Non sei una Lee Krasner
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Ci sono poche cose peggiori dell’essere la figlia bruttina di una madre bellissima. Adele Pransky era accanto al distributore di bevande gassate alla spina e stava riempiendo un bicchierone di vetro con una bibita alla ciliegia quando Seth entrò nel Dean’s Beachside Bar & Grill col suo nuovo compagno di gioco, Yan Sokolov. Anni dopo, Adele avrebbe ricordato come la brezza oceanica aveva leccato via il sudore dalle camicie bagnate di Yan e Seth mentre dalla passeggiata di Coney Island i due entravano nel bar affollato con un’aria che parevano amici del cuore. In realtà erano praticamente estranei, si erano appena conosciuti bevendo whiskey al succo di limone, fumando sigari e giocando a carte su un tavolo traballante in un bordello di Hell’s Kitchen.
La madre di Adele, Rachel Pransky, tollerava l’amore di Seth per le carte a condizione che non perdesse troppi soldi. Soldi che appartenevano a lei. E in quella sera fresca e ventosa, Rachel era impegnata alla cassa. Seth le diede un bacio e fece cenno a Yan di accomodarsi al bancone.
– Adele, – la chiamò facendole segno. – Porta al mio amico qui una porzione maxi di eglefino e patate fritte.
Adele si avvicinò. – Come fai a sapere che gli piace l’eglefino? – chiese.
Yan annuí. – In effetti l’eglefino lo mangio, ma i frutti di mare mi fanno schifo.
Adele osservò quell’uomo, che si presentò come Yan Sokolov. Era molto piú in tiro degli altri uomini al bancone, tutto uno sfoggio di gabardine e seta grigia. Adele apprezzò il fatto che si fosse tolto la giacca e avesse arrotolato le maniche della camicia bianca per mimetizzarsi in quella folla di lavoratori. Le parve sensazionale, ma in un modo un po’ espressionista e scombinato. Aveva un contegno da trentenne come da cinquantenne, con tutte le rughe e i crepacci che gli solcavano il volto.
– Chi è? – chiese Rachel.
– Un conoscente –. Seth raccontò come quella sera Yan l’avesse tirato via dal tavolo da poker prima che perdesse tutto quel che aveva.
– Cos’è questa fretta di finire sul lastrico? – gli aveva detto. – Datti una calmata. Per restare al verde c’è sempre tempo.
Seth infilò due monete nel jukebox. – Stavo per dirgli di farsi i fatti suoi. Ma poi mi sei venuta in mente tu, Rachel, e i quattrini che ancora non avevo speso. E ovviamente ho pensato ad Adele.
Seth passò le braccia intorno alla vita di Rachel e la portò via da dietro la cassa per farle fare un giro di danza. La segatura si alzava intorno ai loro piedi mentre Sinatra sussurrava I’ve Got You Under My Skin. La Rachel di Seth, era cosí che la chiamavano gli habitué del Dean’s Beachside Bar & Grill. Seth aveva chiesto molte volte la sua mano, ma Rachel rifiutava di sposarlo finché la figlia non si fosse trovata un marito. Era tanto tempo che aspettavano. Il bar era tutto quel che Rachel aveva da lasciare in eredità ad Adele. Ed era la loro unica fonte di sostentamento.
Mentre ballavano, Rachel e Seth occhieggiavano di nascosto Adele e Yan. Adele si era tolta il grembiule. Non stava mai senza grembiule al Dean’s Beachside Bar & Grill. Quale che fosse la cosa che aveva detto, Yan si era guadagnato la sua attenzione. Si sporgevano tutt’e due in avanti, coi gomiti che si toccavano sul bancone. Sembravano onde sulla sabbia: Adele sciabordava verso Yan e Yan sciabordava verso Adele.
«Io sono stata fortunata, – aveva detto piú di una volta Rachel a Seth. – Un matrimonio combinato con un uomo che potevo amare. Adele non la voglio dare in sposa al primo venuto. Voglio che sia felice».
Seth non l’aveva mai detto a Rachel, ma Adele non aveva l’aspetto che ti aiuta a fare un matrimonio felice, e neppure a restare felicemente sposata. I suoi capelli bruni erano crespi, mentre le ciocche scure della madre formavano morbidi boccoli. Adele aveva le lentiggini, mentre la pelle di Rachel era bianco alabastro. Per fortuna la figlia aveva preso i vibranti occhi verdi della madre, e un naso che catturava l’attenzione, un naso che su un’altra faccia non avrebbe funzionato, ma che a quella di Rachel conferiva un’impeccabile bellezza, e a quella di Adele qualcosa di affine alla grazia. Di solito era dopo che avevano litigato e fatto sesso in modo selvaggio, cosa che non andava confusa col fare l’amore, che Seth e Rachel concordavano sul fatto di non concordare riguardo allo stallo di Adele in campo matrimoniale. E solo a quel punto riuscivano a fare l’amore.
Lo soprannominarono Yan la Peste. Si presentava al bar ogni sera alle sette in punto. Arrivava portando rose e ramoscelli di velo da sposa che però non avevano i fiorellini bianchi.
– Un velo da sposa da abbinare a un diadema, – disse.
Porse le rose ad Adele e lei arrossí. – Forse non hai avvolto la carta oleata abbastanza stretta –. Gli fece vedere come avvolgere bene le rose, ripiegando gli angoli della carta e arrotolandola nel modo giusto.
– Faresti meglio a dirgli che non sei vergine, – disse Rachel, dopo aver assistito a quella piccante dimostrazione.
– Ma lo sono –. Adele batté le palpebre.
– Be’, non dovresti esserlo, – disse Rachel, allontanandosi dal bancone ed entrando in cucina, dove per qualche secondo si sentí venir meno per l’incredulità. Un mattino, sulla passeggiata a pochi metri dal bar, suo marito Dean era stato colpito da un fulmine. Ah, avresti dovuto vedere quel fulmine, avevano detto a Rachel i venditori ambulanti. Ora, perché, perché mai, avrebbe dovuto voler vedere una cosa simile? Tutti pensavano che si sarebbe risposata e avrebbe lasciato che fosse qualcun altro a occuparsi del locale. Quando Rachel sorrideva ai clienti, era facile dimenticarsi quanto aveva amato Dean, dimenticarsi che era terrorizzata e non sapeva cosa fare e come tirare avanti. Si era detta che non era l’unica donna ad aprire un bar ogni mattina con un bebè attaccato al seno, o a doversi ogni tanto ritirare nel retrobottega per allattare. Tutti quegli anni e la bambina era ormai una donna. Come faceva Adele a essere ancora vergine, dopo aver lavorato al bar per tutti quegli anni?
