XII
Nelle settimane successive, via via che Stella si lasciava assorbire dalla vita dell'ospedale, il suo mistero cominciò a sfumare; e del resto, pur continuando a tenersi un po' a distanza, neppure lei voleva isolarsi del tutto dalle altre. Esprimeva molto equilibrio e molta dignità, questo sì, e portava come un velo l'aria addolorata della protagonista di un dramma vittoriano. La vidi anche perfezionare un certo sorriso triste, appena accennato, e notai che pazienti e personale la trattavano con rispetto, quando non con deferenza. Vestiva in cupe tonalità di blu, grigio e nero, e portava sempre con sé un libro. Era un'assidua frequentatrice della nostra biblioteca.
Insomma, valutando tutti questi segni nel loro insieme la consideravo sulla via della guarigione; pensavo che nei recessi più nascosti del suo essere stesse affrontando, e accettando, i fatti di Cledwyn Heath. Avevamo un paio di sedute alla settimana, e ogni volta che accennavo alla morte di Charlie mi faceva credere che sì, non pensava praticamente ad altro, non riusciva a staccarsi da quel pensiero terribile, e che la gravità della sua colpa la stava profondamente cambiando. A poco a poco, mentre lo spaventoso rimorso per quel gesto atroce corrodeva come un acido il suo vecchio sé, portando alla luce qualcosa di nuovo, Stella assunse le sembianze di una santa, di una donna che sta dolorosamente arrivando a una catarsi. E l'ospedale diventò quindi un monastero, un convento, e lei una dama solitaria afflitta da un'immensa pena che i monaci avevano accolto per consentirle di compiere il suo viaggio intcriore in una quiete claustrale.
Sulla terrazza sceglieva sempre una certa panchina, dove andava a sedersi tutti i pomeriggi, con meticolosa puntualità, fra le tre e le quattro. A volte una paziente o un'infermiera le facevano compagnia, ma spesso era sola. Fra i pazienti al lavoro in giardino, o nelle terrazze inferiori, quella figura col cappotto sulle spalle, seduta a fumare e a contemplare tranquillamente il paesaggio, non passava inosservata. Uno di loro, un ragazzo con una zazzera di capelli neri, ogni volta che smetteva per un attimo di zappare ne approfittava per voltarsi, non verso il panorama, ma verso l'alto, dove la donna vestita di scuro sedeva sola, assorta nei suoi pensieri, un giorno dopo l'altro, fra le tre e le quattro del pomeriggio.
Quando me lo riferirono presi subito la cosa molto sul serio. Nessuno doveva disturbare Stella durante il difficile periodo della convalescenza, e meno di tutti questo giovane psicopatico coi capelli neri, un certo Rodney Mariner. Uno dei miei. Lo feci immediatamente rimuovere dalla squadra di lavoro, gli revocai la semilibertà e lo trasferii nel reparto agitati. Era una misura puramente precauzionale.
A quanto pareva avremmo avuto un'altra estate calda. Le giornate erano limpide e senza vento, e nelle lunghe sere tiepide si respirava la fragranza della prima fioritura. Mi sorpresi a pensare che solo un anno prima Stella passeggiava su quella stessa terrazza con Max e me dopo il ballo. Sembrava fosse trascorsa una vita. Mi chiedevo come Stella reagisse a immagini, suoni, tutto ciò che non poteva non ricordarle l'estate scorsa, e la sorvegliavo di continuo, alla ricerca dei segni di un'irrequietezza insolita. Ma diventava sempre più chiaro che ormai Edgar non era più al centro dei suoi pensieri; ne ebbi conferma scoprendo la presenza di un nuovo intruso psichico. Durante una seduta Stella mi disse infatti di soffrire, da qualche tempo, di emicranie notturne, che immancabilmente facevano seguito a sogni tanto nebulosi quanto terrificanti. Da quei sogni, spesso, si svegliava di soprassalto. Al buio, seduta sul letto, continuava a rivedere quelle immagini, e per qualche attimo pensava con terrore di non avere scampo. Per fortuna il sogno svaniva quasi subito, tornando nella zona oscura da cui era emerso, e l'unica, fievole traccia del suo passaggio nella mente addormentata di Stella era una forte pulsazione alle tempie. Ma prima, per pochi ma interminabili secondi, nella testa di Stella risuonavano delle grida.
Non si trattava di uno sviluppo sorprendente, anzi, in un certo senso era proprio quello che stavo aspettando. E tuttavia, notando la serietà con cui ascoltavo il suo racconto, Stella cercò di minimizzare, dicendomi che era solo uno stupido incubo, le bastavano due compresse di aspirina per il mal di testa. Delle grida Stella non era in grado di dirmi nulla, ma essendo praticamente certo di trovarmi di fronte all'insorgere di quel senso di colpa che finora lei aveva così efficacemente rimosso sapevo benissimo che cos'erano: erano le grida di un bambino che annegava.
Dunque la guarigione era davvero cominciata: Stella si stava liberando di Edgar e cominciava ad affrontare la morte di Charlie. Adesso non rimaneva che elaborare il senso di colpa. Confidavo che sarebbe stato un processo doloroso ma diretto, e relativamente rapido, almeno nella fase iniziale e più acuta. Passata quella, non avrebbe più avuto senso tenerla qui, perché non poteva più essere considerata un reale pericolo per la società. Era quindi tempo che io pensassi al suo futuro, a cosa Stella avrebbe fatto di lì a un mese, quando fosse stata abbastanza bene da lasciare l'ospedale. In particolare, bisognava decidere chi si sarebbe occupato di lei.
Qualche giorno dopo andai nel Galles per discutere i miei progetti con Max. Poveretto, non aveva nessuna voglia di vedermi, né che io vedessi come si era ridotto. Lavorava ancora all'ospedale di Cledwyn, e viveva sempre dai Williams, ma avevo la sensazione che fosse diventato una specie di recluso.
Arrivai a Plas Mold nel primo pomeriggio. La casa, il cortile, i campi erano esattamente come me li aveva descritti Stella; il cane abbaiava, il tanfo di concime appestava l'aria. Avevo sperato di vedere, magari di sfuggita, Trevor Williams, ma di quel dongiovanni rusticano e di sua moglie non c'era traccia. Max ciabattò fuori in camicia e bretelle, invitandomi a entrare. Era magro come un chiodo, l'ombra di se stesso. Attraversammo la cucina immacolata e salimmo nel soggiorno, che adesso era diventato il suo studio. Max mi propose uno sherry.
La stanza era a dir poco austera. Niente quadri, niente radio, niente televisione, solo una poltrona, qualche scaffale di libri, e una scrivania con la vista sulla vallata. Mentre Max riempiva i bicchieri mi avvicinai alla finestra. Non era il panorama a interessarmi, ma le foto incorniciate che Max teneva sulla scrivania. Erano quasi tutti ritratti di Charlie, in un paio dei quali compariva anche lui. Ne sollevai uno alla luce. Max si materializzò al mio fianco porgendomi il bicchiere, e guardammo insieme suo figlio. Mormorai la cosa più ovvia, e cioè che non vedevo foto di Stella.
Con un sospiro, Max mi fece cenno di accomodarmi in poltrona. Poi girò la sedia della scrivania in modo che fossimo l'uno di fronte all'altro. «No,» disse «niente foto di Stella».
Tanto valeva arrivare subito al dunque, e gli esposi il motivo della mia visita. Fu sorpreso, ma non più di tanto. Purtroppo, ogni manicomio di provincia ha il suo Max - un uomo dalla vita distrutta -, quindi conosco bene il tipo, e in particolare so come reagiscono quasi tutti gli psichiatri alle tragedie personali: si lasciano affascinare dalla loro stessa sofferenza. Sul lavoro rimangono gli stessi di prima, competenti e a volte persino energici, ma dentro sono come piegati dal peso apparentemente immane dell'esperienza, sia loro sia dei pazienti. Perdono ogni traccia di naturalezza e di umorismo, e affrontano le patologie con una sensibilità troppo acuta per conservare un minimo di distanza da ciò che vedono e sentono ogni giorno in ospedale. Cancellando il confine tra salute e malattia, prendono su di sé, come Cristo, le sofferenze dell'umanità. Si tengono alla larga dalla vita, e spesso si dedicano a letture filosofiche, in genere misticheggianti. Max era così. Immagino che Stella si trovi bene da voi, mi disse con voce lugubre. Gli tracciai a grandi linee il quadro clinico.
