Vapore
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Rufus, figliolo, di dove sei? Sono nato a New York. Non lontano da qui. Al Columbia Presbyterian. E i tuoi? Cosa fanno? Mio padre è un avvocato. James Vincent. Mia madre, Sigrid, fa l’addetta al casting a L.A. Uh. Figlio di divorziati. Sissignore. Famiglia numerosa? Nossignore, sono figlio unico. Oh, anche mia moglie qui. Anche Agnes.
Io e Claudia eravamo su un divano con lo schienale a gobba di cammello in un soggiorno a L col tavolino da caffè di vetro e le pareti decorate a stucco che mi ricordava il primo appartamento di mia mamma a Venice Beach. Eddie Christie continuava ad allungarci un vassoio di soppressata, formaggi assortiti e panini. I panini venivano dal suo forno italiano preferito: sfilatini di semola e pagnotte coi semini e ciabatte, che ci invitava a imbottire coi formaggi. Formaggi che, a quanto diceva, nella maggior parte dei mercati di New York non si trovavano. Olezzanti formaggi italiani che lui aveva avuto in esclusiva. Il modo in cui diceva «in esclusiva» era un incentivo piú che sufficiente per assaggiarli. Mrs Christie sembrava contenta di lasciar condurre la conversazione al marito. Sedeva appoggiata a lui su un divanetto di cuoio, con le lunghe gambe incrociate. – Avrei sempre voluto una sorella o un fratello, – disse, – ma è andata bene cosí. Ora ho mio marito e le mie figlie.
– Mi dici un segreto? – chiesi a Claudia Christie. Terzo anno alla Columbia University. Tre settimane dall’inizio della nostra relazione e già sapevo che le avrei chiesto di sposarmi. Abitavo fuori dal campus, a Morningside Heights, con uno studente di filosofia dell’ultimo anno che una notte su due restava a dormire dalla fidanzata. Abitavo fuori dal campus perché ho sempre avuto il sonno leggero. È una cosa di famiglia. Soffro di insonnia. All’epoca, alle tre del mattino mi alzavo e mi mettevo a suonare il sassofono. Non avevo orecchio, ma la musica mi aiutava ad addormentarmi. All’inizio del secondo semestre il mio coinquilino si era trasferito downtown, nel West Village. Se n’era andato di sabato e nel giro di una settimana Claudia si era trasferita da me. In quelle prime settimane di frenesia sessuale del semestre invernale restavamo rintanati nel nostro appartamento come banditi. Eravamo giovani e versatili e ammaliati dal costante piacere che i nostri corpi riuscivano a procurarci. È nella natura degli anni dell’università che gli studenti abbiano… storie, come si dice adesso, intense, e si mettano insieme da un giorno all’altro. Gli amici ci avevano soprannominato i volatilizzati, perché mettevamo piede fuori dall’appartamento solo per andare a lezione o per procurarci il cibo, quasi sempre economico e da asporto. Pizza di V&T. Riso e fagioli di Tom’s. Pollo del girarrosto e falafel con baba ganoush del Rainbow Chicken. Il cibo mediterraneo ci faceva puzzare l’alito, ma l’aglio ha anche i suoi lati positivi. Manipolate una testa d’aglio nel modo giusto e i vostri sensi si acuiranno. (È stata una donna di nome Parsnip a insegnarmi questo trucco).
– Ruff, – disse Claudia. – Non ci sono piú segreti –. Era appoggiata ai cuscini sul nostro futon bitorzoluto, con Der Prokurator di Goethe sulle ginocchia. Stavamo seguendo un corso sulla nascita della forma novella. Roba parecchio eccitante per degli studenti di letteratura.
– Mi chiamo Rufus –. Solo mia madre e mio padre mi chiamavano Ruff. Però in fondo mi piaceva che Claudia avesse cominciato subito a usare quel nomignolo.
– Non riesco a prenderti sul serio come Rufus. Sento Rufus e penso ai Rufus e Chaka Khan.
– Cavoli, hai urtato i miei sentimenti.
– C’est dommage. Sopravvivrai.
All’università, le relazioni sessuali possono essere un’esperienza terrorizzante. Mi era capitato di svegliarmi con ragazze che non avrei voluto rivedere e che probabilmente non avrei toccato fin dal principio se non mi fossi trovato alla festa sbagliata nel momento sbagliato. Girarsi nel letto il mattino dopo una festa studentesca e avere al proprio fianco una persona che sei felice di vedere è una specie di miracolo. Ma svegliarmi con Claudia accanto a me piaceva. Io sono bianco. Claudia è nera. Da quando siamo insieme la razza non è quasi mai stata un problema. Ma questo mondo, abbiamo scoperto, questo mondo ha problemi a sufficienza per tutt’e due.
– Forse ormai i segreti sono prerogativa del melodramma vittoriano, – dissi. – Ma su, deve pur esserci qualcosa di profondo, tenebroso e personale nel tuo passato… Dimmi la cosa di cui piú ti vergogni.
– Se ti portassi a casa mia, potresti andare a fuoco –. Poi rise. All’epoca non lo sapevo, ma era la risata di suo padre, una risata calda e stridente che faceva pensare al mese d’agosto e alle sigarette, anche se lei non fumava. Io la chiamo la risata nervosa di Claudia, la risata che preannuncia la verità. E se è possibile prendere un’abitudine dal proprio partner, direi che io l’ho ereditata da Claudia, non fosse che anche mia madre solletica la risata del mondo.
