III

Ormai mi è chiaro che la visita, quell'estate, di Brenda Raphael, la madre di Max, contribuì stranamente a far precipitare la situazione. Brenda arrivò alla residenza del vicedirettore un venerdì pomeriggio di inizio agosto, cinque o sei settimane dopo il ballo. C'ero anch'io. Avevo finito prima del solito, in ospedale, e tornando a casa ero passato a trovare Stella. John Archer mi aveva appena riferito della sua amicizia sempre più intima con Edgar Stark, e naturalmente volevo parlarle. Ma non era stato possibile, perché Stella mi aveva subito detto che sua suocera sarebbe arrivata da un momento all'altro.

«Mi sono offerta di andarla a prendere alla stazione,» mi raccontò facendomi accomodare in soggiorno «ma no, ci mancherebbe, non ha assolutamente voluto che mi disturbassi. Lo ha detto come se fossi, non so, una specie di invalida, che a ogni spostamento rischia di lasciarci le penne».

Bevemmo qualcosa in giardino, ma Stella era distante, turbata. Lì per lì non collegai il suo umore all'eco attutita dei vetri infranti e delle martellate che arrivava fino a noi, nell'aria immobile, dalla parte dell'orto. Cinque minuti dopo sentimmo una macchina sul vialetto. Andammo nell'anticamera per aprire la porta proprio nel momento in cui il tassista depositava a terra la prima delle molte valigie di Brenda, e la loro proprietaria scendeva dalla portiera posteriore. Brenda era una donna sofisticata e dispotica, oltre che ricca. Ero venuto casualmente a sapere che aiutava Max e Stella a mantenere anche qui un certo tenore di vita, e in particolare che la loro macchina - una Jaguar bianca, nientemeno - era stata il suo regalo per la nomina di Max a vicedirettore. Brenda mi telefonava spesso, un po' perché io e lei ci capivamo e un po' perché contava su di me per avere notizie fresche di suo figlio.

Con regale noncuranza Brenda pagò il tassista facendogli cenno di tenere il resto. «Peter,» disse «che gioia. Stella, cara, ti vedo proprio bene». Si scambiarono un bacio, e Brenda entrò in casa. Era vestita alla moda, e sapevo che Stella le invidiava la sua vita a Londra e l'aura chic che, come sempre, Brenda emanava.

«Se non vuoi salire subito in camera potremmo andare a bere qualcosa in giardino» disse Stella.

«Oh, magnifico, magnifico. Senti Peter, non sognarti di scappare solo perché sono arrivata io. Dov'è Charlie?».

«Giù agli acquitrini, credo» rispose Stella «oppure nella serra».

Brenda inarcò un sopracciglio sottile e meticolosamente depilato. «Poteva anche venire a salutare sua nonna; è proprio figlio vostro. Max non era certo molto diverso. A proposito, come sta Max?».

E si lasciò cadere in una poltrona, accavallò le gambe eleganti e prese le sigarette dalla borsa.

«Molto occupato» disse Stella «Contento, mi pare. Si trova bene, qui».

«Lo temevo. Difficile che Max faccia il passo più lungo della gamba, ve ne sarete accorti anche da soli. E la prospettiva di un lavoro sicuro come questo dev'essergli sembrata a dir poco attraente».

«Immagino che il posto di direttore non gli spiacerebbe affatto. Non credi anche tu, Peter?» disse Stella.

Io ero di spalle, perché stavo preparando da bere. Trovai quell'insinuazione piuttosto sgradevole e mi irrigidii leggermente, mormorando una vaga protesta. Poi mi voltai per porgere i bicchieri alle signore.

«Tu non vorrai rimanere qui, spero» disse Brenda a Stella. Era un'altra conferma di come funzionavano i loro rapporti; Brenda non era una di quelle donne che piacciono alle donne, ma nel corso degli anni lei e Stella erano giunte a una sorta di tacito compromesso, e ora apparentemente erano alleate, almeno su un punto: nessuna delle due voleva vedere Max seppellito in questo istituto di provincia.

Passai il gin tonic a Stella, che mi lanciò un sorriso di intesa. «Oh, per un paio d'anni posso anche reggere, ma temo che Max abbia in mente qualcosa di più. Andiamo in giardino?

«È questa fìssa del giardino che mi preoccupa» continuò dopo averci fatto sedere nelle poltrone di vimini sotto il frassino. Per la seconda volta in pochi minuti mi resi conto di quanto fosse turbata. Davanti a noi c'era il prato, con lo stagno dei pesci rossi che luccicava nel sole.

«Per sistemare bene un giardino ci vogliono anni, e Max ci sta lavorando come se dovesse passarci il resto dei suoi giorni».

«Preoccupante». Brenda mi gettò un'occhiata, ma io mantenevo un atteggiamento ostentatamente neutrale.

«Adesso sta facendo rimettere a posto la vecchia serra».

Era la seconda volta che la nominava.

«Spero che ti sbagli. Ma dimmi, cara, tu come stai? A vederti, sei proprio un fiore».

Guardai Stella. Un fiore. Non so perché, ma in quella parola ravvisai subito una sfumatura erotica. Fu allora che mi accorsi che quello che stava succedendo a Stella c'entrava col sesso. La scrutai attentamente.

«Sto passando un'estate pigra» disse in tono salottiero. «Non ho un granché da fare, in realtà. Certo, la casa è grandissima, ma al mattino viene Mrs Bain, e in genere lascio che pensi a tutto lei». Scacciò una vespa che ronzava intorno al suo bicchiere.