Annuì ripetutamente, prima di sprofondare di nuovo in un silenzio cupo. «Credo che dovresti essere molto prudente» disse alla fine.
Per i casi disperati come Max, la prudenza diventa spesso un valore assoluto. «Prudente?» dissi.
«Non sono nella posizione di darti dei consigli» disse con impercettibile, plumbea ironia. «Dopotutto sei tu il medico curante. Io sono solo…» un breve colpo di tosse «il marito».
Aspettai che aggiungesse qualcosa. Parlava a fatica. Probabilmente non gli rimane molto da vivere, pensai. Mi chiesi se non avesse un cancro.
«Il punto è che lo ha fatto entrare in casa lei, capisci?».
Non dissi nulla. Pensavo solo che se fosse stato un mio paziente gli avrei prescritto degli antidepressivi.
«Stella dovrebbe essere in prigione» continuò.
«Io credo che tu sia ancora molto in collera con lei, e del resto non potrebbe essere altrimenti».
«Non usare quel tono condiscendente con me, Peter. Guarda che so di cosa sto parlando. Ma ognuno per sé, immagino». Un altro colpo di quella brutta tosse secca.
«Esattamente».
«Hai la mia benedizione. Ma voglio metterti in guardia».
Un'altra pausa sofferta.
«Da cosa?».
«Dalla perfidia. Dalla menzogna».
Sembrava un gesuita. Ma avevo sentito quello che volevo sentire. Mormorai qualche banalità, poi mi alzai. Max si tolse gli occhiali e cominciò a pulirseli col fazzoletto. «Comunque, tutto questo è secondario, vero?» disse. «Tu vuoi arrivare a Stark».
«Li ho in cura entrambi».
Mi lanciò uno sguardo acuto, ma non aggiunse altro.
Poi mi accompagnò fuori. C'era molto vento. Max si infilò le mani in tasca e rabbrividì. Quindi, guardando il cielo, mi disse: «Con la vergogna bisogna lottare ogni giorno. Ma la cosa più difficile è assumersi le proprie responsabilità».
Quando mi allontanai era ancora lì, con le mani in tasca, a guardare il cielo. Cosa gli fosse successo era evidente; aveva rivolto le proprie tendenze punitive contro di sé, e si stava condannando a morte a poco a poco. Non aveva più alcun interesse reale per Stella.
Al nostro incontro successivo dissi a Stella di essere talmente soddisfatto dei suoi progressi che avrei chiesto l'autorizzazione per il suo rilascio; non subito, naturalmente, ma in un futuro non lontano. La sua reazione fu cauta: sollievo, sì, ma temperato dal dolore. Ormai parlavamo come due vecchi amici. Un giorno le annunciai che non c'era più bisogno di incontrarci nel padiglione, e l'indomani la feci accompagnare nel mio ufficio in Direzione. Non aveva più senso tenerla ancora all'oscuro delle mie intenzioni.
Quando arrivò le andai incontro e dissi all'infermiera di tornare un'ora dopo. L'ufficio del direttore è il più bello dell'ospedale: è una stanza molto ampia, col soffitto alto, tutta legno lucido e cuoio stagionato nei toni del nero, del marrone e del sangue di bue. Più che l'ufficio di un ospedale, sembra il salone di un club. Da un lato c'è il tavolo delle riunioni, dall'altro una grande scrivania, dietro la quale la vista spazia sulle terrazze e la campagna a perdita d'occhio.
Stella fece un giro per la stanza, dicendo che ci si sentiva la mano di un uomo. Sui pannelli di legno scuro c'erano dipinti e stampe. Alcuni appartenevano all'ospedale, ma la maggior parte proveniva dalla mia collezione. Notò diversi quadri che conosceva per averli visti in casa mia, e ci si mise davanti come se stesse riabituandosi a dei vecchi amici.
«Questo te lo ricordi» le mormorai avvicinandomi per indicarle una piccola natura morta italiana che le era sempre piaciuta.
«Oh, certo» rispose.
Curiosando nella libreria trovò, vicino ai soliti testi di psichiatria, diversi scaffali di letteratura. Tirò fuori un volume di poesia, e lo stava sfogliando quando udì un tintinnio familiare di cui aveva sentito molto la mancanza nelle ultime settimane. Voltandosi mi vide appoggiare sulla scrivania una bottiglia di gin e un paio di bicchieri.
«Vuoi bere qualcosa?».
Se ne stava lì con il libro in mano a rigirarsi la mia domanda nella testa come un vino d'annata. Era una domanda da degustare senza fretta. Sorrise.
«Ti va un gin tonic?» le chiesi. «Io lo prendo sempre, a quest'ora».
«Sì, mi va, molto, Peter».
«Bene».
Sorvolammo entrambi sull'opportunità di offrire alcolici a un paziente. Ci comportammo come fosse tutto normalissimo. Una bella coppia che beve un aperitivo a metà pomeriggio.
«Siediti pure, Stella» le dissi indicando le comode poltroncine con l'imbottitura di cuoio rossiccio, sistemate a semicerchio intorno alla scrivania. Stella ne scelse una, e io quella vicina. Poi ci mettemmo a guardare il cielo immenso, ammantato di nubi candide. Un attimo dopo suonò il telefono, e fui costretto ad accettare un appuntamento di lì a un'ora. Tornai a sedermi piuttosto nervoso.
«Avrei dovuto rifiutare l'incarico» dissi. «Non fa per me».
«In effetti non so se ti ci vedo» rispose Stella.
«E non mi riesce granché bene».
«No, per questo sono sicura che te la cavi egregiamente, ma con tutte queste grane burocratiche non ti rimane abbastanza tempo da dedicare al tuo vero mestiere. Ed è un peccato, sai. Lì sei proprio brava».
«In ogni caso, ho in mente di andare in pensione».
«Peter!».
«Che c'è di strano? Non sono ancora così decrepito da non potermi mettere a scrivere, ad esempio. Oppure potrei occuparmi del mio giardino, che sta diventando una vera steppa. Perché no?».
«Ma quando ti sei candidato per il posto lo avrai fatto a ragion veduta, no?».
Stella cominciava a capire che tutto questo portava a qualcosa; probabilmente, a un colpo di scena.
«Oh, era evidente che il mio sarebbe stato solo un interregno. Tutti pensavano che sarebbe stato Max a prendere il posto di Jack. Era la scelta più ovvia».
Una pausa. Stella non disse nulla.
«Ma le cose sono andate altrimenti» mi affrettai ad aggiungere. «E così mi hanno chiesto di restare finché non si trovava qualcuno per un incarico a lungo termine. Adesso di tempo ne hanno avuto. Se rimango ancora quest'ansia diventerà cronica. Pensi mai a Max?».
Era dispostissima a parlarne. Mi disse che rimpiangeva che Max non si fosse aperto con lei, dopo Edgar, che non le avesse detto cosa provava. Se non avesse agito in malafede, forse avrebbero potuto rendere l'atmosfera più respirabile, trovare il modo di convivere. E forse Charlie…
Una pausa. Abbassò la testa e si rinchiuse nel silenzio. Da parte mia, un sospiro comprensivo. Era una bella giornata, c'era un tiepido sole primaverile, e dalla finestra aperta entrava un soffio di brezza. Un gruppo di pazienti coi calzoni gialli, la giacca sulle spalle e gli scarponi da lavoro attraversò la terrazza. L'eco attutito delle loro voci arrivò fino a noi. L'orologio a muro ticchettava. Rimasi passivo, in ascolto.
«Continua» mormorai dopo qualche tempo.
«Oh, adesso non so dirti cosa provo per lui. Vorrei non averlo mai conosciuto. Hai parlato con Brenda?».
«Sì».
«E come sta?».
«Ancora molto scossa, come puoi immaginare. Il suo medico la tiene sotto osservazione».
«Quanto deve odiarmi».
«Non credo. Soprawiverà, come sopravviverai tu. La tragedia è un aspetto della vita meno raro di quanto a volte si creda».
Fece un sorrisetto stentato. «Mi fa piacere che le prospettive non siano poi così fosche».
