X
Dalla strada la casa si vedeva a un chilometro di distanza. L'ampia vallata era chiusa da lunghe colline basse con file di alberi in cresta. Era una giornata limpida e ventosa, e Stella non riusciva a scrollarsi di dosso la paura che l'opprimeva. Banchi di nuvole si inseguivano nel cielo. La strada, stretta e cosparsa di letame, correva fra siepi selvatiche e muri a secco. A quattro o cinque chilometri dal paese Max indicò a Stella e a Charlie la fattoria, un massiccio blocco grigio e squadrato che dominava la vallata. Sembrava una roccaforte costruita per difendere i suoi occupanti, ma da cosa? Max gettò un'occhiata nel retrovisore.
«Che ne pensi?» disse. «Non la trovi bella?».
Nella sua voce Stella colse una sfumatura di trionfo; sapeva di averla presa in trappola.
«Non lo so» mormorò lei. Non riusciva a capire se quella grande casa grigia l'avrebbe protetta o no. Cinque minuti dopo oltrepassarono il cancello e scesero timidamente dalla macchina. Sulla targa subito fuori c'era scritto «Plas Mold».
Il camion dei traslochi era già parcheggiato dietro casa, con la ribalta abbassata e gli uomini tutt'intorno a fumarsi una sigaretta. Uno di loro, un piccoletto smilzo con una giacca ruvida di tweed, si fece avanti. Per scappare dal vento che tirava, e dalla puzza di letame, Stella tornò in macchina, e rimase a guardare Max e Charlie stringere la mano all'uomo in giacca di tweed, che subito dopo tirò fuori un mazzo di chiavi. Poi i tre si diressero verso la porta sul retro e sparirono dentro. Da qualche parte, dietro la casa, un cane abbaiava. I traslocatori si arrampicarono sul camion e cominciarono a passarsi le scatole. Qualche minuto dopo Max uscì e si avvicinò alla macchina.
«Vieni a dare un'occhiata» disse. Sembrava proprio convinto che il posto le sarebbe piaciuto.
L'uomo in giacca di tweed era il proprietario, Trevor Williams, che viveva nell'altra metà della casa con sua moglie Mair. Non avevano figli. Williams accompagnò i nuovi inquilini a fare un giro. Era un tipo silenzioso, e Stella ebbe la netta sensazione che preferisse avere il meno possibile a che fare con loro. Il vento ululava intorno alla casa, facendola gemere e scricchiolare come una nave. La cucina era una lunga stanza al pianterreno, identica al soggiorno del piano di sopra, mentre il secondo piano era diviso in due stanze da letto, con un corridoio e un bagno. Stella capì subito che avrebbe dovuto dormire con Max, e si chiese perché lui non l'avesse informata. Cosa gli faceva credere che avrebbe accettato? Ma sul momento non disse nulla, perché Trevor Williams la stava guardando.
Il padrone di Plas Mold non le piaceva affatto. Mi disse che nelle settimane successive avrebbe incontrato diversi personaggi dello stesso genere, uomini guardinghi, sospettosi, cupi, sfuggenti, che per i Raphael, come per tutti gli inglesi, covavano un risentimento antico. Quanto alle donne, erano tutte incattivite dalla fatica. Più tardi Stella incontrò Mair che usciva di casa con il cesto del bucato. Stava andando a stenderlo sulla corda tesa di fianco alla casa, dove c'era una macchia d'erba. Mentre Mair faceva avanti e indietro col cesto, un paio di mollette fra i denti, il bucato sbatteva rumorosamente nel vento. Era magra come suo marito, ma senza quella scintilla di vitalità furtiva che Stella aveva colto nello sguardo di lui e che testimoniava il desiderio di piaceri segreti, anche da poco, purché insaporissero quell'esistenza scialba. Negli occhi di Mair c'erano solo lavoro, delusione, rancore e sterilità; non aveva figli. Si presentò, poi le due donne rimasero in piedi nel vento, Mair aggrappata con tutte e due le mani al suo cesto di biancheria, mentre gli uomini, ansimando, portavano in casa il letto matrimoniale. Mair chiese a Stella se venissero da Londra, e Stella disse di no, non da Londra, ma da un posto abbastanza vicino. Ah, disse Mair, e Stella capì che per il momento il lezzo dello scandalo non era arrivato a quelle sottili narici arcuate.
«Quanti anni ha suo figlio?» chiese Mair.
«Dieci».
«È piccolo».
«Sì».
Sollevato da un uomo a ogni estremità, il telaio del letto venne fatto passare attraverso la porta. Stella offrì una sigaretta a Mair, che per prenderla posò il bucato. Sapeva come si accende una sigaretta nel vento. Non doveva avere più di trentacinque o trentasei anni, ma la sua bellezza si era come prosciugata. Nonostante gli occhi chiarissimi, e la pelle che un tempo era stata liscia, sembrava senza età e senza sesso, un frutto dimenticato da tempo immemorabile, e ormai senza più una stilla di succo.
«Vi ha già fatto vedere tutto, vero?» disse.
«Sì».
Mair annuì, raccolse il cesto, e con la sigaretta che le penzolava dalle labbra, gli occhi socchiusi per il fumo, si trascinò dietro la casa, dove il cane continuava ad abbaiare. I traslocatori tornarono fuori. Stella non aveva ancora affrontato con Max il problema del letto.
Riuscì a farlo solo dopo cena, quando Charlie salì di sopra e loro due rimasero seduti al tavolo di cucina. Dalla finestra in fondo alla stanza, ancora senza tende, si vedevano la vallata buia e il cielo stellato. L'incessante ruggito del vento non copriva del tutto i rumori del bestiame nei campi sotto casa. A molti chilometri di distanza, i fari di una macchina avanzavano lentamente lungo la strada principale.
