto bene?»
«Sì!» Cerco di riprendermi. «Era solo una reazione… alle opere d’arte. Wow! Sono proprio… sono tue?» La speranza è che magari siano di uno dei suoi coinquilini, ma lui si illumina in volto.
«Sì. Sono tutte di Arlo Halsan» dice, come se si aspettasse che io lo conosca. «Non sono mai stato un appassionato di arte, ma ho visto una sua mostra ed è stata un’attrazione immediata, ho pensato: io questo artista lo capisco. Mi ha travolto. Ne ho un’altra in camera da letto» aggiunge entusiasta. «È un lupo spelacchiato.»
Un lupo spelacchiato? Un lupo spelacchiato ci guarderà mentre faremo sesso?
«Fantastico!» dico con voce strozzata. «Un lupo spelacchiato! Pazzesco!»
Matt chiude l’armadio e apre una porta che di nuovo non avevo visto, perché è tutto così uniforme e liscio e monocromo. «Vieni a conoscere i ragazzi» dice, e mi spinge dentro.
La prima cosa che noto è che è uno spazio immenso. La seconda è che è tutto nero o grigio. Pavimento di cemento, pareti nere, tapparelle di metallo. C’è una zona salotto con divani di pelle nera, tre scrivanie con sopra grandi computer e un sacco da boxe appeso al soffitto, che al momento un tizio robusto che ci dà le spalle sta prendendo a pugni.
Su uno dei divani è seduto un ragazzo con i jeans e scarpe da ginnastica enormi. Ha le cuffie e sta giocando a un videogame. Mi sporgo per vedere lo schermo… e, porca miseria, è un massacro.
«Ava, Nihal, Nihal, Ava» ci presenta Matt, e Nihal solleva per un istante una mano.
«Ciao» dice e mi fa un sorriso dolcissimo, prima di tornare a concentrarsi sulla sparatoria in corso sullo schermo.
«E quello è Topher» dice Matt, indicando il tipo che sta colpendo il sacco. «TOPHER!»
Topher smette di tirare pugni, si gira verso di noi e io sussulto. Mentre Nihal è magro e ha un aspetto piuttosto banale, Topher ti colpisce. È molto robusto, con una faccia decisamente…
Ecco. Non mi piace usare la parola “brutto”. Ma è brutto. Talmente brutto che è quasi esagerato. Ha gli occhi infossati. Sopracciglia enormi e cespugliose. La pelle butterata. Eppure in qualche modo ti affascina. Emana una tale personalità anche così fermo, sudato, con i pantaloncini da pugile.
«Ciao» dice con voce roca, e indica le orecchie con i guantoni. «Auricolari.»
«Ciao, molto piacere!» rispondo timida mentre lui ricomincia a castigare il sacco. Poi noto qualcosa sul pavimento e lo fisso incredula. È una specie di robot che si sta muovendo verso di noi, tipo quelli che si usano come aspirapolvere. Ma questo porta delle lattine di birra.
Nello stesso momento anche Harold lo vede e si mette ad abbaiare freneticamente. Afferro il guinzaglio prima che parta all’attacco, e guardiamo insieme sbalorditi il robot che avanza verso Nihal.
«Sono sicuro che Harold si abituerà» dice Matt.
«Che cos’è?» chiedo io.
«Un robot. Ne abbiamo qualcuno. Uno per le birre, uno per la pizza, uno per le patatine…»
«Ma perché?» dico, ancora più sbalordita e lui mi guarda come se non capisse la domanda.
«Semplifica la vita?» Alza le spalle. «Vieni, ti faccio vedere la mia camera e poi beviamo qualcosa.»
La stanza di Matt ha le pareti nere, il pavimento di cemento grigio e la scultura del lupo spelacchiato appesa sopra il letto, che cerco disperatamente di non guardare mentre tiro fuori le cose di Harold. (Perché spelacchiato?)
