Come sferzati da spiriti invisibili, i cavalli solari del tempo trascinano via all’impazzata il cocchio leggero del nostro destino, e a noi non rimane altro che, coraggiosi e risoluti, tener salde le redini e scansare le ruote ora a destra, ora a sinistra, ora da una pietra, ora da un precipizio. Dove si vada, chi lo sa? Ci si ricorda appena da dove si venne.

J.W. GOETHE1

Che cosa ho imparato? A non avere certezze definitive: un tempo ero pieno di convinzioni, oggi francamente mi sembra che le cose che contano vengano da dentro di me, senza che io le abbia chiamate. Per questo sto imparando ad aspettare. Di fronte alle decisioni da prendere, rispondo spesso: “Ti faccio sapere”, semplicemente perché sono incerto sul da farsi, su dove andare. Perciò… aspetto! Molte volte non succede niente, altre volte nella psicologia dell’attesa accadono cose prodigiose. Una delle poche cose che so è che il mio intervento interferisce con la metamorfosi che sta avvenendo. Le scelte che il bruco si ostina a fare senza riuscirvi, la farfalla le compie volando di fiore in fiore. Così sono diventato molto paziente, nel senso che so che aspettando senza volontà, senza intenzione di cambiare le cose, si attivano veri e propri prodigi dell’anima. Se mi guardo indietro vedo che un tempo ero un vero “interventista”; oggi sono un prudente e paziente contadino che aspetta la fioritura di un seme che non sa neppure qual è. Non perseguo la calma, la tranquillità, non voglio una vita migliore, o meglio, non la cerco. Non ho obiettivi da raggiungere, ma non sono neanche “in pensione”…

Il mio lavoro consiste nell’avere occhi che guardano l’interno e che contemporaneamente guardano dall’interno. Una mia collega mi domanda: “Ma così dove si arriva?”. A essere sempre più inquieti, preoccupati, incerti. Stati d’animo che arrivano spontaneamente: solo che rispetto a un tempo li ritengo voci degli dèi, delle energie archetipiche del profondo. Chi potrebbe avvicinarsi al mistero senza inquietudine?

Per molti anni mi sono proposto di “capire”, ma non serviva. Via via ho imparato ad affidarmi alle sensazioni interne, dalle più piacevoli alle più sgradevoli, ma senza commentarle. Questo mi è servito, perché la paura della solitudine è scomparsa, anzi stare da solo è diventata una gioia. Non è un vezzo, ho semplicemente scoperto che le migliori sorprese capitano quando non faccio alcuno sforzo di essere diverso, quando, come direbbe Jung, non ho pareri su di me, insomma, quando guardo e basta!

Quanto tempo ho passato a cercare di modificare il mio carattere? E invece, le cose migliori me le ha offerte quando ho smesso di giudicarmi e di giudicarlo. Così non ho più aggettivi: bello, brutto, carino, dolce, tenero, gelido, aggressivo… Prima avevo “occhi correttivi”: una malattia che si diffondeva dentro di me come in quasi tutte le persone attorno a me. Non mi oppongo più a quelle mie caratteristiche che una volta non mi piacevano: adesso i miei demoni, le mie fragilità, la mia rabbia, le paure stanno con me, insieme a me. La frase magica che mi accompagna è: “Non posso farci niente, non devo diventare migliore”. Voi direte: “Ah be’, facile, ma così non facciamo più alcun tipo di autocritica, non abbiamo sensi di colpa e gli istinti sono liberi di scatenarsi”. È vero, ho imparato che, senza la mente, una ghianda diventa una quercia, e io sono arrivato sin qui senza il mio intervento. Chissà che pianta sto diventando? Francamente non lo voglio sapere, non lo devo sapere. Oggi una cosa la so: che devo farmi da parte…

Jung non escludeva mai la possibilità che la vita la sapesse più lunga dell’intelligenza umana che opera correzioni, e la sua attenzione era rivolta non tanto alle cose in se stesse quanto a quel qualcosa di inconoscibile che ordina gli eventi al di là e al di sopra della volontà e della conoscenza dell’uomo.2

Quell’energia che ha formato gli organi del mio corpo sta proseguendo un viaggio verso i miei fiori, verso i frutti che neppure riesco a intravedere. Prima erano “organi di piombo” – avrebbero detto gli alchimisti –, adesso si stanno creando gli organi dell’anima. Devo avere occhi accorti perché questi organi appartengono al regno del sottile: la pietra filosofale compie l’estrazione dalla materia dell’energia celeste, dell’oro di cui parlavano proprio gli alchimisti. Non devo migliorare, ma estrarre ciò che c’è e non si vede, tanto è nascosto, latente.

