II
In quella fase Stella non si rendeva ancora pienamente conto che Edgar Stark soffriva di gravi disturbi mentali. Non aveva passato, come me, ore e ore ad ascoltare i suoi deliri morbosi, e benché avesse appreso dalle sue labbra quello che aveva fatto continuava a giustificarlo, a ritenere quell'omicidio soltanto un delitto passionale, il che naturalmente le consentiva di farsi di lui un'immagine romantica. Appena Edgar lo intuì cambiò subito tattica, ma in un primo momento credo avesse un obiettivo più circoscritto: influenzare, attraverso Stella, Max, portandolo a considerare con un certo favore l'eventualità di un suo rilascio. In questo, Edgar dimostrava tutta la sua ingenuità, perché le cose non funzionano così. Dal mio punto di vista, l'aspetto più interessante era comunque che Edgar si comportava in modo manipolatorio, e che almeno all'inizio aveva cercato di usare la sua notevole sensualità come strumento di controllo: il fatto poi che questo controllo avesse deciso di esercitarlo sulla moglie di un dottore era un segno della debordante megalomania dei suoi piani.
All'inizio del nostro rapporto avevo discusso con lui la strategia psicoterapeutica che intendevo adottare. Gli avevo detto che il mio scopo era smantellare le sue difese: abbattere la facciata, gli atteggiamenti, tutte le false strutture della sua personalità disturbata, per poi ricominciare da zero, ricostruendolo, per così dire, dalle fondamenta. E siccome sarebbe stato un processo lungo ed estenuante, avrebbe avuto bisogno di tutto l'appoggio che potevo dargli. Lavoravamo insieme da quasi quattro anni, ma adesso questa sua relazione clandestina con Stella denotava una certa malafede nei miei confronti. Anziché tentare di analizzare le caratteristiche patologiche dei suoi rapporti con le donne, Edgar stava innescando il processo che già una volta lo aveva condotto all'omicidio, e che era stato la causa del suo arrivo da noi.
Poi successe qualcosa, qualcosa che credo nessuno dei due avesse previsto, se non altro a livello conscio: Edgar e Stella sottovalutarono - come può capitare a chiunque in circostanze analoghe - la violenza dei sentimenti che si scatenarono in lei. In sostanza, non si resero conto che le barriere della cautela e del senso comune minacciavano di crollare, travolgendo il loro fragile equilibrio.
Parlare di sesso con una persona come Stella, che ovviamente trovava sgradevole chiamare le cose col loro nome, non era facile. Eppure, quando mi raccontò com'era cominciata, lo fece senza risparmiare i dettagli. Era successo tutto nel primo pomeriggio di un'altra limpida, luminosa, calda giornata estiva. La luce del sole filtrava dalle finestre delle grandi stanze al pianterreno, facendo brillare il parquet tirato a lucido. Stella gironzolava per casa a piedi nudi, passando da una stanza all'altra senza trovar pace. A un certo punto si fermò davanti allo specchio sopra il camino e squadrò con severità la sua immagine riflessa.
Si diede una sistemata ai capelli, poi salì in camera a cambiarsi; mise un morbido vestito estivo, leggero e scollato; una passata di rossetto davanti allo specchio della toilette e tornò di sotto. Andò alla portafinestra che dava sul prato e guardò fuori; poi si versò da bere. Quella mattina, Edgar le aveva proposto senza tante cerimonie di andare nella serra con lui. Agitatissima, Stella aveva imboccato di corsa il sentiero ed era tornata a casa. Sesso con quell'uomo: espressa a chiare lettere, l'idea che da tanto tempo si agitava nella sua immaginazione aveva una forza devastante.
Uscì di casa dalla porta principale e attraversò il vialetto. Un'apertura nell'alta siepe di fronte dava su quello che un tempo era stato un grande prato, ma ora, da quando nessuno se ne occupava più, era diventato una distesa di erbacce e fiori selvatici. Stella la attraversò, dirigendosi verso l'arco che si apriva nel muro dell'orto vicino alla serra, e quando lo raggiunse si fermò in attesa, con la schiena appoggiata ai mattoni.
