IX

Dopo questa svolta drammatica Stella rientra nel mio campo visivo, ritorna a fuoco; il mio resoconto si basa quindi di nuovo sull'osservazione diretta, e su quello che lei stessa mi dice. Ad esempio di essere grata ai poliziotti per averla trattata con una certa umanità. Personalmente, ritengo si sia trattato, più che altro, di stupore. L'ultima cosa che si aspettavano era di vedersela cadere fra le braccia in quel modo, tant'è vero che le chiesero solo se sapesse dov'era Edgar, rinviando a più tardi l'interrogatorio vero e proprio.

Gli eventi delle ore successive sono nella sua memoria qualcosa fra l'allucinazione e l'incubo. Stella ricorda un locale nella stazione di polizia, e una donna in uniforme che le offre un tè. Dopo circa un'ora era arrivato Max. Evidentemente anche lui, come la polizia, aveva scelto un approccio morbido: Stella la vittima, sedotta e abbandonata, una povera donna corrotta da un uomo diabolico, che dopo averla manipolata e irretita si è sbarazzato di lei. Vedendo Max entrare Stella aveva cercato di controllarsi, ma le sarebbero servite energie che non aveva più: prima che lui avesse il tempo di aprir bocca si era ritrovata fra le sue braccia, avvinghiata disperatamente a lui. Negli ultimi giorni si era sentita troppo debole, e sola, e disperata. Max le aveva fatto qualche carezza - da medico, da psichiatra, Stella se ne rendeva perfettamente conto, ma non le importava, anzi, era proprio ciò di cui aveva bisogno. Solo qualche tempo dopo il medico avrebbe lentamente ceduto il passo al marito, e per Stella sarebbe iniziato un altro incubo.

Si era concessa di crollare. Era diventata docile e remissiva come una bambina, o una malata. Aveva risposto alle domande sempre gentili dei poliziotti. Vedeva le loro espressioni preoccupate, li sentiva scambiarsi pareri a bassa voce, ma non tentava nemmeno di capire, o di avere una parte attiva in ciò che stava accadendo. Voleva solo che qualcuno si occupasse di lei. Non chiedeva altro.

Passò la notte in cella. I poliziotti sembravano quasi contriti, ma a Stella importava solo dormire, e loro le avevano promesso una pillola. La stanza era spoglia, e le lenzuola pulite. Stella inghiottì la pillola e chiuse gli occhi. Non riusciva più a pensare né a sentire nulla. Fece un lungo sonno profondo, e il mattino dopo l'unico sogno di cui conservasse traccia riguardava l'orto e la serra, ma non riusciva a ricordare altro.

 

A poco a poco il senso di stordimento svanì. Il giorno dopo dovette sottoporsi a un lungo interrogatorio. Il poliziotto, disse, era molto corretto, anche se un po' brusco. Gli occhi di Stella vagavano per l'ufficio. Le pareti erano di un verdino lucido fino all'altezza della spalla, e da lì in su color crema. C'erano due grandi finestre ad arco polverose, diversi archivi di metallo, una carta topografica piena di puntine colorate e un grande orologio sopra la porta. Il poliziotto le chiese dove avesse vissuto con Edgar Stark, che cosa avessero fatto insieme, chi avessero visto. Stella gli disse tutto quello che riusciva a ricordare, anche perché ormai non vedeva come potesse nuocere a Edgar, ma non riuscì a fare un solo nome. Il poliziotto annuì, prese qualche appunto, e soprattutto la aiutò a ricostruire i fatti nella loro concatenazione, a partire dalla prima volta che era stata in Horsey Street. Stella gli fornì la propria versione senza preoccuparsi delle reazioni che suscitava. Sorvolò sulle crisi di gelosia, e nei limiti del possibile cercò di lasciar fuori Nick. C'erano parti del racconto che al poliziotto sembravano interessare più di altre, ma Stella non capiva perché, né si sforzava di capirlo. Era finita, tutto qui, e per certi versi si sentiva sollevata e svuotata, anche se cominciava a intravedere, come attraverso una nebbia, la morsa lacerante del rimpianto per ciò che aveva perduto, e a intuire vagamente che cosa la aspettasse. Si stava preparando per le tenebre.

Il giorno dopo Max la riportò a casa. La Jaguar bianca aspettava nel cortile della stazione di polizia. Mentre Max le apriva la portiera Stella sollevò lo sguardo e vide le sbarre della cella dove aveva passato le ultime due notti. Poi la macchina uscì silenziosamente dal cortile confondendosi nelle luci del traffico londinese. Da quando l'avevano presa era la prima volta che Stella si ritrovava a tu per tu con Max.

«Hai l'aria stanca» buttò lì.

Max non rispose subito. Fumava, tenendo gli occhi fissi davanti a sé.

«Ieri sera ho telefonato a Jack. Siamo tutti e due convinti che la polizia archivierà il caso».

«Quale caso?».

Max si voltò un attimo a guardarla. Stella era raggomitolata sul sedile, avvolta nel cappotto che le aveva prestato lui. Sentendosi osservata, si girò a sua volta. Gli occhi di Max tornarono a fissarsi sulla strada.

«Nel caso tu non ne sia al corrente, quello che hai fatto è un crimine».