Da quel sorrisetto capii che era arrivato il momento di parlare. Io ho superato i sessanta e presto andrò in pensione. Se sono fortunato mi restano una quindicina d'anni, e non intendo passarli da solo. Da qualche tempo mi ero messo in testa che una volta uscita dall'ospedale Stella avrebbe potuto venire a vivere con me. Dal mio punto di vista era una sistemazione molto vantaggiosa. Stella era una donna colta e bellissima. Capiva il mio modo di vivere, e lo avrebbe trovato congeniale. Arte, viaggi, giardinaggio e libri erano interessi comuni. Stella avrebbe portato un soffio di luce e di grazia nella mia casa tranquilla e nella mia vita austera. Era perfetta per quelle stanze sontuose, che mi sentivo pronto a dividere con lei. Avremmo parlato, sarei arrivato a conoscerla. A capire la sua storia con Edgar.
E lei, in me, avrebbe trovato conforto. Sicurezza. Sarei stato il suo angelo custode.
«… custode?».
Era stupefatta. Scattò in piedi, attraversò tutta la stanza, e si mise a guardarmi appoggiata alla parete più lontana. Io ero ancora seduto e le davo le spalle, lo sguardo sul panorama. Nel caos in cui era precipitata, Stella si aggrappò all'unico dato inoppugnabile.
«Ma io sono ancora sposata con Max!».
Adesso mi girai.
«Sono stato a trovarlo» dissi. «Non si opporrà».
«Veramente?».
Annuii.
All'improvviso, Stella sembrò trovare tutto esilarante. Una proposta di matrimonio dal direttore dell'ospedale, col consenso di suo marito. Che razza di pomeriggio. Si sentiva come una partita di femminilità danneggiata, ma tutto sommato riutilizzabile, che passava dal vecchio proprietario al nuovo dopo essere stata messa per qualche tempo in magazzino. Si coprì la bocca con la mano e mi guardò, mentre una risata silenziosa le scuoteva le spalle. Non smise finché non la riaccompagnai alla poltrona, dove mi si aggrappò alla giacca affondandomi la faccia nella spalla. Dopo qualche attimo riprese il controllo. Lasciò andare la giacca e usò il fazzoletto che avevo estratto dal taschino. Si riaggiustò i capelli, poi prese il bicchiere.
«Devo fare spavento. Per favore, non darmi sedativi».
«Non vuoi niente?».
«Non ne ho bisogno».
Tirò fuori portacipria e rossetto nel tentativo di riparare il danno.
«Devo dire» mormorò controllandosi nello specchietto «che hai un modo insolito di comunicare le brutte notizie».
«Qual è la brutta notizia?».
«Max. Max che non si oppone».
Nelle sue parole c'era una pesante ironia.
«So che non mi ami,» le dissi «ma penso che tu abbia bisogno di me, almeno in questo momento. E sono pronto a scommettere che col tempo le cose cambieranno. Che non proverai più solo affetto».
Un altro silenzio.
Sentivo la sua compassione. Poveraccio, pensava. Accennò un sorriso. Non mi stava prendendo del tutto sul serio, ma cercava di non darlo a vedere. Rigirava il bicchiere fra le dita, guardandolo tra le palpebre socchiuse. Un raggio di sole batteva sul cristallo, rifrangendosi in minuscoli barbagli. Stella inarcò le sopracciglia. Sapeva che la stavo osservando.
«Tu sei un uomo molto appassionato, Peter?» mormorò.
«Penso sia una cosa che potremo scoprire insieme, noi due» risposi a bassa voce. Accentuai appena il «noi». Le stavo dicendo che sarebbe dipeso solo da lei. Questo la scosse dalla sua fantasticheria.
«Che cosa?».
«Riesci a immaginarlo, allora?» le chiesi.
Tornò alla libreria e fece scorrere un dito sui dorsi. Sono l'Addolorata, diceva la sua schiena, sono un'acqua scura, sono dolore, la mia anima è lacera, sanguina, toccherai la mia ferita? Un attimo di silenzio. Non lo farà, si disse, non mi dissezionerà proprio qui, proprio ora; e infatti non lo feci. La lasciai tornare in silenzio alla poltrona. Alla fine parlò lei.
«Prendi sotto la tua ala un bel caso disperato».
«Oh, io sono un mago, sai».
«Se ti sposassi…».
Oh, e la mia faccia, mi disse, si riempì immediatamente di tenerezza. Che cosa meravigliosa era quella tenerezza, e quanto bene le fece! Con un sorriso cercò la mia mano, che era poggiata sulla scrivania; e i suoi occhi cercarono il mio viso, assorbendo fino all'ultima stilla il sentimento che aveva suscitato in me.
«E quando pensavi…?».
«A luglio».
«Non qui, vero?».
Scossi la testa.
«Una cosa tranquilla?».
«Sì, una cosa tranquilla».
Adesso mi guardava con un'espressione che diceva, magari fosse così semplice. Le lessi nel pensiero.
«Sarà semplicissimo».
Mi strinse la mano.
«Caro Peter» disse, anche se in realtà credo continuasse a pensare povero Peter. Si lasciò ricadere in poltrona.
«Ora vorrei tornare in camera» disse.
«Certo».
L'Addolorata riprese la vita di sempre, senza rivelare a nessuno la stupefacente proposta del direttore. Era stata sul punto di dirlo alle sue compagne, tanto per vedere come l'avrebbero presa, ma in fondo lo sapeva già. Ti ha chiesto di sposarlo? Ma come no, tesoro. E io sono la sposa di Cristo. Sulle prime la mia proposta l'aveva quasi divertita, ma sapevo che presto avrebbe cominciato a fare i suoi conti, arrivando fatalmente alla conclusione che sposare me sarebbe stata la scelta migliore. La stavo sottoponendo a un peso notevole, come non ne avesse già abbastanza di suo, ma ero convinto che ormai fosse abbastanza forte da reggerlo. Riuscii anche, senza troppo sforzo, a superare la sua reticenza riguardo ai sogni. Sapevo che solo parlandomene sarebbe riuscita ad alleviare, almeno in parte, il suo lancinante senso di colpa.
Naturalmente il bambino che gridava era Charlie. Sentiva, mi disse, delle forze dentro di lei che cercavano di difenderla da lui, ma Charlie era troppo forte, e alla fine, nonostante tutto, riusciva a passare. Stella si alzava a sedere sul letto, la faccia tra le mani, e sentiva la mente che si snebbiava, ma non abbastanza in fretta da non mostrarle l'immagine di Charlie che sfumava a poco a poco. Il peggiore di tutti era un sogno ricorrente in cui lui la fissava, e con la vocina e la buffa espressione di quando voleva parlare sul serio diceva: «Mami, non vedi che sto annegando?».
Ah, quelle parole! Risuonavano ancora al risveglio, quando Stella entrava nella routine della vita ospedaliera, e si lavava e si vestiva e andava in mensa con le altre. Le prime ore del mattino, mi disse, erano il momento più duro della giornata. Doveva mantenere un contegno, fingere serenità, e intanto lottare per non soccombere a quell'atroce vocina che non faceva che ripetere, Mami, non vedi che sto annegando? Mami, non vedi che sto annegando? Certo tesoro, certo che lo vedo, sto venendo ad aiutarti, non aver paura, amore, mamma ti aiuterà, mamma non ti lascerà annegare! urlava Stella, ma a chi? chi mai poteva sentirla? Nessuno; la sua voce echeggiava sotto una volta piena di ombre, e non c'era nessuno a risponderle, nessuna presenza amica usciva dal buio per prenderle la mano, e rassicurarla, e dirle che andava tutto bene, era stato solo un sogno. E anche da sveglia non cambiava niente, perché non era stato solo un sogno. Charlie era morto, ma continuava a vivere in lei, e urlava, urlava dal terrore, perché non capiva come mai la mamma non lo aiutava.
