Hank scrive
2010
VENERDÍ, FINE SETTIMANA DEL MEMORIAL DAY
Ora alla tenuta della famiglia Camphor c’era una nuova ondata di cugini. Un giorno, si diceva Hank, la lama si sarebbe profilata all’orizzonte e lui non avrebbe esitato a tagliare, tagliare… a recidere i legami e troncare per sempre con quelle persone. E tuttavia eccolo lí, a sopportare un altro fine settimana del Memorial Day a Sunset Beach, la comunità cintata sull’isola della sua giovinezza. In tipico stile Camphor, i festeggiamenti cominciavano il venerdí sera, quando parenti in arrivo da posti lontani come Spokane, nello stato di Washington, o vicini come Duchess, in Georgia, schieravano le loro vetture e le loro motociclette nel doppio viale d’accesso di Seamus Camphor III. Portavano con sé figli neonati in passeggini di design e vecchie nonne che ancora usavano il borotalco Avon e si coprivano le chiazze brunastre sul viso col fondotinta Maybelline. Era consuetudine che i cugini piú lontani alloggiassero al La Quinta, nel Southside, o all’Holiday Inn. Hank Camphor – cugino di secondo grado di Seamus Camphor III – aveva trascorso in quella casa un bel pezzo della propria infanzia, ed era quindi previsto che pernottasse nella tenuta di famiglia, nella camera da letto che un tempo era stata la sua. Quella vecchia stanza era stata ristrutturata in modo da ricordare un boutique hotel, con bidè e orinatoio nel bagno degli ospiti, copriletto a disegni geometrici, cuscini triangolari, e sulla parete un grande televisore a schermo piatto da cui potevi farti cantare la ninnananna se ti sentivi minimamente solo o triste.
In compagnia della sua moltitudine di cugini, Hank si lasciava andare alle proprie manie. Condivideva con la madre e il padre (Barbara e il defunto Charles Camphor) il tratto della vanità. Negli altri esseri umani tollerava quasi tutto, eccetto l’obesità e la sporcizia, perché il peso e la puzza gli sembravano due cose che si potevano benissimo tenere sotto controllo. Hank non accompagnava mai la moglie Susan a dar da mangiare ai senzatetto nel dormitorio del loro quartiere, ed evitava il cibo dei fast food con uno zelo che a volte spingeva Susan a dire: «Ho sposato un brav’uomo vanitoso».
«Ho sposato un brav’uomo vanitoso». Nella camera della sua infanzia, Hank si ripeté le parole di Susan. Il televisore a schermo piatto gli teneva compagnia, gli parlava, gli chiedeva se preferiva la Fox o la Cnn. Porno, borbottò lui. Adesso che era solo, lontano da Susan e Tess, la figlia di tre anni, riteneva di poterselo concedere. Fu piacevolmente sorpreso quando la tv passò in automatico a un canale vietato ai minori che offriva una scelta amplissima. Hank preferiva il porno dell’età dell’oro, i classici crudi e grossolani della vecchia scuola, come Miss Jones, Gola profonda e Inside Seka, una predilezione che aveva maturato da ragazzo durante le incursioni nello scantinato di suo padre. Disse: – Porno degli anni Settanta, – e restò sbigottito quando sullo schermo comparve una lunga lista di film. Optò per Johnnie Keyes e Marilyn Chambers in Dietro la porta verde.
Hank Camphor non aveva mai tradito Susan Camphor nata Weatherby, ma di tanto in tanto si era concesso qualche piccolo sotterfugio. Percorreva le corsie di un Rite Aid o di un Cvs in cerca di un profumo dozzinale e intenso (piú note floreali aveva e meglio era) che stimolasse il naso aquilino e l’immaginazione della moglie mandandola su di giri. Il suo preferito era il Lucky Me.
– Hank, cos’è quest’odore? – diceva Susan tirando su col naso.
– Io non sento nessun odore, – diceva lui, massaggiandosi la mascella.