Il suo tono di voce non le piaceva, e quello che diceva non le interessava. Non gli rispose neanche. Adesso fissavano tutti e due la strada.

«Uno scandalo non serve a nessuno» disse Max.

Stella rimase in silenzio.

«Non dirmi grazie, per carità» aggiunse lui.

Davanti a loro un camion cambiò corsia e Max dovette frenare bruscamente. Poi si concentrò sul sorpasso, e quando riprese un'andatura normale sembrava aver dimenticato le sue pretese di gratitudine. Ma Stella no. Ora che era tutto finito, capiva di avere davanti a sé trattative complesse e delicate. Sempre che fosse tutto finito. In apparenza il comportamento di Max era molto nobile. Aveva fatto in modo che la polizia non andasse a fondo. Era al suo fianco. Ma tutto questo avrebbe avuto un prezzo. La gratitudine era solo un anticipo.

 

Parlai con Stella un freddo mattino di fine ottobre. Ricordo ancora i batuffoli di bruma fra i rami. Passeggiavamo nell'orto, dove era cominciato tutto. Gli uomini stavano bruciando foglie secche, e c'era odore di falò. Stella mi disse che le dispiaceva non vedere un'altra primavera e un'altra estate nel giardino. La trovavo molto cambiata. Era più pallida, più lenta, più pesante; adesso in lei c'era una specie di strana gravita. I meli erano carichi di frutti, e il terreno tutto intorno era cosparso di morbide sferette spugnose, verdi o gialle, picchiettate di puntolini scuri. Mentre avanzavamo cercando di evitarle, Stella mi prese sottobraccio. In seguito mi confessò che ero il suo primo e unico visitatore. Gli altri le facevano tutt'al più un cenno di saluto, ma non riuscivano a guardarla negli occhi: evidentemente offendeva il loro senso del decoro. Questo valeva per tutti, anche per gli Straffen, che sembravano svaniti nel nulla. E lei supponeva che anche il suo vecchio amico Peter Cleave fosse dalla loro parte.

«Insomma, come stai, mia cara?» le chiesi.

«Be', Peter,» rispose «ho passato periodi migliori. È davvero molto carino da parte tua venirmi a trovare. Ti pensavo a fischiare con gli altri».

«Io?» le dissi. «Io fischiare te? Non prendo le mie amicizie tanto alla leggera».

«Dovevo immaginarlo».

«E in ogni caso io sono un medico, non ho nulla da rimproverare a chi si ammala. E come potrei rimproverare a te di esserti innamorata?».

«Gli altri ci riescono benissimo».

«Ah, ma perché per loro è stato un trauma. Se ci pensi, quand'è che cominciamo a fare delle distinzioni tra quel che è giusto e quel che è sbagliato? Quando qualcosa ci ferisce o minaccia di farlo».

«Funziona così?».

«Almeno credo. Non sei d'accordo?».

Arrivati alla panchina vicino alla serra ci mettemmo a sedere. Stella rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.

«Non lo so, sono troppo stanca per pensare».

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. In seguito Stella mi disse com'era stato meraviglioso anche solo sentire qualcuno vicino; e che fino a quel momento non si era resa conto di quanto le fosse mancato.

«Come vanno le cose con Charlie?» le chiesi tranquillamente.

Stella aprì gli occhi.

«Caro Peter» mormorò. Mi era grata per il mio tatto, perché non le avevo chiesto come andava con Max; avevo individuato, mi rivelò in seguito, quale fosse l'unico rapporto che davvero contava per lei.

«Lo sto riconquistando. Ha bisogno di volermi bene».

«Mi mancherai» le dissi.

«Così hai sentito?».

«Di Cledwyn? Sì».

«Conosci il posto?».

«Ci sono stato una volta, a trovare un paziente. È tutto pecore e trattori. Temo che non ti piacerà».

Stella sorrise.

«Pecore e trattori. Farò la donna di campagna. E nessuno saprà del mio sordido passato».

Prima di alzarmi per andarmene le dissi quello che ero venuto a dirle, e cioè quanto sollievo mi dava vederla uscita indenne da quella storia.

«Tu questo non puoi saperlo».

«Ma sei tutta intera, mi sembra».

Stella si portò una mano al petto.

«Non qui».

«Lì guarirai» le dissi.

«Torna a trovarmi, ti prego. Sei l'unico amico che ho».

Promisi di farlo. Al momento dei saluti Stella mi chiese, facendo finta di niente, se sapevo dove fosse Edgar.

Le risposi di no.

In seguito mi disse di essersi sentita più serena, dopo la mia visita. Per un po' le tenebre parvero diradarsi. Decise di appoggiarsi il più possibile a me, prima della partenza per il Galles. Lo avrebbe preso come un esercizio spirituale, per prepararsi a ciò che la aspettava.