Raccontarmi questo l'aveva sconvolta, e cercai di tranquillizzarla. Non è il primo caso che vedo, le dissi. Charlie è morto, e noi non possiamo riportarlo indietro, ma io ti posso aiutare. Posso alleviare il tuo dolore. Non sei più sola. Stella mi confessò che ora andare a dormire le faceva paura, era come scendere in una cantina dove sapeva che avrebbe trovato solo orrore. Ecco cos'era diventata la notte, per lei: un viaggio nell'orrore. L'ombra si allungava, svaniva sempre più tardi, impregnava le prime ore del giorno col suo fetido retrogusto psichico…
Oh, il suo fu un gioco davvero astuto, niente da dire. Al mattino non la vedevo mai, ero troppo preso dai miei infiniti impegni burocratici; cominciavo le sedute coi pazienti, lei compresa, solo nel pomeriggio, e a quel punto, mi diceva, la voce era svanita, e il suo equilibrio molto meno precario. Di fatto riuscivamo a parlare di Charlie con più calma, e Stella sdrammatizzava, e mi lasciava abbondantemente vedere che stava sdrammatizzando prima di passare ad argomenti più piacevoli, ad esempio il nostro matrimonio. Il nostro matrimonio: era chiaramente un'idea che continuava a divertirla, e tutte le volte che vi accennavo rideva come di una battuta particolarmente spiritosa. Le battute, almeno prima, avevano avuto un ruolo importante nella nostra amicizia. E questa, anche se io sembravo non considerarla tale, era la più divertente di tutte. Stella aveva sempre creduto che io fossi omosessuale, lo sapevo bene. Be', doveva pensare adesso, magari lo è, magari più che un matrimonio nel vero senso della parola Peter mi sta proponendo una sistemazione con risvolti terapeutici. Si immaginava la mia casa e il mio giardino, e credo che senza neppure accorgersene cominciasse ad anelare di andarvi, perché significavano tutto ciò di cui, in fondo, aveva bisogno: pace, eleganza, comodità. D'improvviso sentiva di volere disperatamente la vita che le avevo offerto.
Adesso la mia unica preoccupazione era che cambiasse idea. Per la prima volta da anni mi sorpresi a provare un filo di insicurezza. Immaginavo Stella pensare: tutti i giorni Peter. Peter a colazione, a pranzo e a cena. Io e lui sotto lo stesso tetto, a condividere le stesse stanze, tutti i giorni che dio manda in terra. Ma subito mi rassicuravo. Non poteva non rendersi conto, pensavo, che la vita con me sarebbe stata sotto il segno del divertimento colto e sofisticato. Sapeva di non dover temere la sinistra scoperta di laide abitudini, piccole crudeltà, durezze impreviste. Sapeva che sono una persona civile. Sì, poteva vivere con me. Ma sapeva un po' meno come sarebbe stato venire a letto con me. Questo era un campo che riservava immancabilmente sorprese, e di rado piacevoli…
Riuscì a farmi credere che avrebbe potuto essere all'altezza delle mie aspettative, riuscì a farmi credere che mi avrebbe fatto felice, conquistando al tempo stesso, per sé, un minimo di serenità. Non sarebbe stato difficile, visto il tipo di uomo che ero e anche, perché no, quello che possedevo. Il benessere rende tutto meno degradante, mi disse. Avevamo visto entrambi che cosa succedeva in un ambiente squallido: oh, l'amore ardeva, certo, ma di un fuoco tremolante, sempre sul punto di spegnersi. Un amore come quello che Stella aveva vissuto non avrebbe mai trovato posto nel tipo di vita che contemplavamo, era un inferno in confronto al raffinato tepore che noi due intendevamo tener vivo. Credevo pensassimo entrambi che quelle emozioni violente tendono, per loro natura, a divampare senza freni per poi estinguersi dopo aver divorato ciò che le aveva alimentate. In ogni caso tutto questo, ormai, era finito. O comunque Stella riuscì a farmelo credere.
Quando mi chiese di aumentarle la dose di sonnifero le risposi che sarebbe stata molto meglio senza sedativi, e che continuando a rimuovere i sogni avrebbe bloccato un materiale inconscio di cui aveva invece assoluto bisogno per elaborare la morte di Charlie. Stella si spaventò moltissimo, tanto da arrivare sul punto di gridarmi: «Non c'è niente di rimosso!», ma ricacciò il grido in gola. Disse invece che siccome di giorno i ricordi non la abbandonavano neppure per un attimo, sperava le venisse concessa una tregua almeno durante il sonno.
«Come vuoi» le risposi. Non insistetti su quel tasto, non la forzai. Purtroppo non detti neppure molto peso alla richiesta, e naturalmente avrei dovuto. In tutto questo, infatti, un dato mi sfuggì, e cioè quanto le costasse recitare, attanagliata com'era da un dolore implacabile, che non le dava tregua, e di cui io, concentrato solo ed esclusivamente sul senso di colpa, non colsi la vera natura. Decisi di non aumentarle i sonniferi. Le dissi che la dose era già abbastanza alta.
Non la vidi per parecchi giorni. A luglio, le avevo detto; adesso eravamo alla fine di maggio. Mancavano ancora cinque o sei settimane. Le giornate di Stella erano sempre le stesse: ogni mattina si vestiva con estrema cura, passava a prendere un libro in biblioteca, se lo portava nella sala comune e si metteva a leggere vicino alla finestra, a meno che una delle altre non attaccasse discorso. Rimaneva distante, composta, gentile, triste.
Una paziente che sta per uscire viene trattata da tutti in un modo molto particolare. Intorno a questo strano ibrido - non più una malata, non ancora una donna libera -, finisce sempre per crearsi un'aura di pacata celebrazione, perché una paziente che esce è motivo di vanto per il personale e di speranza per le sue compagne. Stella era in ospedale da poco, ma aveva sempre cercato di conservare la sua dignità, guadagnandosi così il rispetto generale. Le altre le facevano gli auguri, e quando le chiedevano dei suoi progetti lei rispondeva che avrebbe vissuto a Londra con la famiglia di sua sorella. E se anche qualcuno si era chiesto perché nessun membro di quella famiglia fosse mai venuto a trovarla, aveva tenuto quel dubbio per sé. Stella, dal canto suo, non mi domandò nulla sull'autorizzazione necessaria al nostro matrimonio.
Ogni pomeriggio me la portavano in ufficio, e in quella stanza grande e confortevole passavamo un'ora a discutere dei nostri progetti, passati nel frattempo da un matrimonio in forma strettamente privata a un viaggio di nozze in Italia, dove intendevo mostrarle Firenze, che conoscevo bene, e Venezia, che conoscevo meno. Avevamo deciso di partire a fine settembre, quando fa meno caldo e i turisti sono tornati a casa. Poi avremmo cominciato la nostra convivenza, o meglio la nostra rarefatta comunione spirituale. Un pomeriggio le dissi di non condividere l'opinione corrente secondo cui il matrimonio risolve il problema del sesso: per me il matrimonio, o almeno il matrimonio come lo intendevamo noi, risolve il problema della conversazione.
Ma Stella come vedeva la prospettiva di un matrimonio fondato sull'amicizia? Sembrava anche a lei che avrebbe risolto il problema della conversazione? Io credevo di sì, credevo che a questo pensasse quando sedeva sulla sua panchina, vestita di scuro, con quell'aria di malinconica rassegnazione, perduta nei calcoli del suo cuore.
Non trascuravo affatto l'ospedale. Al mattino partecipavo alle riunioni e sbrigavo le pratiche, nel pomeriggio mi occupavo dei casi che seguivo di persona. Visto che stavo per andare in pensione, volevo preparare i pazienti alla mia partenza. Solo uno di loro mi dava qualche serio motivo di preoccupazione: Edgar (che ovviamente era da noi: dove altro avrebbe potuto andare?). Era qui da subito dopo la sua cattura a Chester. Mi restava ancora un punto da chiarire, e cioè se avesse seguito Stella per portarla via o per ucciderla. Lo tenevo in una stanza all'ultimo piano, in isolamento, ma non era, come potrebbe sembrare, una misura punitiva.
Non sappiamo ancora molto circa i suoi spostamenti dopo la fuga di Stella da Horsey Street, ma spero che presto avremo qualche dettaglio in più. Di sicuro Edgar aveva passato altri tre giorni nel sottotetto, lavorando senza interruzioni alla testa. Il quarto giorno pareva che qualcuno, non è ben chiaro chi, fosse venuto a dirgli che la polizia era sulle sue tracce. Edgar aveva cacciato in una sacca qualche vestito e un paio di libri ed era scappato qualche minuto prima dell'arrivo dei poliziotti e, per colmo di ironia, del ritorno di Stella. I poliziotti avevano posto sotto sequestro l'intero contenuto dello studio, e in seguito mi avevano convocato chiedendomi di aiutarli a capire se in mezzo a tutta quella roba ci fosse qualche indizio utile per rintracciare il mio paziente. Mi erano parsi interessanti soprattutto i lavori che Edgar aveva fatto nei giorni della convivenza con Stella, cioè i disegni e, naturalmente, la testa. Aveva lasciato tutto lì.