Brenda cominciò a raccontare della sua vita mondana a Londra, e la litania di colazioni, cocktail e cene eleganti era accompagnata dalla solita lamentela di circostanza su come non si facesse che ricevere inviti, e su quanto ci si stancasse, e su quanto poco la gente capisse che il tempo era prezioso. Mentre Stella ascoltava, mormorando che una frenetica vita mondana londinese era la cosa più vicina al paradiso che riuscisse a immaginare, mi domandai oziosamente con chi potesse andare a letto; ma non mi veniva in mente nessun candidato plausibile, almeno qui.

«Dovreste farvi vedere più spesso in città» le stava dicendo Brenda. «Tutti ci chiedono vostre notizie. Potreste dormire da me. Magari ce ne andiamo a teatro, e poi a cena».

«Verremo presto».

Parlarono un po' di Charlie, e alla fine Brenda andò a darsi una rinfrescata prima che Max tornasse dall'ospedale.

Mi alzai anch'io, quasi subito, ma Stella approfittò di quei brevi attimi per dirmi in un sussurro concitato che i prossimi giorni sarebbero stati tutti così, un autentico tormento, e che non sapeva come avrebbe fatto a non impazzire. Le espressi tutta la mia solidarietà, riuscendo persino a strapparle un sorriso. Poi ci avviammo verso l'imbocco del vialetto, dove avevo lasciato la macchina, e Stella mi prese sottobraccio. «Peter» disse.

Aveva un tono assorto, quasi sognante. «Sì, mia cara?».

«Fra quanto uscirà Edgar Stark?».

Non era una domanda così insolita, eppure mi fece sobbalzare. Le risposi che, se fosse dipeso da me, ne avrebbe avuto per un bel pezzo. «Perché vuoi saperlo?» le chiesi quando arrivammo alla macchina.

«Così. Sta lavorando alla serra di Max. Ci vediamo martedì sera?».

«Certo» risposi baciandole la guancia.

Il mio Edgar?

 

Alla sera il personale se ne va, e l'atmosfera di questo posto cambia. Sembra un po' un paese di mare quando la stagione è finita e i turisti tornano a casa. A me piace quell'ora, tanto che negli anni ho preso l'abitudine di tornare in studio, nel silenzio del crepuscolo, per riflettere con calma sui fatti della giornata.

«Di nuovo qui, dottor Cleave» mi dice ogni volta l'infermiere al Cancello quando ritiro le chiavi.

«Di nuovo qui» gli rispondo. Con il personale di custodia ostento, da sempre, una sorta di distaccata cordialità. A loro piace. Se c'è una cosa che non gli manca, è il senso della gerarchia, e poi mi conoscono bene: sono qui da molto più tempo di chiunque di loro.

Il mio studio ha una bella vista sulla campagna, che dà il meglio di sé nelle sere d'estate, quando, al di là del Muro, gli ultimi raggi di luce proiettano sugli acquitrini un bagliore soffice e caliginoso, mentre a occidente il sole al tramonto tinge il cielo di tutte le sfumature del rosso. Un giorno, qualche mese dopo l'arrivo di Edgar in ospedale, ero tornato in studio proprio a quell'ora. Mi ero versato da bere - tengo una piccola riserva sottochiave nella mia scrivania - ed ero rimasto qualche minuto a guardare fuori dalla finestra. Me lo ricordo così bene perché era stato quello stesso giorno, in una seduta di poche ore prima, che Edgar mi aveva lasciato intravedere per la prima volta tutta l'enormità dei suoi deliri, rinunciando a fingere che l'omicidio fosse stato, come in un primo tempo aveva sostenuto, un raptus.

Ero andato da lui quel pomeriggio, nella sala comune del Reparto 3. È un locale grande e soleggiato, col pavimento lucido e un tavolo da biliardo al centro. Ci sono poltrone e divani ricoperti in finta pelle verde scuro, e un grande tavolo a un'estremità dove i pazienti possono giocare a carte o leggere il giornale. Dalla parte opposta era appena stato messo un televisore. Edgar stava giocando a biliardo. Era curvo sulla stecca, in posizione, quando qualcuno gli disse sottovoce che c'era il dottor Cleave. Edgar tirò il colpo come se non avesse sentito.

«Ah sì?» disse poi, raddrizzandosi. Quindi si voltò verso la porta con un sorrisetto.

Io dissi: «Vieni».

Ho una registrazione integrale del nostro colloquio, che si svolse in parlatorio e durò quasi un'ora. La prima cosa che Edgar mi raccontò fu che era stato promosso: lo avevano trasferito al piano terra del Reparto 3. Era evidente che senza il mio consenso non sarebbe mai potuto accadere, eppure in questo Edgar era come un bambino, aveva bisogno non solo di prendersi tutto il merito, ma di sentirsi dire da me quanto era stato bravo. Che il paziente proietti sullo psichiatra i sentimenti di un figlio verso il padre è un fenomeno abbastanza comune, e a volte, come nel caso di Edgar, questo tipo di traslazione può essere utile per riportare alla luce materiale rimosso.