 

Nei giorni successivi andai spesso a trovarla, e Stella mi parlò in modo molto esplicito dei rapporti con suo marito. A quanto pareva, Max provava una specie di sinistro compiacimento nel vederla subire il contraccolpo del suo adulterio, e il sottinteso costante di ogni sua parola e di ogni suo gesto era più o meno lo stesso: te la sei cercata, è colpa tua. Ma va' all'inferno, pensava Stella, posso sopportare tutto, tutto tranne la tua finta calma, e lo so benissimo cosa nascondi dietro quella maschera asettica che porti: la tua mefitica superiorità morale. Max voleva fare il magnanimo davanti agli altri, ma a lei non avrebbe mai concesso di dimenticare che l'aveva ferito, o meglio, che l'aveva umiliato, davanti a tutti; avrebbe scelto lui dove e quando colpire. Secondo Stella, Max dava per scontato che una donna così enormemente in torto non avrebbe mai avuto il coraggio di ribellarsi alle sue velenose punzecchiature. La vedremo, pensava Stella, preparandosi al peggio con animo di sfida.

Com'era stato il ritorno a casa?

Oh, disse Stella con un brivido, di colpo le stesse stanze in cui era tranquillamente vissuta fino a qualche settimana prima le erano sembrate anguste, sembravano celle, peggio di quelle della polizia da cui era appena uscita. Duro e asciutto come sempre, Max aveva pronunciato tre parole in tutto, «Eccoci a casa», dirigendosi subito verso il mobile bar. Stella era rimasta in silenzio, ma per una ragione diversa: sentiva la morsa delle tenebre che la stringeva alla gola.

In casa, quella sera, c'era uno strano silenzio. L'estate era finita da un pezzo, e il tempo era umido e nebbioso. Max e Stella si aggiravano per le stanze improvvisamente troppo grandi come due estranei in un albergo vuoto. Max aspettava a dare inizio alle rappresaglie, ma secondo Stella era perché l'enormità della sua colpa lo metteva in soggezione. Che nonostante il peso del suo peccato lei riuscisse ancora a mangiare, a bere, o a entrare in una stanza lo lasciava stupefatto, e in un certo senso anche ammirato. Non riusciva a capacitarsi di non vederla strisciare, piangere e strapparsi i capelli implorando il suo perdono. Meno Stella sembrava vergognarsi di ciò che aveva fatto, più appariva svergognata agli occhi di Max; e più lo inorridiva il piacere inconfessabile che egli stesso in realtà traeva da quel sordido gioco delle parti. Era una sera decisamente fredda, ma Stella si portò da bere sul prato e rimase in piedi a fissare il buio. Alle sue spalle sentiva Max muoversi per casa. Era quasi l'ora della buona notte.

Stella si fece il letto nella stanza degli ospiti. Era sicura che Max lo avrebbe preso per un atto di riguardo, che lo sollevava dall'imbarazzante rifiuto di dormire con lei. Invece era una decisione tutta sua; se avesse voluto dormire nel suo letto l'avrebbe fatto e basta. Non aveva paura di lui, e non gli avrebbe certo tolto le castagne dal fuoco. Se voleva punirla, che si arrangiasse da solo. Come? Era un problema suo, non la riguardava. Stella sentì il terreno tremarle sotto i piedi, e l'abisso che cominciava a spalancarsi.

 

Per qualche giorno tutto sembrò intriso di un solenne, pesante formalismo. Stella ricorda di aver trascorso un lungo pomeriggio di pioggia prima nella vasca con un gin tonic, poi vagando da una stanza all'altra senza far niente, senza annoiarsi, solo inerte, passiva. Era entrata nella stanza di Charlie e si era buttata sul letto. Probabilmente si era addormentata, perché tornando dal lavoro Max l'aveva trovata ancora lì. Era nervoso, come al solito, ma c'era qualcos'altro: stavolta il motivo dell'ansia che Stella percepiva non era lei.

«Cosa c'è?» gli chiese. «È successo qualcosa a Charlie?».

Max era appoggiato contro lo stipite. Tirò fuori le sigarette, guardando ostentatamente da un'altra parte.

«Sei sicura che ti interessi?».

«Certo che mi interessa. Dimmi».

Era seduta sul bordo del letto. Max si accese una sigaretta, piegò la testa all'indietro e soffiò il fumo verso il soffitto.

«Mi hai rovinato».

«Cosa intendi?».

«Jack mi ha buttato fuori».

Stella non sapeva cosa dire.

«Oh, ma non può!».

Max si strofinò la faccia e mandò un sospiro.

«Non ti interessa sapere perché sono diventato una persona non grata? O, se preferisci, un medico che non offre molte garanzie, da quando sua moglie è fuggita con un paziente».

Nella sua voce, all'improvviso, c'era la collera.

«Cosa farai?» gli chiese.

Max aspettò prima di rispondere. Stava di nuovo covando in silenzio.

«Jack è convinto che la mia presenza comprometterebbe la missione dell'ospedale».

Stella sbadigliò.

«Che trombone» disse.

Max scosse la testa, poi scese di sotto. Stella lo sentì entrare in studio, dove rimase chiuso per il resto della sera, e dov'era ancora quando lei andò a dormire. Si sentiva terribilmente stanca.