Adele aveva ventinove anni ed era euforica per natura. A parte le dosi abbondanti di alcolici a poco prezzo, era la principale attrattiva del Dean’s Beachside Bar & Grill. Rachel donava ai clienti sarcasmo e onestà. Adele prometteva il sole che sorge all’orizzonte, a volte al termine di una tempesta. Era il genere di prospettiva che dopo otto ore di lavoro un uomo accoglie con favore. E il Dean’s Beachside Bar & Grill aveva l’ulteriore vantaggio di non discriminare in base alla razza. Tutti erano benvenuti.
– Mi piace tanto dipingere, – disse Adele. – Ogni giovedí prendo lezioni in città.
– Ah, una donna sposata con la sua arte, – disse Yan con un sorriso. – Devo proprio vedere… potrei vedere i tuoi capolavori? – Fece l’occhiolino a Rachel. – Che brava madre sei stata a crescere una figlia che ha riservato per se stessa la parte migliore.
Adele fece fare a Yan una visita guidata del Dean’s, indicandogli l’affresco che occupava un’intera parete del locale. C’erano sirene con ciocche striate di oro rubino e uomini forzuti con spalle su cui Atlante avrebbe potuto fare le capriole. C’erano nani vestiti come Maria Antonietta e pagliacci sui trampoli che saltellavano sopra la Wonder Wheel. C’erano stelle di mare che facevano l’hula-hoop e acrobati che camminavano sulla corda a testa in giú facendo giocoleria con frutti esotici: manghi, papaie e fichi d’India. E donne grasse piene di brio.
Yan apprezzò moltissimo la maestria di Adele. Chiese una scaletta e ci montò su per prendere le misure alle sirene.
– Sei molto precisa –. Annuí in segno di apprezzamento.
– Yan non perde tempo, – osservò Rachel.
– È proprietario di diversi stabili a Manhattan, – disse Seth, percependo anche lui il sole all’orizzonte.
– Diversi? – ripeté Rachel. – Be’, questa è un’ottima cosa. Ma è gentile, Seth? È una persona perbene?
L’estate sfumò nell’autunno. Yan chiese in russo a Rachel la mano di Adele. E Rachel rispose in yiddish. Yan ripeté la sua richiesta in yiddish. E Rachel rispose in russo. Si accordarono in inglese. Dopo la morte di Dean, Rachel si era allontanata dalla religione, ma in onore del padre di sua figlia, Adele e Yan si sposarono in sinagoga. Dopo il matrimonio diedero una grande festa al bar, che durò l’intera notte e parte della mattina.
Yan restò stupito trovando sangue verginale sulle lenzuola la prima notte di nozze. Versò in un contenitore metallico dell’acqua tiepida con sale inglese, acqua di rose e lavanda, in modo che Adele potesse fare un pediluvio.
– È a forza di stare in piedi dietro quel bancone, – le spiegò. – Di’ a tua madre che d’ora in avanti basta –. Le diede un incentivo e le disse di comprarci tutto quel che le serviva per dipingere, senza badare a spese.
– Ma come farà mia madre senza di me? – chiese Adele.
– Può sostituirti con qualcun altro, Adele, – disse Yan. – È un lavoro servile. Vuoi essere un’artista o una cameriera in uno squallido bar? – Le pizzicò le guance.
Ad Adele piacevano i clienti del Dean’s Beachside Bar & Grill. Era figlia unica, e loro erano la sua famiglia allargata. Era cresciuta in mezzo a loro. Dalle case popolari di Coney Island, o dai quartieri italiani alle spalle di Neptune Avenue, venivano lí ad annegare le loro miserie nelle bottiglie di Budweiser. Parlavano dei sogni che avevano fatto la notte prima e dei numeri che qualche parente morto aveva passato loro da due metri sottoterra. Venivano da Brighton Beach a ordinare hot dog, l’unico piatto kosher del menu. E poco importava che Nathan’s fosse appena due isolati piú in là e che al Dean’s Beachside Bar & Grill i panini arrivassero in tavola raffermi e mollicci. E non c’era posto migliore per una tazza di tè caldo dopo un tuffo nel gelido oceano Atlantico. Adele arricchiva il tè con un goccio di bourbon per scaldare il sangue dei coraggiosi che si credevano orsi polari invece che uomini. Gli habitué la chiamavano ragazza, anche se per qualche tempo era stata lí lí per diventare una vecchia zitella. Decise di aspettare la fine della luna di miele prima di parlarne con sua madre, perché Rachel lavorava per vivere e viveva per lavorare.
In luna di miele, Adele e Yan andarono a San Francisco, dove Yan era proprietario di due palazzine di uffici e di un’azienda dalle parti del Mission District. Presero l’autostrada costiera fino al Big Sur, e fecero passeggiate di prima mattina e tardo pomeriggio lungo i tortuosi sentieri nella foresta. Un cartello lasciò di stucco Adele: Attenzione. I puma sono attratti dai bambini.
Quando tornarono a New York, Yan riprese a lavorare e Adele si dedicò alla pittura. Si trasferirono in un appartamento con tre camere da letto all’undicesimo piano di un edificio del dopoguerra all’incrocio fra l’Ottantacinquesima e West End Avenue. Il condominio aveva un cortile erboso dove crescevano dei tigli. Tutti i gatti del palazzo gironzolavano sotto quegli alberi, e ogni tanto Adele trovava i resti di uno scoiattolo o di un uccello che non era volato via abbastanza in fretta da evitare i loro artigli affilati. Il venerdí andava a trovare la madre. Scendeva a piedi lungo la Quinta Avenue fino alla Quarantaduesima e prendeva la linea Q che attraversava il Manhattan Bridge. La metropolitana le era sempre piaciuta, ma negli ultimi tempi le scatenava delle premonizioni su quel che le sarebbe potuto accadere sottoterra. Ora preferiva guardare dal finestrino del treno Q il torbido East River e l’esteso skyline di Manhattan. E proprio quando pensava di essersi fatta un’idea precisa della città, ecco sorgere un nuovo edificio in cromo e acciaio.
Adele adesso era una donna sposata. Rachel ascoltò. La decisione di licenziarsi o meno spettava ad Adele, ma la madre non resistette alla tentazione di metterle la pulce nell’orecchio: – Una ragazza dovrebbe sempre avere un po’ di soldi suoi, soprattutto una ragazza sposata.
– Ma io soldi ne ho.
– Adele, – disse Rachel. – Soldi che hai guadagnato lavorando.
– Ma anche la mia arte è lavoro.