Sentiva Edgar lavorare. Sentiva il vetro andare in pezzi nel bidone. Sapeva che lui non ci avrebbe messo molto ad accorgersi della sua presenza sotto l'arco, perché avrebbe visto la sua ombra sul sentiero; ma dubitava di poter resistere a lungo così lì. Da un momento all'altro avrebbe probabilmente trovato ridicolo quello che stava facendo, e sarebbe tornata di corsa a casa.
Silenzio. Poi vide Edgar di fronte a lei. Senza dire una parola, Stella lo trascinò nella serra. Gli prese la testa fra le mani, le guance fra le dita, e lo baciò con foga sulla bocca. Si gettarono sul pavimento, nascosti alla vista dal basso muro di pietra su cui poggiava la struttura. Lei si sistemò rapidamente per terra, mentre lui si inginocchiava sbottonandosi i pantaloni.
Qui usai una certa delicatezza. Non potevo forzare apertamente la sua riluttanza a parlare di quello che accadde poi. Ci saremmo tornati più avanti. Immagino comunque sia stato tutto piuttosto primitivo, un misto di smania famelica e di istinto. Immagino che Edgar l'abbia presa subito, e brutalmente, e che fosse quello che lei voleva; era avida quanto lui, nessuna timidezza ormai, nessuna esitazione. E immagino che sia finito abbastanza in fretta, e che subito dopo Stella, rossa e bollente, sia corsa in casa e sia salita dritta in bagno. Conosco quel bagno. I pezzi originali sono intatti. La grande vasca ha i rubinetti di ottone annerito, e poggia con le quattro zampe leonine sul pavimento di mattonelle stinte. Una felce, rigogliosa nell'aria densa di vapore della grande stanza umida, deborda dal vaso di terracotta vicino alla porta, e subito accanto c'è la grande cesta di vimini per la biancheria.
L'acqua scrosciava dai rubinetti. Stella si spogliò ed entrò nella vasca, sentendo a poco a poco la febbre placarsi. Ci rimase un'ora, con gli occhi chiusi e la mente vuota, anche se non del tutto, perché sotto la superficie si agitava la consapevolezza di ciò che aveva appena fatto. Rivedere quella scena, o anche solo ammettere di averla vissuta, le era intollerabile; ma ci sono forme di esperienza mentale che sfuggono al meccanismo della rimozione, e in quelle oscure regioni della sua psiche Stella non poteva non chiedersi se, avendolo fatto una volta, l'avrebbe fatto di nuovo; e benché in realtà non si ponesse il problema in questi termini (li avrebbe respinti con sdegno se si fossero affacciati alla sua coscienza), sapeva con certezza, la certezza che accompagna ogni pensiero intollerabile, che la risposta era sì.
Qualche ora dopo Stella era seduta nel prato all'ombra del frassino, in una poltrona di vimini bianca, con un bicchiere in mano e il romanzo in grembo, quando sentì Max alla porta. Entrò in casa, traversò l'anticamera e gli aprì; sembrava che avesse qualche problema con le chiavi. In abito scuro, con la cravatta allentata, Max era stanco e accaldato, e soprattutto moriva dalla voglia di bere qualcosa.
«Giornataccia» disse.
Alle sue spalle, in fondo al vialetto, i pini si stagliavano in una massa scura contro il cielo della sera. Stella lo abbracciò con un calore per lei insolito, e mentre lo faceva pensò che per spingere un'adultera fra le braccia del marito non c'è niente di meglio di un bel senso di colpa.
«Ehi» disse Max mentre lei gli si aggrappava come una donna alla deriva, una donna che sta per annegare «Che succede?»
Stella andò davanti allo specchio sopra il camino spento e si aggiustò i capelli, cercando di cogliere sul proprio volto una qualche traccia di peccato.
«Niente. È che oggi mi sei mancato, tutto qui».
«E come mai?»
