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La sera dopo, ho il cuore che saltella come impazzito. Mi preparo per la cena, guardandomi nel minuscolo specchio incrinato che c’è in camera mia (qui tutto è vecchio e pittoresco) e non riesco a pensare ad altro che a questo: che possibilità ho?
Al momento mi piacerebbe avere un aspetto più italiano. Lo staff qui al monastero è interamente composto da persone con lucenti capelli scuri e una pelle olivastra che sembra morbidissima, mentre io al sole mi riempio di lentiggini. Ho quelli che gli altri definiscono “lineamenti delicati”, il che può sembrare una caratteristica positiva finché non vedi una sensuale diciannovenne con i capelli a caschetto e un nasino impertinente e spalle rotonde con le fossette…
No. Basta. Scuoto la testa impaziente per resettare le paranoie. Nell direbbe che sono una cretina. Non perderebbe tempo con cose del genere. Pensare a lei mi porta automaticamente a pensare a Harold, e non posso fare a meno di aprire la cartella “Harold” sul computer.
Far scorrere le sue foto tranquillizza il mio cuore. Harold. Mio amatissimo Harold. La vista del suo muso intelligente e vivace mi strappa un sorriso, ma neanche il video in cui cerca di entrare nel cesto della biancheria sporca riesce a risolvere tutti i miei problemi. Quando chiudo la cartella, sono ancora incerta e agitata. È stata una giornata così.
La sessione del mattino è un ricordo sfocato. Mentre tutti gli altri discutevano dei loro obiettivi letterari e prendevano appunti sulla routine quotidiana, io ero concentrata su Dutch. Quando sono arrivata era già seduto tra Scriba e Bibliofila (accidenti), ma sono riuscita a piazzarmi di fronte a lui.
Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavano. Mi ha sorriso. Gli ho sorriso. A un certo punto Farida ha parlato del conflitto nell’ambito della narrativa, io ho mimato una mossa di arti marziali rivolta a Dutch e lui ha riso. È già qualcosa, no?
Quando ci siamo separati per il pranzo, ero fiduciosa al cento per cento. Avevo anche un piano: sedermi vicino a lui, tirare fuori il mio intero repertorio di seduzione e se tutto il resto falliva chiedergli apertamente: “Che ne pensi degli amori estivi?”. (Se mi avesse guardata inorridito, avrei potuto far finta che fosse un’idea per il mio romanzo.)
Ma non si è visto. Non si è visto!
Come fai a non venire a pranzo? Il pranzo fa parte del pacchetto. È gratis. E delizioso. La cosa non aveva senso.
Peggio ancora: non si è visto neanche alla lezione di yoga del pomeriggio. Farida è venuta addirittura a chiedermi: “Sai dov’è Dutch?”.
(Notare: lo ha chiesto a me. Quindi tutti si sono accorti che fra noi c’è qualcosa. Ma a che serve che fra noi ci sia qualcosa se non c’è lui?)
A quel punto, avevo rinunciato. Ho pensato: “Se n’è andato. Non gli interessa. Né scrivere, né vedere me”. E poi mi sono maledetta per essermi distratta stamattina, perché alla fine questo corso non è certo a buon mercato. Ho deciso di concentrarmi, dimenticare l’amore e fare quello per cui sono venuta: scrivere. Non pensare agli amori estivi. Scrivere.
Mi sono seduta sul letto, a guardare la stampata del mio romanzo, chiedendomi se Chester dovrebbe saltare giù dal carro di fieno o se invece il carro di fieno dovrebbe prendere fuoco. Poi ho pensato: e se Clara si fosse nascosta sul carro di fieno e morisse bruciata? Diventerebbe un libro cortissimo, e molto triste…
E poi è successo il miracolo. Attraverso la finestra aperta, che dà su uno dei chiostri, ho sentito una voce. Era Bibliofila, che esclamava: “Oh, Dutch! Pensavamo che te ne fossi andato”.
E ho sentito la risposta: “No, ho soltanto saltato il pomeriggio. Com’era yoga?”.
Poi hanno scambiato un paio di battute che non ho decifrato, Bibliofila ha detto “Ci vediamo a cena” e lui ha risposto “Certo” e mi è venuto un gran batticuore mentre lasciavo cadere sul pavimento le pagine stampate.
E la speranza mi avvolge in una nuvola danzante. Chiudo il portatile, mi spruzzo una folata di profumo, sistemo il mio pigiama indaco, poi attraverso corridoi e chiostri illuminati dalle candele e arrivo al cortile in cui servono la cena. Vedo che Dutch c’è già, e che la sedia vicino a lui è vuota. Quella sedia sarà mia.
Affretto il passo, ci arrivo un attimo prima di Austen e la afferro con una presa d’acciaio.
«Quasi quasi mi metto qui» dico con il tono più indifferente che riesco a tirare fuori e mi siedo in fretta prima che qualcuno commenti. Faccio un bel respiro per calmarmi, poi mi giro verso Dutch.
«Ciao» sorrido.
«Ciao» sorride lui, e mi sento svenire dal desiderio.