A questo Rachel non sapeva cosa rispondere. Lei non aveva un temperamento artistico. Era una donna d’affari. Si guardò intorno, in quel bar che, secondo qualunque metro di giudizio, era il prototipo del locale malfamato, coi pavimenti sconnessi cosparsi di segatura, i traballanti ventilatori al soffitto, i tavolacci di legno grezzo che a volte erano senza una gamba e stavano su solo grazie a un bastone da passeggio dimenticato da qualche ubriacone. Nel 1969 l’epoca d’oro di Coney Island era finita. Ma anche in quella località sudicia e scialba, lei sapeva fiutare gli affari. Le poche volte in cui aveva accompagnato Adele a vedere qualche museo in città, era sempre in imbarazzo per i suoi capelli e i suoi vestiti e le sue scarpe e il suo accento di Sheepshead Bay. Dopo qualche minuto in un museo, non vedeva l’ora di tornare al suo bar e alla sua passeggiata.
– Sí, figlia mia, – mormorò. – Se lo dici tu.
Determinata a prendere sul serio il proprio lavoro, Adele si iscrisse a un corso di interpretazione pittorica per artisti professionisti. La prima settimana l’insegnante prese di mira l’acquerello dell’oceano fatto da Adele. – Cosa c’è di significativo in questo oceano?
Adele lo osservò. Era poco piú di un anonimo collage di Coney Island a tinte pastello. In effetti avrebbe potuto essere un oceano qualunque. La seconda settimana ridipinse l’oceano e fece un mare spumoso trafitto da un fulmine e sovrastato da un’ombra.
– Promettente, – disse l’insegnante, un uomo il cui peso si concentrava per la maggior parte nella pancia. Lei aveva visto con Yan le sue opere in una galleria in centro e le aveva trovate tremende, ma non possedeva ancora il vocabolario necessario a fare osservazioni critiche sull’arte, soprattutto sulla propria. Forse, ragionò, le sue opere erano tremende ma avrebbe comunque potuto insegnarle qualcosa, o ispirarla a imparare qualcosa da sola. Yan aveva sborsato parecchi soldi per permetterle di andare a lezione da quell’uomo panciuto. Un uomo che aveva una reputazione. E se questo significava ridipingere ogni settimana l’oceano, ebbene, lei lo avrebbe fatto.
– Promettente è un eufemismo per principiante, – disse Yan.
Adele era passata dai dipinti dell’oceano a schizzi astratti dei gatti del cortile, un esercizio sugli animali nel loro habitat.
Fece gocciolare un colore a olio nella trementina. Le piaceva dipingere in soggiorno con le finestre spalancate. – Yan, che ne pensi?
Yan si alzò da dove stava leggendo il giornale, come faceva abitualmente al culmine della mattinata e al calar del giorno. Scrutò il gatto siamese che Adele aveva dipinto mentre si preparava a balzare su un piccione nel cortile. – Perché non disegni dei cani? – le chiese.
– Mi piacciono i gatti.
– Coi gatti non si sa mai cosa aspettarsi –. Dopo il matrimonio si era fatto crescere la barba. Secondo Adele, ora il suo viso era meno definito e un po’ troppo severo.
– Dipende dai gatti.
– Sono sempre lí a caccia di qualunque cosa. I gatti –. Yan incrociò le braccia.
– Invece i cani aspettano gli avanzi.
– I gatti miagolano.
– Tanto non abbiamo né un cane né un gatto, – disse Adele, percependo una certa aggressività nel tono di Yan. – Cosa bisticciamo a fare?
– Se vuoi sapere la verità, Adele, secondo me disegnare gatti non è degno di te. Non vanno presi sul serio. Sono provinciali.
– Perché non affronti la questione col mio insegnante? A quanto pare ne sai piú di lui.
– Può essere.
– Ho diritto anch’io ad avere una mia opinione, Yan. E io sospetto che tu sia nel torto.
– Sono io a pagare le tue lezioni.
Ad Adele vennero in mente le parole di Rachel. – Troverò lavoro come cameriera. Ci so lavorare, nei bar.
Yan strinse i pugni. Diventarono duri come pietre. Adele non ebbe nemmeno il tempo di posare i pennelli. Le pietre la colpirono in faccia, e le si ruppe subito il naso. Sentí il rumore delle ossa che si spezzavano. Ad Adele era sempre piaciuto il suo naso, il suo bel naso alla Barbra Streisand. Nel jukebox al Dean’s Beachside Bar & Grill c’erano sei canzoni di Streisand, e lei le sapeva tutte a memoria. Ora non riusciva a togliersi dalla testa quei sei titoli mentre il sangue le colava giú dalla faccia nella scollatura della camicetta.
Quella sera Adele chiamò Rachel e le disse che il venerdí seguente non poteva passare a trovarla. Non lavorava piú da Dean’s, ma ci andava ancora una volta alla settimana come cliente. A volte però non resisteva all’impulso di dare una pulita al bancone con uno dei laceri strofinacci tricolori.
Yan la portò dal medico. Era tanto dolce e continuava a scusarsi, tenendole un fazzoletto sul viso per tamponare il sangue. Mugolando come se il naso rotto fosse il suo.
– Dobbiamo fare attenzione a non andare a sbattere contro i muri, – disse.
– Che sciocca! – riferí Adele al medico. – Sono andata a sbattere contro un muro.
– Non succederà piú, – disse Yan. – Non deve succedere.
Adele si comprò alla Colony Records gli album di Barbra Streisand, e ascoltava la musica a casa sul giradischi vintage di Yan, ma il giradischi era un misero surrogato del jukebox del Dean’s Beachside Bar & Grill.
La settimana dopo si presentò al bar, e Rachel disse: – Che ti è successo al naso?
Adele le fece segno di lasciar perdere. – Almeno adesso me lo posso rifare!
Rachel cacciò un urlo per chiamare Seth, che la settimana prima le aveva messo al dito un anello di fidanzamento. Non avevano ancora una data, ma la promessa se l’erano fatta. Seth lavorava per la ditta che forniva gli alcolici al bar. Uscí dalla cucina e posò la cassa che stava trasportando. Stavano facendo il pieno per la turbolenta folla del venerdí sera.
Seth osservò Adele. – Che è ’sta roba? – Era orgoglioso di aver servito nell’esercito durante la seconda guerra mondiale e di aver combattuto i nazisti. Era tra i soldati che avevano liberato i suoi fratelli ebrei da Dachau. Da ragazzo, aveva idolatrato il campione dei pesi massimi Max Baer, e si era allenato per diventare un peso medio professionista, finché un infortunio non gli aveva stroncato la carriera. Era un ottimo pugile, agile e aggraziato, anche adesso che stava invecchiando. – Non lascerò che Yan ti tratti come un punching ball.
– Te lo giuro su Dio, Seth, – disse Adele. – È stato un incidente.
Seth sentí venir meno il proprio spirito combattivo. Dio era entrato nella stanza, e quando Dio entrava nella stanza, erano tutti suoi pazienti.