Si voltò a guardarlo. Nella sua voce c'era una curiosità autentica, e Stella sentì di avere improvvisamente di fronte lo psichiatra, non l'uomo, o meglio vide distintamente l'uomo rientrare nell'ombra, lasciando che lo psichiatra venisse allo scoperto per esaminare quel frammento della sua vita psichica alla ricerca di un significato. Fu allora, in quel momento, che Max diventò il suo nemico. Adesso Stella era certa che se avesse abbassato la guardia lo avrebbe fatto a suo rischio e pericolo. E sentiva di dover usare tutta l'astuzia di cui era capace per celare il suo esplosivo segreto allo sguardo di chi era ormai, da pochissimo, un estraneo: un estraneo con una micidiale capacità di insinuarsi nella mente altrui e interpretarla.
Se non rimarrò costantemente sul chi vive lo scoprirà senza neanche sforzarsi troppo, pensò mentre versava da bere per tutti e due. E lo scoprirà non per una mia banale distrazione, ma leggendomi nel pensiero - leggendomi come un libro, un libro scritto con frammenti di comportamento, sfumature passeggere di espressione, atti mancati di cui io non mi renderò nemmeno conto. Ah, devo stare attenta, d'ora in poi devo stare molto attenta. Questo pensava Stella. Ma per mettere a punto una politica di dissimulazione aveva ancora un po' di tempo, perché Charlie entrò di corsa e, senza aspettare di riprendere fiato, cominciò a raccontare a suo padre di un osso che aveva trovato nell'acquitrino.
«Penso che sia umano» disse.
«Non credo proprio» rispose Max con un sorrisetto.
«Secondo me ci potrebbe essere stato un omicidio» fece Charlie con aria tenebrosa.
Stella si avvicinò alla portafinestra, guardò il sole che calava e si concesse di pensare al suo amante.
Nei tre giorni successivi ci pensò a intermittenza, senza mai scendere nell'orto. Una sera, a cena, Max lo nominò, facendola trasalire.
Era riuscita a nascondere lo shock, lo shock che aveva provato nel sentire quel nome sulla bocca di Max?
Stella pensava di sì. O forse Max si era distratto; gli capitava spesso di avere la testa altrove. In ogni caso, Max disse che per qualche giorno Edgar Stark si sarebbe occupato del giardino del cappellano. Grazie al cielo, si disse Stella, adesso non dovrò immaginarlo sempre qua fuori.
Dopo qualche giorno di ansia terribile cominciò a sentirsi più calma. Pensò fosse il sollievo che si prova dopo uno scampato pericolo. Fu sorpresa di scoprire in sé un affetto nuovo per Max, e si rese conto che gli era grata perché non aveva sospettato nulla, perché senza volere le aveva concesso di seppellire il suo colpevole segreto. E così il primo, violento shock per quella spaventosa trasgressione - fare sesso con un paziente, a neanche cinquanta metri da casa - cominciò ad attenuarsi, e Stella si disse che era stato solo un momento di follia, nient'altro; e che, naturalmente, non si sarebbe più ripetuto. Eppure la preoccupava l'idea che prima o poi Edgar sarebbe ritornato in giardino, e che allora, volendo, avrebbe saputo dove trovarlo.
Adesso che si stavano avvicinando alla fase dell'organizzazione e della struttura, Stella, com'era prevedibile, cominciò a creare nella sua mente una sorta di arabesco, una griglia di pensieri e sentimenti il cui scopo era riportarla da lui. Mi raccontò che un caldo mattino di luglio uscì a bere il suo tè sulla terrazza a nord della casa, guardando da sotto l'elegante cappello di paglia i pazienti che svuotavano nel falò le carriole cariche di legna secca e altri rifiuti sparsi nel campo. Abbandonato da anni, quel terreno ampio, coperto di bassa vegetazione, si appiattiva gradualmente, per poi risalire oltre il recinto fino alla macchia di alberi decidui che, coronando la cima più lontana, segnava il limite della foresta.
