VIII
Caro Nick. Si era affezionata a Nick, all'alto, allampanato, premuroso Nick. I pochi soldi che Edgar portava a casa venivano quasi sempre da lui. Aveva una sua piccola rendita, e la metteva generosamente in comune. Quando aveva visto come si mettevano le cose tra Edgar e Stella si era fatto prestare un appartamentino a Soho, in modo che loro due avessero più spazio. Rivederlo per Stella fu un sollievo. Credo anche per Edgar, a modo suo; sentiva di fare sempre più fatica a dominarsi, e probabilmente era spaventato. Senza di me, il lavoro era la sua unica ancora di salvezza, l'unica cosa che desse alla sua esistenza una sorta di struttura e di scopo. E più i sospetti lo tormentavano, meno Stella sembrava contare per lui. Per quanto si sforzasse di combatterli, infatti, quei pensieri gettavano un'ombra sulla sua mente, e Edgar viveva sotto una cappa di dolore e di dubbio che si sollevava solo di rado, e cioè quando lavorava: solo allora vedeva Stella con piena chiarezza.
Edgar era andato avanti con la sua scultura, continuando a sfigurarla, ma ormai buchi e tagli si potevano considerare uno stadio nell'evoluzione del pezzo. Fu felice di mostrarla a Nick, e guardandola Stella capì che quella testa, la sua testa, era diventata anche qualcos'altro, una trasposizione dei sentimenti sempre più oscuri e tormentati di Edgar: era, penso, patologia in argilla. Nick si rese immediatamente conto che Edgar stava facendo qualcosa di importante. La sua reazione portò Stella a domandarsi se tutto quello che lei e Edgar stavano passando non si potesse in fondo attribuire ai sussulti connaturati a qualsiasi progetto artistico degno di questo nome, e a nient'altro. Non si dà creazione senza sofferenza, e la grande arte nasce solo da grandi sofferenze, non è così? Ma certo, la colpa di tutto era della testa, pensò. Preferiresti tornare nei salotti degli psichiatri, con le loro mogli e le loro madri? si chiese. Naturalmente no. Era grata a Nick per averla aiutata a capire questo. Forse lei e Edgar avevano passato troppo tempo da soli. Nick era una ventata d'aria fresca. La tensione calò di colpo.
Senza contare che Nick aveva un influsso benefico anche su Edgar. Per quanto cercasse di nasconderlo, Edgar era molto compiaciuto della sincera ammirazione di Nick per il suo lavoro, Stella lo vedeva benissimo. La reazione di Nick era molto più importante della sua, perché essendo un artista Nick capiva dove Edgar stesse cercando di arrivare. Più tardi i due uscirono e tornarono con una cassa di vino rosso e una busta con la spesa. Quella sera fu una delle più felici che Stella avesse passato nel sottotetto. Nick e Edgar erano allegrissimi, e rimasero tutti e tre a gozzovigliare, a ridere, a far baccano fino all'alba. Senza parere, Stella teneva d'occhio Edgar, felice di vederlo star bene. Quella notte rivide il vecchio Edgar, l'Edgar spiritoso, tenero, brillante, acuto, laconico: e pericoloso. A un certo punto lui e Nick cominciarono a discutere piuttosto animatamente di altri pittori. Tirarono fuori un blocco e Nick fece uno schizzo dei dipinti cui intendeva lavorare. Edgar gli diede una serie di rapidi consigli e Nick ascoltò annuendo, mordicchiandosi il labbro come faceva sempre quando si concentrava, prendendo nota di tutto più in fretta che poteva. Più tardi, mentre Nick, ubriaco, si era allungato sul divano a fumarsi un sigaro, Stella disse a Edgar che non aveva rimpianti. Erano ubriachi anche loro. Stella era stravaccata sulla sedia, con un piede appoggiato sul tavolo e la gonna che le lasciava scoperta la coscia; Edgar si alzò barcollando e fece il giro del tavolo per raggiungerla, poi le strinse le spalle, si chinò, e le chiese solennemente scusa per essere la merda che era.
«Non sei una merda» disse lei.
«Sì, invece».
«Eccome» fece Nick dal divano.
