Secondo atto

1969

1969

Cosa sta leggendo Eddie?

A guardarlo uno lo prende per un uomo colto.

Mi arruolai in Marina nel 1966. Quand’ero al secondo anno del Bronx Community College.

Eddie, sei un poeta?

No, è solo che mi piace leggere.

Shakespeare. Guardate Eddie che legge Shakespeare.

Il libro l’avevo rubato a un ufficiale a Subic Bay, dove ero sceso a terra in licenza. È l’unica cosa che io abbia rubato in vita mia. L’ufficiale era lí che la faceva lunga su sua moglie questo e sua moglie quello e su come sua moglie avesse visto Rosencrantz e Guildenstern sono morti nel West End a Londra e gliene avesse spedita una copia per fargliela leggere. Se ne stava seduto al bancone a bere scotch tirandosela a piú non posso. Tutte quelle vanterie mi urtarono le orecchie facendomi sentire la mancanza di Agnes. Le mogli di alcuni di noi erano troppo impegnate a tirar su i figli e lavorare, e non potevano permettersi un viaggio di piacere. Le mogli di alcuni di noi erano incinte del secondo figlio. Mentre l’ufficiale non guardava, mi avvicinai e gli sgraffignai il libro posato sullo sgabello. I grandi peccati cominciano dai piccoli.

Mi ero arruolato in Marina per venir via dal Bronx, perché lo amavo troppo: i locali dove si ballava la salsa, le donne, l’emozione di sfrecciare dopo mezzanotte col tettuccio abbassato lungo Fordham Avenue sulla Buick Skylark del mio vecchio. Mi piace un sacco ridere. Ho sempre un sorriso stampato in faccia perché ho imparato presto che c’è sempre qualche rogna in agguato. E Dio t’aiuti se non la metti sul ridere. Spendevo la paga di un mese per un vestito e delle scarpe nuove con cui andare a spassarmela al Palladium, all’Embassy o al Tropicoro. A quei tempi non potevi portare fuori una ragazza conciato come uno straccione. Dovevi fare le cose per bene. E io le facevo cosí per bene che al secondo anno di community college mi buttarono fuori. Il mio vecchio non mi aveva mai parlato in spagnolo ma, fratello, quella volta sí che gliene sentii dire. Passavo dal pagare una bolletta a tutto un affitto. E papà invece aveva già estinto un mutuo. Allora avevo capito l’antifona. E cosí, quando mi si era avvicinato un reclutatore, mi ero arruolato in Marina.

Mio padre si occupava di componentistica alla Sokolov & Brothers, una fabbrica di pianoforti nel quartiere di Mott Haven nel Bronx. Per piú di ventinove anni aveva lavorato gomito a gomito con immigrati tedeschi e italiani che pensavano fosse bianco come loro. Invece lui era cubano e veniva dall’Avana. Poco dopo essere arrivato negli Stati Uniti, si era preso una moglie nera americana e un nome americano. Eduardo Christonelli-García era diventato Eddie Christie. Poi aveva comprato una villetta monofamiliare nel South Bronx. In teoria io avrei dovuto ereditare il suo posto di lavoro, ma quand’era venuto il mio momento la gente non comprava piú pianoforti. Preferiva andare al cinema o guardare la tv o girare per locali. Il mio vecchio sapeva le cifre a memoria. Un tempo solo nel Bronx c’erano sessanta fabbriche di pianoforti. Cosí stavano le cose. Il Bronx era la capitale mondiale della fabbricazione di pianoforti. La gente ha dei pregiudizi riguardo al Bronx. Eppure era cosí che lui si guadagnava da vivere. Ed era una cosa di cui andare fieri. Quando ero diventato grande, l’industria dei pianoforti era storia passata. Ovunque le fabbriche chiudevano. La Sokolov & Brothers era una delle ultime roccaforti. Quando aveva chiuso anche quella, nel 1959, mio padre aveva avuto una piccola pensione e un pianoforte verticale. Poi si era preso un lavoro part-time come bidello nella mia scuola.