Adele non si rifece il naso. Lasciò che guarisse e tornò a mettere tutta se stessa nella pittura. Dipinse gatti in posizioni compromettenti e li lasciò in giro per casa. Dipinse gatti con zampe e nasi rotti. Dipinse gatti vivisezionati e gatti con orecchie da lepre. L’insegnante era colpito, ma la sfidò a spingersi oltre. Allora dipinse gatti che si spingevano oltre il davanzale di casa sua, e infine un gatto che era mezzo gatto e mezzo donna.
– Ah, una sfinge deliziosa, – disse l’insegnante. Il suo pancione tremolava di sincero giubilo e ammirazione per quella raggiunta sicurezza e quello stile inedito.
– Adele –. Yan scosse la testa. – Devi smetterla –. Yan odiava quei dipinti. Guardarli gli faceva bruciare gli occhi. Era un uomo di salde convinzioni, e per lui i gatti erano un affronto.
Seduta sul divano, Adele disse: – Se guardarli ti fa bruciare gli occhi, allora non vedi piú niente, e se non vedi piú niente, che problema c’è?
Sentí il movimento delle dure scarpe di Yan e si affrettò ad alzarsi, abbandonando la comodità del divano per la sicurezza della porta. Prese il treno Q e andò a casa della madre. Aveva bisogno di calmarsi prima di affrontare la folla del bar.
Questa volta non mentí. Al ritorno a casa, Rachel e Seth la trovarono ad aspettarli nella cucina buia. Si sedettero al tavolo, alla sua destra e alla sua sinistra, e la ascoltarono.
– Che figlio di puttana, – sbottò Rachel.
– Non è un uomo, è un bambino, – disse Seth. – E i bambini come lui capiscono solo una cosa.
Adele allungò un braccio per fermare Seth, che si era già messo il cappotto. – Se gli fai del male, ti arresteranno –. Lei ci teneva alla felicità della madre. Era un talismano per una felicità che riteneva ancora alla sua portata.
Dal canto suo, Rachel aveva sognato pesci. Per cinque giorni di fila aveva sognato un pesce che saltava sulla luna lasciandosi dietro scie di pesci luccicanti. Divoravano il cielo notturno, tutti quei pesci, e diventavano stelle. Aspettò che Adele si ritirasse nella sua vecchia cameretta, poi la seguí e le chiese: – Insomma, sei incinta?
– E tu? – disse Adele intimorita.
– Risparmia le tue frecciatine per il tiro a segno –. Rachel fece spallucce. – Io sono troppo vecchia.
Adele, Rachel e Seth andarono a dormire. Alle due del mattino squillò il telefono.
– Vieni a casa, – disse Yan.
– No, – disse Adele. – Ti lascio.
– Mi lasci?
Rachel entrò nella stanza e strappò il telefono dall’orecchio della figlia. Sentí Yan che continuava a ripetere mi lasci. – Sí. Ti lascia.
Adele riprese il telefono. All’altro capo della linea c’era silenzio. E un respiro pesante.
– Per arrivare alle vene bisogna tagliare in profondità, – disse lui.
Trovarono Yan al Columbia Presbyterian con una montagnola di cuscini dietro la schiena. Era impegnato a rifiutare quella sorta di sacco per le patate che le infermiere avevano il coraggio di chiamare camicia da notte. Il polso destro era bendato.
– La prossima volta ce la farò. Giuro su Dio che ce la farò.
– Chiudetelo in manicomio –. Rachel pestò i piedi.
– Ammazzarsi? Ammazzarsi? – Seth fumava di rabbia. – Con tutta la gente a questo mondo che avrebbe voluto vivere. Che muoia pure!
– Non voglio la responsabilità della sua morte, – disse Adele. Avrebbe potuto aggiungere che lo amava, ma aveva qualche dubbio in proposito. Invece non potevano esserci dubbi riguardo ai pesci sognati da sua madre. Lasciò l’ospedale insieme al marito.
Sei mesi dopo, Adele diede alla luce il primo figlio, Maximilian. E dodici mesi dopo la nascita di Maximilian, arrivò la figlia, Freya. Il desiderio aveva ritrovato la strada della camera da letto di Yan e Adele. Erano genitori pieni d’orgoglio, ed erano, come accade ai genitori con figli piccoli, al tempo stesso stanchi e felici.
Adele continuò a dipingere. Passò dal dipingere gattini al frequentare un laboratorio intensivo di studi anatomici, a olio e ad acrilici. Il laboratorio era riservato a un piccolo gruppo di studenti selezionati. Fu sbalordita quando le venne assegnata una borsa di studio che copriva parzialmente i costi. Disegnava donne nude, artiste del trapezio, in un cielo sfolgorante.
– I tuoi quadri faranno venire gli incubi ai bambini, – disse Yan. – Diventeranno stupidi e ottusi.
Adele guardò le proprie tele. Lei vedeva corpi che sfidavano la forza di gravità. – O forse diventeranno curiosi e determinati.
Se lo stava immaginando, o Yan aveva stretto i pugni? Si ammutolí. E nel suo mutismo cominciò a notare l’andirivieni di cameriere e donne delle pulizie, che venivano assunte e poi, senza preavviso, si licenziavano. Non c’era neanche bisogno che Yan aprisse bocca perché quelle donne affrettassero il passo o perché in sua presenza il loro corpo s’irrigidisse. Lui rispettava i loro confini e quando entrava nella stanza dava buone mance, ma perché, avrebbe voluto chiedere Adele a quelle donne, in sua presenza il mondo sembrava cambiare (o era una cosa che sentiva solo lei)?
Dipinse un condominio dentro cui si protendevano delle gigantesche mani maciullate. – Magnifico, – disse il suo insegnante.
– Adele, – chiese Yan. – Stai cercando di ammazzare i nostri figli?
Adele smise del tutto di dipingere.
Quando Max aveva tre anni e Freya due, Rachel sposò Seth. La festa fu molto bella. Chiesero ad Adele di badare lei al bar e all’appartamento mentre loro erano in luna di miele. Quando arrivò alla casa, Adele trovò come regalo di ringraziamento pennelli, cavalletto, tele e colori. Non erano della qualità migliore, ma erano quel che le serviva per ricominciare.
La mattina Adele portava in spiaggia Max e Freya a giocare con la sabbia e i secchielli. Poi, mentre loro facevano il sonnellino, lei faceva degli schizzi. Le piaceva tenere fra le mani quei pennelli e quelle matite senza pretese.
Per diversi anni, i figli addolcirono Yan. Dedicava meno tempo ai suoi misteriosi affari e tendeva le orecchie ai loro soffici passi sulle assi di legno del pavimento. Le loro risate lo intimidivano in un modo che faceva tenerezza. I bambini placavano le sue tempeste andando avanti e indietro coi loro camion giocattolo e travestendosi da fate. Yan correva su e giú per la stazione della metropolitana dell’Ottantaseiesima con Max e Freya nel loro passeggino gemellare, a volte passando a un soffio dalla linea gialla e dalle luci bianche del treno in avvicinamento. Fu un buon periodo. Un buon periodo finché non tornò l’umor nero. E quando tornò l’umor nero, Adele, Max e Freya cominciarono a passare giornate e nottate e fine settimana lunghi nella casa di baba e bubba a Coney Island.