Prendo la cuccia e la coperta di Harold e spruzzo su tutto gli oli essenziali. Quando Matt torna con un bicchiere di vino e una birra, esclamo: «Pronti per il pigiama party!».
«Nella mia famiglia non permettiamo ai cani di dormire in camera da letto» replica lui, e io rido, perché ha un senso dell’umorismo molto particolare. Poi però alzo la testa e vedo la sua espressione, e mi viene un tuffo al cuore. Non era una battuta. Parla sul serio. Parla sul serio?
«Harold dorme sempre nella stessa stanza in cui dormo io» spiego, cercando di dominare l’ansia. «Se no si sente solo.»
«Sono sicuro che in cucina starà benissimo» dice Matt, come se io non avessi parlato. «Mettiamo lì la sua cuccia e starà molto comodo. Vero, Harold?»
In cucina? Chi è che fa dormire un amato membro della famiglia in cucina?
«Non credo proprio.» Cerco di accompagnare queste parole con un sorriso rilassato, ma mi sento tutto meno che rilassata. Il mio cane non è un elettrodomestico e non dorme in cucina. «Gli mancherei. E allora guaisce. Non può funzionare. È che… ecco, è così e basta. Mi spiace.»
“Non mi spiace” aggiungono in silenzio i miei occhi.
Matt guarda Harold, la cuccia e poi me. Sorrido sempre, ma ho un’espressione tesa e ho stretto le mani a pugno. Cioè, questa cosa non è negoziabile. E credo che Matt se ne stia rendendo conto.
«Bene» dice alla fine. «Allora…»
«Andrà tutto bene» lo interrompo in fretta. «Vedrai. Non ti accorgerai neanche che c’è.»
Non preciso che Harold parte sempre dormendo nella sua cuccia ma a un certo punto della notte mi raggiunge sotto il piumone. Affronteremo il problema quando si presenterà.
«Ho messo qualcosa in uno dei cassettini nel bagno» dico per cambiare argomento. «Quello a sinistra.»
«Ottimo.» Matt annuisce. «Anche Genevieve metteva lì le sue…» Si blocca e segue un silenzio pesante, durante il quale la mia testa è in subbuglio.
C’è stata una Genevieve?
Certo che c’è stata una Genevieve. Certo che Matt ha un passato. Siamo due adulti, ce l’abbiamo entrambi un passato. La domanda però è questa… Quante cose vogliamo sapere, del rispettivo passato?
Matt mi ha lanciato qualche sguardo preoccupato, e adesso inspira profondamente.
«Genevieve era la mia…»
«Sì!» lo interrompo. «Capito. La tua ragazza. Hai avuto delle storie. E io anche.»
“Matt e Genevieve.” No, fa schifo. “Matt e Ava” è molto meglio.
«Ma secondo me noi siamo stati fortunati» continuo prima che lui possa saltar fuori con qualcosa che non aiuterebbe per niente, tipo che lei era fantastica a letto. «Ci siamo conosciuti in una meravigliosa bolla magica. Non sapevamo nulla l’uno dell’altra. Non avevamo zavorra. Niente zavorra» ripeto con una certa enfasi. «E oggi come oggi è un dono prezioso. Non credi?»
«Immagino di sì» dice Matt.
«Non voglio sapere nulla di Genevieve» proseguo, cercando di chiarire bene il punto. «Genevieve non mi interessa! Non potrebbe importarmene di meno! E tu non hai bisogno di sapere nulla di Russell.»
«Russell?» Si irrigidisce. «Chi diavolo è Russell?»
Oh, okay. Forse non avrei dovuto menzionare il mio ex per nome.
«Non ha importanza!» Faccio un gesto con la mano per scacciarlo. «È roba passata! Zavorra! Noi non ci occupiamo della zavorra. Okay? La nostra è una storia che prevede soltanto il bagaglio a mano.» Mi avvicino a Matt fino a trovarmi di fronte a lui e guardo il suo viso bello, onesto e deciso. «Ci siamo noi» sussurro. «Qui e adesso. Solo questo conta.» Sfrego delicatamente le mie labbra sulle sue. «D’accordo?»