L’occhio assomiglia al tuorlo dell’uovo, al fiore: evidentemente guardare è un’attività trasformatrice, che apre le porte a misteri indicibili.

Che ci piaccia o no, in noi vive eterna la metamorfosi: è programmata dal concepimento fino al tramonto della nostra vita, che è l’ultima metamorfosi, di cui sappiamo poco o nulla. Guardo il problema che mi si presenta e… aspetto: quasi sempre svanisce per conto suo, e quando non se ne va accolgo il disagio senza commentare. Funziona molto meglio, quando non ho più in mente la causa del problema… Le cause sono depositate in quell’illusione che è la mente, che appartiene a quanto di più impermanente esista. Crediamo perenni cose che sono già passate mentre le guardiamo, e così continuiamo a vivere disagi accaduti dieci anni prima e che sono ancora presenti solo perché continuiamo a richiamarli in vita.

Così non mi fido delle cose che penso, non mi fido dei miei ragionamenti, delle mie spiegazioni. Ho imparato a guardare la tristezza, la passione, la rabbia come presenze che si affacciano. Cerco di non ostacolarle, di dirmi “sia quel che sia”: in genere quando sento dolore, separo il disagio dalla sua presunta causa e subito dopo mi arriva un’ondata di gioia.

Più passa il tempo, più divento misterioso. Per molti anni ho cercato di convincere le persone delle cose che sapevo e lottavo, lottavo… Lo facevo perché non avevo casa dentro di me, non ero nella mia dimora. Ma di quale casa parliamo? Un luogo inaccessibile, nascosto, lo stesso che di notte produce i sogni, un luogo che appartiene a un altro campo energetico, quello che produce la metamorfosi. I sogni sono principi ricreativi del nostro essere: ci curano. Posso perdere tempo a pensare a un litigio con Marco e poi a fare la pace, se quello che ha litigato non è lo stesso Raffaele di mezz’ora fa? Sono un essere in continua trasformazione, e questa non dipende da me, o forse dipende da conoscenze segretissime, a cui gli alchimisti alludevano, senza volerle comunicare in modo diretto. In un attacco di panico, in una depressione, nell’ansia, nello stress siamo proprio sicuri che il nostro architetto interiore non stia manifestando la sua disapprovazione per come stiamo conducendo la nostra esistenza? Vedere i disagi come “doglie del parto” dell’anima che vuole nascere non fa parte della nostra moderna visione del mondo… Del resto, a chi sta male di solito si consiglia di uscire, di non stare da solo, di fare cose, di non star fermo, di avere vicino qualcuno. Non c’è l’idea che l’architetto, il Sé, ci voglia immergere nella solitudine, nell’assenza di pensieri, perché solo così si può accelerare la nostra invisibile metamorfosi. E se spazzando via velocemente i disturbi bloccassimo il divenire della nostra pianta, del nostro destino?

Quando qualcosa mi disturba mi ritiro, stacco i pensieri e aspetto. Mi distraggo soprattutto da quella che io credo sia la causa. Faccio come i bambini: immagino, sogno a occhi aperti, esco dal tempo, insomma gioco e… aspetto. Mi isolo. L’altro ieri, mentre ero immerso nel silenzio e nel nulla, ho visto arrivare un sentimento così intenso che mi ha fatto paura. Ero in campagna e sentivo la compartecipazione con gli alberi, gli uccelli, il silenzio. Non esistevo più: è arrivata la pace.