– Che cosa vogliono i bambini? – chiedeva spesso Yan ad Adele.
Era una domanda trabocchetto? Stava per arrivare un’esplosione che le avrebbe deturpato la faccia? Adele scelse le parole con cura: – I loro genitori?
Yan fece spallucce. – Lo sai che non li possiamo salvare.
– Yan, noi viviamo in America. I nostri figli sono i bambini piú al sicuro del mondo. I nostri figli sono molto al sicuro –. La considerava una cosa fondamentale da dire, una cosa fondamentale da far capire a Yan.
Cinque anni diventarono sette anni. Sette anni diventarono nove. I figli di Adele e Yan crescevano. Maximilian e Freya erano curiosi e determinati. Notarono che Yan non parlava mai di sua madre o della sua famiglia o di qualunque cosa riguardasse la sua infanzia. E si infastidiva se loro o Adele facevano qualche domanda in proposito. Non sapevano quale delle due cose fosse piú snervante: il fatto di dover vivere con Yan o il fatto che lui non avesse un passato.
Maximilian e Freya compirono diciotto e diciassette anni. Si diplomarono e si trasferirono tutt’e due a San Francisco per frequentare l’università a Berkeley. Freya aveva saltato un anno, ed era ben contenta di filarsela via insieme al fratello. Adele e Yan si offrirono di accompagnarli in macchina, ma loro rifiutarono.
– Vienici a trovare, – disse Freya alla madre.
– Vogliamo cavarcela da soli, – disse Maximilian a Yan.
Adele non permise che vedessero le sue lacrime, ma dopo che se ne furono andati singhiozzò amaramente. Yan le mise una mano sulla spalla sinistra. – Lo vedi cosa hai fatto? Hai allontanato i nostri figli da noi.
– Io? Io? – Adele diede a Yan una sberla cosí forte che i lampadari guardarono giú e rabbrividirono.
La vista di Adele con le stampelle fu troppo. Rachel disse a Seth: – Finiscilo.
Seth ormai malediceva il giorno in cui aveva presentato Adele a Yan. Andò ad attenderlo davanti a casa. Lo beccò prima che svoltasse l’angolo fra l’Ottantacinquesima e West End Avenue. Yan si aspettava che il suo vecchio amico lo venisse a cercare, e agitò verso di lui un dito minaccioso.
– Picchiami e dirò a Rachel che te la fai con altre donne.
Seth lo colpí lo stesso e corse a casa a dire a Rachel che ogni tanto le era stato infedele. Rachel rise. – E allora? Anch’io. Yan è un uomo pericoloso, Seth. Finiscilo.
Quella sera stessa Seth tornò a finire Yan. Questa volta lo beccò davanti alla sala da poker di Hell’s Kitchen dove si erano conosciuti. Seth ci diede dentro, un pestaggio da professionista, prendendolo sistematicamente a pugni sul torso e sulla faccia con la forza di un uomo molto piú giovane. Aveva intenzione di ammazzarlo, ma scoprí di essere non solo un ottimo pugile ma anche un bravo arbitro. Lo lasciò sanguinante sul marciapiede screpolato.
– L’hai fatto? – Questa storia di Yan stava facendo venire i capelli grigi a Rachel. Ora dimostrava il doppio dei suoi anni.
– Rachel, – disse Seth. – Pensa a quel che mi stai chiedendo di fare.
Adele era sul divano. Al bar, Rachel aveva notato che la figlia aveva cominciato a bere. Lei, che si era sempre mossa con disinvoltura tra gli ubriaconi, ora si era ridotta a ingollare fondi di bicchiere. A trangugiare la saliva altrui.
– Ci serve Dio, – dichiarò Rachel.
– O un buon rabbino, – disse Seth.
In preparazione al colloquio col rabbino, Adele si astenne dal bere per diversi giorni. Le piacevano i kamikaze, un mix di succo di lime, Cointreau e vodka. E i martini. Sí, i martini erano i suoi preferiti. Non al bar. A casa, dove a volte si consolava con la roba buona. Questo, naturalmente, al rabbino non intendeva raccontarlo.
– In ogni matrimonio vengono poste delle condizioni, – disse il rabbino. – Le sue condizioni quali sono?
– Il rubinetto della doccia.
Il rabbino era perplesso. – Il rubinetto della doccia?
– La lavapiatti, – borbottò Adele.
– La lavapiatti, – ripeté il rabbino. Era minuto, pensoso, con occhiali da gufo che si risistemava di continuo. – A quanto mi risulta, suo marito conduce una vita agiata. Avrete sicuramente qualcuno, no? Un aiuto in casa.
Adele annuí. – Certo –. Poi riprese a snocciolare la sua lista. – Il tappetino del bagno, i vestiti piegati. La lavatrice. I suoi passi per casa, con e senza pantofole, in cerca di qualcosa di sospetto, di tipi sospetti che non arrivano mai. I vestiti spiegati dopo che tu li hai piegati. Sondare è capire è chiedere, Cosa succederà adesso? Cosa succederà dopo? Un turbinio negli angoli della casa seguito da un silenzio o da una risata di sollievo. Un sorriso che è come una maschera quando Yan entra dalla porta, un buongiorno che non ha niente di buono, un ciao che è un punteruolo conficcato nel petto, la tacita disapprovazione di un pasto che hai impiegato tutto il giorno a preparare. Limonata versata in un bicchiere. Prima che la sua bocca tocchi il bicchiere, prima che il bicchiere sia di nuovo sul tavolo: Troppo zucchero, dice la sua bocca. Ma tu sai di non avere messo lo zucchero nella limonata, perché l’ultima volta che ce l’hai messo lui ti ha urlato che ce n’era troppo. È un tono che ti spinge a toccarti l’orlo della gonna per essere sicura che non si veda la sottoveste. O il modo critico con cui allunga una mano per toccarti.
– E lei lo ama? – chiese il rabbino.
Quante volte se l’era fatta, quella domanda? La risposta era come il cocktail che le piaceva, un kamikaze. I kamikaze volano incontro alla propria morte. Ogni volta che si rigirava nella testa quella domanda, diceva a se stessa che era connivente perché era rimasta con lui.
Di punto in bianco, Adele si mise a gridare, e il rabbino si sporse in avanti per misurare la sua rabbia. – Un’unica orchidea lasciata in un vaso di vetro! Una scatola di tartufi di cioccolato della nostra pasticceria preferita, Evelyn’s! Un piccolo regalo che rivela un intero mondo di pensiero e bellezza che eclissa ogni bruttezza che l’ha preceduto! Le fragoline di bosco mature offerte fresche nella loro confezione di cartone verde!