Susan era vicepresidente dell’ufficio risorse umane della Duke University. Non era donna da dubitare di se stessa, ma Hank coglieva pagliuzze di incertezza nelle iridi dei suoi occhi marroni. Quello che la eccitava non era stare appiccicata a lui ma prendersi cura di se stessa meglio della maggior parte delle altre donne. L’incertezza la rendeva disponibile ad atti sessuali imprevedibili. Hank aveva imparato dai suoi genitori il valore dell’imprevedibilità. Si vergognava di quei trucchetti, ma non cosí tanto da rinunciare alle sue cattive azioni quando si rivelavano efficaci.
SABATO, FINE SETTIMANA DEL MEMORIAL DAY
Durante i raduni della famiglia Camphor, al sabato era d’obbligo un picnic sulla spiaggia. Borse frigo rosse e bianche venivano stipate di costolette di maiale alla griglia, uova ripiene, pollo fritto al latticello e piselli mangiatutto. Quella gita era il momento preferito di Hank, che adorava la spiaggia. Guardava i bambini che costruivano castelli di sabbia o cavalcavano le onde su piccole tavole da surf, oppure correvano dietro a un Jack Russell terrier di nome Stella. Quel cane apparteneva a Seamus Camphor III, il figlio di Seamus II, il cugino primo del padre di Hank. Stella scorrazzava per la spiaggia abbaiando ai gabbiani e rovistando in cerca di ossi nei sacchi della spazzatura. A Hank ricordava una cheerleader pettoruta capace di rubare il fidanzato alla propria migliore amica. Lui non aveva un cane né lo desiderava, ma da bambino – sentí una fitta mentre ci ripensava – per un brevissimo periodo aveva chiesto un bassotto.
Venuta la sera, fu il momento delle ostriche arrostite sulla griglia e del low country boil a base di granchi, gamberetti, patate e salsicce. Hank lasciò agli altri uomini le sdraio di nylon con tasche profonde per mettere le bibite. A lui bastava un asciugamano steso sulla sabbia per godersi il tramonto perfetto. Ogni volta che un uomo di mezza età gli passava davanti col suo corpo molle già instradato verso l’inferno, lui si beava del proprio torso snello e dell’erculea sodezza del proprio fondoschiena. Aveva quarant’anni ma ne dimostrava trenta, non un giorno di piú. Anche gli altri Camphor erano alti, ma avevano perso l’agilità e l’aspetto giovanile.
DOMENICA, FINE SETTIMANA DEL MEMORIAL DAY
La domenica, i Camphor si fecero quattro ore di macchina attraverso la campagna della Georgia per rendere omaggio ai propri defunti. Il padre di Hank e quello di Seamus III, Big Seamus, erano sepolti al St Matthew’s Cemetery. Dentro la piccola chiesa metodista non c’era abbastanza spazio per l’intera stirpe, e cosí Seamus III sistemò le panche di legno nel prato e collegò degli altoparlanti in modo che tutti potessero ascoltare il vecchio reverendo dagli occhi lacrimosi che pronunciava il suo annuale sermone sul figliol prodigo. Per darsi un ritmo, il reverendo agitava un tamburello Grover.
Hank non metteva mai fiori sulla tomba del padre. Gli portava invece una palla da golf Spalding, in onore dello sport che aveva tanto amato. Charles Camphor era morto in un incidente di barca quando Hank era all’ultimo anno di università. Al ricevimento dopo il funerale, in un edificio adiacente alla piccola chiesa, la madre l’aveva preso per un braccio e gli aveva detto: – Charles non è tuo padre.
Hank aveva visto cosí tanto di sé riflesso negli occhi di Charles Camphor che era sicuro che Barbara gli stesse facendo uno scherzo crudele oppure fosse andata fuori di testa per la morte improvvisa di un bravo marito. Restò in silenzio a fissare le sedie bordò e le grosse donne bianche di campagna che disponevano il cibo che lui si sarebbe concesso di mangiare per consolarsi. All’epoca Hank studiava da chirurgo ortopedico, e aveva imparato che, se aspetti il tempo necessario, poi ti si chiarisce la strada da percorrere, e in questo modo puoi evitare errori irreversibili.