Dopo la fuga Edgar era letteralmente scomparso, risucchiato, riteniamo, dal sottobosco di artisti e delinquenti che lo aveva nascosto e mantenuto nelle settimane successive. Eravamo convinti che si spostasse in continuazione da uno studio all'altro, da un appartamento all'altro, e a me sembrava quasi di vederlo, un omone barbuto col giubbotto, il bavero rialzato e il berretto sugli occhi, che si presentava alla porta degli amici nel cuore della notte chiedendo ospitalità; verosimilmente, con una certa apprensione da parte delle loro mogli. Ci era giunta una segnalazione dalla Cornovaglia, dove pareva vivesse in un cottage in riva al mare; ma secondo me non si era mai allontanato da Londra, che conosceva come le sue tasche, almeno fino a quando non aveva deciso di andare da Stella. Quanto a Nick, fu fermato per un interrogatorio e rilasciato su cauzione. Era figlio di un giudice.
Edgar era stato riammesso in ospedale in aprile, e da allora si era sempre rifiutato di parlarmi. Fosse stato per me non lo avrei certo tenuto a languire in isolamento, ma non mi dava scelta. Francamente, era una bella seccatura. Prima di affidarlo a qualcun altro mi serviva un profilo psichiatrico completo, in base al quale consigliare al mio successore una strategia terapeutica. Sapevo che alla fine avrebbe ceduto, avevo avuto a che fare con tipi anche più duri di lui; e in genere bastava aspettare. Ma adesso non avevo tempo. Così provai a dirgli, senza particolari precauzioni, del mio fidanzamento con Stella. Fui brutale, e anche aggressivo. Volevo costringerlo a reagire.
Eravamo in una stanzetta del suo reparto, una cella nuda con le pareti dipinte di verde, un'unica finestra con le sbarre, un tavolo massiccio tutto ammaccato e un paio di seggiole di legno. Edgar era chino sul tavolo, dove faceva rotolare pigramente una sigaretta avanti e indietro. Portava la divisa grigia dell'ospedale, ma senza cintura e senza stringhe. Gli avevano tagliato i capelli e la barba. Era dimagrito di qualche chilo, e sembrava meno sicuro, più giovane, e stranamente vulnerabile. Non era l'Edgar arrogante che conoscevo: quello che avevo davanti era un uomo ombroso, debole e infantile. Lo osservavo attentamente. Aspettavo che ricominciasse a parlarmi, ma non solo: volevo saperne di più dei suoi attuali sentimenti per Stella, e chiarire una volta per tutte per quale ragione l'avesse seguita fino a Chester. Si mise lentamente a sedere, e vidi le emozioni - risentimento, ironia, incredulità - passargli sul viso come una folata di vento sull'acqua.
«Sta scherzando?».
Erano le prime parole che mi rivolgeva dal suo ritorno.
«No» dissi. Ma non ero ancora riuscito ad agganciarlo.
«Che effetto le fa?» gli chiesi.
Alzò le spalle, scuotendo leggermente la testa. Lo vedevo lottare con se stesso.
«Ho saputo quello che è successo nel Galles» disse.
Lasciai trascorrere qualche istante in silenzio. Poi ripresi: «Penso che Stella si meriti un po' di felicità, dopo quello che ha passato» dissi. «Non crede?».
Una smorfia sardonica.
«Rispondi alla domanda, Edgar».
A questo punto abboccò.
«No, rispondi tu alla domanda, Peter. E la domanda è: cosa ci trova Stella in una vecchia checca come te?».
Tentai di celare la mia soddisfazione.
«Non lo sopporti, vero? Non sopporti l'idea che lei possa amare qualcun altro».
«Stella vuole solo uscire da qui».
Tacqui un momento. Naturalmente ci avevo pensato anch'io.
«E così la ami ancora» ripresi.
«Stella è… è un animale».
Questo non me lo aspettavo.
«In che senso?» mormorai.
«Tu non la conosci affatto, vero?» disse.
«E tu?».
Non mi rispose. Tornò a chinarsi, evitando il mio sguardo e fissando la sigaretta spenta che continuava a far rotolare sul tavolo.
«Devo ricordarti cosa fai alle donne quando credi di conoscerle?» gli chiesi.
Ero seduto al tavolo, davanti a quell'assassino, e lo vidi irrigidirsi e lasciar perdere la sigaretta. Ad ogni buon conto, in caso di aggressione c'era un infermiere dietro la porta.
Edgar aveva tagliato la testa di Ruth e l'aveva infilzata sul suo cavalietto. Poi ci aveva lavorato sopra con gli strumenti come fosse un blocco di argilla umida. Per prima cosa le aveva cavato gli occhi. Un poliziotto mi aveva detto che era stato come entrare in una macelleria. Senza i denti, e qualche ciocca di capelli fradici, non avrebbero nemmeno capito che cos'era.
Avrebbe potuto essere Stella. C'era mancato un soffio.
Quella sera, appena in ospedale fu tutto tranquillo, tornai in ufficio per ripensare al nostro colloquio. Edgar si era mostrato cinico e sprezzante nei confronti di Stella, ma non mi aveva convinto. Era un uomo complicato, e ora più che mai attento a tenere nascosto il suo vero stato d'animo. Ritenevo possibilissimo che desse a Stella dell'animale, considerandola invece una dea; dopotutto non aveva alcuna ragione per essere onesto con me, se si considera che io non solo ero padrone del suo destino, ma stavo anche per sposare la donna che un tempo aveva amato, e che forse, a suo modo, amava ancora. Ma se l'amava ancora mi avrebbe detto che era un animale?
Se il suo intento era quello di distruggere l'immagine che avevo di lei, sostituendola con una di sua invenzione, sì.
Il pomeriggio successivo tornai al reparto. Prima che lo portassero giù scambiai due parole con l'infermiere, dal quale appresi, con un certo stupore, che Edgar aveva trascorso una notte tranquilla. Mi sarei aspettato che sfasciasse la stanza, o che saltasse addosso a qualcuno in corridoio, ma non aveva fatto niente di particolare, tanto che per un attimo mi chiesi se davvero non gli importasse più niente di Stella. Ma no, l'istinto mi diceva che gliene importava, e molto. Che nell'economia psichica amore e odio coesistano strettamente è a dir poco un luogo comune clinico. Quello che volevo sapere era verso quale polo Edgar gravitasse, e fino a che punto i suoi sentimenti fossero patologici.
Gli andai incontro all'uscita del reparto. Era sempre in divisa grigia, e qualcuno gli aveva fatto la barba. Non un professionista, evidentemente, visto che sulla sua guancia coriacea c'era un taglietto con un po' di sangue raggrumato. Aveva lo stesso atteggiamento distaccato del giorno prima. Quando rimanemmo soli gli offrii una sigaretta, che si infilò sopra l'orecchio. Andai dritto al sodo.
«Perché è un animale?».
«Cosa mi stai chiedendo, perché lo è, o come faccio io a sapere che lo è?».
«Come fai tu a sapere che lo è».
Mi guardò dritto negli occhi. Dietro il suo sguardo vedevo ribollire un tumulto di pensieri, malati e no. Ne affiorò uno malato.
«Dall'odore».
Questa non l'avevo mai sentita.
«Quale odore?».
«Quello degli animali in calore. Erano sempre in calore. E lei era così anche con me, nell'orto. Sempre in calore».
«Erano chi?».
«Lei e Nick».
«Nick?».
Stella mi aveva detto tutto di Nick. Ci era andata a letto una volta sola, in albergo. Adesso Edgar mi fissava con un'espressione di trionfante disgusto. Che cosa stava succedendo nella sua testa? Rimodellava senza neppure rendersene conto la sua esperienza per adattarla alle future produzioni ossessive? Non aveva forse fatto la stessa identica cosa con il ricordo di Ruth, non le aveva sovrapposto un comportamento promiscuo che in realtà lei non aveva mai tenuto? Ci scrutavamo a vicenda.