«D’accordo.» Gli occhi di Matt si increspano mentre mi guarda e sorride. «E sì, siamo stati fortunati.» Arriva Harold e Matt allunga una mano e gli accarezza la testa. «In quanto a te» gli si rivolge in tono scherzosamente severo «sarà meglio che non russi.»
«Non russa» gli assicuro, e sono sincera. Non russa. Uggiolare nel sonno non è russare. È un suono completamente diverso.
Sto per baciare di nuovo Matt quando il suo cellulare suona e lui lo prende dalla tasca. Fa un gesto di disappunto e dice: «Scusa. Lavoro. Fai come se fossi a casa tua…».
«Ma certo! Tranquillo!»
Mentre lui risponde, torno nel soggiorno e mi guardo in giro speranzosa.
Mi sto già abituando al nero. Forse però potrei suggerire qualche tocco di colore. Sì! Ad esempio un telo a tinte vivaci. Ci vorrebbero qualche telo e qualche cuscino.
Adesso Topher si è messo una felpa e siede a una delle scrivanie, davanti a uno schermo.
«Ciao, Topher» gli dico, avvicinandomi tutta sorridente. «Non ci siamo neanche presentati. Io sono Ava e lui è Harold. Non vediamo l’ora di conoscerti meglio.»
«Oh, okay.» Topher ci lancia un’occhiata di sfuggita. «Lietissimo. Ma non ti piacerò. Tanto perché tu lo sappia.»
«Non mi piacerai?» Scoppio a ridere. «E perché no?»
«Io non piaccio a nessuno.»
«Veramente?» Decido di stare al gioco. «E come mai?»
«Provo emozioni fuori moda. Malinconia. Invidia. Rabbia. Schadenfreude.» All’improvviso, si mette a digitare furiosamente sulla tastiera. «E poi sono un bastardo.»
«Non ci credo.»
«E invece sì. Sono meschino. Non faccio mai l’elemosina a nessuno.»
«Hai creato una fondazione benefica» fa notare Nihal, che ci passa accanto diretto alla sua scrivania. «Topher dice un sacco di stronzate» continua rivolto a me. «Non starlo a sentire.»
«Ho creato una fondazione benefica per incontrare le ragazze» ribatte subito Topher. «Le ragazze adorano la beneficenza. Scommetto che pure tu la adori, Ava.» Mi guarda con quei suoi occhi profondi. «Ovviamente. Oh, beneficenza. Io adoro la beneficenza. Su, facciamo sesso, visto che dai tutti quei soldi del cazzo in beneficenza.»
«Con chi hai fatto sesso?» chiede interessato Nihal.
«Lo sai benissimo con chi ho fatto sesso» risponde Topher dopo una breve pausa. «E sai anche che mi ha spezzato il cuore. Perciò ti ringrazio per aver rivangato la cosa.»
«Oh, lei.» Nihal fa una smorfia. «Scusa. È passato un bel po’ di tempo, però» continua in una specie di sussurro «e pensavo che nel frattempo magari avessi conosciuto qualcun’altra.»
Topher alza la testa e gli lancia un’occhiataccia. «Il robot degli snack va ricaricato.»
«Tocca a te» dice timidamente Nihal.
«Cazzo!» Topher sbatte con violenza la mano sul piano della scrivania con una disperazione degna di un personaggio di Shakespeare. «È la peggiore di tutte le incombenze domestiche. La peggiore.»
Non capisco se scherza o è psicopatico. Forse tutte e due le cose.
«La peggior incombenza domestica?» lo sfido. «Caricare un robot di snack?»