– Tanto tempo fa, a un congresso, ho conosciuto James Samuel Vincent. Abbiamo avuto una cosa passeggera, – disse Barbara. – E da quella cosa sei venuto tu. Mi dispiace, Hank.
Puttana. Questo avrebbe voluto dire Hank a sua madre: Che Dio mi sia testimone. Io non sposerò mai una puttana. Invece pianse lacrime amare. Lacrime che le persone intorno a lui attribuirono alla morte del padre.
Barbara si allontanò e andò a piazzarsi davanti alla gente in fila. Lui la seguí e, insieme, recitarono la parte della moglie e del figlio addolorati, mentre il reverendo benediceva il cibo e gli amici, e i parenti si mettevano in coda per porgere un’ultima volta le proprie condoglianze. Piú tardi, dopo che gli invitati furono andati via e la stanza si fu svuotata, Hank trovò la madre fuori dalla chiesa, dal lato dove l’erba era ricresciuta alta nonostante fosse stata tagliata da poco. I suoi capelli biondastri erano tirati da un lato, si era tolta le ballerine nere e stava fumando uno spinello insieme al cugino primo di Charles, Big Seamus.
– Hank, – disse Big Seamus. – In questo triste giorno non posso tenermi lontano dall’erba benedetta.
Charles Camphor non aveva avuto il minimo interesse per l’hashish, la coca o qualunque altra droga, sebbene attribuisse grande valore al whiskey, al gin e al bourbon di qualità. Hank diede un’occhiata alle unghie rosse della madre fresche di manicure e al modo esperto in cui teneva lo spinello.
Barbara gli rivolse uno sguardo di sfida, come se non sentisse alcun bisogno di scusarsi. – Solo un tiro o due.
Aspirò a lungo, lasciando uscire il fumo dal naso e dalla bocca, poi guardò lo spinello come fosse un caro amico prima di offrirlo a Seamus. Hank glielo strappò di mano e fece un tiro anche lui. Big Seamus gli diede una pacca sulla spalla.
– Condoglianze, – gli disse. Quante volte si era sentito dire quella parola, quel giorno? Cento? Duecento? Al funerale di suo padre aveva partecipato tanta gente. Jerome Jenkins, l’unico amico nero che a Hank fosse stato concesso avere da bambino, era venuto in aereo da Denver. Prima di ripartire, aveva chiesto a Hank notizie dei loro vicini d’infanzia. – Cosa ne è stato della famiglia che abitava nella casa accanto alla tua? Il tuo amico, Gideon, quello con la sorella carina che aveva sempre il naso sprofondato in un libro? Cavoli, quant’era chic. Mi piacerebbe un sacco vederla adesso!
– Gli Applewood si sono trasferiti molto tempo fa, – disse Hank.
La villa di Charles Camphor trovò un acquirente un anno dopo il funerale. Prima ancora che fosse pronta a metterla sul mercato, Barbara cominciò a ricevere delle proposte da Big Seamus.
«Barbara, è una casa grossa per una donna sola, – diceva. – Con tutto questo spazio, affogherai nei ricordi».
Era il primo anno della specialità in medicina di Hank alla Duke. Lui e la madre parlavano poco, ma Hank aveva cominciato a provare una certa curiosità per il suo padre biologico. Barbara gli mandò una polaroid di James Samuel Vincent insieme al fratellastro di Hank, Rufus, scattata a una partita degli Yankees. Nel suo monolocale semivuoto, Hank la esaminò. Fu colpito dalla genetica, dalla straordinaria somiglianza di quelle due facce con la sua. La fotografia risaliva ad almeno un decennio prima, e il suo fratellastro dimostrava al massimo sedici o diciassette anni. Ciò significava che negli ultimi anni Barbara non aveva piú visto James Samuel Vincent? Hank non se la sentiva di affrontare la questione con sua madre. Dopo che ebbe conosciuto Susan Weatherby a una festa di bentornato a casa, buttò quella polaroid nella spazzatura. Un uomo si costruisce una famiglia tutta sua. Un uomo lascia il piatto pulito.