«Non era la stessa cosa che dicevi di Ruth?».
«No. Ruth era una puttana. Stella invece lo fa gratis, col primo che le capita».
Non potei fare a meno di pensare, con una fitta di disagio, a Trevor Williams. Mi coprii la bocca con la mano e lo osservai per qualche secondo. La odiava. La odiava e stava male, peggio di prima, e mi dispiaceva moltissimo per lui, mi dispiaceva che tutti i suoi sentimenti per Stella fossero contaminati da questa immonda falsità.
Uscendo dalla stanza lo sentii canticchiare tranquillamente fra sé. Poi, appena chiusi la porta, gridò: «Cleave!».
Tornai indietro e rimasi ad aspettare, con la mano sulla porta.
«Sì?».
Si alzò in piedi, e pensai che stesse per aggredirmi. Ma la sua insolenza e il suo rancore si erano dissolti. Nella preghiera che mi rivolse con voce bassa e roca, e in tono assolutamente ragionevole, era rimasta solo una disperata sincerità.
«Lasciamela vedere».
Ero stupefatto.
«Che male ci può essere? Solo cinque minuti».
Era quasi riuscito a farmi credere che la odiava, ma alla fine aveva dovuto cambiar tattica. Guardando il povero essere spezzato che avevo davanti provai uno slancio di tenerezza: Edgar aveva bisogno di protezione e di aiuto, perché qualunque cosa Stella gli avesse dato, lui era troppo fragile per vivere senza.
«No».
Intorno a lei non si parlava che del ballo, e tutti le chiedevano se ci sarebbe andata. La sola idea le dava i brividi. Da settimane cercava di costruirsi un'immagine accettabile, a dispetto dell'umiliante retrocessione da moglie di medico a paziente, e non era stato facile; spesso sentiva il velato disprezzo del personale e delle altre pazienti, che non le perdonavano il trattamento di favore di cui godeva. Il fatto che nessuno l'avesse apertamente insultata era dovuto solo, secondo lei, alla sua riuscita interpretazione dell'Addolorata; ma non le sembrava il caso di insistere su quella parte anche al ballo. Peraltro non era affatto sicura di riuscire a mantenere un comportamento dignitoso nel salone, dove la frattura della sua vita sarebbe stata esposta troppo brutalmente, e dove tutti avrebbero tratto la stessa conclusione, la stessa ovvia morale, e cioè che Stella era solo una donna perduta come tante, una creatura, a ben vedere, patetica. E lei questo non lo voleva.
Ma poi cominciò il solito dilemma; la solita voce ulteriore le impose di considerare la delicatezza della sua posizione. Forse a me la sua assenza dal ballo sarebbe dispiaciuta. Dopotutto ero ancora il suo psichiatra. Poteva arrischiare un atto di trasgressione? Poteva permettersi di non venire? Non lo sapeva, e il solo pensiero la metteva in ansia. Oh, ma una donna che progetta un viaggio di nozze in Italia non vacilla alla prospettiva di un ballo d'ospedale. E pensò che questa era probabilmente l'ultima prova della sua breve carriera di paziente. Va bene, allora, l'avrebbe affrontata, avrebbe recitato per l'ultima volta l'Addolorata.
Cominciò a prepararsi per quel cimento, concentrandosi sull'abito, la pettinatura, il trucco. Non avrebbe avuto l'aria della donna perduta, nemmeno se gli occhi di tutto l'ospedale fossero stati puntati su di lei.
* * *
Secondo i miei calcoli fu quella notte, o tutt'al più la notte dopo, che Stella saltò la prima dose di farmaci. Invece di inghiottire le pillole le aveva tenute in mano, infilandole poi nella cucitura di un reggiseno che probabilmente aveva cacciato in fondo all'armadio. Dei pazienti in semilibertà tendiamo a fidarci; non pensiamo che facciano scherzi del genere con le medicine, ed è per questo che concediamo loro una certa privacy. Immagino Stella in camicia da notte, che guarda fuori dalla finestra la prima luce dell'alba scolpire la superficie dei mattoni. Doveva aver capito d'un tratto che nulla sarebbe cambiato, che né la psichiatria né il trascorrere del tempo avrebbero cancellato la scena di quel mattino a Cledwyn Heath, la testa a pelo d'acqua, la mano che annaspava.
Ma la testa di chi? La mano di chi?
Le ombre in cortile si erano spostate. Stava sorgendo il sole.
Mi resi immediatamente conto che qualcosa non andava, e stavolta non la presi alla leggera. Me l'avevano portata, come sempre, dal braccio femminile, e appena la porta si chiuse alle sue spalle cominciai a osservarla con estrema attenzione.
«Che è successo?» le chiesi accompagnandola a una sedia, e prendendo posto vicino a lei.
Non voleva destare il minimo sospetto.
«Niente. Cosa può essere successo?».
Riuscì persino a metterci una punta di ironia, come se mi stesse dicendo, lo sai anche tu che dove vivo io non succede mai niente. Ma non avevo nessuna voglia di ridere. Ero di nuovo il suo medico.
«Hai un'aria che non mi piace. Brutti sogni?».
Qualche giorno prima mi aveva detto che ora i sogni erano meno nitidi, e meno frequenti.
«Mi sveglio presto, e non riesco a riaddormentarmi».
«Non voglio aumentarti la dose. E penso che non lo voglia neanche tu, no? Non credo che ti piacerebbe rimanere intontita tutto il giorno».
«La dose va benissimo, Peter, davvero. D'estate mi sveglio sempre presto. Nessuna novità per l'autorizzazione?».
Sfogliai le carte che avevo sul tavolo. Mi ero accorto che stava cercando di cambiare discorso. «Forse si saprà qualcosa verso la fine della settimana». Sollevai lo sguardo. «Ci tengono sulla corda, vero cara?».
«Be', un po' sì».
«Comunque non preoccuparti. Se ci fosse qualche problema me lo avrebbero detto. Hai voglia di cominciare la tua nuova vita?».
Mi posò la mano sul braccio. «Certo» disse.
Guardai quella donna triste e bellissima e pensai a Max, a Max che ormai era un uomo finito, e sentii l'eco delle sue solenni parole: «perfidia, menzogna». Ma no, era assurdo, non ci volevo neppure pensare.
Non diede mai problemi al personale del turno di notte. Stava ben attenta, perché al minimo incidente le infermiere si sarebbero accorte che non prendeva i farmaci. Il suo corpo sdraiato non la tradì mai. Nessuna infermiera venne mai a svegliarla per una dose supplementare di sonniferi: doveva dare l'impressione di dormire della grossa. Di giorno l'Addolorata, di notte la Dormiente; in quegli ultimi giorni, o come probabilmente anche lei aveva cominciato a considerarli, nei giorni prima del ballo, recitava ininterrottamente; la sua fu una recita totale, senza neanche la possibilità di togliersi la maschera o di slacciarsi il costume per un momento.
Le altre ormai non stavano più nella pelle. Per le pazienti del braccio femminile il ballo era importantissimo. L'agitazione era al culmine. Stella ci scherzava su. Io naturalmente avevo partecipato a più balli di quanti me ne volessi ricordare, e sorridevo al pensiero della tempesta di isteria repressa che spazzava il braccio femminile nei giorni precedenti il grande evento.
«E c'è persino la luna piena» le dissi.
«Un bel guaio» rispose.
«Ma no, il guaio è il mattino dopo. Il calo di tensione è quasi drammatico. Di solito voi signore siete molto depresse, il mattino dopo il ballo».
«Allora dovrò stare in guardia».
«Oh, di te non mi preoccupo. Fra l'altro penso che non ci dovresti venire, se non te la senti. Io ti capirei benissimo».
«Ma figurati se non vengo. Non se ne parla. Sarebbe molto, molto antisociale da parte mia».
«Sarai sotto gli occhi di tutti, e tutti faranno commenti. Lo sai, vero?».
«Sì».