La sua voce mi fa delle cose. Scatena delle reazioni ovunque. E non è soltanto la sua voce, è la sua presenza in toto che mi accende. I suoi occhi mi guardano come se già sapessero cosa voglio. Il suo linguaggio corporeo è molto espressivo. Il suo sorriso irresistibile. Quando prende il tovagliolo, il suo braccio nudo sfiora il mio e io avverto un brivido attraversarmi dalla testa ai piedi. No, più di un brivido. Un fuoco.
«Scusa» mormoro, chinandomi in avanti col pretesto di versargli l’acqua, e per la prima volta inspiro il suo profumo. Oddio. Sì. Ne voglio ancora, ne voglio di più. Quale che sia la combinazione di ormoni e sudore e sapone e acqua di colonia… funziona.
Un cameriere ha servito a entrambi il vino, e Dutch alza il bicchiere per brindare, poi si gira verso di me. Il suo sguardo è attento e concentrato, come se il resto della tavolata fosse scomparso e ci fossimo soltanto noi due.
«Allora» dice. «Non possiamo chiacchierare e basta.»
«No.»
«Non posso farti nessuna domanda personale.»
«No.»
«E più mi dicono di non fare una cosa, più mi viene voglia di farla.» Mi fissa intensamente con i suoi occhi scuri e io trattengo il respiro, perché mi viene subito in mente cos’altro potrebbe desiderare di fare. E cos’altro potrei desiderare di fare io.
Senza fretta, senza distogliere lo sguardo, lui sorseggia il vino.
«Mi piacerebbe sapere qualcosa di te.» Si china di lato e abbassa la voce in un sussurro. «Potremmo infrangere le regole.»
«Infrangere le regole?» ripeto, scioccata. Mi sento come se fossi l’eroina di un romanzo dell’Ottocento e un gentiluomo mi avesse appena chiesto se può scrivermi di nascosto. Dutch ride, la mia reazione l’ha divertito.
«No, vedo che non desideri infrangere le regole. E se ci rivolgessimo un’unica domanda personale?»
Annuisco. «Buona idea. Comincia tu.»
«Okay. Ecco la mia domanda.» Tace per un attimo passando un dito lungo l’orlo del suo bicchiere, poi mi guarda: «Sei single?».
Sono attraversata da una specie di scossa. Qualcosa che è allo stesso tempo gioia e forza e impazienza. Gli interesso. «Sì» dico, riuscendo a stento a parlare. «Sono… sì.»
«Fantastico.» Strizza gli occhi. «È… Sono felice di saperlo. Adesso chiedi tu una cosa a me.»
«Okay.» Mi scappa un sorriso, perché adesso stiamo giocando. «Vediamo… Sei single?»
«Oh, sì.» In questa risposta c’è un’enfasi su cui, in altre circostanze, mi soffermerei, ma non ho altre domande a disposizione.
«E quindi adesso sappiamo tutto» dico, e Dutch ride.
«Per il momento, sì. Magari potremmo farci una domanda ogni sera. Potrebbe essere la nostra regola.»
«Mica male.»
Il cameriere ci interrompe servendoci la pasta e io colgo l’occasione per guardare Dutch di nascosto, la mascella forte e le ciglia scure, e un adorabile accenno di zampe di gallina che prima non avevo notato. Non so quanti anni ha. Potrei chiederglielo domani sera. Potrebbe essere questa la mia domanda.
Ma, in fondo, mi importa sapere quanti anni ha? No. No! Per nulla!
Provo una sorta di esaltazione improvvisa. Mi sento libera! Non mi importa dei fatti e dei particolari o di come sarebbe il suo profilo su Match.com. Lui è qui, io sono qui e questa è l’unica cosa che conta.
«Aspetta, ho un’altra domanda» dico mentre Dutch si gira per passarmi l’olio. «Credo sia permessa… Dov’eri oggi pomeriggio?» Lo guardo con finta severità. «Hai saltato yoga!»
«Oh. Sì.» Prende una forchettata di pasta e sorride divertito. «Non sono un appassionato di yoga, te lo confesso. Mi piace di più…»
«Stop!» Alzo una mano. «Non dirmelo! Troppe informazioni personali!»
«Accidenti!» Per la prima volta, Dutch mi sembra veramente scocciato. «E come facciamo a chiacchierare, allora?»
«Non dobbiamo chiacchierare» gli rammento. «Siamo qui per scrivere.»
«Ah» annuisce. «Touché.»
«O, nel tuo caso, per imparare a fare il culo al tuo avversario.»
«Touché di nuovo.»
Mangio un boccone di orecchiette con le cime di rapa e il peperoncino, ed è sublime. Ma mentre ieri sera mi godevo il cibo al cento per cento, stasera mi godo al cento per cento questa deliziosa, stuzzicante conversazione. O non-conversazione.
Dutch mastica in silenzio per un attimo, poi dice: «In realtà ho affittato una macchina e ho fatto un giro sulla costa. Ci sono delle baie… dei paesini bellissimi… è stato divertente». Inghiotte un boccone, si gira verso di me e aggiunge con noncuranza: «Domani pensavo di rifarlo. Ti va di venire?».
Mentre viaggiamo lungo la costa, il pomeriggio seguente, mi gira la testa. Com’è possibile che nella mia vita all’improvviso sia tutto così giusto? Com’è che mi ritrovo a fare una gita in macchina attraverso il magnifico paesaggio italiano, con il sole che splende su di noi, la radio che suona, accanto all’uomo più perfetto del mondo?