 

Il mattino dopo telefonò a Charlie. Stava da Brenda e non si erano ancora visti, ma lo aveva chiamato tutti i giorni. Aveva sofferto, certo che aveva sofferto; lei era sparita nel nulla senza prepararlo, mi disse, e naturalmente si era sentito abbandonato. Secondo Stella si era addirittura attribuito tutta la colpa, almeno fino a quando Brenda e Max non gli avevano spiegato che non doveva tormentarsi, che non era lui il responsabile della sua infelicità, ma lei, soltanto lei. Eppure Stella era sicura che Charlie volesse tornare a casa. Aveva bisogno di voler bene a sua madre, e di sentire che anche lei gliene voleva. Ma Brenda faceva il possibile per impedirlo.

«Non è in casa» le disse. Stella sapeva che non era vero.

«Fammici parlare, Brenda».

«Ieri sera era molto agitato. Credo che dovresti dargli il tempo di capire un po' alla volta».

«Passamelo, per favore».

«Hai pensato cosa è meglio per lui?».

«Per favore, non ti intromettere. Lasciamici parlare».

Qualche attimo di silenzio, poi Charlie venne all'apparecchio.

«Mami?».

«Ciao, tesoro. Cosa fai?».

«Oh, ho fatto un sacco di gite. Adesso però voglio tornare a casa».

 

Nel pomeriggio andò con Max alla stazione. Durante il tragitto rimasero in silenzio. Stella era sicura che lui volesse il divorzio, ma non ne aveva ancora parlato, e non sarebbe stata certo lei ad affrontare l'argomento. Aveva avuto abbastanza traumi, ora le servivano solo un rifugio e un po' di tempo: per riprendersi dallo stato di shock, innanzitutto, e poi per affrontare il dolore della perdita di Edgar.

Charlie scese dal treno nervosissimo, ma quando si ritrovarono tutti e quattro sulla banchina (era venuta anche Brenda), e Stella si accovacciò e gli prese le mani, si buttò fra le sue braccia, e la baciò sulla bocca. Stella colse l'occhiata che Brenda gettava a Max, e l'inarcarsi di un sottile sopracciglio depilato.

La macchina era posteggiata subito fuori dalla stazione. Charlie e sua madre si avviarono tenendosi per mano, seguiti da Max e Brenda. Stella disse che si era sentita sollevata da un grosso peso. Le sembrava che se lei e Charlie avessero ritrovato l'armonia di prima si poteva recuperare almeno una parvenza di vita normale. Max avrebbe continuato a bollire nel suo brodo, e Brenda avrebbe sicuramente detto ai suoi amici di Knightsbridge che suo figlio aveva sposato una troia, ma nulla di tutto questo la toccava, nulla aveva la minima importanza.

Mentre Max offriva da bere a sua madre in soggiorno, Stella accompagnò Charlie in camera.

«Sono proprio felice che tu sia tornato a casa» gli disse appendendogli i vestiti mentre lui si preparava per andare a dormire.

«Adesso torni a Londra?».

«No, non andrò mai più via. Mi dispiace tanto. Mi perdoni?».

Si sedette sul letto. Charlie finì di abbottonarsi il pigiama, poi la baciò di nuovo. Stella lo abbracciò, stringendo forte a sé il suo corpiciattolo paffuto e chiedendosi come avesse potuto abbandonarlo. Poi gli disse quanto le fosse mancato, e scoppiò a piangere. Charlie la consolò, comportandosi da vero cavaliere: rimase ad ascoltarla parlare dei suoi rimorsi accarezzandole i capelli e ripetendole solennemente che ormai era tutto a posto, e quindi non c'era nessun bisogno di piangere, per favore.

 

Quella notte Stella si sentì sommergere dai ricordi di Edgar. Ma perché proprio quella notte? Perché la crosta ovattata che le ricopriva il cuore aspettò proprio quella notte per spezzarsi? Secondo Stella, perché Charlie era tornato, e amare lui aveva risvegliato quell'altro, più grande amore, di cui aveva subito sentito la mancanza e il desiderio. Dopo cena era salita nella stanza degli ospiti, la sua stanza, lasciando Max a occuparsi di offrire il caffè a Brenda e di riaccompagnarla alla stazione. La cena - prosciutto e patate lesse - era stata consumata con tetra compitezza. Per lunghi tratti, a spezzare una tensione quasi palpabile e che nessuno si sentiva di affrontare, c'era stato solo il tintinnio delle posate (a parte le banalità che Brenda ogni tanto sussurrava, ma con le quali era difficilissimo imbastire una conversazione, perché presupponevano che loro tre sarebbero rimasti a vivere lì). Max non le aveva detto di aver perduto il posto. Troppo imbarazzante, immaginava Stella. Per lei, comunque, andava benissimo così: Brenda le avrebbe sicuramente dato addosso, l'avrebbe considerata una volta per tutte la rovina di suo figlio, e Stella proprio non se la sentiva di affrontare anche questo. Insomma eccola lì, l'allegra famigliola riunita in una fredda serata d'autunno, e meno male che alle chiacchiere pensava Brenda, altrimenti il silenzio in agguato negli angoli della stanza li avrebbe fatti a pezzi. Stella rimase a tavola il minimo indispensabile, poi scappò di sopra. Per la cena non ci fu neanche un grazie, né da Max né da sua madre.