– Sul serio, – disse Claudia. – Di solito mia mamma se ne sta sulle sue. Tiene per sé la sua opinione. Ma il mio ultimo fidanzato è finito al Columbia Presbyterian con ustioni di primo grado alla spalla. Per staccargli la camicia dalla pelle hanno usato delle pinzette per le unghie. Ho pensato che i suoi ci avrebbero fatto causa.
Agnes Christie cercò di bruciare anche me col ferro da stiro, la prima volta che Claudia mi portò a casa sua. Il ferro non me lo ricordo. Ricordo solo il vapore e il modo in cui saliva gorgogliando dall’ugello sopra la piatta maniglia cromata. Vorrei poter dire che quel ferro era rosso veneziano, ma avrebbe anche potuto essere azzurro o argentato o grigio. Le cose stavano andando abbastanza bene. O almeno cosí mi sembrava. Mrs Christie sbadigliò e si allontanò un istante. Quando ricomparve, sulle prime scambiai il ferro incandescente che aveva in mano per una caraffa di chianti. Sorrisi alla bella donna scura dal viso ovale come quello della mia futura sposa e restai dov’ero. Lei si avvicinò e io tesi le braccia e le mani per affrontare il suo calore. Quel gesto, con le mie dita che danzavano verso di lei e non intendevano indietreggiare, la spinse a fermarsi e abbassare gli occhi sul ferro.
– Senta, Mrs Christie, – dissi. – Non può bruciare me senza bruciarsi anche lei.
Mr Christie comparve al fianco della moglie. – Agnes, – disse. – Va tutto bene.
– Mi perdoni, – disse Agnes Christie. E spense il ferro da stiro. – Da dove vengo io, di solito non è una buona cosa quando ti entra in casa uno sconosciuto con la pelle bianca.
– Be’, le prometto che farò tutto il possibile per smettere di essere uno sconosciuto. Ma quanto alla pelle bianca, non posso farci niente.
Claudia mi aveva preparato al ferro di sua madre. Avevamo provato insieme il modo migliore di reagire se lei mi si fosse avvicinata.
All’inizio fui sorpreso dalla penuria di libri in casa Christie. Nel soggiorno c’erano solo l’Encyclopædia Britannica e una raccolta delle opere di Shakespeare che Mrs Christie aveva acquistato a un’asta alla scuola cattolica che aveva frequentato da bambina. La cosa mi lasciò di stucco. Forse se conosceste Claudia… dovreste conoscere Claudia per capire. O forse è solo questione di privilegio e aspettative personali? Io ero cresciuto in un appartamento con studio annesso affacciato su Central Park West. Passavo ore a costruire fortini coi libri che foderavano le pareti. Quando andai a casa di Claudia, ero sicuro che avrebbe spalancato una porta mostrandomi l’indizio che cercavo, il covo segreto dei libri che spiegavano come aveva fatto ad arrivare alla Columbia. L’angolino appartato dell’erudita in boccio. Ma c’erano solo un letto a due piazze, un cassettone e una scrivania, e un poster di Purple Rain appeso al muro. Nella casa dei Christie le cose materiali non mancavano. Solo non c’era molto spazio libero. Tutto era funzionale. È stato uno di quei momenti – e in quanto uomo bianco sposato con una donna nera ne ho avuti parecchi – in cui ho capito quanto sono privilegiato. Puoi parlare di privilegio fino alla nausea, ma non lo capirai mai fino in fondo se non hai vissuto con qualcuno che ha dovuto fare di piú avendo di meno.
– Non è pazza, – dissi, parlando forte per farmi sentire nel frastuono della linea 5 della metropolitana mentre tornavamo verso il nostro appartamento. Poi avremmo preso la 4 fino alla Centoventicinquesima e da lí un taxi fino a casa.
– Come?
– I tuoi vivono in modalità shutdown permanente. Come i miei.
Claudia distolse lo sguardo. – Per favore non giudicare i miei genitori basandoti sui tuoi. Non serve a niente. Appartengono a generazioni diverse. Sono successe delle cose schifose. Noi, io e Beverly, non chiediamo niente.
– Perché?
– Sono fatti loro, Rufus.
– Ma noi quei fatti li ereditiamo. Non vuoi sapere cosa li spinge a comportarsi cosí?
Claudia sospirò. – No. Mi basta che mi abbiano voluto bene.
Il nostro primo Natale, regalai alla madre di Claudia un ferro da stiro vintage. L’avevo trovato in un negozio di roba usata a Venice Beach quand’ero andato in vacanza da mia madre. Mentre Mrs Christie lo spacchettava, non sapevo come lei o Claudia o Mr Christie avrebbero reagito. Non sapevo se avrebbero colto l’aspetto umoristico, e se c’era davvero un aspetto umoristico o il mio era invece un tipico gesto passivo-aggressivo, un modo per dire, Se anche mi bruciate, continuerò a venire qui, non mi arrenderò e insisterò sempre nel volere vostra figlia.
Ma lei sorrise, e le sue guance scure arrossirono. – Il mio regalo è un po’ piú… banale. Un berretto degli Yankees da parte mia e di Eddie.