Appena ci sedemmo accesi il registratore. Fino a quel momento avevo una conoscenza tutto sommato superficiale della personalità che mi trovavo di fronte. Certo, Edgar mi aveva accennato ad alcuni dei motivi che lo avevano portato a uccidere sua moglie, ma le sue spiegazioni suonavano a dir poco inverosimili. In molti casi - e questo non faceva in alcun modo eccezione - le costruzioni deliranti si reggono su un'evanescente parvenza di logica. Spinto da morbosi processi inconsci a immaginare che sua moglie lo tradisse con un altro uomo, Edgar si era convinto, primo, che i due usassero un codice per prendere accordi, e secondo, che i loro misfatti lasciassero tracce. Quindi era passato a fabbricare prove sia dei codici che delle tracce, sfruttando episodi banali, come il fatto che Rutti avesse aperto la finestra nel preciso istante in cui in strada passava una motocicletta, o dettagli insignificanti, tipo una grinza sul cuscino o una macchia su una gonna.

Come all'inizio di ogni colloquio, gli chiesi se continuava a pensare che sua moglie lo avesse tradito.

«Certo».

Sembrava sicurissimo di quello che diceva. Si stava arrotolando una sigaretta, gli occhi fissi sulle dita. Annuì più volte.

«E per quanto è andata avanti?».

Sollevò lo sguardo, e gettò un'occhiata fuori dalla finestra per raccogliere le idee. Leccando il bordo della cartina corrugò leggermente la fronte. Sembrava del tutto ragionevole e padrone di sé. Vidi che stava decidendo di non nascondermi più nulla.

«Otto o nove anni».

Adesso spero che capirai, diceva la sua faccia.

«Edgar, tu sei stato sposato per otto o nove anni».

Annuì, con una tristezza del tutto credibile.

«Quando hai cominciato ad avere dei sospetti?».

«L'ho saputo fin dall'inizio».

«Mi stai dicendo che per tutto il tempo che sei stato sposato sapevi che tua moglie ti era infedele?».

«Sì».

«Con lo stesso uomo?».

«No. Ce ne sono stati altri».

«Quanti?».

Il suo volto si animò all'improvviso. Masticava amaro, ma con un certo gusto, era evidente.

«Quanti? Centinaia. Ho perso il conto».

«E non hai fatto nulla per impedirlo?».

«L'ho supplicata. L'ho minacciata. Non penso fosse colpa sua. Non era responsabile delle sue azioni».

Cominciò a passarsi le dita fra i capelli.

«E non è servito?».

«Mi ha riso in faccia».

«Capisco».

Rimasi qualche istante in silenzio. I rapporti che avevo letto dicevano che il matrimonio era stato relativamente stabile fino a un anno prima dell'omicidio, ma poteva darsi che fossero inesatti. Forse Ruth Stark aveva avuto davvero tanti amanti. Forse Edgar aveva cominciato a tormentarla con le sue accuse fin dall'inizio.

«Qualcuno sapeva che le cose fra di voi non andavano bene?».

Annuì. Ora l'espressione era quella di chi è costretto a fare un'ammissione difficile e dolorosa, non tanto per sé, ma per l'altro.

«Chi lo sapeva?».

«Parecchia gente».

«Chi? Gli amici? La famiglia?».

Annuì di nuovo. Ormai ero sicuro che tutto quello che stavo ascoltando facesse parte della sua costruzione delirante.

«E così Ruth andava a letto con un'infinità di uomini fin dall'inizio del matrimonio. Tu lo sapevi, gliene parlavi, ma lei faceva finta di niente».

Nei suoi occhi brillò una sorta di attonita incredulità.

«Rideva di me!».

«Rideva di te. E anche altri sapevano cosa stava succedendo».

«Non c'era bisogno che glielo dicessi io. Se ne accorgevano da soli».

«E a lei non importava».

«Cosa c'entra, quello era il suo lavoro. Ruth faceva la puttana».

Questo non lo aveva mai detto. «Continua».

«Se li portava in studio quando ero fuori. Li vedevo aspettare in strada, gironzolare finché non mi toglievo dai piedi. Poteva farsene dieci o dodici al giorno. Era più forte di lei».

Qui si interruppe. Adesso mi guardava con l'aria disperatamente patetica di chi ti sta supplicando di credergli. Mi sentii quasi costretto ad alzarmi, fare il giro del tavolo e posargli una mano sulla spalla.

«E tu lo sapevi» gli dissi con calma. «Per tutti quegli anni, tu lo hai sempre saputo».

Era l'ultima cosa che ci eravamo detti. Seduto alla mia scrivania, rimasi ad ascoltare il fruscio del nastro che finiva di riavvolgersi fino a quando scattò. Poi mi alzai, e andai alla finestra a guardare la sera che avanzava in silenzio sugli acquitrini. Gelosia morbosa. Il delirio dell'infedeltà. Freud lo considerava una forma di omosessualità latente, la proiezione sul partner di un desiderio omosessuale rimosso: non sono io ad amare lui, è lei. Ma in questo caso non mi sembrava un'interpretazione convincente. Certo, in apparenza Edgar era un uomo sicuro di sé, della sua forza, della sua virilità, eppure sospettavo che in lui ci fosse un profondo e infantile desiderio di sublimare, e idealizzare, l'oggetto d'amore. Succede abbastanza spesso, agli artisti, e credo dipenda dalla natura stessa del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un'intensità abnorme. E quando, inevitabilmente, arriva la delusione, il senso di tradimento è talmente profondo che in alcuni può tradursi nella convinzione patologica della duplicità dell'altro.