«Ma sì, certo.» Topher prende il cellulare e digita qualcosa, accigliato. «Più una macchina è utile e comoda, più mi infurio quando devo occuparmene. Tipo svuotare la lavastoviglie. Lavo i piatti a mano pur di non doverlo fare, e tu?» All’improvviso l’espressione tesa si distende. «Nihal, bugiardo di merda, guarda che tocca a te.» Gli sventola il telefono sotto il naso. «L’ho segnato. Tocca. A. Te.»
«Io non ce l’ho la lavastoviglie» lo informo.
«Okay» annuisce Topher. «Se mai ne avrai una, la amerai per una settimana. Da quel momento in poi, la darai per scontata e ti lamenterai quando dovrai concederle un minimo di cura e attenzione. Gli esseri umani sono delle merde ingrate. Io per lavoro mi occupo della natura umana» continua. «Perciò lo so bene.»
«Natura umana?» Lo guardo incuriosita. «Che cosa fai?»
«Sondaggi.» Topher indica i tre computer sulla sua scrivania. «Sondaggi di opinione. Raccolgo punti di vista, processo i numeri e dico ai politici e alle aziende quello che pensa la gente. E non è piacevole. Gli esseri umani sono tremendi. Però questo probabilmente lo sapevi già.»
«Gli esseri umani non sono tremendi!» rispondo indignata. Lo so che scherza. (Credo che scherzi.) Ma sento comunque il bisogno di offrirgli una visione più positiva. «Non dovresti andare in giro a dire che gli esseri umani sono tremendi. È troppo deprimente! Devi pensare positivo!»
Topher ha l’aria parecchio divertita.
«Quanti esseri umani hai intervistato, Ava?»
«Cioè…» Sono imbarazzata. «Ovviamente io parlo con la gente…»
«Io ho i dati.» Dà un colpetto a uno dei computer. «Gli esseri umani sono deboli, ipocriti, bigotti, inaffidabili… mi vergogno degli esseri umani. Incluso me stesso, naturalmente. Nihal, lo vuoi caricare quel robot del cazzo o no?»
«Devo mandare un’email» replica Nihal in tono fermo ma gentile. «Lo faccio fra un minuto.»
«E tu che lavoro fai?» chiedo a Nihal.
«Nihal manda avanti la Apple, solo che è troppo modesto per dirlo» afferma Topher.
«E smettila, Topher.» Nihal è molto imbarazzato. «Non sono così in alto nella carriera. Casomai… non è…»
«Ma lavori per la Apple.»
Nihal annuisce, poi mi chiede, educato: «E tu cosa fai, Ava?».
«Scrivo i bugiardini per la Brakesons. È un’azienda farmaceutica.»
«Li conosco» annuisce Nihal.
«Ma vorrei anche diventare aromaterapeuta e sto scrivendo un romanzo, perciò, sai com’è. Ho varie cose in ballo. Mi piace sfidare me stessa.»
«Figo» dice timido Nihal, poi si mette le cuffie e ricomincia a digitare. Sono entrambi così immersi nelle loro attività che non so bene cosa fare. Poi però, con un gesto improvviso, Topher spinge indietro la sedia.
«E va bene» dice. «Lo carico io il robot. Nihal, mi devi un rene.»
Mentre lui marcia verso la cucina, ricompare Matt, a occhi bassi.
«Ehi» dico, e vederlo tornare è un sollievo, anche se non lo ammetterei mai. «Tutto a posto?»
«Oh.» Matt mi mette a fuoco, direi con un certo sforzo. «Sì. Hai bevuto qualcosa? Stai bene? I ragazzi si sono occupati di te?»
«Sì! Alla grande!»
Aspetto che mi risponda, ma poi capisco che non mi ha neanche sentita. Sembra molto teso. Oddio, è successo qualcosa di brutto?
«Parlami del tuo lavoro, vorrei sapere tutto» lo incoraggio. «Ci sediamo? O vuoi che ti faccia un massaggio?»