Come primo incarico mi assegnarono al locale caldaie come marinaio apprendista (livello retributivo E-2). Non mi ci volle molto per capire come giravano le cose. E che quel ruolo non era adatto a me. Mozziconi, ci chiamavano. Lavoravamo sottocoperta. Sgobbavamo sul fondo della nave. A me piacciono il cielo azzurro e l’aria fresca dell’oceano. Ma avevo abbastanza buonsenso da non lamentarmi, perché almeno stavo ricevendo una formazione tecnica, competenze che avrebbero potuto servirmi per una futura promozione. Firmai per un A-4. In linguaggio civile sarebbero quattro anni. Guardavo avanti. Ed ero contento di non fare il cameriere in mensa. Di solito ai neri, e in seguito ai filippini, li schiaffavano lí. In cambusa e nel retrocucina a cucinare e rigovernare. Mio cugino Reuben Applewood si era arruolato un anno prima di me e mi aveva spiegato cosa dovevo aspettarmi, quindi ero preparato a una certa dose di pregiudizio. E, forse proprio perché ero preparato, non ne fui vittima. Durante quel primo incarico nel ‘67 me la cavai bene. Non che neri e bianchi fossero amiconi, ma neanche si crogiolavano nell’odio reciproco. Ce ne stavamo separati, ciascuno per conto proprio. Io badavo solo a svolgere i miei compiti con scrupolo, in modo che non ci fossero fughe di carburante e la nave non esplodesse. Sarebbe stato un brutto modo per andarsene. E capita piú spesso di quel che si crede. Al secondo incarico, le cose presero una brutta piega. Nell’aria c’era qualcosa di diverso. James Earl Ray aveva ammazzato il dottor King. Aveva mirato al collo e alla testa con un fucile Remington .30-06. E il momento che aveva scelto non era casuale. King non era certo un sostenitore della guerra. Aveva cominciato a piantare casino riguardo alla nostra presenza in Vietnam. Un casino che non a tutti faceva piacere. Quando si sparse la voce che King era stato assassinato, alcuni marinai bianchi innalzarono croci fiammeggianti. Tirarono fuori casse di birra per festeggiare. Comunista. King era un comunista, il ritornello era questo. Fratello, era come una dichiarazione di guerra. Anche se non facevi parte delle Pantere Nere c’era di che perdere le staffe. Sulla USS Olympus la vita passò dall’essere torrida e soffocante all’essere soffocante e tesa. A volte mi trovavo preso in mezzo fra uomini bianchi che sogghignavano e uomini neri che fumavano di rabbia. Come Rosencrantz e Guildenstern, conoscevo l’inizio ma non potevo dire la parola fine. Sedevo nella mia cuccetta con il libro in grembo e cercavo di non ascoltare tutte quelle stronzate. Strano. Quel piccolo tascabile l’avevo preso per dispetto, senza alcuna intenzione di leggerlo durante quel primo turno a bordo, ma sulla USS Olympus era difficile trovare libri o riviste. E poi lo sai che Rosencrantz e Guildenstern mi aiutavano a non smettere di ridere?

ROS: Metà di quello che ha detto significava qualcos’altro, e l’altra metà non significava niente1.

Era esattamente questo l’effetto che facevano i nostri politici quando cercavano di giustificare la guerra. Il vecchio presidente Johnson ci aveva coinvolto senza chiedere il nostro parere.

Una sera mio cugino Jebediah Applewood si presentò nei nostri alloggiamenti sputando fuoco. Sembrava un toro. Jeb, Reuben e Levi (il fratellino di Reuben) erano cresciuti tutt’e tre nella stessa casa. Siamo imparentati per parte di madre, una cosa che in Marina tenevamo segreta per timore che gli ufficiali ci assegnassero degli incarichi che ci avrebbero impedito di vederci.

– Dobbiamo dare una lezione a quel sottufficiale del cazzo, – disse Jeb.