Il progetto di Max era farlo ripulire per mettere un manto nuovo. Aveva in mente di seminarlo a pascolo, un'idea che turbava Stella perché lasciava supporre che sarebbero rimasti in quella casa più a lungo di quanto lui le aveva fatto credere. Le sembrava che in realtà la vera ambizione di Max fosse addomesticare e coltivare sia l'ospedale che la tenuta, fino a farne i suoi giardini gemelli.
I pazienti continuavano a lavorare sodo. La legna stagionata prendeva subito, e bruciava nel sole sollevando spruzzi di scintille bianche e oro. Stella vide gli uomini gettare nel fuoco mucchi di erba secca, e fare un passo indietro quando cominciarono a sprigionarsi nubi di fumo nero. Adesso erano tutti a qualche metro dal falò, e lo tenevano d'occhio appoggiati ai forconi. Uno di loro si voltò, e riparandosi gli occhi dal sole guardò in alto, verso la cima del pendio, dove Stella era in piedi col suo cappello di paglia e la tazza di tè. Lei gli restituì lo sguardo.
In quell'occasione, Stella era rimasta sconcertata dal proprio comportamento, e mi domandò cosa potesse significare. Non aveva fatto nemmeno un gesto, era solo rimasta ferma a guardare quell'uomo. Lui aveva afferrato le maniglie della carriola e l'aveva spinta su per il pendio, senza andare direttamente verso di lei, ma prendendo invece il sentiero che arrivava alla porta del recinto. Aveva i bragoni di fustagno delle squadre di lavoro e la casacca azzurra dell'ospedale, coi polsini slacciati. Si fermò per togliersi un ciuffo di capelli dalla fronte e si asciugò il sudore con un fazzoletto bianco e rosso che le era certamente familiare, perché Edgar ne aveva uno identico. Stella non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, e lui lo sapeva. Cominciò a sventolarsi piano piano col cappello; poi, irritata, si girò e rientrò in casa.
Non le dissi che, in funzione del suo rapporto con Edgar, aveva cominciato non solo a identificarsi con i pazienti, ma a erotizzarli. Aveva erotizzato il corpo del paziente.
Edgar lavorò per tutta la settimana nel giardino del cappellano, e tornò alla serra il lunedì successivo. Stella sapeva che era lì, lo sentiva lavorare, e sapeva cosa doveva fare. Aspettò che Max andasse in ospedale e che Charlie uscisse a fare un giro in bicicletta. Aveva deciso di trattarlo con freddezza quando lo avesse rincontrato, per fargli capire che considerava quanto era successo un errore di cui non avrebbero dovuto parlare mai più, e che naturalmente non si sarebbe ripetuto. D'ora in poi avrebbero mantenuto un contegno consono alle loro rispettive posizioni. Anche Edgar sarebbe stato d'accordo, ne era certa. Attraversò il cortile ed entrò nell'orto. Edgar era lì, e vedendolo Stella sentì il suo cuore cantare.
Con Stella c'era sempre di mezzo il cuore, il linguaggio del cuore.
Edgar era in piedi davanti al vecchio tavolo da vasaio che usava per i lavori di falegnameria, e le dava la schiena; e anche se doveva averla sentita sul sentiero non si mosse finché non fu vicinissima. Poi si girò di colpo. Ora erano in piedi l'uno di fronte all'altra. Stella tremava. Lui le sfiorò la guancia, sorridendo della sua agitazione.
«Grazie al cielo».
Stella si appoggiò al muro, che le trasmise il suo tepore attraverso la camicetta. Resistere alla tentazione era impossibile, tutto qui. Era perduta. Edgar appoggiò le sue grandi mani sul muro, ai lati della testa, e si piegò in avanti, la faccia vicinissima alla sua. Stella lo guardò freddamente negli occhi, ma i suoi pensieri erano tutt'altro che freddi. Gli afferrò la casacca, aggrappandosi con tutte le sue forze.
«Mi hai pensato?»
Lui annuì. Stella lo attirò a sé, e mentre si baciavano sentì la mano di Edgar posarsi prima sul seno, poi sui fianchi, poi scendere ancora.
«Non qui» sussurrò.