La riaccompagnarono al padiglione passando, come al solito, dalle terrazze, e forse fu in quel momento che Stella capì di essersi fatta tanti problemi per nulla. Ma da quando aveva accettato, per ragioni diplomatiche, di partecipare al ballo, contava quasi le ore. Non era un cambiamento così strano come poteva sembrare; secondo me aveva semplicemente deciso che quanto sarebbe successo quella sera avrebbe segnato, una volta per tutte, il suo destino.
Le pazienti prendevano i loro posti nel salone prima che venissero fatti entrare gli uomini. Nelle ultime ore l'atmosfera nel reparto diventava decisamente febbrile, e l'attesa cresceva fino a un parossismo destinato prima o poi a trasformarsi in delusione. Donne esagitate in varie fasi di vestizione si precipitavano in corridoio alla ricerca di forcine, profumi, trucchi, biancheria intima. Una lite per una spilla da due soldi sarebbe degenerata in rissa senza l'intervento di un'infermiera. Qualche paziente strillava, qualcun'altra piangeva, e le giovani facevano le stupide, chiacchierando fra loro di fidanzati e storie d'amore. Le donne più mature cercavano di mantenersi calme, ma era difficile non farsi contagiare dalla frenesia che montava sempre più con l'avvicinarsi delle sette.
Stella rimase nella sua stanza a prepararsi. Per l'occasione aveva scelto un abito da sera nero che aveva portato con sé dal Galles. Ormai le stava stretto; come costume da Addolorata era un po' troppo peccaminoso, ma del resto un'Addolorata senza peccato non avrebbe avuto senso. Contò di nuovo le sue pillole. Si sentiva più tranquilla. Ce n'erano abbastanza, pensò.
Quando uscì dalla stanza per unirsi al gruppo lasciò tutte senza fiato. Le altre si resero immediatamente conto che era di gran lunga la più bella. Erano fiere di lei, e pregustavano il momento in cui, al loro ingresso nel salone - o meglio, all'ingresso degli uomini - avrebbero brillato di luce riflessa. Uscirono dal reparto abbastanza tranquille, considerata la cacofonia di voci che aveva imperato fino a pochi istanti prima. Ognuna di loro cominciava a sentirsi intimidita dalla solennità dell'evento.
Scortate dalle infermiere attraversarono il cortile fino alla terrazza. Era una serata calda. L'aria era carica di profumi, e la luce appena velata. Le donne si bisbigliavano le ultime raccomandazioni, e in ognuna, a poco a poco, cresceva l'orgoglio di essere lì insieme a tutte le altre, a tutte le altre e a quell'unico fiore di bellezza. E quell'unico fiore era Stella, che camminava maestosa in mezzo a loro nel suo abito nero, un ampio scialle nero a proteggere dal fresco della sera le braccia e le spalle nude. L'Addolorata, fra le sue ancelle, era pronta per la recita d'addio.
Il grande salone era come lo ricordava, con le sedie lungo le pareti, le finestre aperte sulla sera, e l'orchestra che accordava gli strumenti sul palco. Un gruppetto di infermiere stava aspettando le donne, che entrarono dalla terrazza contemporaneamente a me e al cappellano. Rivolsi subito a Stella un inchino, e fu in quel momento che notai cosa indossava. Rimasi senza parole, e non riuscii a toglierle gli occhi di dosso. Come il cappellano, del resto. Poi capii che cosa aveva fatto, e quanto doveva esserle costato, e le feci un cenno di approvazione. Sì, aveva lo stesso vestito, lo stesso vestito di seta nera dalla scollatura vertiginosa che aveva messo quella sera di un anno prima. E l'effetto, stavolta, era sensazionale. La straordinaria bellezza di Stella faceva la sua parte, naturalmente, ma c'era di più: il fatto di aver scelto per il ballo proprio quel vestito era il gesto di sfida di uno spirito che non era stato scalfito dalla vergogna. Mi sentii davvero orgoglioso di lei.
Stella si sedette e guardò il trambusto che la circondava. Gli infermieri andavano avanti e indietro parlottando fra loro, le giovani più irrequiete erano già al tavolo dove si servivano le bibite; i dirigenti dell'ospedale chiacchieravano e ridevano con un'ostentata disinvoltura, da aristocratici quali in un certo senso erano. Che ipocriti! In realtà l'unica cosa a cui pensavano era che solo un anno prima Stella era stata una di loro, e le occhiate in tralice al suo indirizzo non si contavano. Ma con che coraggio si è rimessa quel vestito, dicevano i loro sguardi. I miei no, erano espliciti, esprimevano solo affetto e sollecitudine, e volevo che fosse ben chiaro a tutti. Al mio occhio tranquillo e vigile non sfuggiva nulla, e di fatto Stella venne lasciata in pace. Il decoro e l'ordine in cui si stava svolgendo la serata erano una conseguenza diretta della mia presenza, della mia pacata autorevolezza e del rispetto che tanto il personale quanto i pazienti mi tributavano.
Col passare dei minuti, nell'impassibilità di Stella si insinuò una certa tensione. Poi entrarono gli uomini, e lei sentì l'atmosfera diventare di colpo più elettrica, e vagamente minacciosa. Ora gli aristocratici sembravano meno estenuati, e gli infermieri più attenti. Quanto alle donne, fremevano. E mentre l'orchestra attaccava il primo pezzo, gli uomini si diressero in fila indiana ai loro posti. Non c'erano tutti. Mancava Edgar.
Già, mancava Edgar. Le sue condizioni non gli consentivano di partecipare a un ballo.
Nel corso della serata Stella danzò molto, e benché gli occhi di tutta la sala fossero puntati su di lei non ebbe un attimo di cedimento. Non ballammo insieme; del resto io non ballai con nessuno, ma a ogni giro di pista Stella cercava il mio sguardo, e io capivo che quel suo sorriso fisso e imperscrutabile era diretto a me, che era con me che stava ballando. Il cappellano, tra noi del personale, fu l'unico a invitarla. Non se la cavava male, e fra le sue braccia Stella riuscì a muoversi con leggerezza e con grazia. I brevi sguardi che mi rivolse, gli istanti fuggevoli in cui i nostri occhi si incontrarono, tutto la rassicurò: si stava comportando benissimo, esattamente come avevo sperato. Povero Peter, deve aver pensato.
Verso la fine della serata salii sul palco, presi il microfono e al solito dissi qualche parola affabile e feci un paio di battute. Sono un direttore molto benvoluto, e il mio discorsetto incoraggiante ricevette un'accoglienza calorosa. Stella mi guardava senza ascoltare quello che dicevo. Le bastava sentire la mia presenza, la mia elegante disinvoltura, il mio bonario umorismo. Penso odiasse sinceramente l'idea di farmi soffrire.
Durante l'ultimo ballo rimase seduta, e al momento di rientrare si accodò alle altre. Si incamminarono nel chiaro di luna, attraversando la terrazza per raggiungere il braccio femminile. Le poche ragazze ancora su di giri chiacchieravano; tutte le altre se ne stavano in silenzio, soddisfatte ma esauste. Era stato un bel ballo, forse il più bello da molti anni a questa parte. Qualche sogno d'amore si era infranto, certo, ma in compenso ne erano nati molti altri. Arrivate al padiglione si scambiarono un buona notte più affettuoso del solito, e ognuna rientrò nella sua stanza.
Stella si mise a letto. Appena si spensero le luci piombò il silenzio. Allora Stella si alzò, aprì il rubinetto dell'acqua fredda e la lasciò scorrere. Poi prese qualcosa dall'armadio.
Ero seduto in ufficio, a scrivere. Fuori dalla finestra le terrazze, i giardini e gli acquitrini erano bagnati dal chiaro di luna. Mi fermai e alzai lo sguardo. Qualcosa non mi tornava. Era da quando avevo visto Stella entrare nel salone che ci pensavo. Per tutta la sera avevo combattuto contro una sensazione di inquietudine, che fino a quel momento ero riuscito a tenere a bada. Probabilmente era legata al vestito di Stella. Il vestito che aveva portato la sera in cui Edgar l'aveva presa fra le braccia, la sera in cui le si era strofinato addosso. L'idea di Stella ancora innamorata di lui era un'evidente incongruenza. E allora perché continuavo a pensarci? E se mi fossi sbagliato? Ma certo, certo che mi ero sbagliato: la loro storia non era finita, non era affatto finita. Lei lo amava ancora.