Nick si addormentò dov'era, e il mattino dopo, che era domenica, si svegliarono tardi. Edgar dormiva ancora quando Stella si alzò per andare in cucina, dove trovò Nick che frugava tra i suoi schizzi tentando di decifrare gli appunti buttati giù mentre Edgar gli rovesciava addosso un'idea dopo l'altra. Stella disse che la sbronza non le era ancora passata, e che aveva bisogno di una boccata d'aria. Nick si offrì di accompagnarla. Uscirono di soppiatto per non svegliare Edgar.
Andarono a passeggiare lungo il fiume. Nick era ridotto da fare spavento. Aveva la sua vecchia giacca di tweed, i calzoni e le scarpe macchiati di pittura, la barba lunga, gli occhi rossi e la faccia gonfia. Era una mattina grigia e gelida, il vento portava folate di pioggia. Rimasero qualche minuto a guardare l'acqua, ma faceva troppo freddo, e Nick propose una sosta al pub.
L'incubo cominciò un'ora dopo, al rientro. Nick e Stella trovarono Edgar sulla porta dello studio, che li fissava. Non aveva aperto le imposte e la stanza era ancora buia; la sua faccia non si distingueva bene. Al pub Stella si era scolata un paio di bicchierini che le avevano rimesso in circolo l'alcol della sera prima, ed era già alticcia.
«Tesoro!» strillò. «Ti abbiamo portato la colazione!».
Nick gli mostrò due bottigliette di birra scura. «E l'antidoto» disse. «Cos'hai?».
Edgar non si era mosso, non aveva detto una parola, era solo rimasto a guardarli con una strana luce negli occhi, il labbro superiore piegato in una smorfia e i denti serrati. Stella gli si avvicinò, mentre il riso le si spegnava in gola lasciando il posto a un'espressione preoccupata. Adesso c'era l'altro, lì, il malato, e solo lui. Edgar era scomparso.
«Cosa c'è? È successo qualcosa?».
«Non ti avvicinare».
Stella si girò verso Nick, che fissava Edgar con le sopracciglia aggrottate, turbato quanto lei dal suo comportamento. Ormai la sbornia se l'erano fatta passare, e alla svelta.
«Edgar…».
«Vattene, Nick. E non farti mai più vedere».
«Ma…».
«Fuori dai coglioni, Nick!».
«Senti…».
Edgar gli si avvicinò con la chiara intenzione di picchiarlo. Nick indietreggiò.
«Fuori dai coglioni!».
Nick obbedì. Stella, sbigottita, rimase a guardarlo in silenzio mentre se ne andava.
«Bastardo» mormorò Edgar mentre in sottofondo si sentivano i suoi passi giù per le scale.
«Adesso smettila, mi fai paura…».
«Tu, puttana. Con Nick». Imitò l'accento da college dell'altro.
«Non capisco» rispose Stella. Ma non era vero.
«"Non capisco"». Le fece il verso. «Certo che capisci, smettila di mentire».
Di colpo, Stella si sentì a pezzi. Lo aveva già visto, l'altro, ma mai così. E non se l'era mai presa con Nick. Quanto ci sarebbe voluto, questa volta, prima che se ne andasse? Si mise a sedere e accese una sigaretta. Era nauseata e depressa.
«Queste assurdità mi annoiano a morte» disse senza alzare la voce.
Prese un'arancia dalla coppa sul tavolo e se la rigirò pigramente fra le dita. Fu un attimo. Edgar le saltò addosso, trascinandola sul pavimento. Stella rimase concentrata sull'arancia, la seguì con lo sguardo mentre rotolava verso la finestra, e avrebbe voluto dire a Edgar di stare attento a non pestarla, con quello che costava. Poi lui la sollevò per i polsi, come aveva fatto qualche notte prima, urlandole che sapeva benissimo che si fotteva Nick, cosa credeva, che fosse cretino? Stella non gli rispose, non sarebbe servito a nulla, e lui le diede un ceffone, e stavolta per farle male. Stella cadde per terra e si girò, riparandosi il viso con le braccia.
Poi cercò di rimanere immobile. Aveva il fiato corto, e tremava tutta. Non sentiva niente. Non capiva che cosa stesse facendo Edgar, ma era ancora nello studio. Il tempo sembrava scorrere più lento, e Stella non sapeva se da quando Edgar l'aveva colpita fosse passato un minuto o dieci. Non osava mettersi a sedere per paura che si arrabbiasse ancora di più. Poi sentì una specie di strofinio, che in un primo momento non riconobbe. Alzò leggermente la testa e aprì gli occhi. Adesso lo vedeva. Era in piedi vicino al tavolo dall'altra parte della stanza, e le dava la schiena.