Forse c’è speranza, pensò il rabbino, ma ad Adele disse solo: – Mi piacerebbe incontrare suo marito. Non lo vedo dal giorno del vostro matrimonio.
Il giorno del matrimonio era per Adele un ricordo confuso. Distolse lo sguardo. – Non siamo osservanti. Forse non verrà.
– Deve convincerlo, – disse il rabbino.
Adele tornò all’appartamento. Per la prima volta da quand’erano sposati, Yan non aveva telefonato né era andato da Rachel e Seth a riprendersela. Aveva la faccia blu e nera per il sonoro pestaggio di Seth. Aveva riarredato l’intero appartamento con mobili moderni. Adesso tutto era bianco.
– Darei qualunque cosa – disse Yan – per essere una persona diversa –. Adele quasi gli credette. Gli era grata di non aver cercato di nuovo di tagliarsi le vene.
– Ho affittato una casa a Long Island per il fine settimana, – aggiunse lui.
Adele voleva raccontargli del rabbino. Ma forse l’avrebbe ascoltata meglio se prima si fossero riposati e rilassati.
Mentre sfogliava l’«East Hampton Star», Adele scoprí che la Pollock-Krasner House era stata aperta alle visite. Jackson Pollock e Lee Krasner erano morti tutt’e due. Era il 1988. La casa distava solo un quarto d’ora di macchina dall’appartamento che avevano affittato ad Amagansett.
– Lui, – sussurrò Yan mentre giravano per la casa, sostando davanti al quadro di Pollock Untitled (Composition with Red Arc and Horses). – Un genio? Lo definiscono un genio. L’imperatore è nei boschi, ed è nudo.
– Lei, – disse Adele, attraversando quelle camere modeste e restando a bocca aperta quando si imbatté nella serigrafia di Krasner Free Space, coi suoi intensi svolazzi blu e verdi, spavaldamente astratti e allegri. Resistette all’impulso di salire sul letto dell’artista per vedere piú da vicino Rose Stone, la litografia rosa acceso di Krasner. Yan attese pazientemente mentre Adele indugiava su ogni fotografia e, concentrata, prendeva appunti illeggibili su un vecchio taccuino Mead, perché non aveva pensato di portarsi la macchina fotografica. Quando chiese di vedere una seconda volta lo studio di Pollock, Yan la seguí e le si inginocchiò accanto mentre lei toccava le macchie di vernice ormai indelebili sulle assi del pavimento. Dopo la morte del marito, Krasner aveva cominciato a lavorare nel suo studio, e Adele riconosceva le sue tracce. – Mi piacciono le sue pennellate. Il suo uso ardito dei colori. Yan, penso che siano eccezionali tutt’e due.
Quella notte i loro corpi si unirono, e Adele si addormentò prima di riuscire a parlare del rabbino. Non dormí a lungo. Svegliandosi, trovò Yan seduto sul bordo del letto.
– Non ci siamo riusciti, sai. I nostri figli hanno tutto, eppure non sono al sicuro. Perché non possiamo tenerli al sicuro?
I tuoi figli ti odiano, pensò Adele. I nostri figli mi compatiscono, rimuginò. Ma a Yan disse: – Potresti chiederlo al rabbino.
– No, – disse il rabbino. – Non potete tenere i figli al sicuro. Noi siamo figli di Dio, eppure Lui non ha potuto impedirci di mangiare il frutto proibito. Conoscere una certa misura di sofferenza è parte della natura umana, ma la sofferenza non dovrebbe durare per tutta la vita.
Yan apprezzò la risposta fuori dai denti del rabbino. – Cosa posso fare per lei, rabbino?
– Il punto non è cosa lei può fare per me, Yan. È cosa lei può fare per se stesso. E per Adele.
– Io e Adele ce la caviamo, mi pare. Meglio di tanti altri.
Il rabbino aveva una casa a Manhattan Beach, vicino a Sheepshead Bay. Discendeva da un’antica stirpe di orologiai. Sentiva i tic anche quando non c’erano i tac, e i tac anche quando non c’erano i tic. L’assordante rumore del tempo si affievoliva un po’ quando leggeva la Torah e il Talmud. Ora scrutò Yan. – Questo non è vero.
– Invece è vero, buon rabbino, – insistette Yan.
– Lei picchia sua moglie.
– Di tanto in tanto, – ammise Yan.
– Adele non merita un simile trattamento.
Yan non replicò.
Il rabbino gli chiese se si considerava un buon ebreo. Yan disse di sí.
– Allora la smetta di picchiare sua moglie. Altrimenti sarà un cattivo ebreo, – lo ammoní.
Di nuovo, Yan non replicò. Gli balenò sulle labbra qualcosa di simile a un sorriso. I suoi occhi esaminarono lo studio del rabbino con profondo interesse. C’erano libri impilati ovunque. Se fossero state montagne, Yan le avrebbe scalate.
– Se non ama Adele, – disse il rabbino, – dovrebbe divorziare da lei.
– Ma quale altra donna mi sopporterebbe? Lei vuole essere castigata e io sono il suo castigo.
Il rabbino chiese a Yan da quale villaggio della Russia provenisse la sua famiglia. Yan fece spallucce. Il rabbino attese. Ma Yan non aveva intenzione di nominare il villaggio in cui era nato. – Che importanza ha? – Fece spallucce. – Dopo Stalin.
Il rabbino disse a Yan che la sua famiglia era di Vitebsk, in Bielorussia. Fece il nome di sua madre e suo padre e dei suoi nonni e bisnonni. Anche pronunciare quei nomi affievoliva il tic tac che sentiva nelle orecchie, e gli calmava i nervi scossi dalla presenza di Yan, che lo fissava senza battere le palpebre. Il rabbino era un uomo colto, ma credeva nell’esistenza dei demoni. Nei quarant’anni dalla fine della guerra, aveva sentito molte storie e visto nell’anima degli uomini demoni mascherati da depressione e angoscia e furore. Cercò di riportare la conversazione su Adele parlando delle madri. – Pensi a sua madre.
– Mia madre non mi è mai piaciuta, – disse Yan.
Davvero? Yan scherzava o era serio? La sua espressione era imperscrutabile. Il rabbino si chiese perché Adele non ci avesse pensato due volte prima di sposare un uomo che non voleva bene alla propria madre. Ma poi il suo cuore si intenerí, perché lei non aveva mai conosciuto il proprio padre.
Quella sera il rabbino spiegò la situazione alla moglie, Lydia, e il suo commento fu che a lei non era mai piaciuta la madre del rabbino. Era una ficcanaso.