Ero molto spaventato. Rimisi il cappuccio alla penna e afferrai la cornetta. Composi un numero interno e il telefono squillò in un ufficio del braccio femminile. Oh, ero stato cieco! Non era per noi, quel vestito, non era un gesto di orgoglio, di sfida, non era uno schiaffo alla comunità dell'ospedale, era per lui, lo aveva messo per lui, era il suo abito nuziale, era il vestito che indossava la sera in cui si era sposata con lui, e mentre aspettavo che qualcuno rispondesse al telefono capii anche fino a che punto avessi ingannato me stesso: avevo lasciato che i miei sentimenti personali interferissero con l'analisi, e facendolo avevo perduto l'obiettività clinica. Una controtraslazione da manuale.
Dopo che le ebbi parlato brevemente, l'infermiera di turno uscì dall'ufficio senza riagganciare e percorse tutto il corridoio fino alla stanza di Stella. Aprì la porta quel tanto che bastava per vedere il letto e la sua occupante immersa in un sonno profondo, quindi la richiuse e tornò a riferirmi. Dopo averla ringraziata, riattaccai. Non mi rimisi a scrivere. Guardavo fuori dalla finestra senza trovar pace.
Passai velocemente in rassegna gli eventi delle ultime settimane. Ricordai il lampo negli occhi di Stella quando le avevo fatto pensare che Edgar era qui in ospedale. Immaginai come avesse potuto sconvolgerla quell'esile filo di speranza, e mi resi conto che la mia successiva smentita - non è qui, era solo una domanda astratta - non poteva essere bastata. Avevo ridestato un sentimento violentissimo, ecco che cos'avevo fatto, e una semplice parola non lo avrebbe certo spento. Vidi Stella tornare nella sua stanza e soffiare sulla fiammella di speranza che io stesso avevo acceso, per mantenerla viva.
E l'aveva mantenuta viva fino a oggi. Oh, non ci aveva messo molto a capire perché prima le avessi detto la verità, e cioè che Edgar era qui, e poi avessi cercato di rimangiarmela, affermando il contrario, e aveva anche capito che per me il segno della sua guarigione sarebbe stato proprio l'indifferenza alla menzione di Edgar. In quel momento aveva capito di dover fingere che non gliene importava più nulla. Tutto quello che era seguito - la richiesta di un lavoro in lavanderia, quel sedersi da sola sulla panchina, perfino il sogno del bambino che gridava - era stato una messinscena, un diversivo per tenermi alla larga dalla verità. E la verità era che tutto il dolore delle ultime settimane non era affatto il rimorso per la morte di suo figlio, la verità era che Stella era ancora ossessionata da Edgar Stark. Il resto non contava.
Sì, anche il sogno del bambino che gridava era un'invenzione. Come il fidanzamento con me, anche quello era una messinscena, l'estremo azzardo di una donna ancora disperatamente innamorata di un altro, e pronta a tutto pur di nasconderlo…
Mi ritrovai a passeggiare avanti e indietro, la mente abbacinata da questa nuova verità, e dovetti fare uno sforzo per riprendere il controllo e sedermi al tavolo. Ma se Stella era davvero convinta che Edgar fosse in ospedale, pensavo, e si era messa quel vestito per lui, non vedendolo arrivare avrà… E allora capii che cosa mi stava dicendo il mio intuito di psichiatra, e perché mi sentivo così a disagio. Se non poteva avere Edgar, tanto valeva morire. La vita sarebbe stata intollerabile senza di lui. Meglio morire che soffrire così. È una reazione rara, ma a volte insorge. È l'ultimo stadio della malattia.
Pochi minuti dopo attraversavo la terrazza diretto al braccio femminile. Camminavo sempre più in fretta fra i chiostri ombrosi e i cortili inondati di luna dell'ospedale addormentato.
Per tutte le lunghe ore di quella notte lottammo per salvarla, ma Stella aveva vissuto fra gli psichiatri abbastanza a lungo da saper dosare con precisione una dose letale di sedativi. Morì poco prima dell'alba, senza riprendere conoscenza. Quando si rilassò, abbandonando per sempre inganni e rimozioni, la sua faccia cambiò, la sua bellezza divenne ancora più impressionante. Era di nuovo pallida e meravigliosa come quando l'avevo conosciuta. Eravamo tutti distrutti. Ricordai agli altri che chi desidera veramente morire trova sempre il modo, presto o tardi, ma non servì a consolare quanti di noi si erano occupati di lei e avevano imparato, ciascuno a suo modo, a volerle bene. La seppellimmo tre giorni dopo nel cimitero dell'ospedale, subito fuori dal Muro, e il cappellano celebrò il servizio. A parte noi interni non c'era quasi nessuno. Era una giornata calda, di sole, e sudavamo negli abiti scuri.
Gli Straffen mandarono solo un telegramma, perché a quanto pare Jack non stava bene, ma Max venne, e venne anche Brenda. Max era cambiato in modo preoccupante nelle poche settimane trascorse dal nostro ultimo incontro. Sembrava ancora più vecchio, più sottile, più curvo, e la sua pelle era quasi trasparente. Si appoggiava a sua madre. Lei, naturalmente, era forte; nella tragedia Brenda dà il meglio di sé. Dopo la cerimonia li invitai a prendere uno sherry da me. Se a Max facesse effetto trovarsi quel giorno nel mio ufficio, l'ufficio del direttore, non lo diede a vedere. Mi sorprese Brenda, che sfornò una serie di viscide banalità. Speriamo che ora Stella riposi in pace, mormorò. Io annuii e mi voltai dall'altra parte, lievemente disgustato dalla sua volgarità. Era chiaro che Max non le aveva parlato dei nostri progetti di matrimonio.
Non sono andato in pensione come avevo in mente. Mi rimane del lavoro da fare. Edgar è ancora in isolamento; il suo atteggiamento non è migliorato. E ancora ostile e si rifiuta di collaborare, ma cambierà, già sento che sta cedendo; immagino abbia capito che ormai gli resto soltanto io. Non gli ho detto che Stella è morta, perché voglio prima sentire la sua versione dei fatti. Ci sono ancora troppe domande senza risposta. Max, per dirne una, è tuttora convinto che i suoi vestiti non siano stati rubati d'impulso, come raccontava Stella, ma che sia stata invece lei a darli a Edgar; in altre parole, che già allora lei stesse complottando contro di noi, e fosse a conoscenza della sua intenzione di fuggire.
A pensarci bene Edgar verrà a sapere comunque della sua morte, ammesso che non lo sappia già. Questo è un istituto molto grande, e la gente parla. Soffrirà molto, e noi dovremo fare molta attenzione. Come me, come tutti noi era stato folgorato dalla sua bellezza, ma lui era andato più a fondo di noi, l'aveva idealizzata e poi aveva dovuto lottare contro il caos delle sue stesse passioni quando si era ritrovato nell'impossibilità di nutrire l'immagine che aveva creato. Penso fosse quello che inconsciamente aveva cercato di esprimere con la sua ultima opera, benché sostenesse di voler soltanto scardinare certezze, capovolgere abitudini e convenzioni visive. Non riesco a non sentirmi vicino a quelle due povere anime sconvolte, intrappolate qui nelle ultime settimane della loro vita, ciascuna a contorcersi nel suo inferno privato, ciascuna a spasimare per l'altra. So come funzionano le storie d'amore distruttive, e alla fine si arriva sempre a questo, o a qualcosa di molto simile.
Ho ripreso l'abitudine di tornare in ufficio verso sera. La polizia è stata molto comprensiva, e ora tutti i ritratti di Stella fatti nel sottotetto, e anche gli schizzi dell'orto, sono in mano mia. Hanno un tratto curiosamente incerto, e all'occhio risulta qualcosa che ricorda quella che gli italiani chiamano «morbidezza». Ho anche la testa. L'ho fatta cuocere e colare in bronzo nero, e la tengo nel cassetto della scrivania. Edgar ci ha lavorato così ossessivamente, negli ultimi giorni in Horsey Street, e sempre a togliere, che adesso è affusolata e minuscola. È bellissima: sottile, minuscola, angosciata… ma è lei. La tiro fuori spesso, durante il giorno, e resto a contemplarla. E così, vedete, dopotutto ho ancora la mia Stella qui con me.
E naturalmente ho lui.
FINE