Lui fece un passo indietro, e Stella si allontanò dal muro. Arrivata sotto l'arco si voltò: in piedi davanti alla serra, Edgar si stava pulendo le dita su uno straccio, senza toglierle gli occhi di dosso. Stella attraversò il campo fino alla macchia di pini. Non c'era nessuno. Si inoltrò fra gli alberi e andò a stendersi tra le felci. Poi sollevò una mano per ripararsi gli occhi dal sole che filtrava tra i rami.
Lo stava aspettando con la camicetta sbottonata, quando sentì le voci. Si mise a sedere. Non riusciva a distinguere le parole, ma erano voci maschili, e venivano dal campo. Trattenne il respiro. Aveva capito cos'era successo: Edgar aveva incontrato John Archer, e i due si erano fermati a parlare mentre lei era nascosta lì, sotto gli alberi, a venti metri da loro. Qualche attimo dopo Stella si trovò a lottare contro un impulso bizzarro: le scappava da ridere. Voleva urlare tutta la gioia sfrenata che le dava quella situazione così indecente ma anche, in tutta franchezza, così comica, perché non riusciva a non pensare come l'avrebbe presa Max, cosa avrebbe detto vedendo sua moglie nascosta nel bosco, mezza nuda, privata dei suoi pochi, furtivi momenti di piacere solo perché un infermiere aveva casualmente intercettato Edgar Stark, impedendogli di raggiungerla.
Poco dopo le voci scemarono. Stella sgattaiolò fuori dal bosco e raggiunse il vialetto che la riportò a casa. Salì subito al piano di sopra a farsi un bagno, e quando scese in salotto per bere qualcosa era ancora un po' stordita. Si sedette in poltrona con un libro, il bicchiere in mano, e si accese una delle sue rare sigarette.
Ancora una volta la sua reazione l'aveva stupita. Perché mai le era venuto da ridere? Cosa significava? Sapeva benissimo cosa sarebbe successo se fosse stata scoperta, e ridere era come dire che non gliene importava nulla. Questa era la sua interpretazione. La mia era che invece c'entrasse, in qualche modo, la rabbia.
Quale rabbia?
La rabbia verso Max. Le dissi di non avere molti dubbi sul fatto che il suo comportamento fosse legato al desiderio di ferire Max.
Scosse la testa. Non credo, Peter, disse. Ma io sospettavo in lei un consistente fondo di rancore, anche se, dato che non era ancora pronta a parlarne, evitai di insistere. Ci saremmo arrivati.
La fase successiva sarebbe stata l'organizzazione. Fissare tempi e luoghi, dar loro una struttura. A complicare il tutto, naturalmente, c'era il fatto che Edgar godesse di una libertà di movimento così limitata, ma all'interno di quei limiti i due riuscirono comunque a trovare tempi e luoghi, ci si riesce sempre; e insomma sì, si organizzarono.
Il giorno dopo l'interferenza di John Archer si incontrarono alla serra, e Stella disse a Edgar che dovevano inventarsi qualcosa.
Lui era al banco da lavoro. Rimase in silenzio a lungo.
«Allora vuoi che continuiamo a vederci?» disse alla fine.
Stella era seduta sulla panchina all'ombra del muro, con il cappello di paglia e gli occhiali da sole. Sollevò la testa e annuì. Lui sembrò barcollare impercettibilmente e tornò al lavoro. «Archer» mormorò.
Stella gettò qualche fiore nel cestino che aveva con sé, poi si alzò in piedi e riprese il sentiero verso casa, lungo il quale, annunciato dallo scricchiolio della ghiaia sotto gli stivali, veniva avanti John Archer. Stella si sforzò di comportarsi con naturalezza.
«Buon giorno, Mr Archer. Complimenti per i pomodori. Belli e dolci».
Archer annuì con aria affabile e disse qualcosa sulle insalate estive. Stella si domandò che cosa, in quel suo sguardo fermo, la mettesse in allarme. Forse niente. Forse solo il suo senso di colpa, a parte il fatto che Archer aveva l'abitudine di aspettare che parlasse l'altro, creando un silenzio che andava riempito; e Stella si sentiva a disagio con gli uomini che si comportavano così.