Sapevo tutto del sergente Nelson «Nelly» Mammoth. Di solito, quando bevono, i marinai si inteneriscono, invece il sottufficiale Mammoth diventava sempre, com’è che si dice, pugilistico. Dietro le spalle lo chiamavamo Nelly perché aveva due distinte personalità. Nel suo ruolo di vice del nostromo capo, quello stronzo era impareggiabile. Il suo compito era supervisionare il personale addetto alla manutenzione del ponte, e lo faceva col pugno di ferro. Non c’era neanche un angolo della USS Olympus che Nelly non conoscesse come le sue tasche. Sorvegliava e addestrava i marinai, controllava che i missili e le munizioni fossero caricati nel modo giusto sugli enormi montacarichi che portavano dall’hangar al ponte di decollo. Si diceva che fosse in grado di manovrare qualunque macchinario presente sulla nave. E dai suoi compiti sembrava trarre grande soddisfazione. Invece il sergente Nelson Mammoth era un’altra cosa. La menava di continuo ai marinai neri con la storia del Progetto 100 000. Ti chiedeva in quale anno ti eri arruolato e se ti eri arruolato prima, durante o dopo il Progetto 100 000, quando avevano deciso di accettare qualunque coglione. Ti faceva lí su due piedi un test del quoziente d’intelligenza e ti riversava addosso tutti gli epiteti razziali piú offensivi. E pazienza che il programma per arruolare 100 000 soldati riguardasse soltanto l’Esercito e i Marines. In Marina solo il cinque percento degli effettivi era composto da neri, ma evidentemente per lui erano già troppi. Quando mi si avvicinava, puzzando di bourbon – la sua bevanda preferita –, io gli parlavo in un’incomprensibile mistura di italiano, greco e spagnolo. Lui fischiettava e diceva: «Fammi indovinare. Ti sei arruolato prima?» Io non gli rispondevo. Erano diciotto mesi che il sottufficiale Mammoth teneva d’occhio ogni singolo nero a bordo della USS Olympus. Eravamo in guerra. E stavamo perdendo. Forse avrebbe potuto trovare un modo piú utile per impiegare il suo tempo. Il colore gli offuscava la vista, ma sarebbe stata l’acqua a chiudergli gli occhi per sempre.

– Tu, Eddie, cosa ne pensi?

Smisi di leggere e sorrisi a Jeb. – Penso che Rosencrantz e Guildenstern avrebbero dovuto essere piú scaltri. Amleto non se la sta bevendo.

– No, Eddie… riguardo a Nelly Mammoth.

Pensai a nostro cugino Reuben. Lui avrebbe saputo cosa rispondere a Jeb. – Secondo me non ne vale la pena. Cioè, guardando le cose nel loro insieme, chi se ne frega di quello lí…

Jeb incombeva sul mio giaciglio. Avevo preso la cuccetta inferiore per evitare di battere la testa contro il soffitto.

– Ieri sera Nelly ha rotto il naso al cameriere. Quel figlio di puttana fuori di testa ha rotto il naso a quel ragazzo solo perché si era dimenticato di mettere in tavola il ketchup. E il ragazzo non vuol fare rapporto perché ha troppa paura, – disse Jeb.

– Perché devi chiamarlo figlio di puttana? Perché devi offendere sua madre? Quella donna non la conosciamo. Magari è una a posto, – dissi. Volevo che Jeb mi lasciasse in pace, cosí da poter tornare a leggere il mio libro.

Jeb sospirò. Era abituato ai miei sproloqui su R&G. – Sei con me o cosa?

– Dipende, – dissi. – Sono sempre con te, ma non mi dici niente di nuovo, Jeb. Di cosa stiamo parlando, esattamente? Il cameriere porterà a termine il suo turno, come tutti noi. E poi si lascerà questa merda alle spalle. Non capisco cosa speri di ottenere.

Jeb aprí l’armadietto d’alluminio accanto alle grucce e tirò fuori la sua collezione di numeri di «Jet». Piú che per leggere gli articoli, quella rivista la comprava per la foto del paginone centrale. Capii che aveva deciso di ignorarmi. E intendeva andare avanti cosí per il resto della serata. Sulla USS Olympus eravamo come fratelli. Oggi come oggi non ci parliamo molto. Dopo la guerra io sono venuto dritto a casa nel Bronx, mentre lui è tornato in Georgia. L’ultima volta che ho avuto sue notizie faceva il traslocatore e si era stabilito da qualche parte nel New Hampshire. Ho ricevuto una sua cartolina: Pensavo che in Norvegia facesse freddo ma qui nel New Hampshire d’inverno fa un freddo bastardo.

Non ha perso il vizio di imprecare, ho pensato. Non ha perso il vizio. – Eddie, cos’hai da ridere? – mi ha chiesto mia moglie.