Regalarle ferri da stiro è diventata una tradizione. Ogni Natale compro per Mrs Christie un ferro antico. Ormai ne ha una collezione, come pezzi di un museo: ferri triangolari, ferri ovali, ferri a braci ardenti. Ora che non c’è piú Mr Christie per cui farlo, non so quanto stiri nella Buckner County, Georgia. Durante le sue chiacchierate domenicali con Claudia, ogni tanto ho avuto la tentazione di chiederle se ha conservato quei ferri.
Ancora adesso, vent’anni dopo, a Claudia piace lavorare a letto. Per correggere i compiti prende un vassoio di plastica e se lo appoggia sulle gambe. Abitiamo in un edificio dell’università, a dieci minuti a piedi dal nostro primo appartamento. La storia ci circonda. Le prove del fatto che siamo venuti al mondo, ci siamo trasformati e abbiamo avuto figli. Quando le persone dicono che New York è cambiata, non sempre capisco cosa intendono. Cambiata per chi? Io riesco ancora a mappare la nostra evoluzione in chilometri e isolati. Certo, i negozi e i ristoranti vanno e vengono. Il Rainbow Chicken è scomparso da un pezzo. Il Gotham Cabinets, dove ho comprato il mio primo futon, resiste ancora, anche se non credo che la nuova generazione vada pazza per i futon. L’atmosfera è diversa uptown e downtown. Una volta noi andavamo nel Lower East Side per una grintosa esperienza controculturale, ma ormai in Ludlow Street incontri solo gente bionda con fondi fiduciari. Quando hai figli, queste cose non ti mancano nello stesso modo. Non ne hai il tempo.
Il mio nome completo è Rufus Noel Vincent. Ho quarant’anni. In questo periodo, tre volte alla settimana, troverete me e mia moglie nella piscina condominiale a fare terapia del nuoto con nostra figlia Winona. Il modo migliore per superare una paura è riviverla, secondo il terapeuta di Winnie. E cosí io, Claudia e Winona – in quei frangenti Elijah passa del tempo a tu per tu con suo nonno, ovvero mio padre – nuotiamo come anfibi da un capo all’altro della piscina. A Winona piace lo stile libero e, mentre nuoto anch’io a stile libero accanto a lei, spesso penso a Hank Camphor, il fratellastro che non conosco. Penso a mio padre e mia madre e a tutta la merda del mio passato che ho cercato in ogni modo di dimenticare: un pesciolino, due pesciolini, tre pesciolini. Non saprei dire se sto nuotando via dal mio passato o mi ci sto dirigendo a capofitto.
Al primo anno di liceo, mia madre mi ha tolto dalla Trinity Prep. Lo considerava un ambiente troppo incestuoso. Era dall’asilo che la frequentavo, sempre con gli stessi compagni: avevo giocato con loro a Central Park negli stessi campionati di softball e di calcio, mi ero fatto le canne agli stessi compleanni e avevo partecipato agli stessi campi estivi in Vermont e sulla costa del Maine. A mamma spiaceva che in prima media non avessi fatto un tentativo di entrare all’Hunter College. Che lei e papà non mi avessero spinto a studiare di piú. Era sicura che avessimo bisogno di un cambiamento. E poi negli ultimi tempi, negli ultimi tempi mi era venuto uno sgradevole tic: mi schiarivo in continuazione la gola. Avevo qualcosa di incastrato nella laringe e non riuscivo a farlo uscire.
«C’è rimasto attaccato del nastro adesivo», dicevo spesso.
Mia madre e mio padre mi fecero visitare dai migliori otorinolaringoiatri di Manhattan, ma nessuno riuscí a trovare niente nella mia gola. Né risultai positivo agli esami allergologici. Ero in perfetta salute. Un adolescente sano come un pesce.
– È una cosa psicologica, – disse infine un medico. – Cosa sta succedendo a casa vostra?
Fino ad allora mi ero baloccato col pianoforte, uno strumento per cui dimostravo poco talento e un labile interesse. Alla Trinity tutti suonavano qualcosa. Mamma, che era di origine europea, spesso la sera dopo il lavoro suonava il nostro Steinway a mezza coda. Credeva che suonare il piano potesse rilassarmi, se non altro. Mio padre era cresciuto in una casa dove non c’erano strumenti musicali, però amava il jazz, soprattutto il Miles Davis di So What? Mi comprò un sassofono di seconda mano da un musicista jazz che sosteneva di aver suonato coi grandi. Pagò una piccola fortuna per quel sassofono, anche se, ammise in seguito, se lo sentiva che avrebbe fatto meglio a prenderne uno nuovo.
– Usa questo per sturarti le tubature, – disse. – Se fai progressi, conosco un professionista che può darti lezioni.
Il tono con cui si rivolgeva a mia madre non era altrettanto gentile. – Cosa ti è passato per la testa, a togliere Ruff dalla Trinity? Lí si era costruito una comunità.
– Lo porterò in ben altri posti, – disse mamma. Quando chiese per la prima volta il divorzio, lei e mio padre erano su un taxi giallo sulla Quinta Avenue, di ritorno dalla festa per il cinquantesimo compleanno di un socio anziano dello studio legale. Lui restò scioccato all’idea del divorzio. Nelle settimane successive si limitò a fare come se nulla fosse.
– Forse hai avuto ragione a mandarlo in una nuova scuola, – disse una sera mentre cenavamo. Mise una mano su quella di mamma.
– Il Pacifico! – Lei distolse lo sguardo e tirò via la mano.