Entrò un attimo da Charlie, che dormiva, poi si buttò sul letto, lasciandosi sommergere da un'ondata di dolore e di pianto che la lasciò prostrata. Più tardi si mise alla finestra, con un cardigan sulle spalle, e si consolò ripensando alle notti di Londra e a quanto viva si fosse sentita, pazza d'amore per quel povero malato e per la loro vita insieme in quelle poche, splendide settimane prima della catastrofe. Dov'era, dov'era Edgar? Le bastava pensare a lui per vederlo come se lo avesse davanti agli occhi; non era né facile né indolore, ma per nulla al mondo lo avrebbe lasciato andare. Capì allora che non sarebbe finita tanto presto. Sentì Max e Brenda uscire di casa, e subito dopo il rumore della macchina che partiva. Dopo un po' lo sentì rientrare, spegnere le luci e salire di sopra. Si era fermato in corridoio; grazie al cielo non aveva bussato alla sua porta.

Il mattino dopo si parlarono. Fu Max a prendere l'iniziativa. Rientrò dall'ospedale a mezzogiorno, e Stella era sola in cucina. Le disse che forse era il caso di scambiare due parole, in studio da lui, se non le dispiaceva. Stella non poté tirarsi indietro. Max non sembrava in collera, e neanche particolarmente risentito, solo stanco, e preoccupato, e triste. Le faceva quasi pena. Stella si asciugò le mani su uno strofinaccio e lo seguì in studio.

«Siediti» le disse. «Sto pensando al nostro futuro».

Obbediente, Stella si sedette, pronta ad ascoltare quello che Max aveva da dirle.

«Ho cominciato a cercare un posto. Ci sono diverse possibilità. Niente di trascendentale, solo incarichi clinici. Al momento nessuno smania per offrirmi un posto di responsabilità. Non sembro la persona più indicata».

La frase fu lasciata sospesa nell'aria per qualche secondo.

«Di tornare a Londra per ora non se ne parla».

Altra pausa. Max fissava Stella con un'espressione fredda e concentrata, da entomologo. Aspettava una sua reazione.

«Peccato» mormorò Stella.

«Già, peccato».

Max si rabbuiò, armeggiando con fiammiferi e sigarette senza offrirne a Stella.

«Temo non ci si possa fare nulla. Del resto te la sei voluta».

«Posso avere una sigaretta anch'io, per favore?».

«Certo, scusa».

Per qualche attimo fumarono in silenzio.

«Stella, vorrei sapere se intendi continuare a vivere con me o no. Se hai altri progetti sono qui per ascoltarli. In ogni caso Charlie rimarrà con me, non c'è bisogno che te lo dica. Hai altri progetti?».

«Non ho nessun progetto, Max».

«Siamo ancora sposati. Di quello che è successo parleremo quando sarai pronta per farlo. Non vedo che senso abbia metterti fretta, mi sembri ancora sotto shock. Nel frattempo ti propongo di salvare le apparenze, nei limiti del possibile».

Stella non disse nulla.

«Penso che potremmo se non altro provare ad avere rapporti civili. Dio sa se non è già abbastanza dura per me. Mi hai fatto molto male, Stella».

«Nel senso che ti ho fatto fare la figura del cretino».

«No, non in quel senso».

Max si sforzò di contenere l'irritazione.

«Non in quel senso» ripeté. «Ma ne parleremo a suo tempo. Non ora. Vorrei che tu e io prendessimo alcuni accordi di base. Penso che sia meglio se porti le tue cose nella camera degli ospiti. E credo che dovresti continuare a occuparti della casa, cucinare, fare le pulizie, e così via. Io troverò un posto e mi occuperò del trasloco. Propongo di andare avanti alla giornata, per un po', e di provare a ricostruire una specie di vita».

Fuori dalla finestra dello studio c'era un albero. Quasi tutte le foglie erano cadute ma qualcuna ancora si staccava ogni tanto dai rami.

«Fin qui sei d'accordo?».

«Si».

Max si tolse gli occhiali e si passò la mano sul viso.

«Posso chiederti almeno di fare uno sforzo?».

«Mi occuperò della casa».

«Non intendevo questo. Non importa».

Max diede un'occhiata all'orologio e disse che doveva rientrare in ospedale. Si alzarono insieme, ritrovandosi uno di fronte all'altro al centro della stanza. Max sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma squillò il telefono e andò a rispondere.

«Pronto?».

Silenzio.

«Pronto?».

Dopo qualche attimo, Max riagganciò.

«Chi era?» chiese Stella.

«Nessuno».

Ma Stella sapeva che era lui.

 

Tre giorni dopo Max le comunicò di aver fatto domanda per un posto in un ospedale psichiatrico nel nord del Galles. Disse che glielo avrebbero tirato dietro, sottintendendo che si trattava di una soluzione molto al di sotto delle sue possibilità. Non ne aveva ancora parlato a sua madre. Stella cercò di immaginare da dove avrebbe cominciato. Dalla troia che era stata la sua rovina?