Eravamo marinai d’alto bordo sulla USS Olympus, una portaerei da 322 metri ancorata a Yankee Station, nel golfo del Tonchino. Una portaerei è una nave grossa. Può scivolare sulle parti dell’oceano dove l’acqua è piú profonda come se niente fosse. A volte passavo di postazione in postazione per ammirare i macchinari. Vedere come tutto si combinava alla perfezione mi aiutava a dormire meglio la notte. Al mio secondo turno mi avevano assegnato al ponte di decollo. Eravamo la squadra di supporto offshore per i piloti della Marina che ogni giorno partivano per le missioni di sorveglianza o per bombardare i nordvietnamiti.

A bordo della USS Olympus c’erano piú di quattromila marinai. In alcuni alloggiamenti c’erano anche otto uomini per cabina, che dormivano testa contro testa. Li sentivi russare e gridare e farsi le seghe. Ogni tanto, se per loro non era un problema rischiare la vita, li sentivi anche scopare. E non erano mai quelli che avresti pensato. A qualcuno gli veniva il ghiribizzo… e se gli girava storta erano capaci di fare qualunque cosa. Come capitò a me e Jeb. Quando ci stufammo del sergente Nelson Mammoth.

Se Reuben fosse stato con noi sulla USS Olympus, forse le cose avrebbero preso un’altra piega. D’estate mia madre mi mandava sempre al Sud. A conoscere la mia gente, diceva. Passavo le vacanze con Reuben, Jeb e Levi, giocavamo a baseball e ne combinavamo di cotte e di crude. Reuben era piú grande di due anni, e quindi già allora era il «sergente», incaricato di tenerci fuori dai guai. Essendo cresciuto nel Bronx, ero abituato ad avere vicini di tutti i tipi, quindi non ero fissato sul bianco e sul nero, ma quando andavo al Sud mia madre mi faceva sempre la stessa lezione su Emmett Till. Ogni scusa era buona per tirare in ballo Emmett Till. Non voglio dover venire lí a guardare la tua faccia in una bara, capito? Ne parlavamo, sai, io, Reuben, Jeb e Levi. E ridevamo… non di Emmett, ma del fatto che metà delle cose che non ci lasciavano fare non avevano alcuna logica, ad esempio nuotare con gli altri ragazzini in una piscina piena di cloro. Ridevamo perché quando vieni da un altro posto e vedi i bianchi cosí e quelli di colore cosà, ti rendi conto che è assurdo, capisci quant’è tutto ridicolo. Reuben ci diceva, Ogni volta che un bianco vi si avvicina con aria losca, scegliete il vostro oceano. Artico. Atlantico. Indiano. Pacifico. Antartico. E mantenete la calma pensando a quello. Ogni settimana ci davano una paghetta per andare in paese a comprarci un giornaletto nuovo. Dovevamo condividerne uno in quattro. Lo leggevamo insieme, poi facevamo i turni a leggerlo ognuno per conto proprio. Ma per comprare i giornaletti dovevamo andare in una libreria di Main Street. La proprietaria della libreria Sadie’s Fine Books and Whatnots aveva un vecchio bulldog marroncino che si piazzava proprio sulla porta. Il bulldog sbavava e ringhiava e snudava i denti gialli e sbarrava l’accesso, e Miss Sadie, una donna bianca alta e magra che sembrava un uccello raro, ridacchiava e diceva, Oh, eccovi, ragazzi. Volete i giornaletti. Venite, venite. E Reuben diceva, È il momento di farsi un viaggio. Scegliete il vostro oceano. Lui era il primo a farsi avanti. E quando varcava la soglia del negozio, il bulldog gli si avventava contro e cercava di morderlo, e lui faceva tutto il possibile per distrarlo, in modo che noi potessimo entrare sani e salvi. Piú di una volta il bulldog gli aveva azzannato a sangue le caviglie o gli stinchi. Allora Miss Sadie faceva un fischio e diceva al cane, Vieni, ragazzo mio, vieni. Poi dava a Reuben il giornaletto senza farlo pagare, e tornavamo indietro con lui che ci precedeva zoppicando e stringendo il «Flash Gordon» della settimana.

È un fatto: ultimamente non dormo molto bene.

Ho i nervi a fior di pelle.

Da quand’è che sono cosí… nervoso?