– Non ti seguo, Sigrid.
– Ho sempre voluto vivere vicino all’oceano Pacifico.
Papà capí l’antifona. – Non puoi portare mio figlio sulla costa occidentale.
– Ha quindici anni, – disse mamma. Si sentiva che era insicura, ma faceva scena. – La decisione spetta a lui.
– Divorziate? – chiesi io, e mi schiarii la gola. Feci piccoli movimenti circolari con tre dita, premendo a intervalli regolari sul pomo d’Adamo. All’epoca non lo sapevo, ma quei piccoli massaggi erano un allenamento per i massaggi alla pancia che avrei fatto a Claudia anni dopo, cantando per i nostri gemelli che stavano per nascere. Erano un allenamento per i massaggi che Claudia avrebbe fatto a me dopo che avevo mangiato la pizza o qualche altro piatto con latticini a cui il mio stomaco era intollerante.
– Sigrid, perché non ti alzi e vai a prendere un po’ d’acqua per Ruff? – disse papà. – Mi sembra un aspirapolvere rotto.
– Stavo proprio aspettando che me lo chiedessi! – Mamma scosse la testa. – Dimmi un po’, è perché sono una donna che dovrei andarci io, a prendere l’acqua?
– Se io ti amo è proprio perché sei una donna.
– È questo il problema. Tu ami tutte le donne, – disse lei.
Papà fischiò. – Ruff, questo mi sembra un buon momento per esercitarti col sassofono.
C’era un venticello che soffiava nella sala da pranzo dalla terrazza. La terrazza che dava su Central Park West. Sentivo l’odore delle noccioline tostate e degli hot dog a poco prezzo venduti per strada undici piani piú in basso. Sentivo il rumore degli zoccoli dei cavalli che tiravano le carrozze.
– Rufus –. Mamma sorrise. – Ha fatto bene tuo papà a regalarti un sassofono. Cosí sulla costa occidentale potrai suonare in una banda sulla riva dell’oceano.
– New York è un’isola, – disse papà. – È circondata dall’acqua da tutti i lati. La California è un deserto. Un giorno il Pacifico si solleverà e dirà che quella cazzo di California ha troppa sete. Il Pacifico farà quello che tu non hai alcun motivo di fare, Sigrid. Alzare le braccia al cielo e andartene.
– Stai dicendo che papà ti ha tradito? – Esitavo, indeciso fra andare in camera mia a esercitarmi e restare a tavola.
Mamma rise e rise e rise. La sua risata fece arrossire papà. Sembrava che stesse computando il numero delle volte in cui avrebbe potuto tradire mamma.
– Credi che mi sia portato a letto delle donne alla Trinity? – disse, come se trovasse l’idea al contempo offensiva e assurda. – Non si va al gabinetto dove vivono i propri figli. La scuola è il luogo dove Ruff vive. È la sua seconda casa.
E bastò quell’osservazione per far capire a me e mamma che papà l’aveva tradita, anche se il luogo restava da appurare.
– Puoi dire che non sono un buon padre, Sigrid? – disse. – Per tutto quel che conta davvero sono stato un papà presente e affidabile.
Cominciavo a vedere mio padre in una nuova luce. Mi aveva insegnato a montare una tenda sotto un temporale. Mi aveva insegnato a giocare a softball a Central Park. Mi aveva mostrato come costruire un fortino con le corde elasticizzate e un fortino di libri con Robinson Crusoe e Huckleberry Finn nel nostro studio. Però mamma mi aveva insegnato ad andare in bici. E mamma mi aveva portato a mangiare al Benihana. Capitava spesso che la sera papà fosse fuori città e io e mamma cenassimo da soli. Cominciai a pensare al nastro adesivo che avevo in gola e non se ne voleva andare e a come quel senso di qualcosa di colloso si intensificasse quando mi trovavo nella stessa stanza con tutt’e due i miei genitori.
– In California c’è il sole, – disse mamma con un cenno del capo. – Lo chiamano il Sunshine State.
Né io né papà trovammo il coraggio di dirle che era la Florida a essere chiamata il Sunshine State. Mamma era una donna intelligente, ma era facile che si confondesse. Andai a prendere il sassofono. Non volevo trasferirmi in California. Ma ero incazzato con papà.
Walkin’ in L.A.
Walkin’ in L.A., nobody walks in L.A.
Walkin’ in L.A.
Walkin’ in L.A., nobody walks in L.A.
Missing Persons, Spring Session M, 1982
Tutti sanno che a L.A. ci sono le palme. Luci che tremolano e neon che scintillano nella notte. Autostrade a cinque corsie intasate dal traffico. E l’inquinamento che tinteggia i cieli azzurri. A Venice, noi camminavamo. Non è mai stato vero che a L.A. nessuno cammina.
– Due gambe ti portano in un sacco di posti, – diceva mamma. – Se sei curioso e stai cercando di farti un campionario –. E mamma era curiosa.
– Un campionato? – domandai.
– No, un campionario di quartieri –. Due settimane dopo esserci trasferiti nel nostro nuovo appartamento, lei aveva trovato lavoro come assistente di un responsabile del casting.
– Esplora L.A. di persona, – le aveva detto Bruce, il suo capo. Era l’unico uomo che avessi mai conosciuto ad avere piú capelli di mio padre. Quella criniera fulva la teneva raccolta in una coda di cavallo.