Cerco di mostrare una curiosità vivace per il territorio, per la sua magnificenza severa e spoglia, ma la mia attenzione è concentrata su Dutch. Perché mi piace sempre di più.
Guida con sicurezza. Non si innervosisce se ci perdiamo. Cinque minuti fa ha chiesto la strada a un vecchio in un tremendo miscuglio di inglese e pessimo italiano. Il suo sorriso, però, era così seducente che il tipo è andato a chiamare in casa una donna che parlava inglese, e lei ha disegnato una mappa per noi. E adesso eccoci qui, in un parcheggio in cima a una scogliera da cui non si vedono altro che uliveti, rocce e l’infinito blu del Mediterraneo.
«Come si chiama questo posto?» chiedo, per dimostrarmi intelligente. (Non me ne importa nulla di come si chiama.)
«Non ne ho idea» risponde Dutch tutto allegro. «Ma la donna ha capito dove volevo andare. Ci sono stato ieri. È bello.»
«Volevo imparare un po’ di italiano prima di venire qui» spiego in tono di rimpianto. «Però non c’è tempo per tutto… Tu parli qualche lingua?»
«Ci provo» dice lui «ma loro non ci stanno.»
La sua mancanza di disappunto è così evidente che mi scappa un sorriso. Un sacco di gente a questo punto tirerebbe fuori delle stronzate, ma non lui.
Scendiamo da un sentiero fra le rocce fino a una piccola baia con una spiaggia di ciottoli e l’acqua turchese più limpida che io abbia mai visto. Non ci sono sdraio, ombrelloni o un bar; non è una spiaggia di quel genere. I bagnanti sono perlopiù donne anziane sedute sull’asciugamano con i foulard sui capelli e orde di adolescenti urlanti.
La spiaggia è incastonata fra gli scogli, che su entrambi i lati pullulano di ragazzi impegnati ad arrampicarsi, prendere il sole, fumare e bere birra. Mentre li guardo, una ragazza con un bikini rosso si getta da uno scoglio che affiora, strillando e agitando un braccio prima di finire in acqua. Dopo un attimo, la segue un ragazzo che si butta mulinando le gambe e creando uno spruzzo gigantesco.
Fanno una specie di lotta in mare, poi lui sventola in aria la parte superiore del bikini con un grido di trionfo, mentre lei ride istericamente. Il pubblico di adolescenti sulle rocce applaude entusiasta e Dutch mi lancia un’occhiata quasi di scuse.
«Ieri non c’era tutta questa gente» dice. «Possiamo cercare un posto più tranquillo.»
«No, mi piace.» Gli sorrido. «È più… non so… più vero. Wow» continuo, vedendo che un’altra ragazza si butta da un cornicione di roccia sporgente. «È alto, quello.»
«È divertente tuffarsi da lì.»
«L’hai fatto anche tu?»
«Certo.» Ride vedendo la mia espressione. «Ci vuoi provare?»
«Ehm… sì sì!» dico, prima di capire se sia davvero una buona idea. «Perché no?»
Troviamo uno spazio libero sulla spiaggia e io mi tolgo il caffetano, tenendo dentro la pancia. Anche se sto attenta a non guardare verso di lui, sento che Dutch mi esamina. Il mio costume è nero e scollato e so che è sexy perché Russell lo definiva Risveglia…
No. Stoppo subito questi pensieri. Non penserò a Russell. Perché mai dovrei ricordare proprio in questo momento un ex detestabile?
Ripiego il caffetano, e pudicamente distolgo lo sguardo da Dutch mentre si spoglia, ma riesco comunque a dargli un’occhiata. Ha un costume da bagno a pantaloncino blu scuro e si vede che va in palestra. Cosce muscolose e petto villoso. Mi piace il petto villoso.
Sento un rivoletto di sudore sulla fronte e lo asciugo con la mano. Qui fa ancora più caldo che sul promontorio, e le onde che si infrangono e schizzano sono tremendamente invitanti.
«Fa caldo» dico, e Dutch annuisce.
«Andiamo in acqua. Vuoi…» Indica i ragazzi che si tuffano dalla scogliera e provo un brivido di apprensione. A me basterebbe sguazzare. Ma non voglio ammetterlo e dico: «Certo!».
Dutch ridacchia. «Figo. Vieni.»
Lo seguo lungo un sentierino tortuoso che si insinua fra le rocce. Ci arrampichiamo, scorgiamo piccole grotte, ci fermiamo ogni tanto per lasciar passare gruppi di ragazzi. Quando finalmente emergiamo in cima al cornicione e guardo l’acqua punteggiata di bianco che sta laggiù, provo nello stesso tempo esaltazione e terrore.
«Pronta?» Dutch indica il trampolino naturale e io rido nervosa.
Dietro di noi c’è un ragazzo sui vent’anni che non nasconde la sua impazienza e io lo faccio passare. Lo guardiamo fare una corsetta, poi saltare e sprofondare nell’azzurro là in fondo.
«È molto alto» dico, cercando di farla sembrare un’osservazione come un’altra e non dettata dal terrore.
«È per quello che è divertente» ribatte entusiasta.
«Sicuramente!» Annuisco più volte, poi aggiungo con nonchalance: «Il confine tra “divertente” e “terrificante” è molto sottile».