 

I ricordi di Edgar erano calci nello stomaco, la coglievano sempre alla sprovvista e la lasciavano boccheggiante. Ma adesso a mitigare il dolore c'era la convinzione che Edgar stesse cercando di raggiungerla e, a tratti, sentiva riaffiorare la speranza. Quando Max era a casa, comunque, le riusciva impossibile anche solo darsi un contegno. Secondo Stella lui sapeva cosa stava succedendo: qualsiasi psichiatra, da una distanza così ravvicinata, sarebbe stato in grado di diagnosticare un cuore infranto. Ma non le mostrava un briciolo di comprensione, e Stella lo odiava. Lo odiava perché non era Edgar, eppure era lì con lei, e tanto bastava. Non era giusto, ma non poteva farci nulla. In alternativa all'odio provava solo indifferenza, un senso di vuoto, di morte, di freddezza in cui riconosceva una forma di aggressività passiva. Se fosse stata meno esausta non avrebbe tollerato di vivere in quel modo. Ma siccome aveva bisogno di un rifugio, e di Charlie, finì per trascinarsi un giorno dopo l'altro, mandando più o meno avanti la casa e aspettando nel più assoluto disinteresse la partenza per il Galles. E ogni volta che suonava il telefono sentiva un colpo al cuore.

Ma non era mai lui. Il tempo continuava a peggiorare, e la prospettiva dell'inverno le dava uno strano senso di sollievo. L'unico desiderio che aveva era dormire, e per una persona nella sue condizioni l'aria fredda e le notti sempre più lunghe significavano una cosa soltanto: poter scivolare dolcemente nel buio. Stella pensava che volendo, avrebbe sempre potuto risvegliarsi in primavera. Il sonno era una promessa di oblio, e nell'oblio, se non altro, il fantasma di Edgar avrebbe smesso di perseguitarla. Ma Edgar, il vero Edgar, dov'era? Spesso, in quelle umide giornate d'autunno, a letto o passeggiando in giardino, Stella cercava di immaginarsi la scena del suo ritorno, o del loro prossimo incontro. Se lo sarebbe semplicemente ritrovato davanti, o l'avrebbe mandata a prendere come aveva fatto l'altra volta? E lei gli avrebbe risposto? Sarebbe corsa di nuovo da lui senza pensarci un minuto? Non lo sapeva. Non lo sapeva.

 

Ma prima di tutto Stella doveva prepararsi alla tempesta che Brenda avrebbe scatenato appena messa al corrente delle novità. Max esitava a parlargliene, era evidente, ma non poteva temporeggiare in eterno. Qualche giorno dopo prese la macchina e andò a Cledwyn, da dove tornò meno abbattuto di quanto Stella si sarebbe aspettata. Disse che c'erano possibilità interessanti. Interessanti in che senso, gli domandò Stella. Oh, rispose lui, in ospedale. Il direttore è una mia vecchia conoscenza. Ha qualche buona idea. Vuole fare dei cambiamenti.

«Dove vivremo, Max?».

«Ho pensato che potremmo comprare una fattoria e rimetterla a posto. È pieno di grandi fattorie di pietra, da quelle parti. Anche piuttosto belle, a modo loro. Potrebbe essere divertente».

E da quando in qua a Max interessava il divertimento? Magari, chissà, le ambizioni frustrate lo avevano condotto a sperimentare una nuova filosofia di vita in cui rientrava anche quello. Be', se davvero il lavoro era meno grigio del previsto, forse si sarebbe divertito; quanto meno di giorno, in ospedale. Diverse erano le prospettive dell'intrattenimento serale, fra le mura domestiche.

«Cos'hai detto?» chiese Max.

«Ho detto, perché no».

Erano in sala da pranzo, dopo cena, e stavano finendo il vino. Charlie era salito in camera a leggere.

«Quando pensi di dirlo a Brenda?».

Il «perché no» di Stella aveva strappato a Max un sospiro di rassegnazione. Avrebbe preteso un minimo di entusiasmo, da parte sua. Anche finto, sarebbe andato bene lo stesso. In fondo lui stava dannandosi per mantenere una parvenza di normalità, e non capiva perché Stella, che quella normalità aveva infranto con tanta violenza, non dovesse fare altrettanto. Ma sapeva anche che arrabbiarsi con lei non sarebbe servito a niente. Da qui il sospiro.

«Vado di là e la chiamo» rispose. «Così la facciamo finita».

«Dio, le piglierà un colpo».

«Cercherò di calmarla. La sola idea di noi tre nel Galles le sembrerà raccapricciante».

«Non di noi tre. Di te e di Charlie. Che io ci sia o no per lei è identico».

Max non accennò neppure a contraddirla. Prese il suo bicchiere e andò in studio, chiudendosi la porta alle spalle.

Stella rimase seduta a tavola, nel suo strano torpore, senza la forza di muoversi. Brenda avrebbe odiato a morte la donna che stava trascinando suo figlio e suo nipote in esilio. Li stava trascinando a fondo con lei, glieli stava strappando. Sì, Brenda l'avrebbe odiata come non mai.

Non era andata bene, se ne rese conto vedendo Max uscire dallo studio, afflosciarsi in poltrona, e, soprattutto riempirsi di nuovo il bicchiere.

«Non compreremo nessuna fattoria» disse. Non riusciva a guardarla in faccia.

«Come?».

«Se andiamo a Cledwyn non vedremo più un soldo da lei».

«E il tuo stipendio?».

«Col mio stipendio non potremo certo permetterci la vita che facciamo qui. In un buco come quello, uno psichiatra qualsiasi…».