Mamma mi iscrisse alla Venice Senior High. Lí la banda musicale non c’era, e di questo lei si scusò piú di una volta, a ripetizione, alla nausea… arrivando addirittura a chiedere a Bruce di aiutarmi a entrare alla Beverly Hills High.
– No grazie, – dissi io. – Trovami un precettore. Mi andranno benissimo le lezioni private.
– È una domanda o un ordine? – Mi guardò inarcando le sopracciglia.
Mamma aveva preso in affitto un appartamento con due camere da letto in una villa in stile spagnoleggiante, con un cortile interno e un glicine che si arrampicava sui balconi stinti. C’erano piante di buganvillea e ibisco di un arancione intenso che non sfiorivano neanche nel caldo di agosto. E c’era siccità. Abitavamo a due isolati dalla spiaggia. Bruce abitava a West Hollywood Hills. A volte, mentre andavamo da lui sulla Volkswagen Maggiolino di mamma, un’auto adatta alla sua corporatura minuta ma decisamente troppo piccola per la mia, guardavo le lettere bianche che svettavano sulle colline color fieno. Quelle colline mi ricordavano i capelli di Bruce. Ero sicuro che volesse farsi mia madre, ma nella rilassata aria californiana tutti si facevano qualcuno.
Ci eravamo trasferiti a Venice Beach nel luglio del 1986. L’atmosfera era esplicita, sordida e allarmante, ma del resto anche New York era cosí. Anni dopo, la gente mi avrebbe chiesto come me l’ero cavata a L.A., e io avrei detto, Non è un posto dove vai per cavartela. Avevo quindici anni e vivevo a due isolati dalla spiaggia e dalle ragazze in bikini. A Venice Beach nel 1986 potevi essere il sosia di Frankenstein e riuscire lo stesso a inserirti e a scopare. Passeggiavo sul lungomare e a volte avevo l’impressione che metà dei senzatetto di New York si fossero trasferiti lí. Per quanto l’atmosfera fosse comunitaria, c’erano parecchie lamentele riguardo ai senzatetto che si rifugiavano sulla spiaggia. Se mamma era venuta a Venice nella speranza di trovare una sorta di utopia, era rimasta delusa. Eravamo approdati in un luogo di cristalleria buona e canali fetidi pieni di siringhe.
«Tieni lo sguardo puntato sul Pacifico, e il resto non conta», diceva mamma. Mi diceva che il Pacifico aveva passato metà della sua vita a chiamarla e lei non se n’era nemmeno accorta.
Il nostro condominio era pieno di donne con nomi come Sage, Parsnip e Jasmine. A un certo punto erano state tutte attrici o indossatrici o ballerine professioniste, ma poi erano passate a fare le hostess o le segretarie o le modelle per cataloghi. A una di loro, Sage, era stata tolta la figlia di due anni. Non sapeva dove il padre l’avesse portata e nemmeno se l’avrebbe mai piú rivista. Mamma fece amicizia con quelle donne che si spacciavano per piú giovani di quel che erano. In seguito, quando avrei cominciato a fare sesso con loro, avrei frugato nelle loro borsette trovando le loro date di nascita sulle patenti: una trentaseienne anziana, una quarantunenne tesa. Aspettavo che mamma risalisse ai diciassette o ai ventuno. Che si tingesse i capelli di biondo. E lei aspettava che io smettessi di aspettare, notando con la coda dell’occhio che avevo smesso di schiarirmi la gola. Anche se era un’americana di terza generazione, esagerava il suo accento europeo. La gente diceva che somigliava a Nastassja Kinski, il che non era affatto vero, ma lei accettava il complimento e ci marciava su.
«I miei vengono dalla Bretagna», diceva. E si metteva intorno al collo piccoli foulard annodati alla francese.
«Rufus, – mi chiedevano Sage o Parsnip o Jasmine. – Ti piace la passeggiata sul lungomare?»
Io le guardavo e loro guardavano me. Non si va al gabinetto dove si vive, mi sentivo ripetere in testa dalla voce di mio padre. Andavo in spiaggia, sui frangiflutti dove si piazzavano i surfisti a farsi le canne. E mi facevo le canne con loro quasi ogni giorno. Fu cosí che feci amicizia con un surfista di nome Herb. Herb era un bianco che sapeva di selvatico e portava i dreadlock. Herb vende l’erba era l’inevitabile battuta. Mi chiese se volevo mettermi in affari con lui. Dissi di no.
– Tu sei un ragazzo sano. Alla gente piacciono i ragazzi sani –. Herb doveva avere tre anni piú di me.
La mattina facevo surf, e il pomeriggio suonavo il sassofono sulla passeggiata per raggranellare qualche spicciolo. Incredibilmente ci riuscivo. E non ero neanche bravo. C’era una vecchia, un’ubriacona che indossava ogni giorno la stessa tuta rossa di velluto a coste e abitava in uno squallido residence. Compariva nel tardo pomeriggio e ripeteva all’infinito sempre la stessa strofa di Only You dei Platters:
Only you, can make this world seem right
Only you, can make the darkness bright
Only you and you alone…
Poi scompariva con gli incassi della giornata.