«Cosa stai facendo?»
Edgar non si girò e non le rispose. Che noia, pensò di nuovo Stella. Si alzò a sedere con un sospiro, toccandosi con cìrcospezione la faccia, che sentiva pulsare. Cercò il portacipria per verificare i danni. Edgar continuava a darle la schiena, e a strofinare un oggetto contro un altro.
«Ti ho chiesto cosa stai facendo» disse Stella.
Poi ci arrivò da sola: Edgar stava passando una lama su una pietra. Aprì di scatto il portacipria. Era molto spaventata. Si guardò nello specchietto rotondo; un lato della sua faccia stava già cambiando colore. La pulsazione era lieve, ma faceva male.
«Cosa stai affilando?».
Nessuna risposta. Per un attimo, Stella pensò di correre alla porta. In fondo lo conosceva così poco. Nella serra sapeva chi aveva davanti, nella serra si era sentita sicura che qualsiasi cosa fosse accaduta in futuro, qualsiasi cosa lui avesse fatto, sarebbe stato sempre Edgar. Ma quello che aveva davanti non era lui. Era un altro. A meno che l'uomo del giardino non se lo fosse inventato lei a misura dei propri bisogni.
«Cosa stai affilando?».
«Un coltello».
Un coltello con cui tagliarle la testa.
«E perché, scusa?».
Con una calma anche eccessiva, Stella si diede una controllata alla faccia. Ricorda di aver pensato che in fondo le era andata bene, la pelle era intatta. Si passò con cautela un fazzoletto sul trucco sbavato intorno agli occhi. Devo scappare, pensava, sta per uccidermi. Ma lo pensava senza terrore, era come staccata da tutto. Le cose, intorno a lei, non erano più in scala. Lo specchietto che si teneva davanti alla faccia sembrava lontanissimo, e piccolo come una moneta. Anche la sua immagine riflessa era minuscola, talmente minuscola che non riusciva neppure a distinguerne i tratti.
«Per sbucciare l'arancia» disse Edgar.
Anche lui era minuscolo, e lontanissimo, come se lo stesse guardando dall'estremità sbagliata di un cannocchiale. Aveva finito di affilare la lama. Continuava a darle la schiena, ma la teneva d'occhio. Un omino minuscolo, lontano lontano, dall'altra parte di una stanza enorme.
«Per sbucciare l'arancia?» chiese Stella.
La sua voce, atona e metallica, sembrava arrivare da chissà dove. Edgar attraversò la stanza con il braccio teso, porgendole uno spicchio. Stella se lo mise in bocca. Non voleva ucciderla, ma solo darle un po' di frutta. Mentre masticava, Edgar non le tolse gli occhi di dosso.
«Cosa c'è?» chiese.
Aveva uno sguardo stranissimo. Stella non riusciva a immaginare a cosa stesse pensando. Lui si voltò scuotendo la testa, poi Stella lo vide prendere un altro spicchio e portarselo alle labbra con diffidenza, come se non avesse mai assaggiato un'arancia in vita sua. E allora capì. Le tornò in mente una cosa che le avevo raccontato proprio io, a proposito dei deliri di Edgar. Una delle sue idee fisse, le avevo detto, era che Ruth gli avvelenasse il cibo.
Per Stella, fino a quel momento impermeabile a tutto, fu un'intuizione sconvolgente. Era riuscita a razionalizzare la violenza di Edgar, e a spiegarsi la sua gelosia. Ma il sospetto che lei stesse cercando di avvelenarlo con un'arancia era davvero preoccupante. Stella capiva che per il suo bene avrebbe fatto meglio a lasciarlo, e tutto quello che le avevamo detto, e che fino ad allora era riuscita a rimuovere, le riaffiorò alla coscienza. Per la prima volta Edgar la spaventava a morte - anche se più tardi mi avrebbe ripetuto con insistenza che non aveva paura di lui, ma della sua pazzia. Inoltre sapeva che non doveva mostrargli il suo terrore, perché altrimenti Edgar avrebbe potuto diventare violento, e farle quello che aveva fatto a Ruth. Anzi, forse con lei non avrebbe avuto neppure bisogno di ubriacarsi, forse aveva già perso il controllo. Forse a scatenarlo sarebbe bastato l'odore della sua paura.