In questo caso, comunque, il suo disagio era giustificato. John Archer mi riferiva tutto. Aveva un occhio molto acuto e una mente subdola, subdola quasi quanto quella di Edgar; mi aveva messo al corrente fin da subito di quella loro amicizia sempre più stretta. Forse sbagliai, ma avevo deciso di non intervenire. Ero curioso. Edgar non vedeva una donna da cinque anni.
Il nostro campo da cricket è un'ampia distesa di terreno piatto fiancheggiata dai pini e chiusa su un lato dalla strada interna, nel tratto che costeggia il giardino dei Raphael risalendo verso il Cancello. Oltre gli alberi, dalla parte dell'ospedale, c'è un'altra strada secondaria che scende passando vicino al Muro e gira intorno alla casa del cappellano prima di attraversare gli acquitrini. Subito sopra questa strada, in una posizione che domina il campo da cricket sorge, all'ombra dei pini, il capanno. È una graziosa costruzione in legno, un po' vecchiotta, con il tetto di assi e un galletto segnatempo. Sul davanti c'è la veranda ombreggiata dove ci sediamo a guardare le partite, e dentro uno stanzone fresco e tetro con un bar.
Quell'estate c'era sempre una squadra di pazienti al lavoro nel giardino del cappellano, il quale, come Max, si era imbarcato in una serie di progetti che comprendevano la costruzione di una serra. Edgar era il miglior carpentiere che avessimo nelle squadre di lavoro esterno, e quindi c'era spesso bisogno di lui. Poteva andare da un giardino all'altro senza scorta, e per scendere la collina prendeva un sentiero che passava vicino al capanno, di cui Stella, in quanto membro del comitato del cricket, aveva le chiavi.
Ecco, adesso era tutto organizzato. Si sarebbero visti là.
Nei momenti di lucidità, Stella analizzava freddamente quello che stava facendo. Una sera, mi raccontò, era uscita per fare quattro passi al chiaro di luna. Era arrivata allo stagno dei pesci rossi, si era seduta sul bordo a guardare le forme grasse, vaghe e argentate scivolare tra i gigli nell'acqua nera, e aveva pensato con un sorriso alle bisce di Charlie. Aveva guardato la luce che dalle portefinestre del soggiorno si riversava sul prato, e più sopra, nel buio, le finestre aperte della camera di Charlie, con le tende che fluttuavano leggere nella brezza, e all'improvviso l'idea della sua vita familiare le era sembrata commovente. Era una vita protetta, e il suo comfort, il suo senso e il suo ordine erano strettamente connessi a Charlie e al suo benessere. Quindi non riuscì a non pensare all'avventura che si stava concedendo, e d'improvviso si rese conto con assoluta chiarezza che se vi si fosse abbandonata avrebbe messo a rischio proprio quell'ordine. Per la prima volta sentì un brivido di paura.
Fu una sensazione che non l'abbandonò per giorni, bloccando ogni ulteriore sviluppo. Ma Stella non riusciva comunque a trovar pace. Un mattino imboccò il vialetto, attraversò la strada e si diresse verso il campo da cricket. Era l'ennesima giornata calda e luminosa di quell'estate, e in mezzo al campo, in pieno sole, due pazienti coi bianchi cappelli flosci e la casacca arrotolata intorno al petto spingevano sudando avanti e indietro il grande rullo. Passando non vista, o almeno sperava, sotto i pini, Stella fece il giro del campo e arrivò al capanno. Sul retro c'era una rimessa vuota dove veniva tenuto il rullo. Dentro, nel buio, si sentiva odore di erba tagliata e di terra. Alla fine Stella trovò proprio quello che cercava, una finestrella raggiungibile dal tetto della rimessa.
Tornò sul davanti e salì i gradini di legno che portavano alla veranda. I pazienti al lavoro erano due macchie indistinte nel sole, e non c'era traccia di infermieri. Stella si girò verso la porta del capanno e la aprì.