Ma quello che mi colpiva di più, in Edgar, era che fosse riuscito a modificare retroattivamente la sua memoria fino a estendere ai primi anni di matrimonio deliri che ne avevano così tragicamente contrassegnato la fine, e che adesso coinvolgevano centinaia di uomini e un intero sistema di falsi ricordi. Sentivo che avremmo dovuto lavorare sulla chiarificazione, lasciando che fossero le stesse assurdità di cui era intessuto il suo pensiero, una volta portate allo scoperto, a scuotere dalle fondamenta quella struttura delirante, facendola crollare. Solo allora avremmo potuto cominciare a ricostruire la sua psiche.

Il problema però era che questa storia con Stella ci avrebbe riportato indietro di mesi, perché nascondendomi la verità Edgar aveva interrotto il flusso di confidenze senza il quale non avremo potuto raggiungere il nostro scopo, e aveva trasformato il processo terapeutico in una commedia degli inganni.

 

Per la cena avevano spalancato le portefinestre, e dal prato arrivava una brezza tiepida che portava con sé i profumi dell'orto. Era tutto in onore di Brenda. L'alto dignitario in visita pretendeva di ricevere il tributo dell'elite psichiatrica del posto, e Max non intendeva deludere le sue aspettative. L'invito era fra le sette e mezzo e le otto, e io ero arrivato per primo. Stella sembrava tranquilla e padrona di sé. Dopo quello che avevo scoperto la settimana precedente, o meglio dopo aver intuito che fra lei e Edgar Stark c'era più di una semplice amicizia, la mia disposizione di spirito nei suoi confronti era profondamente cambiata: ma cercavo di non darlo a vedere.

«Sono riuscita a starmene un paio d'ore da sola in cucina» mi sussurrò accompagnandomi in giardino. «Se riesco a farle credere che sto lavorando Sua Maestà mi lascia in pace». Max era stato mandato al pub a prendere del brandy. Stella continuava a vedere in me un alleato, perché naturalmente era all'oscuro dei sospetti che nutrivo nei suoi confronti. In qualche modo, comunque, mi spiaceva non poterle dire quello che sapevo della sessualità di Edgar. Prima di rientrare in cucina mi chiese di intrattenere Brenda, che era rimasta sola in giardino, e così andai a sedermi vicino alla matriarca.

Da dove eravamo si vedeva uno scorcio del prato, e gli alberi sullo sfondo. «Che bel quadretto agreste» sospirò Brenda. «Peter, anche a te Max sembra felice? Stella teme che non abbia la minima intenzione di muoversi da qui».

Ovviamente capivo che i timori di cui parlava erano i suoi.

«Per un certo tipo di psichiatra» dissi prudentemente «è una situazione ideale. Una popolazione affascinante, alcuni casi sublimi, il tutto in un'istituzione abbastanza grande da poter riprodurre i meccanismi del mondo esterno».

«Pensi che voglia diventare direttore?».

Non mi sbilanciai.

«Be', certo,» ammisi «l'idea di dirigere uno di questi grandi ospedali chiusi è una bella tentazione. Sai, esercitare il paternalismo vittoriano su vasta scala…».

Mi fermai qui. Restammo in silenzio.

«Sembra che ne sia tentato anche tu».

Mi schermii con una risata. «Oh, no. Io no. No, per mandare avanti questi carrozzoni ci vuole un giovane. Io sono troppo vecchio».

Brenda si voltò verso di me, squadrandomi con uno sguardo affilato come una lama. «Mmm» fece con aria scettica.

Subito dopo ci raggiunse Max, poi arrivarono gli Straffen, e a quel punto eravamo al completo. Ce ne stavamo tutti in giardino, tutti eccetto Stella, che era ancora in cucina, e Bridie Straffen, che era salita di sopra per salutare Charlie. Brenda conduceva la conversazione, e noi tre psichiatri ci ritrovammo a rivolgere tutte le nostre osservazioni a lei, in ossequio alla sua autorità matriarcale. Dopo essersi assicurato che i bicchieri fossero pieni, Max tornò dentro, e dieci minuti dopo venimmo chiamati in sala da pranzo. Se sistemando i posti Stella avesse seguito il proprio capriccio, anziché l'etichetta, non avrebbe potuto andarle meglio: i due padroni di casa erano a capotavola, ma lei aveva vicino Jack Straffen e me, mentre a Max erano toccate Bridie e Brenda.

Al salmone, non so più perché, qualcuno si mise a parlare del matrimonio, e quando si è in sei a tavola astrarsi dalla conversazione diventa difficile. Se non ricordo male Brenda tirò fuori il suo primo marito, Charles, da cui aveva divorziato quando Max era bambino, e ne parlò in un modo tale che Max chiese a Bridie Straffen perché, secondo lei, alcuni matrimoni durassero e altri no. Bridie evitò i giri di parole. Era un intelligente donnone dublinese, che aveva passato qui gli ultimi vent'anni interpretando con successo il ruolo di moglie del direttore. Aveva una sua rumorosa simpatia, e una tolleranza agli alcolici pari soltanto a quella di suo marito.

«Gli ho fatto fare il Giuramento» disse guardando Jack, che accennò a un gesto di protesta.

«Quale giuramento?».

Quello di non toccare più un goccio, pensavo.

«Il Giuramento di Ippocrate» disse. «Non farai alcun male. Pensa a me come a un paziente, gli ho detto, e ne usciremo vivi tutti e due. E così è andata».