«Scusa.» Si sfrega la fronte. «No no, tutto a posto. Solo che… devo sistemare un paio di cose. Mi dai dieci minuti?»
«Fai con calma» gli dico, provando a rassicurarlo. «Io sto benissimo. Non ho bisogno di essere intrattenuta.»
Mi guardo intorno cercando qualcosa da fare e noto una lavagna bianca, coperta di parole. Mi avvicino per vedere cos’è, e poi la fisso, sconcertata. In alto, tutto in maiuscolo, c’è scritto CLASSIFICA DEI BASTARDI, e sotto i nomi: Topher, Nihal, Matt; ognuno di loro ha un punteggio. Nihal 12, Matt 14 e Topher 31.
Nihal si accorge che sto fissando la tabella e si abbassa le cuffie.
«Cos’è una classifica dei bastardi?» chiedo, sbigottita.
«Se qualcuno si comporta da autentico bastardo e dà veramente fastidio, fa un punto. Chi perde offre da bere una volta al mese. Tocca sempre a Topher, ma se non avessimo la classifica si comporterebbe molto peggio.»
«Aspetta, Nihal» dico prima che si rimetta le cuffie. «Non riesco proprio a immaginare te come bastardo.»
«Lo sono eccome» mi garantisce lui.
«Tipo? Fammi un esempio.»
«Ho detto a Topher che la sua maglia nuova faceva schifo.» A Nihal brillano gli occhi. «Ci è rimasto malissimo. Costava un sacco. Mi ha dato sei punti. Ma fa veramente schifo.»
Si rimette le cuffie e riprende a digitare. Ormai la stanza l’ho esplorata in lungo e in largo, perciò mi siedo su uno sgabello da bar di pelle nera e controllo il telefono. Sarika è in giro a comprarsi vestiti e ha mandato circa sedici foto scattate nei vari camerini per avere il nostro parere, perciò le faccio scorrere e comunico quello che ne penso.
Nero corto stupendo! Blu con perline okay ma quelle maniche? Che scarpe?
Intanto, tengo d’occhio Matt. È immobile, sta guardando qualcosa sul telefono con la faccia scura. Quando finalmente si muove, mi aspetto che vada alla sua scrivania. Invece apre un altro armadio nascosto e tira fuori…
Cosa? Mi si chiude lo stomaco. Non sarà mica…
«Ehi, Matt» chiedo con noncuranza. «Cos’è?»
«Un putter.» Matt lo solleva per farmelo vedere. «Una mazza da golf. Mi aiuta a riflettere.»
Golf? Mentre lo guardo inorridita prende anche un paio di palline e le posa su una striscia di tappeto verde che non avevo notato, perché era nascosto dal divano nero. Tira una delle due verso una buca artificiale, poi aspetta che una specie di macchinetta gliela rilanci, con la fronte aggrottata, perso nei suoi pensieri. E poi lo rifà. E lo rifà ancora.
«Credevo che il tuo sport fossero le arti marziali!» dico, cercando di avere un tono allegro. «Non il golf.»
«Tutti e due» dice Matt, guardandosi intorno.
«Tutti e due!» Stringo i pugni. «Be’… fantastico! Davvero. Cioè, qualunque hobby va benissimo, no?»
«Giocano tutti a golf nella sua famiglia» dice Nihal, che senza far rumore si è seduto su uno dei divani e sta caricando un altro videogame. «È una specie di ossessione familiare, vero, Matt?»
«Non un’ossessione» ride lui mentre allinea la mazza. «Ma lo prendiamo piuttosto sul serio, questo sì. Mia nonna è stata campionessa nazionale austriaca quand’era giovane, e mio fratello è diventato professionista. Ecco.»
Sputacchio il vino e tossisco freneticamente, sforzandomi di nascondere il mio turbamento. E me lo dice adesso?