Il rabbino si tirò su a sedere nel loro letto a barca. – Ma Lydia, non me l’avevi mai detto.
– Io? Lamentarmi col rabbino della sua adorata mammina? Figuriamoci. Però lo sapevi, no, Isaac? Solo Dio poteva voler bene a tua madre.
– Io le volevo bene.
La moglie del rabbino si girò dall’altra parte. – Non tutti i giorni.
– Diciamo che le volevo bene tutte le volte che me lo permetteva. La guerra le aveva fatto del male.
– Perché cerchi sempre giustificazioni per chiunque? La guerra ha fatto del male a tutti noi. Ancora lo sta facendo.
Quella notte il rabbino non dormí bene. Aspettò tre settimane prima di chiamare Yan.
– Ha picchiato Adele di recente? – chiese. Erano nello studio. Yan sedeva con le mani fra le ginocchia. Come un bambino.
– Di recente no, – disse.
– Forse è un passo avanti?
Yan sorrise. – Lo chiami cosí, se vuole.
– Lei è un affermato uomo d’affari, vero?
– Sono il proprietario di un’azienda che possiede altre aziende.
– E la sua specialità?
– Liquidazioni.
– Immagino che comporti parecchio stress. Noi uomini dobbiamo sopportare degli stress che le nostre mogli non comprendono –. Il rabbino aprí il Talmud. – Ma il Talmud proibisce che un uomo picchi ingiustamente la moglie.
Yan rise. – Invece permette di picchiarla giustamente?
– Dunque concordiamo sul fatto che, come sta scritto nel Talmud, lei non dovrebbe alzare le mani su sua moglie?
– Il Talmud si presta a molte interpretazioni, buon rabbino, – disse Yan. Si era tagliato di nuovo la barba che ogni tanto si lasciava crescere. Se l’era tagliata da solo, e in modo poco regolare. – Come sappiamo tutt’e due, potremmo sostenere una certa interpretazione e poi trovare un altro passo che dice il contrario. Crede che io non conosca il Talmud? Lo conosco meglio di chiunque altro.
Il rabbino era sicuro di aver percepito un tono di sfida nelle parole di Yan. Lui alla scuola rabbinica era stato lo studente migliore di tutti. L’orgoglio lo tentava ad accettare la sfida, ma l’umile servizio a Dio lo spinse nella direzione opposta.
– E come mai conosce cosí bene il Talmud? – chiese.
– Mio padre era un rabbino.
– Eppure lei non segue la via del figlio di un rabbino.
All’improvviso Yan scattò in piedi, avvampando. – È stato un piacere, ma temo che abbiamo finito –. Era la prima volta che lasciava trapelare un’emozione.
Durante il colloquio, la moglie del rabbino era entrata per servire il tè, perché anche lei non riusciva a tenere a bada la curiosità. Quando vide Yan che si allontanava tutto impettito, come un pavone o un magnaccia, gli urlò dietro.
– Se vuole fare il gradasso, se ne vada a Harlem a menare le mani!
Il rabbino fece capolino alle sue spalle. – Zitta, Lydia.
– Vediamo quanto dura, lassú fra quei selvaggi!
– Non ti riconosco, Lydia. Le cose che ultimamente ti escono di bocca –. E aggiunse: – Secondo te suo padre era davvero un rabbino?
Harlem. Yan era affascinato dalle possibilità di Harlem. Yan era affascinato dalla rabbiosa sfida che gli aveva lanciato la moglie del rabbino. Affascinato quanto bastava per prendere la metropolitana fino all’incrocio fra la Centotrentottesima e Lenox Avenue, un torrido venerdí pomeriggio, e vedere cosa lo aspettava. A differenza del rabbino, Yan non rifiutava mai una sfida.
L’anno era il 1988 ed era in voga l’hip-hop. Yan si piazzò davanti al Pan Pan Diner, il locale sulla Centotrentacinquesima che offriva colazioni a base di pollo e waffle. Si mise a ballare il tip tap anche se non aveva le scarpe adatte, invitando i neri di Harlem, avvinazzati e tossici compresi, a uscire sul marciapiede e ballare con lui.
Ma i neri di Harlem non ne avevano alcuna intenzione.
Allora Yan diede in escandescenze e si mise a sparare a raffica insulti razzisti. Loro lo additavano, ridevano e si allontanavano, tutti tranne un bambino in giacchetta blu che per guardarlo si staccò dalla madre e mentre si divincolava perse uno dei bottoni d’oro del suo blazer. Quando Yan si fece avanti per raccogliere il bottone, la madre del bambino lo mise in guardia: – Ehi, ci sono dei limiti. Non si avvicini a me o a mio figlio.
A quanto pareva, pensavano fosse una trappola. Che Yan fosse un agente provocatore. E che ad attenderli ci fosse un manganello. Oppure che fosse pazzo. Non potevano sapere che Moishe, il defunto zio di Yan, era stato proprietario di negozi all’ingrosso a Harlem e nel Bronx. Quando Yan era immigrato da poco in America, suo zio Moishe lo portava alla fabbrica di pianoforti a Mott Haven e lasciava che passasse da strumento a strumento suonando dei tasti a caso.
Yan tornò a Brooklyn quella sera stessa per fare al rabbino il resoconto delle proprie avventure. Si rifiutò di lasciare casa sua anche se la moglie continuava a sostenere che il rabbino ormai era andato a dormire. L’indomani mattina, quando Lydia si impietosí e lo accompagnò nello studio, bevve due tazze di caffè e mangiò metà della babka del rabbino.
– Sono venuto a comunicarle che sono andato a fare il gradasso a Harlem, ma quei neri hanno problemi piú grossi dei miei. L’ho visto coi miei occhi, buon rabbino. Quanta povertà! E le devo dire una cosa: i neri di Harlem non dovrebbero mai smettere di cantare e ballare. La gente che smette di cantare e ballare alla fine impazzisce. Mi dica, buon rabbino, non è cosí?
Il rabbino gli chiese di nuovo da quale villaggio della Russia provenisse la sua famiglia. Ne elencò una lunga lista. Ogni volta Yan diceva che non era quello, poi cominciò a dondolarsi. – Da qualche parte a Harlem c’è un bambino nero a cui manca un bottone sulla giacchetta blu. Ce l’ho io in tasca, il suo bottone d’oro, perché la città è grande ma anche piccola, e prima o poi potremmo rincontrarci…
Il rabbino gli chiese se ricordava quale scuola rabbinica avesse frequentato suo padre in Russia.
Yan rovesciò con un calcio il vassoio con la babka e il caffè. Il liquido bollente fuoriuscí dal bricco metallico e macchiò il folto tappeto turco dono di nozze della prozia del rabbino, Sabine. Tic tac. Tic tac. Tic tac.