Un brusio divertito percorse la tavola. Ognuno voleva dire la sua, ma la voce di Stella staccò su tutte.

«Alcun male? Ma se moriamo tutte di trascuratezza cronica!».

Ci fu un attimo di silenzio. Eravamo imbarazzati. In quell'uscita un po' sopra le righe, un po' troppo personale, risuonava l'eco di un'amara verità. Stella aveva trasceso. Bridie accorse in suo aiuto.

«Stella cara, mi hai preso troppo alla lettera. Si tratta solo di limitare i danni, ma cattivelli sono e cattivelli rimangono. Sono fatti così. Tutti, sai, persino Max».

Max, chiamato in causa, non poté non intervenire, e poco dopo riportò la conversazione in carreggiata. Ma in quello spaventevole attimo di silenzio avevo visto Brenda scrutare Stella con uno sguardo sotto le cui braci ardeva una curiosità famelica.

Dopo cena uscimmo sul prato continuando a chiacchierare. Parlammo soprattutto del caldo eccezionale, di quell'estate così poco inglese in cui si poteva stare sotto la luna alle undici di sera, e l'aria era tiepida e profumata come in pieno giorno. Max raccontò a Jack delle sue migliorie, e lo portò a dare un'occhiata alla serra. Dopo quanto Stella ci aveva detto sulle sue ambizioni non ero sorpresa di vederlo così incollato al direttore: Jack sarebbe andato in pensione fra un paio d'anni, ma non prima di aver nominato personalmente il suo successore.

Mi allungai su una sdraio e rimasi ad ascoltare Brenda e Bridie, imbarcate in un discorso che passò dall'aristocrazia in generale alle grandi famiglie irlandesi fino a una conoscenza comune, il conte di Dunraven.

Quando Max e Jack tornarono dall'orto ci stavamo preparando ad andarcene. Notai che Stella era di nuovo sulle spine, e che la conversazione stava prendendo una piega decisamente minacciosa.

Dopo aver descritto a Brenda e a Bridie lo stato di abbandono in cui versava il giardino prima dell'arrivo di Max e Stella, Jack disse infatti di essere felice che Max lo stesse rimettendo a posto.

Max intervenne: «Mi faccio aiutare. Nessuno conosce questi grandi giardini meglio di John Archer. Sarei perduto senza di lui».

«E senza Edgar Stark» disse Stella. Lo disse piano, quasi a se stessa.

Jack, Max e io ci voltammo a guardarla.

«E tutto il giorno che lo sento martellare» aggiunse, cercando di eludere quelli che più tardi definì i nostri atroci sguardi psichiatrici. «Quell'uomo lavora come un ossesso».

«Be' sì, in effetti è il termine appropriato» disse Jack.

«Come pensi di regolarti con lui?».

Mentre Max rivolgeva questa domanda a Jack, Stella provò una sensazione che conosceva bene, quella di sentirsi tagliata fuori dal loro sapere professionale: che in questo caso, fra l'altro, riguardava Edgar.

«Vorrei saperlo anch'io. Mi interessa moltissimo» disse Brenda.

«È una gran seccatura» disse Jack col tono leggermente annoiato tipico di quando aveva qualche grana in ospedale, magari anche da poco, ma sufficiente per intralciare l'esercizio della psichiatria criminale; anche se, a pensarci bene, non si capisce di cos'altro se non di grane la psichiatria criminale - almeno quella carceraria - dovrebbe occuparsi.

«Qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. E pensiamo che quel qualcuno possa essere Edgar Stark».

«Sembra una faccenda piuttosto seria. E perché sospettate proprio di lui?» chiese Brenda.

Jack si tenne sul vago. Fanno sempre così, pensò Stella con rabbia: quando ci sono di mezzo i loro sospetti, bocche cucite. Hanno un potere assoluto, e quei sospetti bastano a decidere il destino di un uomo, per rinchiuderlo a tempo indeterminato. E Jack era come tutti gli altri. Pur non avendo prove, partiva dal presupposto che a portar dentro l'alcol non poteva essere che un paziente (e perché non un infermiere corrotto? si chiedeva Stella), quindi un paziente in semilibertà delle squadre di lavoro, quindi uno dei tre o quattro possibili colpevoli, fra cui Edgar - che adesso era nei guai fino al collo. Forse era l'unico sospetto. Sarebbe bastato per farlo espellere dalle squadre di lavoro, privarlo della semilibertà, e allontanare di mesi, se non di anni, la prospettiva di uscire. Quello che Stella aveva davanti era il vero volto del potere carcerario, e quella che ascoltava era la voce del padrone. Si sentì ferita, ferita come se le stessero strappando suo figlio, e il peggio era che quella voce non poteva essere contraddetta, perché Edgar non aveva voce, era muto, com'era muta lei. Non importava che lei fosse lì, nell'olimpo ospedaliero; prendendo le difese di Edgar avrebbe solo peggiorato le cose. Non le restava altro che tacere, tacere e piangere in silenzio per le loro voci perdute.