Dutch ride. «Già.» Poi cambia espressione, e leggo la preoccupazione sul suo viso. «Aspetta. Tu quel confine l’hai passato? Scusami. Sono stato io a trascinarti quassù. Non so quali siano i tuoi limiti.»
Sento che sta pensando: “Non conosco affatto questa persona. Perché la incoraggio a buttarsi da una scogliera?”.
«Vuoi che scendiamo un po’ più in basso?» chiede spostandosi per far passare tre ragazzini.
Per un attimo, mi tenta. Ma poi ricordo quello che ha detto: “A volte è utile uscire dal proprio ambito, quello in cui ci sentiamo sicuri”.
«Non so» dico, guardando il mare che luccica con un senso di frustrazione e rabbia verso me stessa. «Non voglio non farlo. Sto cercando di scoprire quali sono i miei limiti, o almeno credo.»
«Okay» replica lui, attento. «E ora come ora cosa provi?»
«Voglio farlo» rispondo, provando a convincere me stessa oltre a lui. «È solo che… Quanti metri sono?»
«Non fissarti su pensieri del genere» mi rassicura Dutch. «Pensa solo al divertimento. All’emozione.»
«Okay» annuisco. Le sue parole mi aiutano. Eppure non faccio un passo verso il bordo.
«Una volta al parco ho visto due bambini» continua lui. «Uno dei due non aveva il coraggio di salire sulla struttura per arrampicate e il suo amico cercava di aiutarlo. Gli ha detto: “Con la paura impari”. Non l’ho mai dimenticato.»
«Con la paura impari» ripeto lentamente. «Mi piace. E cosa impari, saltando in mare?»
«Impari che puoi farlo.» Mi sorride, un gran sorriso contagioso. «Ci tuffiamo insieme?»
«Okay» annuisco. «Dài. Buttiamoci.»
“Forse morirò” mi dico con calma mentre facciamo un passo avanti. È possibile. D’altra parte, è un bel modo di andarsene. Ragazza muore tuffandosi in mare con un figo. Niente male.
Dutch mi prende la mano e vorrei dirgli: “No, ho cambiato idea!”, ma la mia bocca si rifiuta. “Non esiste che lo faccia” penso assurdamente quando lui mi stringe più forte. “Per carità. Non ho nessuna…”
«Uno, due, tre…»
E saltiamo.
Mentre cado nell’aria, mi manca il respiro. Non so cosa provare. Non sono in grado di provare niente. Il mio cervello è svuotato. In questo momento l’unica forza che conta per me è quella di gravità. Guardo Dutch che sorride, incoraggiante, lo sento stringere un attimo la mia mano, e poi lasciarmi andare quando entriamo in mare.
L’acqua mi colpisce con maggior forza di quanto avessi previsto. Le gambe scattano e si aprono e io precipito nel mare freddo, senza riuscire a fermarmi. Giù… sempre più giù. Devo risalire. Perché non sto risalendo? I miei polmoni non possono farcela… e quindi morirò, lo sapevo… Ah, no, aspetta, sto risalendo…
Ed ecco che sono emersa, ansimando e tossendo e sputacchiando acqua salata. Ho tutti i capelli in faccia, il costume infilato tra le chiappe e il mio cuore rischia di esplodere dalla gioia. Mi scuote il petto, ho il sangue che brucia e non riesco a smettere di sorridere… È stato pazzesco!
Dutch è a circa tre metri da me e nuota per raggiungermi, elettrizzato.
«Ce l’hai fatta!» Mi dà il cinque e io faccio altrettanto strillando: «È fantastico, vero?».
«Sì! Incredibile!»
Un altro ragazzo piomba in acqua accanto a noi e si crea un’onda che ci investe. Non è facile resistere quando l’acqua ti travolge. Non che abbia intenzione di ammetterlo, perché mi considero molto in forma.
«Devo confessarti una cosa» dico, cercando di sovrastare spruzzi e grida. «Avevo una paura bestiale.»
«Ma va’?» mi prende in giro Dutch.
«Ho dissimulato benissimo!» replico con finta indignazione mentre lui ride.
«Eh, già, come no. Stai bene?» chiede quando un’onda mi arriva in faccia.
«Sì sì, tutto a posto» dico, sputando. «Grazie.»
Una nuova ondata ci spinge l’uno verso l’altra e ci scontriamo. Sott’acqua le mie gambe battono contro le sue, spinte dal movimento del mare. Istintivamente Dutch mi afferra per la vita, poi mi lascia subito andare, spaventato, e dice: «Scusa. Non volevo…».
«No.»
«Non intendevo… Non era un…» Si interrompe.
«No» dico, un po’ senza fiato. «Lo so.»
«Non che non…» Si blocca e sul suo viso passa un’espressione imperscrutabile.
Per un attimo ci fissiamo con il respiro affannoso, i capelli incollati alla testa, le braccia che si muovono automaticamente e ritmicamente nell’acqua.
«E così» dice alla fine Dutch, per cambiare discorso «vuoi rifarlo?»
«Certo!» rispondo, però sono distratta, perché era per caso…? Stavamo per…?