Se mamma sapeva che fumavo, faceva come se nulla fosse. Lavorava quattordici ore al giorno con Bruce, perché il settore del casting era una giungla e aveva le sue stagioni, e Bruce lavorava con quelli che chiamava registi indipendenti a budget ridotto e con attori newyorkesi. Mamma aveva il prestigio culturale di una che veniva da New York, oltre al pedigree francese. E pazienza se a New York aveva condiviso un ufficio d’angolo in un cubicolo con una finestra microscopica. A Los Angeles aveva finestre a tutta parete e piante a cascata e porte scorrevoli e un arredamento che sembrava concepito per una barca.
A volte Bruce veniva a mangiare una bouillabaisse a casa nostra. «Sig, – diceva a mia madre. – Sinceramente, cosa ci fai in un posto come questo?»
Con lui mamma manteneva un tono professionale, almeno quando c’ero io. A lei piaceva parlare di lavoro. Notai che i suoi foulard stavano diventando piú lunghi e morbidi, e che dai tenui colori pastello era passata ai viola accesi.
– Fare editing non è molto diverso da fare casting. I redattori cercano i difetti di un testo e lo perfezionano. I responsabili del casting cercano l’attore perfetto che si impegni a liberarsi dei propri difetti.
Papà mi mandava libri da New York. Mi spediva biglietti scritti con una calligrafia tondeggiante: Non si è mai troppo cresciuti per costruire fortini. Io nella mia testa ne costruisco di continuo.
Raccontai a Herb di papà e lui disse: – Cazzo, tuo padre è un gran fico.
Allora provai un moto d’orgoglio. Gli raccontai alcune storie riguardo alle donne del nostro condominio. Lui mi convinse a presentargliele. Una sera passò a trovarci. Mamma gli rivolse uno sguardo sospettoso ma non disse niente. Stava uscendo per raggiungere Bruce al Mark Taper Forum. Una giovane attrice newyorkese interpretava il «ruolo della sua consacrazione» nella Signorina Giulia di Strindberg. Dopo che mamma se ne fu andata, Parsnip ci invitò a scendere a casa sua.
Quella notte andai a letto con lei. Me lo ricordo bene perché il letto cigolava e mi sembrava terribilmente piccolo anche se in realtà era enorme. Ma forse ero io che mi sentivo piccolo. All’inizio c’era anche Herb. A fare il tifo. Continuava a dire che voleva guardare. Le sue osservazioni mi mettevano a disagio, e cosí mi interruppi come mi capitava da piccolo quando cercavo di non urinare sull’asse del water. Herb suscitava in me una vergogna primordiale.
Mi coprii i genitali, e avrei voluto dire, Per favore, posso avere un po’ di privacy? Non volevo che Herb sapesse che avevo perso la verginità solo in quel momento.
Quando arrivammo alla fine, Herb prese il mio posto con Parsnip, a cui piaceva imitare la voce dei personaggi celebri mentre scopava. Aveva una voce per ogni personaggio televisivo: Betty White in Cuori senza età, Kelsey Grammer in Cin cin, Markie Post in Giudice di notte. Guardava un sacco di tv, ed era una sfida riuscire a scoparsi lei e tutte quelle voci assortite. La nostra seconda volta dovevo averle messo una mano sulla bocca, perché piú tardi, dopo che Herb se ne fu andato, lei scese dal letto e indicò il bagno. – Vatti a fare una doccia, Rufus, – disse.
Io ero stravaccato sul divano del soggiorno a guardare i video su Mtv: Walking Down Your Street delle Bangles. In quel soggiorno Parsnip teneva un acquario pieno di pesci rossi. Erano tutti dello stesso colore, e cosí ammassati in quel loro oceano che mi sentivo claustrofobico per loro.
– È stata la tua prima volta. Quindi mi sento tenuta a insegnarti una o due cosette. Uno, rischi di avere una valanga di problemi se metti la mano sulla bocca delle ragazze mentre lo fate. Mi capisci? È un gesto che evoca cose sbagliate. E due, ci saranno anche delle donne che si attizzano se uno ha il cazzo sporco, ma io non ne ho mai incontrata una che non preferisse l’igiene.
– A me piace avere il tuo odore su di me. A Herb non gliel’hai detto, di farsi la doccia.
Parsnip mi si sedette accanto. – Herb non sarà mai pulito. Non sarà mai pulito.
Mio padre arrivò a Los Angeles per una visita a sorpresa. Non aveva prenotato un albergo, e allora gliene prenotò uno mamma. Ma quella notte, dopo una cena in un ristorante vegano di Hollywood dove papà aveva continuato a far girellare per il piatto i funghi shiitake con miso, papà e mamma tornarono a casa insieme e dormirono nello stesso letto. La sera dopo, Parsnip, Sage e Jasmine vennero a conoscere papà. Mamma preparò dei dirty martini. (Herb non lo avevo invitato).
– Ruff, chi credi di infinocchiare? – disse papà, arruffandomi i capelli e prendendomi da parte nel soggiorno.
– Chi è la piú sexy? – chiesi io tutto fiero. – Sage, Jasmine o Parsnip?
– Io la verginità l’ho persa al college, – disse lui. – Con una ragazza di nome Alice. Tu sei partito col piede sbagliato. E loro dovrebbero avere un po’ di giudizio. In fondo sei minorenne.
– Papà, sono gli anni Ottanta. E a me Parsnip piace davvero.