Max era impietrito alla prospettiva della loro imminente povertà. A Stella invece non faceva né caldo né freddo, come tutto il resto. Poi, di colpo, le venne in mente una cosa.

«Scusa, Max,» disse «ma se divorziassimo? Voglio dire, se tu e Charlie andaste a Cledwyn senza di me, anche in quel caso Brenda ti taglierebbe i fondi?».

Max non rispose. Il suo silenzio equivaleva a un no.

«Capisco. Ti ha messo di fronte a un aut aut. O ti sbarazzi di me o niente soldi».

Max continuava a tacere.

«O me o lei, Max» disse Stella. «Sta a te scegliere».

Povero Max, pensò suo malgrado. Sua madre lo aveva messo in una gran brutta posizione. Solo in apparenza, però, perché in realtà Max non aveva scelta. Ormai aveva deciso di fare il bel gesto, e non avrebbe certo potuto cambiare idea per denaro. Era una questione di principio.

«La macchina possiamo tenerla, spero» disse.

Max allora la guardò. La sua faccia stanca era stravolta dall'amarezza e dal disgusto.

«Sì, Stella. La macchina possiamo tenerla».

In realtà, a Stella non importava affatto. «Be', è già qualcosa» disse.

 

Cominciò a preparare i bagagli. Era un lavoro che non le impegnava la testa, e richiamava l'idea di una famiglia che si sposta in continuazione pur rimanendo unita. Ma che cosa teneva uniti loro tre, che tipo di futuro poteva mai attenderli? Non gliene veniva in mente nessuno, ma sentiva di non avere alternative. Così imballò stoviglie e porcellane sistemando i pacchetti negli scatoloni, che chiuse col nastro adesivo ed etichettò. La stessa fine fecero quadri, vestiti e lenzuola. Mrs Bain le diede una mano, mettendo bene in chiaro che lo faceva per puro senso del dovere, non certo perché le andava. Stella vuotò le stanze una per una, sistemando le loro cose in scatole, casse, bauli e valigie, e in qualche modo impacchettare la vecchia vita e spedirla altrove finì col sembrarle la soluzione migliore.

Una mattina, mentre stava ancora trafficando con le casse e il nastro adesivo, tornai a trovarla. Mi preparò un tè, poi mi disse che non poteva assolutamente smettere di lavorare, era troppo occupata, ma che le avrebbe fatto piacere se fossi rimasto. Magari potevo accompagnarla in soggiorno e raccontarle qualcosa, mentre lei avrebbe continuato a impacchettare i libri. Così me ne stetti per un po' a guardarla, prima di dirle quello che avevo in mente.

«Stella, Max ti dà qualche medicina?». Mi guardò rimanendo piegata su una cassa di libri. La domanda l'aveva colta di sorpresa.

«No, certo che no» rispose. «Perché me lo chiedi?».

«Perché penso che tu sia depressa».

«Be', certo che sono depressa. Tu non lo saresti?».

Si raddrizzò, passandosi una mano fra i capelli. Adesso trovava buffo che me ne stessi lì a fissarla dicendole, con una serietà mortale, delle banalità assolute.

Io non ci trovavo niente da ridere.

«Non sarà facile, per lui, cogliere i segnali» dissi.

«Quali segnali?».

«Qualcuno dovrebbe seguirti. Qualcuno che non sia Max, intendo».

«Cosa stai cercando di dirmi?».

Si sedette sul bordo di una poltrona accendendosi una sigaretta.

«Stella, in questo momento tu sei vulnerabile. Stai per trasferirti in una regione in cui la gente non va famosa per la sua cordialità con i forestieri, dove non conosci nessuno, e con un marito che è ancora furioso con te. Sono preoccupato, Stella».

«Ce la farò» mi rispose tranquilla.

«Lo spero. Vorrei che mi scrivessi».

«D'accordo».

«Regolarmente».

«E va bene, va bene!». Adesso rideva. «Ma davvero il Galles è questo inferno? Da come ne parli sembra la Siberia».

«Per te sarà proprio questo. Una specie di Siberia».

«Oh, smettila».

Poi, accompagnandomi alla porta, mi fece la solita domanda.

«Nessuna notizia di lui?».

Mi presi un momento prima di risponderle. Stella dava per scontato che fossimo entrambi in ansia. Frenai l'impulso di dirle che doveva smettere di pensarci, e mi limitai a scuotere la testa.

«Povero Edgar. Peter, dove vive suo figlio?» mi chiese.

«Suo figlio?».

«Leonard».

«Edgar non ha figli».

«Sì, invece!».

«Stella, Edgar non ha figli. Credi che non lo saprei?».

Stella fece una risatina nervosa.

«Forse non dovremmo parlare di lui, vero?» disse.

 

Si aggirava per le stanze vuote ripensando agli avvenimenti dell'estate. Fra meno di una settimana sarebbe stata in Galles, e non avrebbe più rivisto quella casa. Alla fine Max aveva rimediato una sistemazione: avrebbero preso in affitto parte di una fattoria in cui vivevano anche il proprietario e sua moglie. Pareva non ci fosse un vero e proprio giardino, ma Max diceva che tutt'intorno era aperta campagna, con prati, boschi, una cava. Charlie seguiva con molta attenzione, cercando di convincersi che nel cambio ci avrebbe guadagnato.