Lui raggiunge a nuoto la scaletta di metallo e io lo seguo, i pensieri in un vortice. Saliamo e poi iniziamo a percorrere il sentiero verso il cornicione. È stretto e, nei passaggi più angusti, la sua pelle umida sfiora la mia. Passiamo in un istante dall’ombra al sole più vivido e bruciante. Abbiamo entrambi il respiro affannoso, anche se non stiamo parlando. È per via del caldo, della salita o per…
Oddio. Non lo sopporto. Devo venirne a capo. Quando arriviamo sull’ampio spunzone di roccia illuminato dal sole, mi blocco. Dutch si gira e mi guarda perplesso, strizzando gli occhi. Il cuore mi batte a mille, ma al diavolo. Mi sono buttata in mare: posso fare anche questo.
«Ho diritto a una domanda personale, giusto?» chiedo bruscamente.
«Oh.» Sembra colto di sorpresa. «Adesso?»
«Sì, adesso.»
«Bene. Spara. Cosa vuoi sapere?»
«Okay. Poco fa, in mare, ho avuto l’impressione che potessimo… Ma…» Mi blocco. «Insomma, sì, la mia domanda è questa.»
Lui mi guarda sconcertato.
«E cioè che cosa vuoi sapere, esattamente? Non mi hai fatto nessuna domanda.»
Ah, sì, certo. Ha ragione.
«La mia domanda è che poco fa, in acqua, ho avuto l’impressione che potessimo andare in una certa… direzione.» Mi costringo a guardarlo negli occhi. «E mi interesserebbe sapere… quale?»
I suoi occhi scuri scintillano e ho un tuffo al cuore. È lì la sua risposta. Lì. In quell’espressione. E nel sorriso lento che gli compare sul viso.
«Forse non so come rispondere» dice Dutch dopo un attimo di silenzio. «Non conosco tante parole come voi scrittori, io.»
Mentre fa un passo verso di me, guarda apertamente il mio costume. (Okay, non il costume.) Anch’io faccio un passo verso di lui e, quando siamo vicinissimi, sollevo il viso.
«Sai come funziona» dico piano. «Fatti, non parole.»
Non so che invito sia il mio. Forse a un bacio casto e romantico. Come quello che si sono dati Chester e Clara prima che lui saltasse sul carro di fieno. Ma quando le labbra di Dutch incontrano le mie, qualunque ipotesi di castità va in frantumi. Non voglio la castità, voglio lui. La sua bocca. Lo strofinio ispido delle sue guance contro la mia pelle. Voglio tutto di Dutch. Subito.
Lui mi bacia più profondamente, in modo esperto, mentre le sue mani stringono le spalline del costume come se avesse intenzione di tirarle giù da un momento all’altro. Sa di salato, di virile. I nostri corpi si sono fusi, non so come, pelle bagnata su pelle bagnata, mentre il sole ci scalda la testa e la schiena. Lui si sta già eccitando, io mi sto già sciogliendo, se non fossimo in pubblico…
Sento che qualcuno ride nelle vicinanze… di noi? Ma sono persa nelle mie sensazioni, non muovo la testa. Va bene così. È permesso baciarsi in pubblico. Siamo in Italia, il paese dell’amore. Hanno inventato il sesso. E non posso fermarmi. La mia bramosia è illimitata.
«Ciao, bella!» Un fischio acuto mi fa sobbalzare e mi guardo attorno. Sono i ragazzi della spiaggia, si accalcano a guardarci, a poco più di un metro. Accidenti. Ridono di noi, davvero. E adesso ululano e fischiano. Dobbiamo smettere. Anzi, probabilmente stiamo violando una qualche legge locale.
Con uno sforzo sovrumano, mi stacco da Dutch e lo guardo, ansante. Non sono certa di riuscire a parlare, e anche lui sembra parecchio confuso.
I ragazzi stanno ancora ridendo e ci prendono in giro, e io cerco di ignorarli. Probabilmente non avremmo dovuto sbaciucchiarci per la prima volta in un luogo pubblico davanti a gente che ci sfotte. Ma comunque è facile, col senno di poi.
«Allora» riesco a dire alla fine.
«Uh-uh.» Dutch sorride ancora.
Lo so che quella che trova le parole giuste dovrei essere io, ma al momento non mi viene neanche mezza frase. Sono troppo sconvolta.
«Anch’io ho diritto a una domanda personale» dice a bassa voce, cogliendomi di sorpresa. «Giusto?»
Una mano si infila sotto l’orlo del costume, mentre l’altra mi accarezza un orecchio. Il suo tocco è morbido e fermo nello stesso tempo. “Sa il fatto suo” mi dico, e per un attimo assaporo questo pensiero delizioso. Poi mi ricordo che sta aspettando una risposta.
«Ah, sì. Sì. Direi di sì.»
Cosa vuole chiedermi?
Aspetto che parli, ma lui resta in silenzio per qualche istante, e nei suoi occhi brilla un pensiero segreto. «Bene» dice, e mi sfiora dolcemente il naso. «Magari me la tengo per più tardi.»
Per tutto il pomeriggio, mi sento come se dentro di me avessi liberato un genietto audacissimo. Continuiamo a saltare da quelle rocce, strillando e salutandoci a mezz’aria. Nuotiamo e ci spruzziamo e ci baciamo al sole, con le bocche salate. Poi, quando siamo esausti, stendiamo i nostri asciugamani sotto un ulivo sulla spiaggia e ci sdraiamo all’ombra. Il sole filtra tra i rami e chiudo gli occhi, godendomi il calore sulla faccia.