Dentro c'erano alcune sdraio appoggiate contro il muro. Un unico raggio di sole penetrava il buio, illuminando un pezzo di parquet sul quale, negli anni, le scarpe da cricket dei giocatori che uscivano dallo spogliatoio avevano impresso centinaia di cerchietti. Nello sgabuzzino Stella trovò coperte e cuscini, che sistemò sul pavimento. E mentre contemplava quel letto di fortuna si era resa improvvisamente conto, con stupore, di ciò che stava facendo: stava progettando di portare lì un uomo per fare sesso con lui. E non un uomo qualsiasi; un paziente. Il tuo paziente, Peter. Scappò via, chiudendo a chiave e tornò a casa, dove trovò Mrs Bain che trafficava in cucina.
Quel giorno, e l'indomani, non si avvicinò neppure all'orto, benché sentisse benissimo Edgar martellare e segare. Alla fine una reazione aveva preso il sopravvento sulle altre. Era una specie di torpido raccapriccio, e secondo Stella si era manifestato per la prima volta la notte che si era seduta sul bordo dello stagno e aveva percepito il calore e la sicurezza che la casa pareva offrirle. Ma come tutte le reazioni nascoste nel profondo della psiche si manifestò con estrema lentezza, tanto che quando affiorò alla coscienza era diventata troppo ingombrante e venne vissuta, più che come apprensione, come orrore: orrore al pensiero stesso di mettere a repentaglio non solo la propria sicurezza, ma anche quella di Charlie. E insidiare la felicità del ragazzo le sembrava davvero un atto crudele e irresponsabile.
Com'è tranquillo, a volte, ricorda di aver pensato vedendolo tornare a casa quel pomeriggio. Aveva voglia di stargli vicino, e mi disse che guardandolo si era sentita in colpa per quello che aveva immaginato la mattina nel padiglione, come se fosse stata infedele a lui. Ma scusa, provai a dirle, in cosa credi che consista il tradimento? Nell'andare a letto con qualcuno, o nella possibilità di distruggere, andandoci, la felicità di qualcun altro? Non è mai il fatto nudo e crudo, sono le conseguenze che avrebbe se si venisse a sapere: l'atto in sé è insignificante. In linea di principio Stella era d'accordo con me, ma nulla di tutto ciò aveva più importanza; adesso l'unica cosa che importava era garantirsi la segretezza più assoluta. E proprio a questo stava pensando seduta sotto il frassino. Charlie, al sole, si era messo a pancia in giù sull'erba, e appoggiato sui gomiti, con i capelli che gli ricadevano sugli occhi, fissava serissimo il suo libro: poi, come se fosse riuscito a sentire i pensieri di Stella, alzò improvvisamente lo sguardo.
«Mami».
«Sì, amore».
Qui Charlie si produsse in una straordinaria contorsione fisica, come se stesse pensando con tutto il corpo un pensiero particolarmente complicato. Si rotolò a metà su un fianco e guardò il cielo, un braccio paffuto dietro il collo, una mano serrata sul mento, l'altra sollevata, con le dita aperte contro il sole.
«Ho inventato una battuta».
«Dimmi…».
«Chiedimi perché quel giorno sono caduto dal melo».
«Perché quel giorno sei caduto dal melo?».
«Perché ero maturo».
«Molto divertente».
Non poteva stare lontana da Edgar. Ce la metteva tutta, va detto, e per un attimo, se si fermava a soppesare le possibili ripercussioni di quello che stava facendo, provava un cupo sgomento. Ma era una reazione passeggera. Sentendolo così vicino Stella non riusciva a controllare la continua, instancabile frenesia della propria immaginazione. Il mattino successivo, dopo che Max era andato in ospedale, si spinse di nuovo fino all'arco nel muro dell'orto.
E lo sentì tornare, quello stato di grazia cui riusciva a pensare solo come a un'intossicazione. Edgar era dalla parte opposta, vicino alla serra, dove aveva appoggiato su due cavalietti vicino al tavolo da lavoro un pezzo di legno che stava segando con colpi rapidi, e apparentemente senza sforzo. Quando Stella arrivò a metà sentiero la sentì, si voltò e rimase a guardarla mentre si avvicinava.