Voleva scappare, ma non osava uscire dalla stanza. Sentiva che Edgar avrebbe capito che cosa le passava per la testa, e allora sarebbe stata la fine.
«Vado di sopra» disse soltanto.
Raccolse la borsa, salì lentamente le scale e si sedette sul materasso. Si asciugò le dita appiccicose di arancia e si diede un'altra controllata allo specchio. Poi prese un libro, si coricò sulla schiena e cominciò a leggere senza guardare di sotto. Sentiva che Edgar la sorvegliava. Era venuto il momento? La calma che Stella tentava di trasmettere era assolutamente falsa. Il cuore le batteva all'impazzata, era madida di paura, e il panico minacciava di sopraffarla da un momento all'altro.
Edgar passò l'intero pomeriggio nello studio, a lavorare alla testa. Credo di immaginare quale sforzo sovrumano gli sia costato dominarsi. Penso che tutto quell'accanirsi sulla testa fosse in realtà un modo per cercare di vedere Stella con chiarezza, di cogliere la sua verità, nella speranza di riuscire prima a dominare, poi a sconfiggere la pazzia. Stella, di sopra, non aveva idea di tutto questo, pregava solo che lui uscisse, e intanto si concentrava mentalmente sui preparativi per la partenza. Sul letto sfatto, fumava con la schiena appoggiata contro i mattoni. Dopo averlo censurato per tanto tempo, ora non riusciva a pensare quasi ad altro che all'omicidio di Ruth. Se Edgar era arrivato a pensare che lei lo stava avvelenando, allora era pazzo, sì, era pazzo. Ma nonostante il terrore che ne provava, Stella riusciva ancora a compatirlo, perché sapeva che un pazzo è, prima di tutto, un malato. Era vissuta troppo a lungo tra gli psichiatri per dimenticarsene.
Appena buio Edgar uscì senza una parola. Stella lo sentì andar via, quell'uomo così forte, e non perse tempo. Aveva pianificato tutto fin nei dettagli. Per vestirsi e riempire la valigia le ci vollero una decina di minuti. Si mise l'impermeabile, il foulard e gli occhiali scuri e si precipitò giù dalle scale. Si fermò nell'andito e gettò un'occhiata al cortile. Era deserto. Camminò rapidamente fino alla strada, poi si fermò accanto al muro per controllare che Edgar non stesse tornando. Via libera. Un vento freddo saliva dal fiume. Si allontanò di corsa.
Una mezz'ora dopo Stella entrò con circospezione in un piccolo pub piuttosto squallido dalle parti di Waterloo. Era un locale pulito, caldo, vuoto, e pericoloso; Stella pensò che Londra era piena di locali identici a quello, posti apparentemente sicuri, ma in ciascuno dei quali, da un momento all'altro, poteva entrare Edgar. L'unico cliente, oltre a lei, era un tale con l'impermeabile grigio, che se ne stava al banco col giornale della sera e il suo bicchiere di birra. Un tappeto sul pavimento e un caminetto a gas acceso. Vicino al fuoco, nell'angolo, un tavolino rotondo con le gambe di metallo. Tutto qui: un uomo al banco, il tepore del caminetto, le calde luci soffuse, le sigarette, l'alcol, e fuori il freddo e il crepuscolo, uno studio vuoto, un pazzo. Stella decise di bere qualcosa al tavolino. Chiese alla barista un pacchetto di sigarette e un gin tonic abbondante e se li portò vicino al caminetto, dove si sistemò con la guancia tumefatta rivolta verso il muro. Allungò il gin con l'acqua tonica e si accese una sigaretta. Dopo un paio di minuti si rese conto che l'uomo al banco la stava osservando, ma appena lei alzò lo sguardo lo vide tornare al suo giornale.