«Secondo me il sole italiano è diverso» dico sognante. «In Inghilterra ci fregano. Tengono il sole vero, quello buono, chiuso in un armadio perché hanno paura di viziarci se ce ne danno troppo. E ogni tanto lo tirano fuori. Ma solo per ventiquattro ore. E mai quando te lo aspetti.»
Dutch ride. «Non mi stupisce che gli inglesi siano fissati col clima.»
Mentre parliamo, costruisce pigramente una torre con i ciottoli sparsi intorno a noi. Posa un sasso molto grosso, ambizioso, in cima alla pila, che crolla miseramente, al che lui scoppia a ridere e ricomincia. Quando fa una pausa, aggiungo un altro sasso alla pila e lui mi guarda sorridendo.
«Secondo te quanti riusciamo a metterne? Io dico otto.»
«Io dieci» ribatto, e prendo un’altra pietra.
Per un po’ restiamo in silenzio, concentrati sul nostro compito. Alla fine otteniamo una torre traballante di dieci sassi. Dutch vuole darmi il cinque ma io scuoto impulsivamente la testa.
«Ancora uno! Facciamola di undici.»
«Undici!» Solleva le sopracciglia. «Apprezzo l’audacia. Vai!»
Mentre prendo un ciottolo, mi sento inspiegabilmente nervosa. Lo so che è solo un gioco, però abbiamo costruito insieme questa torre e non voglio che crolli anche se avrei potuto benissimo fermarmi a dieci. Non so neanche perché ho deciso di aggiungerne uno in più. Immagino che dentro di me ci sia una voce che continua a chiedere: “E cos’altro potrei fare, adesso?”.
Provo a mettere il sasso in cima agli altri, poi tolgo la mano… e resta in equilibrio!
«Vittoria!» Dutch alza di nuovo la mano e stavolta batto il cinque, sentendomi assurdamente euforica per questa impresa comune.
«Mi sembra di tornare bambino» dice in tono rilassato, sdraiandosi sull’asciugamano. «Amo l’architettura, il design, quel genere di cose. Immagino che sia cominciato tutto costruendo castelli di sabbia sulla spiaggia.»
«Anche a me piaceva un sacco fare i castelli di sabbia» annuisco subito, con entusiasmo. «E anch’io amo il design. Colleziono mobili interessanti. È una specie di hobby.»
«Mobili?» Lui alza la testa, interessato. «Di che genere? Perché io mi…»
«Aspetta!» Lo interrompo con un mezzo gridolino di orrore. «Scusa! Non avrei dovuto dirlo. Non dobbiamo rivelare i nostri hobby.»
«Troppo tardi» ridacchia.
E gli ho anche fatto più o meno capire che vivo in Inghilterra, me ne rendo conto adesso. Sono veramente pessima.
«Non è detto che io sia inglese, fra l’altro» preciso subito. «Potrebbe essere un doppio bluff. Forse non ho neanche un domicilio fisso.»
«Aria.» Dutch scuote la testa, incredulo. «Dobbiamo rispettare le regole?»
«Sì! O almeno dobbiamo provarci. Solo una domanda personale a testa al giorno, e tu non mi hai ancora fatto la tua. Ma senti qui» aggiungo, colpita da un’ispirazione improvvisa. «Parliamo del futuro. A novant’anni, cosa farai? Dimmelo con una foto.»
«Okay.» Annuisce e riflette per un attimo. «Ricorderò una vita piena. Spero che sarò soddisfatto. Al sole, da qualche parte. Il sole vero» specifica con un mezzo sorriso. «E sarò con i miei amici, vecchi e nuovi.»
È così sincero che mi emoziona. Avrebbe potuto dire tante altre cose. Avrebbe potuto dire: “Sarò sul mio yacht con la mia quinta moglie”. È quello che avrebbe detto Russell. Anzi, adesso che ci penso, è proprio quello che Russell ha detto.
«Mi sembra perfetto» dico convinta. «E io… uguale. Sole e amici. In più, mangerò un gelato.»
«E io anche» concorda subito Dutch.» Di sicuro. L’unico motivo per cui sono venuto in vacanza in Italia è per i gelati.»
«Qual è il tuo gusto preferito?»
«È la domanda personale di domani?» ribatte lui, e io rido.
«No! Non ho intenzione di sprecare una domanda personale per questo. Scordatela. Non mi importa saperlo.»
«Peccato.» Ammicca. «Così non saprai mai quanto mi piace la nocciola.»
«È davvero un peccato» ammetto. «E tu non saprai mai che adoro la stracciatella.»
Mi sdraio di nuovo, e la sua mano si allunga pigramente a prendere la mia. Intrecciamo le dita e sento il suo pollice che mi carezza il palmo e poi mi trascina sul suo asciugamano e la sua bocca trova la mia.
«Il tuo sapore è meglio del gelato alla nocciola» mi sussurra all’orecchio.
«Non lo pensi davvero» mormoro io, e Dutch ci riflette un attimo.
«Okay, pari» ammette. «Pareggi con la nocciola. E batti il sorbetto al mango.»