Superarono il periodo difficile, lui e sua madre. Barbara gli chiese di occuparsi lui della vendita della loro vecchia casa.
– Fammi la tua migliore offerta, – disse Hank a Big Seamus.
Con Charles Camphor, Big Seamus non aveva mai fatto lo scroccone come gli altri parenti, e Hank aveva sempre provato un certo affetto per quel pompiere. Gli fece un buon prezzo. Gli sembrava la cosa giusta, passare le chiavi al cugino primo di suo padre.
Non avrebbero mai capito come avesse fatto la cagna a tirar fuori la Smith & Wesson dalla scatola metallica sotto il letto regina Anna di Seamus III e Maxine Camphor. Quella scatola pesava come minimo un chilo e mezzo. Eppure in quel momento, alle tre e mezza del pomeriggio, mentre tutti erano felici e contenti, Stella se ne stava accucciata su una Smith & Wesson. La canna della pistola puntata verso gli ospiti divertiti, alcuni dei quali avevano cominciato a bere prima di colazione.
– Be’, non è una vera festa finché qualcuno non tira fuori una pistola, – sentí dire Hank a Seamus III. In quel momento, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era, Grazie a Dio Susan e Tess sono rimaste a Raleigh.
I parenti di Hank ridevano ogni volta che Stella muoveva la pistola. A ogni sussulto del suo corpo, la Smith & Wesson, una rivoltella nove millimetri nera e argento con un caricatore da sette proiettili, si metteva a girare come la ruota di una roulette russa.
– È carica? – chiese Hank, facendosi largo in mezzo alla folla assembrata sulla soglia della camera da letto. Si sentivano i bambini che giocavano sul grande prato davanti a casa. Almeno loro erano fuori pericolo.
– Cavoli, certo che è carica, però c’è la sicura, – disse Seamus III, alzando il bicchiere di scotch nelle grosse mani piene di cicatrici. Seamus era un pompiere che portava sul corpo i trofei dei suoi scontri a viso aperto col fuoco.
– Stella, alzati da quella pistola e va’ sul tapis roulant, – disse Maxine. Poi si rivolse agli ospiti. – Stella lo sa usare, il tapis roulant. Se andate su YouTube, la vedrete che fa ginnastica. Vedrete come corre.
Hank era sicuro di sentire i bambini sulle scale. Ebbe l’impressione di sentire la voce di Tess. Continuava a ricordare a se stesso che sua figlia di tre anni era a casa al sicuro a Raleigh, nel North Carolina.
– Dobbiamo prendere quella pistola –. Hank si rivolse a Seamus III. – Seamus, facciamolo.
– È solo un cagnolino grasso, – disse Seamus con una risata, sorseggiando lo scotch e facendo l’occhiolino alla moglie, che indossava un diafano abito bianco che a Hank faceva pensare a una dea greca. Un’abitante dell’Olimpo. Afrodite. Venere. Lo metteva terribilmente a disagio trovare Maxine cosí attraente. Hank aveva sposato sua moglie non solo per la bellezza – Susan era carina, nel suo modo poco appariscente – ma per la gentilezza e l’intelligenza.
– Hank, se hai finito di mangiarti mia moglie con gli occhi, – disse sorridendo Seamus III, – che ne dici di afferrare Stella da davanti mentre io la abbranco da dietro?
In ossequio ai proiettili contenuti nella pistola, Hank e Seamus III fecero uscire gli ospiti dalla camera da letto padronale, che era piú grande di una galleria d’arte moderna. Quando Hank abitava lí coi suoi genitori, le pareti della camera erano bianco sporco, non color salmone, e la stanza era grande la metà. Big Seamus e Maxine avevano tirato giú alcuni muri per ristrutturare secondo gli ultimi dettami della moda e ingrandire ulteriormente quella che già era una casa enorme, con cinque camere da letto e tre bagni. Hank e Seamus III si avvicinarono a Stella, che scodinzolò e si irrigidí. La cagna spostò la pistola col muso e la Smith & Wesson fece un altro giro da ruota di bicicletta.