L'atmosfera era calda e tranquilla, le luci basse. Dato che le era avanzata un po' di acqua tonica, Stella prese un altro gin. Quando si avvicinò al banco l'uomo le chiese se voleva bere qualcosa con lui. Stella rispose di no, che stava aspettando suo marito. Probabilmente, mi disse Stella, si stava chiedendo il perché degli occhiali scuri, e anche del livido in faccia, ma che pensasse pure quello che voleva, per lei era lo stesso. Si portò il gin al tavolino vicino al caminetto e ricominciò ad aspettare. Aveva scelto quel pub perché subito fuori c'era una cabina telefonica. Prima di entrare aveva cercato Nick, ma le avevano detto che era uscito. Avrebbe richiamato fra mezz'ora.
Un'ora dopo non era ancora tornato. Sentiva la tristezza montare in lei, un'onda dopo l'altra, ma si diceva severamente, con un tono che conosceva bene, il tono di Max, che non doveva fare la stupida né commiserarsi - doveva darsi un contegno. E in una situazione simile era davvero il colmo che le venisse in aiuto uno dei precetti di Max contro gli eccessi dell'emotività femminile. Datti un contegno, cara, sei in un posto pubblico, vuoi dare spettacolo? Sì, era proprio questo che la sconvolgeva, l'idea di dare spettacolo. Come se ci fosse una cornice intorno alla figura piangente seduta al tavolino, una cupa cornice nera con sotto il titolo: «Melanconia». Nonostante la faccia indolenzita Stella sorrise, mentre le lacrime continuavano a rigarle silenziosamente le guance. Dal bar arrivarono delle risate maschili. Adesso basta, si disse Stella, ma servì solo a peggiorare le cose: l'uomo al banco si voltò e cominciò a fissarla ostentatamente. Stella diede di nuovo spettacolo uscendo a chiamare Nick una terza volta.
* * *
L'appartamento era un buco, ma sempre meglio del sottotetto, senza contare il piacere di un vero bagno. Nick si era preso uno spavento terribile. Era tornato da loro, non li aveva trovati, e pur non sapendo bene cosa pensare aveva temuto il peggio. Sentire la voce di Stella al telefono era stato quindi un enorme sollievo. Nick si era precipitato al pub, avevano bevuto qualcosa insieme, e poi l'aveva portata a casa sua. Lei gli aveva detto che quello che desiderava di più era farsi un bagno.
Si era quasi strappata i vestiti di dosso, poi si era immersa nell'acqua calda ed era rimasta a lungo sdraiata con gli occhi chiusi. Non si sentiva veramente pulita da un'eternità, e le parve che un po' dell'infelicità, dello squallore, dell'ansia e del senso di colpa degli ultimi giorni scivolassero via insieme allo sporco. Dopo qualche minuto cominciò a esaminare il suo corpo - la pelle bianca, i seni, le gambe, le mani diafane e sottili, i piedi. A Max, dopo tre o quattro anni di matrimonio, quel corpo non aveva detto più niente, ma del resto per mantenere viva l'attrazione sessuale ci vuole fantasia, e lui non ne aveva. Sta di fatto che, fino a Edgar, Stella era vissuta in castità, o quasi. Ora però non se la sentiva di pensare a lui, e lo cacciò via dalla sua mente.
Uscì dalla vasca e si diede il borotalco davanti al lungo specchio appeso alla porta.
Caro Nick. Pur non essendo attrezzato per offrire ospitalità e appoggio a una donna in fuga, faceva del suo meglio. Insistette perché Stella prendesse il letto; per lui sarebbe andata benissimo la poltrona. Stella era già in camicia da notte, e finì per accettare. Giusto il tempo di allungarsi sotto le lenzuola, e Nick le stava già portando da bere.
«Vuoi mangiare qualcosa?».
«Non ho fame, Nick, grazie».
Stella era dignitosa e garbata, come qualsiasi vera signora in circostanze analoghe. Quell'uomo debole, disordinato e buono le piaceva. I suoi calzoni perennemente macchiati l'avevano sempre fatta sorridere. Una volta, scherzando, lei e Edgar gli avevano detto che avrebbe dovuto farci su una mostra, in fondo erano opere d'arte. Il povero Nick ci aveva riso, ma il giorno dopo si era presentato con un paio pulito, che tuttavia non era rimasto tale a lungo. Ora sedeva, sul bordo della poltrona, chino in avanti, strofinandosi le grandi mani e raccontandole timidamente dell'enorme sollievo che aveva provato qualche ora prima sentendo la sua voce al telefono.