«Batto il sorbetto al mango?» Spalanco gli occhi fingendomi meravigliata. «Wow. Non so cosa dire. È un complimento che non dimenticherò mai.»
E anche se scherzo, in un certo senso è vero. Non dimenticherò mai questa giornata incantata, assolata, inebriante.
Quando inizia a farsi sera, ci decidiamo a muoverci. Abbiamo passato tutto il pomeriggio sdraiati lì a baciarci, dormicchiare e chiacchierare oziosamente. Quando mi alzo mi sento tutta rigida e ho i segni dei ramoscelli sulle gambe, ma un sorriso sognante stampato in faccia.
Raccogliamo le nostre cose e tornando verso la macchina passiamo accanto a un gruppo di ragazzini che giocano a calcio su uno spiazzo brullo. La palla arriva verso di noi e finisce sulla tempia di Dutch. Lui la prende, sorride, e con un colpo di testa la rimanda ai giocatori.
«Signore!» Uno dei ragazzini lo invita a unirsi al gioco, in italiano. Dutch si ferma e mi dice: «Due minuti».
Appena comincia a giocare, si concentra totalmente su quello e io lo osservo, affascinata nel vederlo in un contesto del tutto nuovo.
A quanto pare capisce quello che gridano i ragazzi, anche se loro parlano italiano e lui inglese. (Immagino che si tratti del linguaggio internazionale del calcio.) Quando uno dei giocatori entra su di lui con un tackle aggressivo, risponde alle sue scuse con un gesto conciliante. Noto pure che è dotato di un’autorevolezza innata. I ragazzi sono deferenti, anche mentre lo stanno sfidando. Tutto mi rivela qualcosa di lui. Tutto è un lampo di conoscenza.
In quel momento Dutch mi lancia un’occhiata e dice: «Devo andare. Grazie della partita».
I ragazzini insistono perché rimanga (perfino io riesco a capirlo), ma li saluta con un cenno e un sorriso e torna da me. «Giochi bene!» dico, e lui ride, mi prende per mano e torniamo verso la macchina.
Quando ripartiamo con il sole del tramonto che batte sul parabrezza, mi giro a guardare, per imprimere nella memoria questo luogo magico, finché non svoltiamo e ci ritroviamo sulla statale.
«Mi sarebbe piaciuto portarci via la torre di sassi» dico in tono di rimpianto, e Dutch ride di nuovo.
«Sul serio! Sarebbe stato un bellissimo ricordo di questa vacanza.»
«Avresti riportato quegli undici sassi pesanti fino alla macchina?»
«Sì.»
«E poi sull’aereo fino a casa?»
«Certo!»
«E come avresti fatto a reimpilarli nella stessa sequenza?»
Ci penso un attimo, perché questa cosa non mi era venuta in mente. «Avrei trovato un modo» rispondo alla fine in tono solenne. «E poi ogni volta, guardando quella torre, mi sarei ricordata…»
Mi interrompo bruscamente, perché se non sto attenta dirò troppo. Mostrerò troppo apertamente i miei sentimenti, e lo farò scappare.
“Mi sarei ricordata dell’uomo più fantastico che io abbia mai conosciuto.”
“Mi sarei ricordata del giorno più perfetto della mia vita.”
“Mi sarei ricordata del paradiso.”
«Sarebbe stato carino» dico alla fine, in tono leggero. «Tutto qui.»
Quando arriviamo in città mi gira ancora la testa, come in un sogno. Un sogno che assomiglia a un film, cielo azzurro e adrenalina, passione e sole. Sono appoggiata al sedile della macchina e sorseggio un’aranciata freddissima che abbiamo preso lungo la strada. Ho i capelli arruffati, la pelle ancora salata e sento sulla bocca la bocca di Dutch.
So che al monastero ci aspetta una deliziosa cena già pagata, ma quando lui dice: «Ci prendiamo un pezzo di pizza?», annuisco. Non voglio dividerlo con nessuno. Non voglio dover spiegare nulla, non voglio fare conversazione. Farida ha ragione, la conversazione spicciola distrae da quello che è veramente importante, e cioè, adesso, Dutch.
Lui parcheggia in un quartiere deserto, con piazzette ombrose e vicoli su cui si affacciano pesanti portoni di legno.
«Ieri sera ho trovato un pizzaiolo» mi dice mentre camminiamo. «Non è un ristorante, è un chiosco… Ti va bene?»
«Certo. Perfetto!» Gli stringo una mano e giriamo in una viuzza ancora meno illuminata.
Facciamo una decina di passi. E poi, in un attimo, tutto cambia. Dal nulla, appaiono due ragazzi. Magri e abbronzati come quelli con cui Dutch ha giocato a pallone, ma molto diversi da loro, perché sono torvi e spingono Dutch, e dicono in italiano qualcosa che suona minaccioso. Sono ubriachi? Fatti? Che cosa vogliono?
Cerco di razionalizzare quello che vedo, e perciò il mio cervello ci mette una vita a capire come stanno le cose: siamo in pericolo. Siamo veramente in pericolo. In tre secondi, passo da un ritmo cardiaco normale a un battito impazzito dalla paura. Dutch sta tentando di farmi superare il blocco dei ragazzi, cerca di essere gentile, ma loro non ci stanno, sono arrabbiati. Perché? Non riesco proprio a… Cosa?