«Continua pure a lavorare» disse Stella con calma, avvicinandosi. «Non ti fermare per me».
Ma Edgar non continuò a lavorare. Tirò fuori la scatola del tabacco dalla tasca dei pantaloni, si sedette sulla panchina vicino al muro e si arrotolò una sigaretta. Stella andò a sederglisi vicino.
«Sono stata al capanno» disse.
«Lo so». Aveva un tono sardonico.
«Come fai a saperlo?».
«Uno degli uomini ti ha visto».
Questo avrebbe dovuto allarmare Stella. Ma non la allarmò.
«Puoi venirci oggi pomeriggio?» gli chiese.
Lui si fermò un momento, accennando un sorriso mentre leccava il bordo della cartina. Si stava godendo l'impazienza che aveva suscitato in quella donna pallida e appassionata. Lei se ne accorse, e gli fece una carezza.
«Puoi?» mormorò.
«Sì».
Stella cercava di nascondergli la sua eccitazione, più forte a ogni parola che si scambiavano. Adesso sentiva il fustagno dei pantaloni di Edgar contro le gambe nude. Era stupido correre rischi nell'orto, ma lo baciò lo stesso.
Quel pomeriggio si incontrarono nel capanno del cricket. Eliminarono rapidamente l'impaccio della polvere e della scomodità, fabbricando coi cuscini e le coperte una specie di letto. Poi si spogliarono a vicenda e si buttarono per terra. Sul sesso Stella tendeva a non dilungarsi. Diceva soltanto che era naturale e intenso, per tutti e due, e che lei non aveva mai provato nulla di simile, nulla di simile alla vigorosa lotta cui i loro corpi si abbandonavano con tanta immediatezza e tanta forza. Dopo, Edgar aveva preso del whisky da una bottiglia dietro il bancone, riempiendo la fiaschetta piatta di metallo che portava in tasca. Stella si era un po' agitata, perché le era sembrato un rischio inutile.
«E se se ne accorgono?».
Edgar attraversò la stanza e andò a inginocchiarsi sul loro letto improvvisato, dove Stella era seduta, languida, calda e scompigliata. Poi le prese il viso tra le mani e la baciò.
Stella lo vedeva come una specie di adorabile canaglia. Non riusciva a contraddirlo. Non era capace di contrastarlo in nessun modo, non era possibile, perché ormai si era arresa, spingendo così a fondo l'identificazione da sentirsi incompleta senza di lui. Capiva cosa stava succedendo, si stava innamorando, e non voleva fermarsi. Non poteva, mi disse. Per questo non si oppose al suo furto, perché aveva assunto lo stesso atteggiamento di sprezzo del pericolo di Edgar e lo aveva razionalizzato. Qualche giorno dopo, quando lui le chiese dei soldi, gli diede tutto quello che aveva nel borsellino.
Aveva perso il controllo. Non si controlla un innamoramento, mi disse, non è possibile. E la divertiva che fosse potuto accadere in questo modo, con quest'uomo. Un paziente. Un paziente che lavorava nell'orto. Stella, le dissi, non potevi fare una scelta più scriteriata. La verità, mi rispose, è che non ho scelto affatto.
A casa cercava di funzionare nel modo più normale possibile, ma era come se fosse da un'altra parte. A poco a poco, le sue giornate cominciarono a concentrarsi sul momento in cui, sempre più eccitata, aspettava al buio nel capanno del cricket di sentire gli scarponi di Edgar che si arrampicava sul muro, e da lì sul tetto della rimessa, per poi infilarsi nella finestrella e saltare sul pavimento. Poi veniva verso di lei con un sorrisetto, verso di lei che lo aspettava, pronta per lui, sulle coperte, e le si gettava addosso, e lei si perdeva completamente mentre lo cercava, mentre sentiva le sue mani forti sul suo corpo. Oh, sì, lo amava.
Chissà.