Il sottufficiale Mammoth aveva una moglie. Lo sai che è questo che piú mi dispiace? Mi dispiace per sua moglie e i suoi figli. Penso ai compleanni e alle feste comandate che sono diventate lunghe e vuote dopo che noi abbiamo fatto quel che abbiamo fatto e il sottufficiale Mammoth è finito sott’acqua.

Penso alla nebbia e a come avvolgeva la nave. E a come il sottufficiale Mammoth ha sorriso quando mi ha visto sul ponte a fumare una sigaretta. Avrebbe dovuto sapere che non fumo. Avrebbe dovuto prendersi il tempo di sapere qualcosa di piú su di me. – Ecco il Nuovo Subnormale Uomo Normale, – mi ha detto. Aveva macchie di caffè sui denti. – Che ci fai qui fuori stanotte?

I suoi denti gialli scintillavano nella nebbia.

– Il profondo mare blu non è affatto blu, – ho detto io. E sono state le ultime parole che il sottufficiale Mammoth abbia mai sentito.

Dopo, mi sono seduto sulla mia cuccetta ad ascoltare le voci che mi chiamavano nella notte. Chi è che mi sta chiamando? Vedo e sento cose stranissime…

Ascolta, ascoltami bene adesso. Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Li ho visti passeggiare sul ponte di decollo della USS Olympus nel Mar Cinese Meridionale. Li ho visti lanciare le monete e dire ogni sorta di assurdità. Mi chiedono cos’hanno fatto di male ad Amleto perché lui li debba trattare cosí. Io dico loro la verità, mentre carico bombe su aerei da attacco A-4… bombe che uccideranno civili e vietcong piú o meno nella stessa misura. Avete cospirato col re Claudio. Voi gatti eravate topi. Il principe Amleto era il vostro miglior amico. Voi gatti avreste dovuto guardargli le spalle. Ed è a questo punto che se la sono presa e mi hanno dato del burbero moro. Moro? Be’, questa mi è nuova. Pensavo di essere uno dei tanti uomini neri in Vietnam. Uomo nero in Vietnam, portaci a Londra, dicono. Fidatevi di me, ragazzi, meglio che vi teniate lontani da Londra. Se finite da quelle parti rischiate la testa. Ma Rosencrantz e Guildenstern lanciano le monete e scuotono la testa e dicono, Moro, di te non ci si può fidare. Ti abbiamo visto mentre buttavi fuori bordo il sottufficiale Mammoth. Sei un assassino. Tu e quell’altro moro avete ammazzato un uomo. Non avreste dovuto farlo. E io dico, credete che non lo sappia? Poi conto i minuti che mancano alla pausa pranzo e corro alla lavanderia a cercare Jeb.

– Jeb, – dico. – Rosencrantz e Guildenstern mi stanno di nuovo assillando.

A Jeb piace lavorare alla lavanderia. Dice che fare il bucato gli ricorda la Buckner County, in Georgia. Mi prende per un braccio e si guarda intorno per assicurarsi che nessuno ci stia ascoltando. Mi dice di aspettarlo fuori dalla mensa per i neri. Noi in questo periodo, se possiamo farne a meno, non mangiamo coi marinai bianchi. Ce ne stiamo quasi sempre per conto nostro, io e Jeb.

– Che cazzo ti prende, Eddie? – Dieci minuti dopo Jeb mi trova mentre sto bevendo caffè freddo. – Vuoi finire davanti alla corte marziale? Non puoi venire alla lavanderia e metterti a sbraitare su Chuck.

Chuck è il nomignolo con cui a volte i soldati neri chiamano quelli bianchi. Hanno organizzato una missione di ricerca e soccorso per Nelly, ma nessuno sa di preciso quando è scomparso. Solo che non si è presentato a cena alla mensa dei sottufficiali, e neanche al film della sera.

Uomo fuori bordo, dicono. Il sottufficiale Mammoth aveva cominciato a bere parecchio. Stava diventando un ubriacone di prima categoria.

– Jeb, volevo solo dire… – ribatto con un filo di voce, – … che ce li ho in testa.

– Eddie, devi darlo a me quel dannato libro. Dammi quel cazzo di libro e prenditi in cambio un «Jet» o un «Ebony». E fallo subito.

– Scordatelo.