– Sei sicuro che quella roba abbia la sicura? – chiese Hank, percependo nella propria voce la cadenza del Sud che gli raggrinziva gli angoli della bocca.
La pistola sparò nel preciso momento in cui il figlio tredicenne di Seamus, Fat Seamus IV, col suo torace a barilotto, saliva carponi il grande scalone dell’ingresso sgomitando a destra e a manca per essere accanto agli adulti, dove succedevano le cose. La pallottola rimbalzò contro l’antica modanatura sulle pareti color salmone e rasentò l’angolo in alto a destra del viso di Seamus IV. Quasi all’istante, in quel punto si formò un succhiotto cremisi.
– Sto morendo, – disse Seamus IV. – Aiutatemi. Sto morendo!
– Seam, non ti sei fatto niente –. Seamus III corse dal figlio, lo fece alzare e gli prese il viso paffuto tra le mani. – Su, è solo un arrossamento.
Il crepitio a distanza ravvicinata della pallottola espulsa dalla camera di scoppio aveva terrorizzato Stella, che schizzò fuori dalla camera e giú per le scale. Hank, che aveva una gran voglia di una sigaretta ed era stufo marcio dei suoi parenti, se ne accese una e seguí la cagna.
La porta dell’ingresso era spalancata, e c’erano cinque o sei bambini che giocavano con servizi da tè in porcellana o colpivano bocce da croquet. Hank notò che non c’era nessun adulto a tenerli d’occhio. Nella veranda c’era una bambina con le lentiggini e una stupefacente zazzera rossa, in preda a una crisi di pianto.
– Il mio fratellino è morto! – stava frignando. Quella bambina gli ricordava Tess. Doveva avere tre anni. Si sporse su di lei, lasciando cadere sul pavimento la cenere della sigaretta che teneva nascosta dietro la schiena. Non si ricordava come si chiamasse.
– Seam, Seam, – singhiozzava la bambina.
Gli venne in mente il nome: Penny. Era la figlia di Seamus III e Maxine. Hank avrebbe voluto dirle, Penny, quell’idiota di tuo fratello è ancora vivo e vegeto. Invece, le diede un buffetto sulla guancia. – Là dentro è un macello. Resta qui.
Spense il mozzicone nella veranda della tenuta di famiglia. Da quando la casa della sua infanzia era diventata una tenuta? Non l’aveva previsto quando l’aveva venduta a Big Seamus. La cenere del tabacco gli scuriva le mani pulite. Mani da chirurgo, questo erano: mani ferme. Penny, con la sua zazzera rossa, gli stava strattonando la gamba dei pantaloni.
– Non è di là il buco per la cacca di Stella, – disse.
– Cosa? – A volte Hank pensava che gli avrebbe fatto bene andare in terapia, ma non credeva nella terapia come soluzione a lungo termine di alcunché. Non credeva nella terapia punto e basta.
– Torna qui, Stella! – strillò Penny, cercando di spiegare nella sua lingua di bambina di tre anni che Stella scappava sempre e non aveva il permesso di uscire o di andare nel cortile se non per fare la popò nel suo buco per la cacca. Hank chiese di vedere dov’era il buco della cacca di Stella, e Penny lo accompagnò nel giardino sul retro e verso la palude. Hank guardò il buco, pieno di pacciame e fogli di giornale. Era il posto dove aveva sepolto Tipper, piú di venticinque anni prima. Gli si riempirono gli occhi di lacrime salmastre.
Penny lo guardò. – A Stella il suo buco della cacca piace. Non piangere.