Cosa gli avrebbero fatto? Lo avrebbero espulso dalle squadre di lavoro? Lo avrebbero segregato? Jack disse soltanto che non intendeva discuterne davanti alle signore. La serata era finita, era ora di tornare a casa. Per un breve attimo la realtà manicomiale si era intromessa in una serata fra amici. Succedeva abbastanza spesso, e non ci si poteva fare nulla, perché in un istituto di massima sicurezza come questo le mogli sono strettamente coinvolte nelle attività dei loro mariti. Ma ci sono segreti che rimangono inaccessibili, rifletté Stella, livelli di conoscenza da cui le donne sono escluse. Il destino del suo amante non sarebbe stato deciso al chiaro di luna, in una calda serata estiva, da un affabile direttore leggermente alticcio. No, sarebbe stato deciso alla luce fredda e impietosa del giorno, in un ufficio che si trovava nel cuore di un complesso di vetusti, enormi edifici con le sbarre a ogni finestra.

 

Max e Stella erano a letto in camera loro, al buio. Nessuno dei due parlava. Stella pensava alla difficile situazione del suo amante, e Max a quello che Stella aveva detto a cena, e che aveva provocato quell'orribile silenzio.

«Hanno capito tutti che ce l'avevi con me» disse.

«Non essere così paranoico».

«Risparmiami il gergo psichiatrico».

«Sta' zitto! Almeno sta' zitto!».

Tacquero di nuovo. Con Brenda in casa, muri spessi o no, se si trattava di questioni personali parlavano sottovoce.

«Che bisogno avevi di umiliarmi?».

«Adesso esageri. Dicevo tanto per dire, nessuno mi ha preso sul serio».

«Eri ubriaca. Perché devi bere in quel modo? Nessun altro ha bevuto tanto».

Una pausa di silenzio. Era un silenzio cupo, carico di collera e di risentimento: il silenzio di Max. Stella aveva passato il segno, e il suo modo di punirla era creare quel mostruoso silenzio, che riempiva la stanza di dolore e di rabbia. Stella si voltò dall'altra parte, lasciandosi inondare la mente dalle immagini di Edgar. Poi pianse sommessamente nel buio, perché non riusciva a non pensare, con terrore, che Jack Straffen poteva revocargli la semilibertà. Max non fece neppure il gesto di consolarla, e del resto lei non glielo avrebbe concesso. Quella sera, per la prima volta, Stella sentì che la catastrofe si avvicinava.

 

La giornata era calda e serena, e gli insetti ronzavano fra le rose sfiorite mentre lei andava incontro al suo amante, che intravedeva al banco da lavoro nella serra. Con lui c'era anche Charlie. Vedendola arrivare, Edgar posò gli attrezzi e si pulì le mani sul fustagno dei pantaloni. Stella aveva con sé il cestino, con dentro i guanti da giardinaggio e le cesoie. Edgar le aveva raccolto un po' di fagioli e di scarola, e un mazzo di carotine. Mentre le riempiva il cestino Stella andò a sedersi sulla panchina.

«Mrs Bain ti ha preparato una cosa in cucina» disse a Charlie.

«Ho troppo da fare».

«Ma devi andare, tesoro. L'ha fatta apposta per te».

Charlie la guardò in cagnesco, e lei fece altrettanto. «Torno fra un minuto» disse a Edgar, partendo a razzo su per il sentiero.

«Cosa c'è che non va? È successo qualcosa, sei sconvolta» le disse Edgar tranquillamente, senza guardarla.

Stella gli disse che lo sospettavano di far entrare alcolici in ospedale. Non gli fece alcun rimprovero, non le passò neppure per la testa.

«Non ti preoccupare».

«Certo che mi preoccupo».

Stella arrivò fino al melo. Attraverso i rami poteva vedere il Muro, che incombeva su quella parte dell'orto.

«Cosa farò se non ti lasceranno più uscire?».

Tornò a sedersi vicino a lui. Edgar le prese le dita e se le portò alle labbra. Poi le rovesciò la mano e le baciò il palmo, ma senza riuscire a calmarla.

«Cosa farò? Un mattino scenderò e a lavorare qui ci sarà qualche altro paziente. Io chiederò dove sei, e mi sentirò rispondere che non fai più parte delle squadre di lavoro. Finirà così. Ci separeranno, mi staccheranno da te, e non potrò dire nemmeno una parola. Non ti rivedrò mai più».

«Ma no» disse Edgar continuando a baciarle la mano. Lei gliela sottrasse.

«Tu non li conosci».

«Sì che li conosco».

«Allora saprai che possono fare tutto quello che vogliono, e nessuno può dirgli nulla. Né tu né io».

«Vieni al capanno oggi?».

«Non lo so».

Stella camminava avanti e indietro sul sentiero. Edgar appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si piegò in avanti e guardò per terra. Credo di sapere a cosa stava pensando; stava prendendo una decisione. Stella gli dava la schiena, continuando a guardare il Muro fra i rami del melo. Quando sentì Edgar scattare in piedi e mormorare «Charlie» raccolse il cestino e riprese il sentiero verso casa.

Lasciò il cestino sul tavolo della cucina e salì al piano di sopra. La casa era vuota, perché Brenda era andata a far compere in macchina. Stella si buttò sul letto e rimase lì a fissare il soffitto.

Dieci minuti dopo si tirò su. Stava cercando le scarpe sotto il letto quando sentì dei passi rapidi sulle scale.

«Charlie, sei tu?».

Non era Charlie. Stella non riusciva a crederci, ma sulla porta c'era Edgar.

«Che diavolo ci fai qui?!» gli sussurrò «C'è mia suocera da noi!».

Le venne da ridere. Immaginò Brenda incrociare a metà mattina Edgar che usciva dalla sua camera riabbottonandosi i calzoni. Senza smettere di ridere andò a chiudere la porta.