Vorrei raccontargli di come a volte Rosencrantz e Guildenstern mi prendono alle spalle e mi sussurrano che Chuck sta tornando indietro a nuoto. Io dico Chuck. E loro dicono Nelly? Io dico Nelly. E loro dicono Chuck? È come la guerra. Un circolo vizioso. Ma questa informazione appartiene alla lunga lista delle COSE CHE JEB NON VUOLE SAPERE. Ogni sera dopo cena il capitano annuncia all’altoparlante quante bombe abbiamo sganciato, quanti uomini abbiamo perso e quanti obiettivi abbiamo distrutto. Jeb si mette un cuscino sulla testa e indica il muro dove tiene la sua lista delle COSE CHE JEB NON VUOLE SAPERE. Come quasi tutti i marinai di questa portaerei, non abbiamo mai messo piede in Vietnam. Ma ho visto fanti e piloti tornare in sacchi mortuari o senza un braccio o una gamba. Ho visto l’espressione da oltretomba di alcuni soldati che non capiscono quanto sono stati fortunati. E non mi piace vederla. Quindi sono ben felice di non essere mai stato in combattimento.

– Forse hai bisogno di farti una canna per calmarti un po’ –. Jeb mi scruta.

– Non voglio farmi una canna, Jeb. Non voglio ridurmi a non poter neanche stare in piedi.

– E allora, Eddie, che cos’è che vuoi? – dice Jeb. – Mi dai il tormento con queste cazzate.

Annuisco. – Voglio rivedere Agnes e le bambine. Voglio tornare nel Bronx. Voglio un pasto fatto in casa. Voglio starmene seduto nel portico di casa mia e non pensare a niente.

– E allora tieni duro. Altrimenti siamo fottuti tutt’e due, – ha detto Jeb.

Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Ascolta, ascoltami bene adesso. Li ho visti andare alla deriva su una barchetta nel golfo del Tonchino. Tornate indietro, tornate indietro, gli dico. Londra non è da quella parte. Ma loro scuotono la testa e lanciano le monete e gridano: Moro, dobbiamo andarcene. Questa non è la nostra guerra. Non possiamo restare. Mi offrono di andare via con loro, ma nel golfo del Tonchino non succede nulla di buono. Ros e Guil saranno fortunati se arrivano vivi alla fine della giornata. Jeb mi dice che la loro partenza è stato un dono degli dèi. Una cazzo di benedizione. Grazie a Nostro Signore Gesú Cristo, quegli impiccioni figli di puttana se ne sono andati. Jeb dice che da quando sono partiti c’è stato un generale raffreddamento dei miei sensi, ma io non sapevo che i miei sensi fossero surriscaldati. Solo i miei principî morali. Jeb dice che i principî morali possono baciargli il culo nero e che, quando arriviamo a Subic Bay, io e lui non ci perderemo neanche uno degli spettacoli porno di Olongapo. Ci prenderemo una decina di prostitute e ci faremo grandi scopate. Però a me Ros e Guil mancano. Non ho piú nessuno con cui parlare o a cui raccontare certe cose. Ad esempio come il sottufficiale Mammoth urlava i suoi insulti razzisti e tempestava di pugni sulla testa il cameriere perché quell’esangue ragazzino di sedici anni di un paesino del New England ruotava i polsi in fuori e non c’era verso di farglieli raddrizzare e camminando ancheggiava senza riuscire a trattenersi. E come nel pieno di una tempesta quello stesso sottufficiale Mammoth abbia fatto su e giú per la nave come un demone in gabbia, sbronzo marcio e pieno di paranoie. È andato a cercare il cameriere per la sua dose settimanale di randellate e l’ha scagliato giú da una rampa di scale, lasciandolo lí tutto avviluppato su se stesso come un gomitolo di lana. E tutti i membri dell’equipaggio, io e Jeb inclusi, odiavamo il sottufficiale Mammoth, ma nessuno di noi aveva il coraggio di prendere le difese di quel ragazzo. Quel ragazzo suscitava in noi qualcosa che ce lo faceva odiare.

Potevi esserci tu al suo posto, ha detto alla fine Jeb.

Potevamo esserci noi, ho detto io.

Domani, abbiamo concordato.

E cosí l’abbiamo fatto.

1. Tom Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti, traduzione di Lia Cuttitta, Sellerio, Palermo 1998, p. 78 [N.d.T.].