– Pensavo che questo decennio sarebbe stato diverso –. Mi diede una confezione di preservativi e mi disse di prendere sempre precauzioni. Io gli feci vedere dove suonavo il sax sulla passeggiata. Abbozzai So What? e lui mi applaudí. Quando arrivò l’ubriacona e si mise a berciare Only You, le diede cinquanta dollari.
– Cristo santo, – disse dopo che se ne fu andata. – Brutta la vita.
– Qui mamma è felice –. Di mamma non avevamo ancora parlato. Ormai ero convinto che fosse innamorata di Bruce.
– Che significa felice? – disse lui.
Mi aspettavo che mi avrebbe chiesto di tornare a New York, ma non me lo chiese. L’indomani mattina salí su un aereo per San Francisco, dove aveva appuntamento con Barbara Camphor a un congresso. Si incontravano una volta per stagione. Quattro volte all’anno. Quel genere di relazione non entra mai in crisi. Naturalmente a quindici anni non sapevo nulla di tutto ciò.
Dopo la visita di papà, mamma ruppe i ponti con Parsnip. A Jasmine e Sage cucinava coq au vin e bourguignon. Parsnip invece venne esiliata dalla sua cerchia, anche se, nella sua follia, era la migliore di tutte, a parte mia madre, ovviamente. Sage era confusa. E Jasmine per metà del tempo non sapeva in quale angolo del pianeta si trovasse. Era sempre su un aereo fra New York e Los Angeles. Ho imparato fin da giovane che la vita delle hostess non ha niente di affascinante. Quando viaggio, sono sempre gentile con loro.
La mia pagella del primo quadrimestre pullulava di 6.
– Speravo che essere un pesce piccolo in un grande stagno ti avrebbe spinto a studiare di piú.
– Mamma, sono nella media.
– No, penso di no. Non sono disposta a crederci.
Mi trovò un musicista a Venice Beach che mi desse lezioni di sassofono. Mise fine alle mie scorribande sulla passeggiata. – Comincia a prendere voti piú alti e ne riparliamo.
L’insegnante di sax aveva una casa affacciata su un canale. Faceva parte del comitato per una Venice Beach piú pulita. Era un ex eroinomane uscito dal giro. Nonché un arcigno uomo nero a cui non piacevano gli adolescenti bianchi che pretendevano di suonare il jazz. «Non far perdere tempo a me e io non lo farò perdere a te, – diceva. – Il sassofono richiede disciplina».
Per tenermi occupato, mia madre mi procurò un lavoro part-time come suo assistente. La domenica sera faceva i popcorn e guardavamo vecchi film: Eva contro Eva e L’appartamento, Metropolis e Casablanca. In cambio della paghetta, mi chiedeva di compilare una lista dei film girati a L.A. o che parlavano di L.A. Ogni tanto andavamo a visitare vecchie location.
– Lo facevamo già quando ci siamo trasferiti qui, – le ricordai.
– All’epoca era tanto per fare, – disse lei. – Ora abbiamo una missione.
– E la nostra missione è?
– Non c’è niente di nuovo, – disse lei. – Tutto quel che può essere fatto è già stato fatto. La cosa migliore che possiamo fare è reimmaginare il nostro percorso attraverso l’esistenza.
Il giovedí sera tornavamo a casa a piedi dalle mie lezioni e ci fermavamo nella nostra rosticceria preferita a dividerci una porzione di patatine fritte tagliate a mano miracolosamente sottili. Era felicissima quando mentre passeggiavamo le raccontavo che durante le riprese dell’Infernale Quinlan Orson Welles era caduto in uno di quei canali e per poco non era affogato, oppure che Thomas Mann aveva abitato a due isolati dall’appartamento di Bruce a West Hollywood Hills.
«Sono aneddoti che posso giocarmi durante i provini, – diceva ridendo. – Sembrerò piú intelligente di quel che sono».
Le cose andavano bene fra noi. Fra me e mamma. Io ridussi l’uso di marijuana e Herb si trasferí a Oakland con alcune persone che aveva conosciuto. Alla lezione di biologia della terza ora c’era una ragazza nuova a cui volevo chiedere di uscire. Non avevo ancora amici. Fino ad allora avevo frequentato solo i surfisti e gli sbandati di Venice Beach. La gente che frequentava Herb. Andavo ancora a letto con Parsnip. A volte pensavo che lei venisse a letto con me solo per far dispetto a mamma.
A ottobre, io e mamma stavamo andando a cena quando un tizio su una Ford Mustang nera accostò al marciapiede.
– Volete un passaggio? – disse. Abbassò il finestrino. Aveva il mento grinzoso, un accenno di pappagorgia.
– No, grazie, – disse mia madre nel suo accento ispirato a Nastassja Kinski.
– Bella serata, – disse lui.
– Eh sí –. Mia madre sorrise. Si fermò, e anche la Ford Mustang si fermò.
– Che fate? – chiese l’uomo.
– Ce ne stiamo tranquilli… per conto nostro, – disse mamma.
– Mi andrebbe un sandwich, – disse l’uomo, imperterrito.
– Amico, – dissi io. – Qui intorno ci sono un sacco di ristoranti.
Lui si sporse in avanti. – Non mi hai chiesto che tipo di sandwich.
Aveva dei grossi anelli alle dita. Gli uomini con gli anelli mi hanno sempre dato i brividi. – Non te l’ho chiesto perché non ce ne fotte un cazzo, – dissi.