E adesso… no, oddio, per favore, no… uno di loro tira fuori qualcosa da una tasca e vedo il lampo metallico di un coltello.
Il tempo si ferma. Un coltello. Un coltello. Ci pugnaleranno, qui, adesso, in questo vicolo, e io non riesco neanche a muovermi. A emettere il minimo suono. Sono paralizzata dal terrore, sono una creatura mummificata e pietrificata dell’era glaciale…
Un attimo… Che succede? Cosa sta succedendo?
Dutch afferra il braccio del ragazzo con il coltello e lo storce con una manovra semplice ed efficace, riuscendo a impadronirsi del coltello. Ma come ha fatto? Come?
Nel frattempo continua a urlare: «Vai! Corri!» e capisco che si rivolge a me. Vuole che scappi.
Ma prima che riesca a mettermi a correre, lo fanno i ragazzi. Scattano e spariscono dietro l’angolo e io crollo addosso a Dutch, scioccata. Saranno passati trenta secondi in tutto, ma mi sento come se il mondo si fosse fermato e poi fosse ripartito. Lui ha il respiro affannoso ma si limita a dire: «Stai bene? Andiamo alla macchina. Magari gli viene in mente di tornare».
«Come… come hai fatto?» balbetto, e mi lancia un’occhiata stupita.
«Come ho fatto cosa?»
«A levargli il coltello!»
«Ho imparato.» Dutch alza le spalle. «Dovrebbero imparare tutti. Anche tu. Ti dà un minimo di sicurezza. Io vivo in una grande città…» Si interrompe. «Ah, già. Scusa. Niente dettagli personali.»
«In questo momento non ha importanza, mi pare» dico con una risatina che assomiglia pericolosamente a un singhiozzo.
«Aria!» Dutch si ferma affranto e mi stringe a sé. «È tutto a posto. È finita.»
«Lo so» sussurro contro il suo petto così accogliente. «Scusa. Sto bene. È una reazione eccessiva.»
«Per niente. Chiunque sarebbe sconvolto. Ma è meglio se continuiamo a camminare» dice tenendomi la mano stretta mentre ci muoviamo. «Non preoccuparti. Ci sono io qui con te.»
La sua voce placa i miei nervi scossi e rinsalda le mie gambe tremanti. Mentre camminiamo, si mette a leggere tutti i cartelli stradali con una pronuncia orribile, apposta, e mi fa ridere. E, quando siamo in macchina lungo la costa e mangiamo i tranci di pizza comprati in un altro forno, è quasi come se non fosse successo niente. Tranne che il mio cuore si scioglie un pochino di più ogni volta che lo guardo.
Mi ha salvato la vita. È sexy e ama i cani e ci siamo tuffati insieme dagli scogli e mi ha salvato la vita.
Restituiamo la macchina all’autonoleggio e percorriamo i trecento metri che ci separano dalle massicce porte in legno del monastero. Il primo cortile è deserto e io mi fermo a guardare il chiostro tranquillo, illuminato dalle candele. È un altro mondo rispetto a quello in cui abbiamo passato il pomeriggio. Le rondini disegnano cerchi nel cielo violetto e nell’aria c’è profumo di verbena.
«Che pomeriggio» dice Dutch con una risatina ironica. «Sei venuta qui per un ritiro in cui scrivere in pace e invece ti sei beccata un ottovolante di adrenalina. Hai ancora il batticuore?»
Sorrido e annuisco.
Sì, ho il batticuore. Ma non più per l’aggressione. Ho il batticuore pensando a stasera.
Per tutto il pomeriggio ho immaginato e pregustato… stanotte… stanotte… forse stanotte… E adesso ci siamo. Noi due. Con una notte libera che ci aspetta, qui, in Italia.
Quando ci guardiamo negli occhi, il desiderio mi toglie il respiro. È quasi doloroso, tanto è intenso. Perché non abbiamo finito. Tutt’altro. Sento ancora la sua bocca, le sue mani, i suoi capelli tra le mie dita. La mia pelle arde per la sua. Tutto in me arde per tutto di lui.
«Non è il caso di raggiungere gli altri» dice Dutch, come se mi leggesse nel pensiero, sfiorandomi il viso.
«No.»
«La mia camera è in fondo al corridoio» aggiunge con studiata indifferenza. «Parecchio isolata.»
«Splendido» dico, cercando di dominare il tremito nella voce. «Me la faresti… vedere?»
«Certo. Perché no?»
Senza dire altro ci incamminiamo lungo il corridoio, i passi in sincrono, le dita che si toccano. Ho il respiro corto. Mi sembra che potrei morire dal desiderio qui, in questo momento. Ma in qualche modo riesco a mettere un piede davanti all’altro come una persona normale.
Arriviamo a una porta pesante, di legno borchiato, e Dutch tira fuori una chiave di ferro. Mi lancia un’occhiata che mi toglie il fiato, poi apre la porta.
«La tua domanda personale» mi ricordo all’improvviso. «Non me l’hai ancora fatta.»
Sul suo viso affiora un’espressione divertita. Mi guarda per un attimo prima di sporgersi a baciarmi, un bacio lungo e intenso, con le mani strette sui miei fianchi. Poi si china ancora di più, mi mordicchia dolcemente il collo e sussurra: «A suo tempo».