 

Trovava divertente che Edgar fosse venuto in camera sua?

Lo trovava divertente, spaventoso, eccitante. Capii che le situazioni rischiose la eccitavano. Edgar non perse tempo, si strappò di dosso la casacca azzurra e i pantaloni gialli, la sua divisa da paziente. Stella scivolò alla svelta fuori dai suoi abiti. Da non credersi: lui lì, in camera di Stella, Stella che violava con lui il letto coniugale. Eppure non credo che lei si rendesse conto dell'aggressività insita in quell'atto: più che fare qualcosa con Edgar, stava facendo qualcosa contro Max.

Adesso era fra le braccia di Edgar. I loro vestiti erano ammucchiati sul pavimento ai piedi del letto. La sveglia sul comodino segnava le undici meno dieci. Che gran voglia devo avere di essere beccata, pensò; ma non era un pensiero allarmante, solo la calma, tranquilla voce della verità. Stella mi disse di aver capito in quel momento che in ciascuno di noi c'è come l'anelito a gridare al mondo la verità, a qualsiasi costo. O a distruggersi. Lei in quel momento lo sentì, sentì il piacere che le avrebbe dato dire a Max, a me, a tutti noi che amava Edgar Stark, e che non sopportava più di doverlo nascondere! Certo, Stella non era ancora così alla deriva da permettere a queste sensazioni di affiorare per più di qualche secondo, e come ogni amante clandestino non perdeva mai di vista i problemi pratici: di conseguenza, quando sentì una macchina sul vialetto ogni sua velleità di uscire allo scoperto svanì. Doveva essere Brenda, che tornava dal suo giro con ore di anticipo. Edgar si alzò a sedere e Stella gli disse che dovevano rivestirsi, aveva sentito una macchina. Nonostante la tensione si scambiarono un sorriso di complicità, come due bambini che l'avevano fatta grossa.

Brenda entrò dalla porta sul davanti proprio mentre Stella scendeva le scale.

«Troppo caldo, tesoro. Io un caldo simile proprio non lo reggo. E poi senti, non c'era un posteggio, e un orribile omuncolo ha cominciato a strombazzare col clacson, così ho deciso di lasciar perdere, e di tornare a casa a rinfrescarmi e a fare un riposino».

«Ottima idea. Metto su l'acqua?».

«Be', una tazza di tè ci vorrebbe proprio».

Brenda salì di sopra. Stella si fermò sulla soglia della cucina, e sentì la porta della camera che si chiudeva. Poco dopo Edgar scese le scale con gli scarponi in mano, come il personaggio di una farsa. Stella lo guidò di corsa fino in cucina e aprì la porta sul retro per assicurarsi che in cortile non ci fosse nessuno.

Quando si voltò vide che Edgar aveva sottobraccio un fagotto di vestiti di Max.

«Cosa ci fai con quelli?» gli sussurrò.

Lui le appoggiò un dito sulle labbra e attraversò il prato con passo deciso. Stella tornò di sopra. Lo sportello dell'armadio era aperto, e parecchie stampelle dalla parte di Max erano vuote. Mentre faceva il letto per la seconda volta nella stessa mattinata, stavolta con le lenzuola pulite, sentì Brenda uscire dalla sua camera e arrivare fin sulla soglia.

«Ti spiace se faccio un bagno? Mi sento tutta appiccicosa».

«Figurati» rispose Stella senza voltarsi.

Scese di sotto e si sedette al tavolo della cucina. Perché Edgar aveva preso i vestiti di Max? Cosa diavolo pensava di farci? Cosa si era messo in testa?

Max rientrò dall'ospedale poco dopo l'una, quindi mangiarono tutti e quattro insieme. Nelle situazioni di tensione Stella si elettrizzava, e quel mattino tesa lo era senz'altro. Neanche due gin molto abbondanti erano serviti a farle dimenticare l'enormità del rischio che avevano corso. Non poteva neppure pensare a cosa sarebbe successo se li avessero scoperti. Così, tutta allegra, servì in tavola carne fredda, patatine novelle con burro ed erba cipollina, e un'insalata di pomodori con un intingolo all'aglio, facendo il possibile per mantenere una parvenza di normalità. Max era silenzioso e preoccupato, e alla fine del pranzo le chiese di portargli il caffè nello studio.

Era seduto alla scrivania. Sentendola entrare si voltò con un'espressione che le provocò un'immediata fitta d'ansia. Stella era molto sulla difensiva, e per reazione assunse un'aria disinvolta, ma aveva paura che qualcuno l'avesse vista e avesse parlato, e i suoi timori parvero confermati quando Max le chiese: «Stella, cos'hai a che fare con Edgar Stark?».

«Lo vedo quasi tutte le mattine nell'orto» rispose lei, aggrottando la fronte come se si sforzasse di indovinare il motivo di quella strana domanda. «Perché?».

«E mai entrato in casa?».

È mai entrato in casa! Nel letto c'era ancora l'impronta calda del suo corpo, le lenzuola nella cesta della biancheria sporca erano umide e macchiate.

«Solo la volta che ha portato Charlie».

Max sospirò. Si tolse gli occhiali e si strofinò le palpebre.

«Ormai è appurato che qualcuno fa entrare alcolici in ospedale. Il problema è che gli infermieri sono in subbuglio. Dobbiamo far vedere che prendiamo la cosa molto sul serio».