«Sai, lo conoscevo già quando si è messo in testa quelle idee su Ruth» disse.
«Oh, Ruth» fece Stella. Non aveva nessuna voglia di parlarne. Poi le venne in mente una cosa.
«Nick» disse.
«Sì?».
«Edgar è mai stato qui?».
Nick, terreo, rispose di sì.
Stella non riusciva a dormire, e nemmeno Nick. Stravaccato sulla poltrona, con una coperta buttata addosso, continuava a rigirarsi cercando una posizione comoda; a un certo punto lei si chiese se non fosse il caso di prenderselo a letto. Più tardi Stella andò fino alla finestra e scostò la tenda di qualche centimetro. La pioggia cadeva molto forte, tagliando di sbieco il fascio di luce dei lampioni. La stradina davanti a casa era lucida e deserta. Che cosa si aspettava, di vedere Edgar in piedi sotto il lampione, nella pioggia, a guardare la finestra?
Qualche istante dopo sentì Nick che cercava di prendere le sigarette senza farsi sentire. Poi ci fu il bagliore del fiammifero.
«Non riesco a dormire» disse Stella nel buio.
«Neanch'io».
«Nick».
«Cosa?».
«Verrà, non è vero?».
«Non lo so».
«Ho paura».
Nick andò a sedersi sul bordo del letto e le prese la mano.
«Non è per lui» disse Stella. «È perché è malato. Tu lo sai che può essere diverso, vero?».
Nick non disse nulla. Le stringeva forte la mano, e Stella si rese conto che era eccitato. Non aveva mai immaginato che Nick potesse desiderarla, ma forse Edgar sì, e forse da lì era cominciato tutto. Forse era colpa di Nick.
«La porta è chiusa a chiave» disse Nick.
Stella ricambiò la sua stretta, e un attimo dopo si lasciò baciare. Poi Nick infilò le mani sotto la coperta e provò a toccarle il seno.
«No, Nick».
«Scusa».
Nick tornò in poltrona.
«Ora cerca di dormire» disse Stella.
Edgar arrivò all'alba. A svegliarli fu il rumore della maniglia che girava. Non scoprirono mai come avesse fatto ad arrivare fin lì, visto che anche il portone sulla strada era chiuso a chiave. Si ritrovarono seduti a fissare inorriditi la porta.
«Nick, apri».
Quella voce attutita li terrorizzava. Non era lui, era sempre l'altro, con quello strano accento posticcio. Nick fissava Stella con uno sguardo spiritato, scuotendo la testa. Anche al buio Stella gli vedeva il terrore sul viso.
«Apri la porta, Nick. Avanti, bello, mi hai riconosciuto, no? Non voglio farti niente di male».
Silenzio. Erano assolutamente immobili. Non vorrà farsi sentire da tutti, pensò Stella. Non oserà sfondare la porta, sarebbe la sua fine. A meno che non gliene importi più nulla.
«Lei è lì, vero? È lì?».
Nick non sapeva cosa fare. Era paralizzato. Stella lo fissava facendo cenno di no con la testa. Non doveva mettersi a parlare con lui, nemmeno attraverso la porta. Nick scrollava le spalle come un bambinetto impaurito. Stella attraversò la stanza con un dito sulle labbra, andò a sedersi su un bracciolo della poltrona e gli appoggiò una mano sulla bocca, mentre con l'altra gli teneva fermo il polso. Quando lui alzò lo sguardo, gli fece segno con le labbra di tacere.
«Non è colpa tua, Nick» disse la voce dietro la porta. «Lo so com'è, lei».
Nick sgranò gli occhi. Stella non capiva che intenzioni avesse. Gli tolse la mano dalla bocca, si chinò su di lui e lo baciò.
«È una donnaccia» fece Edgar.
Nick cercò di girarsi verso la porta, ma Stella lo teneva per i capelli, continuando a premergli la bocca sulla sua.
«Nick!».
Edgar diede un gran colpo alla porta. Nick schizzò quasi dalla poltrona, ma Stella lo trattenne cacciandogli la lingua in bocca. Nel tentativo di mantenersi in equilibrio sul bracciolo la vestaglia le si era aperta sulle gambe, e Nick ci infilò sotto una mano, toccandole timidamente la coscia.