Non ci furono cerimonie di commiato. Jack Straffen offrì a Max un bicchiere di sherry nel suo studio. C'ero anch'io; si scambiarono qualche ovvietà, come che la casa della psichiatria è molto grande e c'è posto per tutti, poi Jack espresse a Max la sua comprensione, anche se non si capiva bene che comprensione potesse mai avere per un uomo che voleva il suo posto, e che senza il fatale sabotaggio di sua moglie sarebbe anche riuscito ad averlo. Ma la domanda che si ponevano tutti era in realtà un'altra, e cioè se Max non fosse un po' matto anche lui, visto che aveva sposato una donna capace di fare quel che aveva fatto Stella. Insomma, se era uno di cui ci si poteva fidare. Io mi sforzavo di non giudicare, ed esortavo gli altri a fare altrettanto, anche se pensavo, come del resto penso ancora oggi, che Jack avesse fatto bene a mandarlo via. La nostra è un'istituzione troppo esposta per affidare un ruolo di responsabilità a un uomo come Max Raphael.

Mi sembra di sentirlo: «Le sono rimasto vicino, nonostante tutto le sono rimasto vicino».

La mattina della partenza pioveva. I traslocatori erano venuti il giorno prima a caricare su un grande furgone nero i mobili, poi le casse e infine le scatole con il loro bel nastro adesivo e le loro belle etichette. Quando ebbero finito Charlie e Stella li guardarono andar via, mentre Max faceva il giro della casa per chiudere tutto. Andarono per l'ultima volta fino al Cancello e consegnarono le chiavi. Poi partirono per il nord.

 

Il viaggio durò diverse ore. Siccome a Charlie il paesaggio interessava più che a Stella, si era messo davanti; Max guidava. Almeno ci rimane la macchina, Stella ricorda di aver pensato; era affezionata a quella macchina così comoda. A nord di Birmingham le venne un pensiero terribile: come farà Edgar a trovarmi? Quando verrà a cercarmi, chi gli dirà dove sono andata? A chi potrà chiederlo? Guardò fuori dal finestrino cercando di ricacciare indietro le lacrime. Poi colse nel retrovisore il lampo degli occhi di Max che la fissavano, come sempre, in attesa di un momento di debolezza come quello, della conferma che lei era ancora da un'altra parte, e niente affatto pentita. Oh Edgar, pensò, perché mi hai fatto questo, perché mi hai lasciato qui a torcermi dal dolore sotto lo sguardo di quest'uomo gelido? Allora era in collera col suo amante, e poteva permetterselo: sapeva che stava cercando di raggiungerla.

Quando arrivarono era già buio. Avrebbero trascorso la notte in paese; avevano appuntamento con i traslocatori il mattino dopo davanti a casa. Max era stanco, e arrabbiato: si era accorto che Stella aveva pianto, e sapeva per chi. Si era distratto facendo quattro chiacchiere con Charlie, e dopo un po' Stella si era messa a seguire la loro conversazione. Quello che si stavano dicendo la lasciava indifferente, mentre la affascinava, e la inorridiva, il modo in cui Max stava modellando i pensieri di Charlie. Gli inculcava i propri schemi logici, lo allontanava dalla sua sfera d'influenza; non sapeva se la ritenesse inadatta come madre o se, come sospettava, seguisse un impulso più primitivo, quello di punirla. In ogni caso, Stella lo trovava sgradevole, anche perché Charlie era proprio nell'età in cui si viene plasmati come cera dall'impronta di una mente adulta.

Stavano mangiando nel ristorante dell'albergo, e Stella osservava con calma lo squallore provinciale dell'ambiente. All'improvviso ebbe la certezza che la casa in cui sarebbero andati ad abitare il giorno dopo fosse orrenda.

«Max» disse. «È brutta, la casa? La odierò?».

Padre e figlio smisero di parlare e la guardarono. Li aveva interrotti. Bene, pensò. Devo interromperli il più spesso possibile. Non devo permettere che Max si tenga il bambino tutto per sé. Che gli rubi l'anima.

«Non mi sembra brutta, no» disse Max. «Anzi, è una casa abbastanza bella».

«Di cosa è fatta?» chiese Charlie.

«Di pietra» rispose Max. «Qui per costruire usano la pietra».

«Chissà com'è fredda» disse Stella a Charlie. «Tu cosa ne pensi, tesoro? Non pensi che sarà fredda?».

Charlie era indeciso.

«È fredda?» chiese.

«C'è una stufa a legna in soggiorno, caloriferi elettrici, e moquette in tutte le stanze, tranne in cucina».

«Non intendevo questo» disse Stella.

«E allora cosa?».

«Intendevo fredda dentro».

Max non disse nulla. Sorseggiava la sua acqua continuando a fissare Stella con due occhi che dicevano stai attenta, basta così. Charlie guardava ora l'uno ora l'altro, senza capire.

«Ma noi la scalderemo, vero tesoro?» disse Stella.

«Cosa vuol dire?» chiese Charlie.

«La mamma vuol dire che nella nuova casa saremo felici». Max la guardò. «Non è così?».