«Non ne hai mai parlato» osservo, con un sorriso forzato. «Non è buffo? Nel tempo che abbiamo passato insieme, non hai accennato al golf! Neanche una parola!»
«Oh.» Matt alza le spalle con indifferenza. «Già. Si vede che non c’è stata occasione.»
«Tu giochi?» mi chiede educatamente Nihal.
«Ehm…» Deglutisco. «Direi proprio di no…»
«Madame.» La voce profonda di Topher alle mie spalle mi interrompe. «Ecco a te una festa per gli occhi.»
Mi giro e non riesco a trattenere un urlo. Mi porge un vassoio bianco su cui sono posate quattro bistecche rosse, crude, frementi. Sento il loro detestabile odore di carne. Vedo il sangue che sgocciola.
«Stasera bistecche» spiega Topher. «Scegli la tua. Scommetto che la preferisci al sangue.»
«Ti spiacerebbe… allontanarle da me?» riesco a dire, sul punto di vomitare.
«Oh, Ava è vegetariana.» Matt prepara il lancio. «Mi sono dimenticato di dirvelo.»
«Vegetariana!» Topher si blocca. «Okay.» Guarda di nuovo le bistecche. «Quindi… media cottura?»
Dovrebbe essere una battuta? Perché sento ancora nel naso il disgustoso olezzo della carne e quelle bistecche un tempo erano un animale.
«Non importa, mangerò un po’ di verdura» dico con voce flebile.
«Verdure.» Topher è preso alla sprovvista. «Bene. Okay. Verdure.» Riflette. «Ne abbiamo?»
«Abbiamo dei piselli, credo» dice vago Nihal, gli occhi fissi sullo schermo. «Ma sono vecchissimi.»
«Se lo dici tu.» Topher si avvicina a Nihal. «Okay, Nihal, scegli la tua.» Abbassa il vassoio in modo da fargli vedere le bistecche, e in quel momento arriva un turbine bianco e marrone, accompagnato da un raschiare di zampe.
Oh, mio Dio. No.
«Harold!» grido, ma è già all’altro capo della stanza, con una bistecca cruda e grondante in bocca.
«Che cazzo succede?» Topher fissa a occhi sgranati il vassoio, su cui adesso ci sono soltanto tre bistecche. «Quel cane ha appena rubato una delle mie bistecche? Non l’ho neanche visto.»
«Cosa?» Matt posa la mazza da golf e ci guarda incredulo.
«È arrivato dal nulla.» Topher è sconvolto. «È una specie di razzo.»
Guardiamo tutti Harold, che ci scruta con un’aria maligna, di sfida, e poi comincia a mangiare, il cane più felice del mondo.
«Quella è una bistecca cresciuta in campagna e nutrita d’erba» commenta Topher, fissando Harold. «Ho acceso un mutuo per comprarla.»
«Mi spiace» dico disperata. «Posso… rimborsarti?»
«Be’, era la tua» replica Topher. «Perciò, sai com’è. Veditela con lui.»
Mentre Harold finisce di spazzolarsi la bistecca, Nihal scoppia a ridere, ed è davvero uno spettacolo disarmante. La sua faccia si accartoccia tutta come quella di un neonato e gli si annebbiano gli occhiali.
«Topher, eri proprio fuori!» dice tutto allegro. «Niente sconvolge mai Topher» precisa rivolto a me. «Solo quello valeva il prezzo della bistecca.»
«Non ero sconvolto.» Topher ha recuperato la calma.
«Eccome se lo eri, e…» Nihal si interrompe al suono del campanello. «Chi è?»
«Vado io» dice Matt raggiungendo il citofono. «Sarà una consegna. Sì?» Si sente gracchiare qualcosa di incomprensibile e lui guarda nel piccolo monitor. «Sì? Chi è? Non vedo…» Poi cambia espressione. «Oh.» Deglutisce. «Mamma. Papà. Ciao.»