Mamma mi posò una mano sulla spalla: la spalla a cui era appesa la custodia del sassofono.
– Che tipo di sandwich? – chiese.
– Quello che dà soddisfazione.
Lei imprecò contro di lui in francese, ma in inglese disse: – Non l’hai mai sentita la canzone degli Stones? La soddisfazione non esiste.
Quell’uomo, a ripensarci col senno di poi, doveva essere ubriaco, o fatto di una qualche droga. Sporse la testa dal finestrino del guidatore per rivolgersi a mia madre.
– Che ne dici di salire in macchina e farti fare un sandwich da me e questo giovanotto?
Forse fu perché io e Herb avevamo fatto un sandwich a Parsnip, e quindi riuscivo benissimo a visualizzare ciò di cui quell’uomo stava parlando. Forse fu perché le sue parole avevano spogliato mia madre prima che io potessi rivestirla. Forse fu perché mia madre arrossí e quindi poi arrossii anch’io. Sentivo il vapore che mi usciva dalle orecchie.
«Mamma, cosa ci facciamo qui?» Era la domanda che le volevo rivolgere fin da quando eravamo arrivati a L.A. Quel che intendevo davvero era, Cosa ci faccio io qui? Lei ci stava bene. Adorava L.A. A papà l’avevo detto, ma ora lo sentivo nel profondo delle ossa. Mi tolsi la custodia del sassofono dalla spalla e la sbattei in faccia all’uomo col doppio mento. Gli schizzò sangue rosso dal naso e dalla bocca. Mia madre strillò. Strillò e io la presi per un braccio.
– Continua a camminare, – le dissi. E costrinsi anche me a camminare. Camminammo veloci.
– Rufus, avresti potuto ammazzarlo.
– Pervertito.
– Rufus, dovremmo tornare là.
Misi di nuovo in spalla la custodia del sassofono. – No.
– Sarei stata in grado di gestire la cosa io.
– Allo stesso modo in cui hai gestito il matrimonio con papà?
– Non devi fare cosí. Non qui, non ora. Non puoi andare in giro a picchiare la gente solo perché dice qualcosa che disapprovi.
– Non è per quello che ha detto. È per le intenzioni che aveva.
– Quando parli cosí sembri proprio…
– Dillo!
– James Samuel Vincent.
Ci sono momenti in cui guardi i tuoi genitori e ti fai delle domande. Da quando avevo saputo del divorzio, di quei momenti ne avevo avuti un sacco, però non mi schiarivo piú la gola. C’era nastro adesivo sugli scaffali e le scrivanie in tutta L.A., ma non nella mia gola. A L.A. non tossivo. A volte starnutivo, ma che sarà mai uno starnuto? Basta soffiarsi il naso. Mamma mi aveva costretto a scegliere. O lei o papà. Il problema era che volevo bene a tutt’e due.
Quando tornammo nel nostro appartamento, entrai nella doccia e mi diedi una lavata. Sul volto di quell’uomo si era sparsa una gran quantità di sangue, ma sui miei vestiti e sulla custodia del mio sassofono c’era solo qualche chiazza. Dopo la doccia, mi ritirai in camera mia e tirai fuori i libri mandati da papà che ancora non avevo spacchettato: L’ultimo dei Mohicani, Moby-Dick, Il richiamo della foresta. Costruii un piccolo fortino e mi ci ficcai dentro. Finsi di dormire, ma il sonno rideva di me. Per mesi non suonai piú il sassofono.
Mamma ascoltò il notiziario della sera, aspettandosi che dicessero qualcosa sul pervertito di Venice Beach, ma non c’era niente. Oggi mi viene da pensare che, se fossimo stati nella nostra epoca – l’epoca delle videocamere e dei cellulari –, non avremmo mai potuto farla franca a quel modo. Non avrei mai potuto farla franca a quel modo. Qualcuno mi avrebbe filmato, e nel giro di cinque minuti sarei finito su YouTube.
Chiamai papà, e all’inizio lui non la prese molto bene. Poi lo chiamò anche mamma, e ventiquattr’ore dopo James Samuel Vincent era a Los Angeles. Lei gli raccontò tutta la storia. Lui non disse una parola. La prima cosa che facemmo fu rimpacchettare i libri che mi aveva mandato. Li rimpacchettammo in ordine alfabetico, cosí che al ritorno a New York fosse piú facile spacchettarli. Li portammo all’ufficio postale e li spedimmo con tariffa piego di libri. Mi serviva qualcosa da leggere in aereo, e papà tirò fuori Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce.
– Tu l’hai letto? – gli chiesi.
– Joyce – rispose lui – non è per tutti.
Neanche la California, pensai io. Non parlammo mai piú di quel che era successo a Venice Beach. Né io né mio padre. E neanche mia madre. Non so se è un segreto perché non ne parliamo o se non ne parliamo perché quella cosa se ne porta dietro tante altre. Questo solo per dire che non mi ero mai, e non mi sarei mai piú, arrabbiato a quel modo. Il giorno in cui Mrs Christie mi si avvicinò con quel ferro da stiro in mano, mi ricordai cosa significava sentirsi minacciati o lasciarsi trasportare dall’impulso violento di far male a qualcuno. Voler proteggere coloro che ami. Si alzava piú vapore dal suo corpo che dal ferro che teneva in mano. Era capitato anche a me. Il nostro corpo convoglia il vapore per noi.