Giardini e montagne da un lato, spazi chiusi dall’altro: sono questi i luoghi della solitudine più comuni nella mistica ebraica. Gli uni e gli altri sono menzionati già da Filone di Alessandria, in particolare nella sua descrizione dei Terapeuti. Egli offre una spiegazione metafisica dell’importanza della solitudine: il Dio solitario ama la sapienza divina solitaria, che a sua volta ama gli uomini in stato di isolamento.3

La mia non era una pace cercata, non avevo fatto alcuno sforzo: i brutti pensieri dimoravano dentro di me e io li guardavo e li lasciavo lì. Erano corvi che danzavano nella mia interiorità senza che facessi opposizione. Ero solo, proprio solo dentro me stesso. Ho immaginato le cose che mi tormentavano trasformarsi in immagini di corvi e poi di sparvieri. Mentre ero immerso in queste immagini ho aperto gli occhi e nel giardino improvvisamente da un albero si è alzata in volo una tortora… Così i miei occhi vedevano dentro di me gli uccelli predatori e nel regno del reale vedevano danzare la tortora.

La sapienza divina cerca l’isolamento, perché Dio, di cui essa è possesso, è uno solo e ama la solitudine, e perciò essa è simbolicamente detta tortora. La tortora è uno dei simboli della sapienza divina (theia sophia) che a sua volta è affine alla divinità solitaria.4

L’esercizio di non disturbare i demoni, di non mandar via i tormenti, ma di immaginarli come animali che si affacciano al mio mondo interiore, lo uso abitualmente in psicoterapia con i miei pazienti.

Chi legge le cose che scrivo sa che io più di tutto detesto il condursi. Dai taoisti ho appreso l’arte di non dire niente, di non decidere che cosa è meglio per me o quale via seguire. E poi ho imparato a percepire cosa capita dentro di me e a lasciarlo lì, senza interferire, senza commenti. Il senso di solitudine si è impresso in me, da quando ho smesso di vederlo come qualcosa di disturbante. Non ho fatto nessuno sforzo per cercare il silenzio, per diventare sempre più misterioso. Sto cercando di imparare a lasciar riposare dentro di me un principio di uguaglianza che rispetti il bene e il male, gli sparvieri e le colombe, senza contrappormi, senza scegliere l’uno o l’altro. Non devo scegliere, devo guardare… senza ragionare.

Guai alla psicoterapia omologata, dove tutti sono il prodotto degli errori dei genitori. Ai pazienti non chiedo di raccontarmi la loro storia. Cerco i rami del loro albero, i fiori che non vedevano e che spesso, sotto i disagi, stanno iniziando a sbocciare…

I dubbi fanno parte della mente, dell’Io, non del mondo dei sogni e delle Immagini. L’arte di non decidere insegna a non prendere posizione nei confronti dell’interiorità: ogni cosa che si rivela potrebbe essere la “voce” della metamorfosi che si affaccia.

Così questo libro è dedicato ai codici che favoriscono la metamorfosi verso il nostro destino. C’è un principio di trasformazione che riguarda tutti gli esseri viventi, ma siamo abitati anche da un destino individuale. Nelle nevrosi c’è una lotta estrema tra ciò che siamo nel profondo e la nostra maledetta voglia di essere come tutti gli altri. E la psicoterapia ha senso solo se sta cercando l’unicità della persona.

Lo scopo della psicoterapia non deve essere troppo definito: è l’esperienza a decidere in merito. Nessuna ricetta si addice a tutti. Esistono soltanto casi individuali al punto che, in sostanza, non si può mai sapere in anticipo quale via prenderà ciascuno di essi; quindi la cosa migliore che possa fare il terapeuta è rinunciare a ogni idea preconcetta. Non tutto si può né si deve guarire. Non si può strappare la gente dal suo destino, così come in medicina non si può guarire un malato se la natura vuole farlo morire.5

Per questo evito la prigione della diagnosi a ogni costo, così caratteristica dei nostri giorni. In ogni shopping compulsivo, in ogni attacco di panico, in ogni ansia è in corso un processo trasformativo, che vuole portare l’individuo al suo destino. A volte i disagi diventano sabbie mobili in cui ci si impantana, ma occorre sapere che si può venirne fuori solo se si percorre la propria unicità.