«Non è possibile che il colpevole sia uno di loro?».

Non era sicura che dirglielo fosse saggio. Se c'era qualche sospetto su di lei, poteva passare per una tattica diversiva. Ma d'altra parte, se nessuno aveva sospetti, la domanda sarebbe sembrata perfettamente logica. Fissò Max con estrema attenzione. Non aveva neppure alzato la testa. Stella capì di essere al sicuro. Per ora.

«Non è impossibile, ma è un'idea che per il momento Jack preferisce non prendere in considerazione. È una questione di… di buoni rapporti».

«Cioè vi serve un capro espiatorio?». Ora Stella tentava di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. «Non mi sembra molto corretto».

«Certo che no, non cerchiamo nessun capro espiatorio. Non vogliamo accusare nessuno finché non siamo sicuri».

«L'alcol non è uscito da questa casa».

«Ma potrebbe essere uscito dal capanno del cricket».

«Può darsi». Una pausa.

«Accompagnamici» disse Max. «Prendo le mie chiavi».

Le sue chiavi. Sullo scrittoio al piano di sopra. O forse nelle tasche della giacca di lino. Nell'armadio. Stella rimase seduta in studio ad aspettare che scendesse. La scrivania di Max era in perfetto ordine, solo la posta del mattino e sopra un paio di cartelle, tutte le penne e le matite e le carte distribuite nei vari cassetti. La finestra dello studio guardava su una macchia di prato costeggiata da lettiere di fiori, e più oltre c'erano i pini che riparavano la casa dalla strada. Sugli scaffali, pile di riviste e di volumi di psichiatria.

«Stella».

Stella si affacciò nell'anticamera. Max era appoggiato alla ringhiera.

«L'hai mandata in lavanderia?».

«Cosa?».

«La mia giacca di lino».

Pensa alla svelta, Stella. Calmati, e vedi di uscirne meglio che puoi. «No. Non la trovi?».

Max tornò in camera, e lei salì di sopra. Quando entrò, Max le dava la schiena. Stava frugando tra i vestiti e le giacche appese alle stampelle. Non si voltò.

«È molto strano. Mi mancano anche una camicia e un paio di pantaloni».

«Non ho mandato niente in lavanderia, questa settimana».

«Avevo tutte le chiavi in tasca. Dov'è Charlie?».

«Non credo proprio che ti abbia preso lui i vestiti».

«Neanch'io».

Max si mise a sedere sulla sponda del letto, fissandosi le unghie con aria preoccupata. Stella si appoggiò allo stipite. La luce del sole batteva sulla sua toletta. Sapeva che stava per perdere tutto, e in qualche modo non le importava. Era curiosa di vedere come sarebbe andata a finire. Da un momento all'altro Max l'avrebbe accusata, e lei non aveva idea di come difendersi.

«Dev'essere entrato qui».

«Chi?».

«Edgar Stark».

«Impossibile. Come avrebbe fatto, con me e Brenda in casa? Fammi vedere se Charlie è in giardino».

Max era seduto con le mani in grembo e la fronte aggrottata. Un uomo organizzato come lui, un uomo con un simile controllo sul proprio mondo, un uomo del genere non perde una camicia e un paio di pantaloni, e una giacca di lino con tutte le chiavi in tasca.

Stella si precipitò di sotto e uscì dalla porta principale. Gli uomini non erano ancora tornati dalla pausa per il pranzo. Fece una corsa fino alla serra, dove trovò la giacca bianca di Edgar appesa alla porta. Aprì una bustina di semi e con un mozzicone di matita ci scarabocchiò sopra un messaggio, che poi cacciò nella tasca della giacca in modo che Edgar non potesse non vederlo.

Mentre tornava a casa vide la squadra di lavoro in fondo al vialetto. Poteva solo pregare che Edgar vedesse il suo messaggio e trovasse il modo di sbarazzarsi dei vestiti. In anticamera incontrò Max. Gli disse che Charlie non era in giardino, e che probabilmente non sarebbe rientrato prima di qualche ora.

«Non credo che Charlie abbia toccato i miei vestiti» ripeté Max tornando nello studio.

Stella rimase sulla soglia. «Cosa farai?».

Max era accanto alla sua scrivania, con la cornetta in mano. «Mi passi il Reparto 3». Lo disse al telefono, ma continuando a fissare Stella.

La notizia arrivò quella sera. Brenda scese alle cinque e Stella le disse delle chiavi e dei vestiti scomparsi, dopodiché andarono in soggiorno a bersi un gin abbondante a testa. Stella non riusciva a star ferma. Naturalmente, la sua ansia si poteva leggere come affettuosa sollecitudine nei confronti del marito.

«Max sistemerà tutto, tesoro» disse Brenda.

«Certo che sì. Ma sono in pensiero lo stesso».

Prima che Max rientrasse dall'ospedale bevvero un altro gin. Brenda era ancora in soggiorno, mentre Stella era andata in cucina a preparare la cena. Quando sentì la porta che si apriva corse nell'anticamera. Max sembrava di pessimo umore. Gli andò incontro.

«Cos'è successo?».

Max non la guardò neppure; i loro occhi si incrociarono appena. Max entrò in soggiorno, si mise in piedi di fronte al camino spento e comunicò la notizia.

«Edgar Stark è evaso».

In quel preciso momento si sentì il terribile urlo delle sirene.