– Chi vuole attaccare briga con un figlio di comunisti? – disse Yan. – Chi vuole attaccare briga con me?
Il rabbino gli disse che doveva trovarsi un bravo terapeuta. E lo spinse ad andarsene prima che Lydia chiamasse la polizia.
Dopo Amagansett non c’erano piú state frizioni. Yan aveva evitato in tutti i modi Adele. Lei aveva ricominciato a prendere lezioni di pittura, alla Art Students League sulla Cinquantasettesima. Aveva anche ritirato fuori tele, cavalletto, pennelli e colori. Aveva appena cominciato un nuovo quadro quando Yan entrò nell’appartamento. Erano le undici del mattino. Dal suo passo felpato sulle assi del pavimento lei capí che avrebbero litigato.
Adele ora beveva molto, e l’alcol le dava coraggio. Yan le girò intorno. Le finestre del soggiorno erano aperte. Adele si era rifatta lo studio lí davanti. Yan osservò la tela che si riempiva di pennellate. Osservò quelle pennellate che diventavano un gatto del Cheshire. Era parecchio tempo che Adele non disegnava gatti. Yan prese un pennello e dipinse sopra il gatto del Cheshire.
– Non sei una Lee Krasner, – le disse, sgocciolando colore su tutta la tela.
– E tu, – replicò Adele con un sorriso, – tu sei un autocrate.
– Ah, dunque abbiamo finalmente imparato a sfogliare il dizionario. Era ora.
– Tu, – disse Adele, – sei un despota.
– Cosa ne sai tu di despoti, Adele? Cosa ne sai di qualunque cosa? – Yan ne avrebbe avute di cose da raccontare sui despoti, se avesse voluto. Avrebbe potuto raccontarle di inverni in cui il freddo parlava. Diceva oggi morirai qui in questa stanza. Avrebbe potuto raccontarle delle preghiere del rabbino, l’uomo che era suo padre, e della stanza in cui li avevano ammassati, per ordine di Stalin, anche se all’epoca Stalin sembrava, se non il loro paladino, certamente un loro amico. Avrebbe potuto raccontarle di stanze grandi come sgabuzzini e del trovarsi sospeso fra il sonno e i sogni, di notti nere illuminate all’improvviso dai fasci di luce delle torce elettriche, e dei passi che imparavi a contare, e dell’annusare dei cani al guinzaglio che venivano tenuti stretti, poi meno stretti, poi meno stretti ancora, e degli uomini, dei vecchi rabbini come suo padre, e poi delle donne che facevano barriera per proteggere i bambini. Chi li aveva protetti, i bambini? Io, avrebbe potuto raccontarle Yan… se avesse voluto. Li ho protetti come venivo protetto io. Ma questo Yan non l’avrebbe mai raccontato.
– Ti lascio, Yan, – disse Adele.
– Va bene. Vattene. Vuoi sapere se mi dispiace?
– Tu mi hai tolto tutto quel che importa, – disse Adele.
– Ha parlato la donna che non ha mai saltato un pasto. Che ha sempre dormito bene.
– Tutto.
Yan si allontanò da Adele e le disse che le avrebbe preso un’altra cosa ancora.
Adele era sbigottita. – Cosa c’è che tu non mi abbia ancora portato via? – disse.
– La tranquillità d’animo –. Yan posò il pennello color sterco e si lanciò verso le finestre. Saltò, portando giú con sé pezzi di vetro e di infissi e le piante di aloe vera posate sul davanzale. Precipitò per dodici piani verso la morte.
Fu una shiva senza lacrime. Solo Maximilian e Freya, i figli di Adele e Yan, piansero per l’uomo che li aveva terrorizzati.
Dopo la morte di Yan, Adele prese a bere sempre di piú.
– Non c’è niente di peggio di una vecchia ubriacona, – le disse Rachel.
– Ora che lui non c’è piú, – le disse Seth, – è un dono, il tempo che ti resta da vivere.
Adele ruttò loro in faccia.
Maximilian e Freya non dissero niente. Si tennero alla larga da Adele mentre lei imprecava contro di loro perché vivevano lontani, sulla costa occidentale. Diedero una pulita al suo appartamento e incorniciarono i quadri che per anni aveva tenuto nascosti. Fecero un inventario pro forma dei conti correnti del padre e restarono sbalorditi nell’apprendere che li aveva nominati entrambi esecutori testamentari. Yan aveva accumulato una piccola fortuna in proprietà immobiliari e investimenti diversificati.
Adele drizzò la schiena quando le dissero che possedeva una casa ad Amagansett. Riprese le lezioni di arte. E moderò le bevute. Una sera, quella del quarto anniversario della morte di suo marito, si imbatté nel suo vecchio insegnante di arte. Aveva ancora la pancia gonfia, e la cataratta a entrambi gli occhi, che non si faceva togliere perché aveva paura dell’operazione.
– Il tuo insegnante di arte non ci vede! – esclamò. La invitò a una festa nell’Upper West Side, un evento per raccogliere fondi per una scuola pubblica del quartiere. Di solito Adele evitava le feste a Manhattan, ma una vocina le disse di andarci.
Ci andò, ma fece attenzione a non bere troppo. Sorseggiava, non tracannava. Lasciò il suo martini su un tavolo e andò in bagno. Quando tornò, il suo martini lo stava bevendo un bell’uomo coi capelli argentati.
– No, no, quel martini è mio, – disse lei, indicando la traccia di rossetto sul bordo.
– Mi perdoni. Gli occhi sono la prima cosa a fare cilecca, – disse lui.
Poi continuò a berle il suo martini e si sedette sul divano Shelton. Adele gli si sedette accanto. Si chiamava James Samuel Vincent. Era avvocato, le disse: divorziato. Aveva un figlio, Rufus, alla Columbia University. Giusto la sera prima aveva conosciuto la nuova fidanzata del figlio, Claudia. Credo, disse, che sia una cosa seria. Il mio Ruff non è piú un ragazzo. Raccontò queste cose ad Adele mentre chiedeva altri due martini a uno dei camerieri.
– Sí, – disse Adele, pensando al suo amato insegnante di arte, e alla cecità in generale, ma ascoltando il resoconto delle gioie e delle farse della vita di James Samuel Vincent prima di voltarsi verso di lui e mettere sul tavolo le proprie.
– Quelle che ti fanno piú male sono le piccole crudeltà, – gli disse. – Non le grandi, non quelle che puoi indicare col dito e dire: «Oh, ecco il livido», ma le ferite di cui non ti accorgi fino al giorno in cui stai mangiando una zuppa di finocchio o prendendo il sole a bordo piscina e non riesci a muoverti, non riesci a fare niente, perché pensi, Ecco, in me qualcosa è morto, che cosa mi hanno fatto, e perché ho permesso che accadesse? E ora, e ora, e ora…