Oggetto della terapia, scrive Jung, non è quella finzione chiamata “nevrosi”, bensì un essere umano disturbato nella sua totalità. Ogni rimedio è giusto non per quella nevrosi ma per quella persona. È implicito in queste parole lo spostamento dell’attenzione dai sintomi, intesi come disturbi da eliminare, alla persona come realtà umana da accompagnare in un processo di trasformazione. Di conseguenza, egli scrisse una volta, polemicamente, che in psicoterapia la diagnosi è un fatto irrilevante, “giacché con il dare un nome non si arriva a niente. La vera diagnosi non è basata sui sintomi”.6

Il fondamento del rapporto con la metamorfosi consiste nel “farsi da parte”. Assumere l’atteggiamento di chi guarda i propri demoni con l’occhio libero da moralismi, da schemi, da interpretazioni. Siamo ostetrici che assistono al proprio parto senza commenti.

L’evoluzione fugge le definizioni e fugge anche l’uso indiscriminato degli psicofarmaci, che andrebbero usati in modo significativamente minore. Nell’insonnia, nell’ansia, nella depressione e nel panico spesso si nascondono saperi innati, che cercano di venire alla luce. Domarli significa spesso impedire lo svolgimento di una trama, di un percorso, di uno sviluppo del carattere che è il fondamento dell’individualità.

Nell’ansia, nella disperazione, nell’insonnia, spesso è nascosto lo sviluppo del bambino interiore, così caro agli alchimisti. Quando soffriamo stiamo partorendo.

L’anima soffre ancora, e più che mai, di doglie. Può anche darsi che sia arrivata al punto di dover partorire; si è infatti slanciata verso di Lui ed è piena dei dolori del parto.7

Il Lui di cui parla Plotino, è il Sé, il nucleo, l’essenza, il Senza Tempo.

L’unica epoca che ritiene che non siamo abitati da un principio eterno, è la nostra.

Il vero compito della psicoterapia

Ma qual è, allora, il vero compito della psicoterapia? Dove ci deve portare? Un grande studioso del taoismo direbbe: a fiorire. Già, ma fiorire come, se non so neppure che pianta sono? La verità è che custodiamo qualcosa di profondamente sconosciuto a noi stessi, a cui peraltro dobbiamo la nostra esistenza, il nostro carattere, il nostro divenire, il nostro destino. Tutti hanno dentro una gran voglia di mandar via quelli che chiamano “peccati” dalla loro mente: non solo non vorrebbero più vederli ma, se potessero, cercherebbero di cancellarli, come se non fossero mai esistiti.

Migliorare, lavorare su di sé: per l’anima non sono farmaci, ma veleni! Quelli che definiamo difetti o peccati sono compagni insostituibili: attraverso loro contattiamo energie antiche senza le quali non possiamo essere felici.

Rossana, 40 anni, ha una vera e propria passione per le scarpe: ne aveva più di duecento paia, che conservava gelosamente e per le quali, in pochi anni, ha speso tutti i soldi che guadagnava e anche quelli che aveva da parte. “Amo le scarpe di lusso, è il mio peccato. Spendo cifre che non posso permettermi… C’è in me una donna sbagliata, malata.” Più di uno psichiatra l’ha curata come “portatrice di shopping compulsivo” ed effettivamente la definizione psicopatologica è corretta. Ha preso anche psicofarmaci, ma senza nessun risultato. Quante persone vengono in terapia per spazzare via i loro peccati? Praticamente tutte. Chi vuol eliminare una tendenza sessuale troppo trasgressiva, chi non sopporta di essere invidioso, chi vorrebbe cancellare una gelosia troppo invadente, chi un’aggressività che rende i rapporti difficili…

“Ho lavorato tanto su di me” mi dice Marco, 43 anni, “per essere più buono, meno irritabile. Ho fatto anche tanto volontariato per diventare più malleabile, ma quando mi salta la mosca al naso faccio sfracelli.” Ma serve lavorare su di sé? Secondo James Hillman lavorare su di sé non è la cura, ma la malattia di quest’epoca, in cui tutti vogliamo essere più “giusti”, migliori di quello che siamo. “Ho lavorato tanto su di me per perfezionarmi” dice ancora Marco. Dal tormento che vedo nei suoi occhi, mentre mi parla, e dalle sue parole che spesso si interrompono, dai discorsi su di sé che si bloccano, che non fluiscono, mi sembra non solo che il “lavoro” non abbia funzionato, ma che sia molto più tormentato di quando ha iniziato a occuparsi di sé.