Adesso da dietro la porta veniva solo silenzio. Edgar doveva essere sgattaiolato via per paura che il baccano avesse tirato giù dal letto tutta la casa. Oppure stava aspettando sul ballatoio. Stella sentì la mano di Nick risalirle lungo la coscia. La lasciò arrivare fino in fondo. Si stava eccitando anche lei, e non solo perché Nick la toccava: per la situazione in sé. Ma alla fine gli tolse la mano, andò alla porta e ci appoggiò sopra l'orecchio. Niente. Nick, sprofondato in poltrona, era pallidissimo. Stella si spostò alla finestra e sollevò appena la tenda. Vide Edgar uscire allo scoperto e lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava. Anche il suo modo di camminare era diverso, rispetto a prima: si muoveva a scatti, come se non riuscisse a coordinare i movimenti. Stella dovette fare uno sforzo per non chiamarlo, per lasciarlo andar via. Aveva smesso di piovere. Si voltò verso la stanza e si trovò di fronte Nick, prostrato e sconvolto.
«Se n'è andato» disse Stella.
«Devo bere qualcosa».
«Poveraccio. Povero Edgar».
Un'ora dopo uscirono. Sgattaiolarono via da una porta secondaria con una valigia per uno. In giro non c'era un'anima, la strada era praticamente deserta. Passarono vicino a due uomini in abito da sera che cercavano un taxi schiamazzando. Stella era rimasta con un solo paio di scarpe, quelle coi tacchi alti, e arrancava cercando di tener dietro a Nick, che era ancora spaventatissimo. Gli lasciò la borsa e si aggrappò al suo braccio. Salirono su un autobus che andava verso ovest, il più lontano possibile da Southwark, e sedettero in mezzo a uomini e donne silenziosi, insonnoliti e troppo presi dai loro giornali e dal loro malumore per fare caso alla donna con l'impermeabile coperta di lividi e all'uomo alto, malandato e nervoso che sedeva vicino a lei.
Era una giornata nuvolosa. Brevi raffiche di pioggia spazzavano i finestrini dell'autobus. Dopo qualche minuto scesero. Nick disse di sapere dov'erano. La guidò in una stradina che sbucava in una piazza fatiscente di grandi case georgiane con in mezzo un albero e una macchia di erba marrone cinta da uno steccato. La pensione era indistinguibile dagli altri edifici. Una donna stanca li accompagnò su per due rampe di scale coperte da una moquette scadente e mostrò loro la stanza. La finestra dava su un alto muro di mattoni con in cima cocci di bottiglia e su un vicolo ingombro di bidoni della spazzatura, di corde per il bucato e di gatti.
Stella disse che i due giorni passati con Nick erano stati i più deprimenti. Le era rimasto impresso solo qualche dettaglio. Nick era una persona piuttosto sporca, mangiava nelle scatolette, si puliva le mani sui calzoni. Era gentile e affettuoso, certo, ma non faceva che fissarla, e non con tenerezza, ma con bramosia. Stella si chiedeva se sarebbe stato capace di violentarla. Lei passava ore e ore sul letto matrimoniale sfondato, e la lampadina appesa al soffitto mandava una fioca luce giallastra che imbruttiva tutto, loro due inclusi. Rimaneva coricata lì a preoccuparsi per Edgar. La sua paura era che ormai fosse troppo disturbato per non attrarre prima o poi l'attenzione su di sé. Temeva che facesse qualche stupidaggine.
E il loro futuro insieme?
Oh, mi disse con un'aria spensierata, di quello non aveva mai dubitato. Sapeva che il filo non si era spezzato, sentiva che anche nelle sue peggiori crisi di gelosia Edgar non aveva smesso di amarla, che la sua passione era solo confusa e deviata, come se fosse stata infilata a forza in qualche oscuro cunicolo da cui era riemersa mostruosa e irriconoscibile. E quel cunicolo era la sua malattia. E mi rivelò che proprio durante i due giorni passati con Nick aveva tentato per la prima volta di seguire quello che chiamava l'istinto del cuore, cioè di separare, su un piano non intellettuale ma emotivo, l'uomo dalla sua malattia, e si era accorta che sì, ci riusciva. Oh, era facile, poteva farcela tranquillamente, vedeva Edgar con la testa fra le mani mentre l'uragano infuriava nella sua povera mente ottenebrata, ma l'uragano e lui erano due cose diverse! Passato l'uragano sarebbe guarito, sarebbe stato di nuovo lui. Ma nei momenti di pazzia doveva stargli lontano, per il suo bene; sarebbe tornata da lui più tardi. Decise di credere a tutti i costi che sarebbe andata così, per quanto impossibile potesse sembrare.