– Devi scusarmi, Penny, – disse lui, indietreggiando e correndo fino a raggiungere la cagna, che in preda all’ansia disseminava di cumuli di escrementi un marciapiede altrimenti immacolato. Stella svoltò un angolo. E lo stesso fece Hank, accelerando e abbrancandole la coda rigida. Poi prese tra le braccia l’intero corpo che fremeva e si dimenava senza interrompere nemmeno per un secondo il suo battesimo di escrementi. Come per miracolo, iniziò a piovere. Hank corse via attraverso la pioggia, fuori dalla tenuta di famiglia dei Camphor, verso la salvezza rappresentata dalla sua Mercedes. Spalancò la portiera e schiaffò la cagna sul tappetino del sedile del passeggero. Le chiavi trovarono da sole il modo per accendere il motore, i piedi trovarono da soli il modo per dare gas e lui partí, lasciandosi alle spalle Sunset Beach.
UNA SETTIMANA DOPO
Hank mandò a Seamus Camphor III mille dollari per il Jack Russell terrier. Dopo il weekend del Memorial Day, Seamus lo aveva chiamato a ripetizione. Quando finalmente Hank si sentí di rispondere al telefono, Seamus disse con rabbia trattenuta: – Chiariscimi una cosa. Mi hai dato mille dollari per tenerti il cucciolo dei miei figli?
– Posso aggiungerne altri cinquecento.
– La loro cagnolina con cui sei scappato?
Hank era nel campo da golf, in attesa alla prima buca. – Puoi sempre venire qui a prendertela.
– O magari tu ce la potresti rimandare in aereo.
– Fidati. È a pezzi. Non ce la farebbe mai.
– Amico, cos’hai che non va? – Seamus diede un colpo di tosse. – Puoi ringraziare il cielo che i nostri padri erano cugini. È l’unica cosa che ho da dire sull’argomento.
– Io non ho niente che non va.
Dopo un secondo, Seamus disse: – È la piccolina, vero? Tess.
Hank era contento che Seamus non fosse lí a vederlo trasalire. Ci aveva azzeccato. Ormai Tess e Stella erano inseparabili. Il terrier dormiva ai piedi del suo letto e se ne stava di sentinella nel bovindo della loro casa vittoriana a Oakwood, nel centro di Raleigh, finché Tess non tornava a casa dall’asilo.
Hank non aveva voluto figli. Era stata Susan a ricordargli, dopo cinque anni di matrimonio, che i figli facevano parte dell’accordo. Ma Hank ci teneva troppo alle loro immersioni alle Turks e Caicos e alle settimane bianche a Telluride.
– Un figlio, Hank, come minimo.
– Ci rallenteranno.
– Ci terranno giovani.
– E se sarò un padre schifoso?
– Sei un uomo squisito. La nostra prole sarà stupenda.
Ci avevano provato per due anni, andando da diversi specialisti della fertilità. Quando aveva scoperto che avevano dei problemi, la madre di Hank aveva sussurrato a Susan durante un’esecuzione delle Nozze di Figaro: – Non ci sono convegni sulle risorse umane a cui puoi partecipare?
Susan si era alzata nel bel mezzo dell’opera e aveva chiesto: – Chi è questa impostora, Hank? La conosciamo?
Quella sera, Hank aveva portato a casa Susan e l’aveva fatta sdraiare sul cofano della loro Mercedes nel garage. Le aveva tirato su la gonna scampanata, giú le mutande, e aveva fatto l’amore con sua moglie con eccezionale persistenza e tenerezza. Quando esattamente nove mesi dopo Susan aveva partorito, la bambina aveva occhi azzurro acciaio. Hank sapeva che Tess era sua.
Poco dopo la nascita della figlia, lui aveva cominciato a giocare a golf.
– Lascia che ti spieghi una cosa, Hank, – disse ora Seamus. – La gente ha bisogno dei pompieri piú che dei chirurghi –. Seamus gli rispedí l’assegno per posta, con scritte sopra a inchiostro rosso quelle stesse parole.
– Ci vediamo il maggio prossimo, Seamus –. Hank restò sbalordito nel sentirsi pronunciare quelle parole, e nel rendersi conto che, a un qualche livello ancestrale, diceva sul serio.