Sapeste quante persone mi hanno raccontato: “Dottore, avevo un brutto carattere, ma dopo anni e anni sono diventata una persona malleabile, affidabile, quieta”. Così mi dice Amelia, 38 anni, che però da qualche anno soffre di coliche addominali che arrivano e le fanno passare “due o tre giorni d’inferno e poi se ne vanno”. Nonostante tutti gli esami possibili e immaginabili, nonostante diversi ricoveri, non le è stata riscontrata nessuna causa organica. Prima che diventasse una persona malleabile era una donna istintiva, era cioè una donna, come si dice, “di pancia”. Forse le coliche erano la protesta di quella donna passionale, di quegli istinti che non per niente vengono detti “viscerali”. Chissà…

Giulio, 48 anni, invece aveva il tarlo dell’infedeltà, per cui puntualmente tradiva ogni donna che frequentava. “Sono stato anche in cura da una psicologa, ma niente da fare. Anche se stavo con una donna che mi piaceva tantissimo, io non potevo fare a meno di andare con un’altra. Mi è stato detto che dipendeva dalla mancanza di affetto di mia madre, che è sempre stata una donna gelida.” La psicologa gli ha spiegato che in ogni donna vedeva la madre anaffettiva e scappava, per cercare finalmente il sentimento dell’amore, senza peraltro mai trovarlo, perché ogni donna doveva essere punita, perché in lei vedeva la mamma che non lo aveva mai amato e lo aveva sempre rifiutato.

La pace arriva quando ti accorgi che sei buono e cattivo, luce e ombra, giorno e notte, materia e psiche.

Con l’Eros si impara la verità, con i peccati si impara la virtù. Meister Eckhart dice che non ci si dovrebbe pentire troppo, che il valore del peccato è grandissimo. Anatole France dice che soltanto un grande peccatore può diventare un grande santo.8

Chi conosce le cose di cui parlo, sa che io detesto l’idea di spiegare una persona attraverso il passato. Cosa si fa in questi casi? Bisogna per prima cosa smetterla di lottare contro quello che chiamiamo “il peccato”. E smetterla di credere che dipenda dalla nostra storia e che si possa, come tutti vorrebbero, cacciarlo via in un attimo. Sentite Jung:

Questa è l’idea cristiana di raggiungere il regno dei cieli con un solo, grande balzo. Non è vero; l’idea di una riabilitazione repentina è sbagliata. Non potete uscir fuori dal vostro peccato in un balzo solo e gettare in un fosso tutti i vostri carichi. È sbagliato pensare così.9

E se l’infedeltà, l’ossessione di comprare vestiti o scarpe, l’invidia che si forma dentro di noi fossero dei compagni di viaggio insostituibili? E se “peccando” venissimo a contatto con energie ancestrali, antiche come il mondo, che ci appartengono e ci riguardano? Che danno ci faremmo a cacciar via i peccati? Sentite come ne parla Hillman:

Diceva Rilke, a proposito della terapia: “Non voglio che siano eliminati i dèmoni, perché si porterebbero via anche i miei angeli”.10

Ancora Jung:

L’intero senso del peccato sta nel fatto che lo portate addosso. Che utilità ha un peccato se potete sbarazzarvene? Se siete interamente consapevoli del vostro peccato, dovete portarlo, vivere con lui, il peccato è voi stessi. Altrimenti rifiutate vostro fratello, la vostra Ombra, l’essere imperfetto in voi che vi segue e fa tutte le cose che siete riluttanti a fare, tutte le cose per fare le quali siete troppo codardi o troppo perbene.11

Non ho mai visto nessuno stare veramente bene senza prendersi cura del suo “peccatore”, e così di quelle che chiama “le sue contraddizioni”. Una paziente mi ha detto: “Amo mio marito con tutto il cuore, mi piace a letto, eppure non posso fare a meno di andare con altri. È più forte di me…”. I peccati sono più forti di noi perché sono costruiti da un’energia antica, primigenia, la stessa energia che si incarna nella materia, che fa di noi esseri terrestri e quindi uomini e donne. Siamo speciali perché pecchiamo, altrimenti saremmo bigotti, manichini che recitano il bene, artificiali. Essere artificiale è per i taoisti il peggio che possa capitare a un essere umano. La nostra Ombra è il nostro fratello.