Nick aveva troppa paura per tornare nel sottotetto, o anche solo per uscire, e così finirono col passare troppo tempo insieme. Presto Stella diventò insofferente, ma non aveva più soldi e non sapeva come trovarne. In fondo al corridoio c'era un bagno, che lei e Nick condividevano con gli altri clienti del piano. Stella ci passava più tempo possibile, anche solo per sfuggire a Nick, ai suoi odori, alla sua ansia, alle sue voglie. La casa puzzava di cavolo bollito, e a quanto pareva ospitava solo esseri grigi e sciatti, che quando la incrociavano in corridoio o per le scale evitavano il suo sguardo.
Alla fine Stella non ce l'aveva fatta più. E se l'era presa con Nick. La mattina del terzo giorno, dopo un'ennesima notte agitata e infelice, Stella ci era andata a letto. Era stato un momento di debolezza, o forse era solo stufa di vederselo ronzare intorno con la lingua di fuori. Era rimasta praticamente immobile, anche perché era un po' indolenzita. C'era stato un solo aspetto positivo, che mentre Nick si dava macchinosamente da fare per raggiungere l'orgasmo Stella, all'improvviso, si ricordò come fosse fare l'amore con Edgar. E così, nella sua lancinante degradazione, ritrovò l'immagine del suo amante.
Una volta finito, Nick commise l'errore di mostrarsi pateticamente compiaciuto, e fu questo a far scattare la molla. Stella gli si rivoltò contro, lo prese ferocemente in giro, gli disse che era un debole, che non sapeva cosa farsene di un uomo così moscio, e quando Nick provò a dire che le voleva bene e la voleva aiutare lo mandò all'inferno. Poi andò in bagno, tornò e si vestì davanti a lui, provocandolo apertamente; quindi uscì senza dirgli dove stava andando, perché non lo sapeva nemmeno lei. Lo lasciò a leccarsi le ferite, come un cane bastonato.
Vagabondò per le strade, una donna triste e stordita, con l'impermeabile aperto e una sigaretta tra le dita. Non le importava dell'effetto che poteva fare. Una donna triste alla deriva per strade tristi, incorporea, irreale, forse solo un fantasma. Alla fine prese una decisione.
D'improvviso, mi disse, le parve assurdo continuare a nascondersi, e non dalle autorità dell'ospedale, ma da Edgar! Prese un autobus che la portò a Blackfriars, da dove raggiunse Horsey Street a piedi, sotto la pioggia. In strada i soliti ragazzini giocavano a pallone contro il muro, ma al suo passaggio si fermarono. La guardarono infilarsi nel vicolo che portava al cortile, e quella loro attenzione silenziosa ebbe un effetto tutt'altro che tranquillizzante. Il suo terrore era quasi fisico, adesso. Aveva la nausea. Continuava a inciampare, e pensò che non ce l'avrebbe fatta a proseguire.
Entrò nell'andito. Anziché riprendere il gioco, i ragazzini l'avevano seguita fino al cortile, e adesso se ne stavano lì a guardarla in silenzio. Presto Stella capì perché. La porta in cima alle scale era aperta, e nel sottotetto c'era qualcuno. Stella tornò immediatamente indietro, ma ormai l'avevano vista. Continuò a scendere anche quando una voce la chiamò. Un uomo la rincorse, raggiungendola a metà delle scale. Solo un momento, prego, disse appoggiandole una mano sulla spalla. Lei si voltò, e l'altro la riconobbe. Cristo, disse, è Mrs Raphael. Lei è Stella Raphael. Stella lo guardò. Non l'aveva mai visto. Lui cominciò a chiamare gli altri uomini. In un attimo ne arrivarono due, entrambi sorpresi quanto il primo. La riportarono nel sottotetto. Edgar non c'era, e a quanto pareva non sapevano dove fosse. Volevano farle qualche domanda, dissero. Se non le dispiaceva.