Siamo speciali perché pecchiamo, altrimenti saremmo bigotti, manichini che recitano il bene, artificiali. Essere artificiale è il peggio che possa capitare a un essere umano.

Commette lui il peccato ma, se viene rifiutato, viene spinto verso l’inconscio collettivo dove causa problemi. Causa problemi perché questa è una cosa contro natura; dovreste essere in contatto con la vostra Ombra, dovreste dire: “Sì, sei mio fratello, devo accettarti”. Dovete essere gentili con voi stessi e non dire a vostro fratello: “Non ho nulla a che fare con te!”.12

Questo è quello che faccio in psicoterapia: invito i pazienti a chiudere gli occhi e aver cura “del loro fratello o della sorella che trasgredisce”, che non si comporta bene. Questa è la vera pace con se stessi, che avviene quando la smettiamo di cacciar via i demoni e ci accorgiamo che siamo contemporaneamente luce e ombra, giorno e notte, materia e psiche, buoni e cattivi… Allora il maledetto modello di perfezione svanisce e arriva la gioia di essere ciò che siamo. Forse questa è la più grande conquista, perché si impara ad accettarsi e a non cambiare. Facendo così, dopo un lungo tempo, il peccato si ritira o si trasforma.

Impara a non tormentarti più

Tutti pensano che il dialogo interiore serva a conoscersi meglio e a stare bene con se stessi. Niente di più falso! “Non sopporto gli attacchi di rabbia che mi arrivano di punto in bianco e rovinano molte serate con il mio compagno. Il problema è che succedono soprattutto con lui. Ho paura che prima o poi mi lasci. Passo le giornate a dirmi che devo smetterla, ma i miei sforzi sono sempre vani. È più forte di me.” Annamaria ha 32 anni e passa le giornate a insultarsi, a dirsi che ha un brutto carattere e che deve migliorare, cambiare. È una lotta continua e il dialogo con se stessa è fatto soprattutto di insulti, del rifiuto di essere “la donna con la rabbia”. Ai gruppi del giovedì veniva Sara, una ragazza di 30 anni che voleva domare la propria ira, che si accendeva soprattutto contro i genitori, con cui peraltro lavorava nell’azienda di famiglia. Attacchi di “rabbia tremenda” che finivano con insulti, urla, scenate anche davanti ai clienti. E poi le giornate passate a parlare con se stessa, a dirsi che doveva smetterla, che non le andava bene essere una donna così.

Per risolvere i miei disagi ho cercato di essere il più silenzioso possibile con me stesso. Gradualmente sentivo che l’umore migliorava e il senso di smarrimento si attenuava…

C’è una differenza sostanziale tra il parlare con se stessi aggredendosi, dicendosi che dobbiamo cambiare, e l’ascolto di quello che capita dentro di noi. Per ascolto io intendo una percezione silenziosa, senza commento. Bisogna percepire che cosa non ci piace di noi, senza dirsi nulla. Il silenzio, come ricordavano i grandi maestri della saggezza antica, è un’energia terapeutica, profonda, che cura l’interiorità più di qualsiasi farmaco. Non bisogna migliorare o guarire i disturbi, ma guardarli, percepirli, ascoltarli nel silenzio, sentirli come compagni di viaggio.

“Percepisca la rabbia quando arriva, senza dirsi nulla e soprattutto senza volerla mandare via. La custodisca come una presenza silenziosa, senza pensare ai danni che può fare.” Questo dicevo a Sara. Solo chi ha cura dei propri demoni, solo chi li accudisce, chi li tratta come amici, può vederli allontanarsi. Non dirsi niente e accogliere: queste sono le due azioni più importanti da fare con se stessi.

Sentite Maurizio, 30 anni. Ha seguito la via del silenzio per far scattare l’autoguarigione dell’anima. Lo ha scoperto leggendo il nostro giornale.

Per risolvere i miei problemi ho cercato di essere il più silenzioso possibile con me stesso: mi affidavo ai disagi, lasciando spazio alle idee, alle immagini spontanee che mi venivano in mente e alle intuizioni, chiedendo ogni tanto proprio ai disagi se erano contenti di me. Ho iniziato a notare dei progressi, l’umore migliorava gradualmente, anche il senso di smarrimento si attenuava sempre di più, mi sentivo più sereno, i problemi di autostima diventavano sempre di più un ricordo. La svolta arriva un giorno: sono in bagno, in preda a un attacco d’ansia, mi sto preparando per andare dallo psichiatra per un controllo, a un certo punto mi viene in mente questa frase: “In me non c’è niente di sbagliato”. L’effetto è stato così potente su di me che l’attacco d’ansia è svanito in un lampo e ho sentito una calma che non provavo da molto tempo. Quella frase è diventata il mio mantra, me la ripeto ogni tanto.

Da oggi puoi diventare il tuo migliore alleato. Porta l’attenzione su ciò che accade dentro di te e non giudicarti mai, per nessuna ragione. Così si placano i tormenti e le battaglie interiori e impari a sviluppare le tue migliori capacità.

A Sara dicevo le stesse parole che ha scritto Maurizio: negli attacchi d’ira non c’è niente di sbagliato. Per gli antichi Greci la rabbia era l’energia misteriosa di Ares, il Marte dei Romani, il signore della guerra. Se ragioni così… Manderesti via un dio? Non la sa più lunga lui di te? Mara è guarita dagli attacchi d’ira quando ha continuato a percepire, a essere silenziosa ogni volta che litigava. Non è la rabbia che rovina i rapporti, come lei credeva, ma trattarsi come persone sbagliate, inferiori solo perché si hanno istinti che sono impetuosi come le onde del mare. C’è un’intelligenza profonda nel nostro centro, nel nostro nucleo: a volte con l’aggressività sta sistemando un rapporto che contiene qualcosa che ci disturba, ma non abbiamo il coraggio di dircelo. Racconta Sara: “Via via che mi affidavo alla rabbia, che la accoglievo, che non mi dicevo più niente, gli attacchi di ira sono svaniti. Un giorno mi ha chiamato un’altra azienda e me ne sono andata senza problemi”.

Passiamo le giornate a criticarci. Un dialogo interiore troppo duro con noi stessi che ci rovina la vita. L’intelligenza del nucleo non ha bisogno di parole, affiora con la percezione silenziosa di ciò che accade dentro di noi. Senza alcun giudizio.

Mai correggersi, mai accusarsi, mai dirsi niente. Ascoltare nel silenzio i disagi ci ricorda che andiamo bene così come siamo.

1. Johann Wolfgang Goethe, Dalla mia vita. Poesia e verità, Einaudi, Torino 2018.

2. Aniela Jaffé, Saggi sulla psicologia di Carl Gustav Jung, Edizioni Paoline, Roma 1984, p. 124.

3. Natan ben Sa’adyah Har’ar, Le porte della giustizia, a cura di M. Idel e M. Mottolese, Adelphi, Milano 2001, pp. 117-118.

4. Ivi, p. 118.

5. G.P. Quaglino, A. Romano, R. Bernardini (a cura di), Carl Gustav Jung a Eranos: 1933-1952, Antigone, Torino 2007, p. 155.

6. Ibid.

7. Pierre Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino 1999, p. 6.

8. Carl Gustav Jung, Analisi dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 588.

9. Ivi, p. 118.

10. James Hillman, Michael Ventura, Cent’anni di psicanalisi. E il mondo va sempre peggio, Rizzoli, Milano 2005, p. 42.

11. Carl Gustav Jung, Analisi dei sogni, cit., p. 118.

12. Ibid.