«Hai pensato a come fare per la notte?».
Max posò il giornale. Ormai, a meno che con loro non ci fosse anche Charlie, non facevano più neppure finta di parlare.
«Io con te non dormo» disse Stella. «O trovi una soluzione o ci toccherà trovare un'altra casa. Così non può andare».
«Non faremo un altro trasloco» rispose Max. Oh, per quanto determinato fosse a mantenersi calmo e ragionevole, lei riusciva subito a fargli perdere le staffe. Stella sentì l'irritazione montargli nella voce, il fremito lamentoso che reprimeva a fatica sentendosi dettare condizioni da lei, lei, che era la responsabile di quello sfacelo. Max era imprigionato nell'idea dei propri obblighi morali, ma temo avesse un carattere troppo debole per crederci fino in fondo.
«Perché non vuoi aiutarmi?» disse a denti stretti.
Stella era spietata. Lo odiava solo perché non era Edgar.
«Uno di noi due deve dormire in camera di Charlie» rispose. «Non importa chi».
Max si alzò, andò alla finestra e rimase a guardare fuori, nel buio, con le mani in tasca e le dita che si contraevano nello sforzo di controllare i nervi.
«Per stanotte dormirò sul divano» disse Stella. «Per me è lo stesso».
«No,» disse Max continuando a darle la schiena «ci dormirò io».
«Perché?».
Si girò. «Perché non mi sembra il caso che Charlie ti veda dormire sul divano. Veramente non dovrebbe vedere nessuno dei due. Non puoi aspettare finché non faccio portare il letto degli ospiti nella sua stanza?».
«No. Perché non ci hai pensato prima?».
Max si voltò di nuovo verso la finestra. Non voleva dirglielo, perché non ci aveva pensato. Forse aveva sperato che ricominciassero a dormire insieme. In quel momento Stella si rese conto, con una punta di soddisfazione, di avere ancora un certo potere: di essere ancora, a dispetto di tutto, più forte di lui.
Il giorno dopo, quando Trevor Williams passò da loro, Max gli disse che voleva portar dentro il letto singolo che avevano messo nel fienile. Quando Stella scese in cucina Williams le gettò una rapida occhiata. Forse non sapeva nulla del suo scandaloso passato, ma sullo stato attuale di quel matrimonio doveva aver già tratto le sue conclusioni.
Il lunedì successivo accompagnarono a scuola Charlie, che tornò a casa piuttosto abbacchiato. Con gli altri bambini non si era trovato. Erano antipaticissimi, diceva, e lo trattavano male. Stella passò molto tempo con lui, a sentirlo raccontare di come a ricreazione se ne fosse rimasto per conto suo, e in classe non avesse capito niente di quello che bisognava fare. Stella gli disse che tutto si sarebbe risolto, che cominciare da zero in un posto nuovo non era mai facile, ma visto che gli sarebbe toccato farlo per tutta la vita tanto valeva imparare subito.
«Ma perché dobbiamo ricominciare da zero?» le chiese Charlie.
«Per via del lavoro di papà».
Dopo averci pensato su, Charlie disse che siccome voleva diventare uno zoologo, e viaggiare parecchio, la cosa migliore sarebbe stata non sposarsi. Stella rispose che le sembrava una decisione molto saggia. Il lavoro di Max si era rivelato meno interessante di quel che lui aveva sperato. Forse si era illuso, aveva cercato di convincersi che non sarebbe stato un lavoro come tanti, ma si vedeva che era già stufo, e che della loro nuova situazione pensava più o meno le stesse cose di Charlie. Non l'avrebbe mai ammesso, così come non avrebbe mai ammesso l'idea, decisamente troppo penosa, di essere stato spedito nelle retrovie, dove la sua carriera si sarebbe arenata mentre i posti che già aveva considerato suoi andavano a colleghi meno dotati di lui. Max era un ambizioso, e a volte Stella si chiedeva se in realtà non le rimproverasse più di avergli rovinato la carriera che di essergli stata infedele.
L'inverno arrivava presto nel nord del Galles, ed era molto rigido. Al mattino, prima di andare in ospedale, Max accompagnava Charlie a scuola, e Stella rimaneva abbandonata a se stessa. Se voleva la macchina doveva alzarsi insieme a loro, ma ora restava a letto fino a tardi, visto che di notte non chiudeva occhio. Pioveva per giorni, e ogni mattina, al risveglio, Stella ritrovava i banchi di nuvoloni grigi che passavano sulla vallata, il picchiettare della pioggia sul tetto, e i latrati del pastore bianco e nero che Trevor Williams teneva alla catena dall'altra parte della casa, e che lei e Charlie chiamavano Lo Sgolato. Un giorno erano andati a dargli un'occhiata, e quello gli si era avventato contro: non fosse stato per la catena, li avrebbe sicuramente azzannati alla gola. Charlie era molto turbato, pensava che tenere un cane legato per tutto il giorno fosse una crudeltà. Cercò di farci amicizia, ma ogni volta che si avvicinava alla cuccia Lo Sgolato gli si buttava contro scoprendo le zanne e abbaiando a più non posso. Alla fine, temendo che prima o poi la catena si spezzasse, decise di lasciarlo perdere.
Per Stella le giornate scivolavano via tutte uguali. Tenere in ordine e cucinare le pesava sempre di più. Stava mettendo su chili, ma non le importava. Passava moltissimo tempo alla finestra della cucina. Guardava la pioggia cadere sui campi, e quando si scuoteva dalle sue fantasticherie si era già dimenticata a cosa stava pensando un attimo prima. Ogni volta che smetteva di piovere andava a fare due passi. Dal prato dietro casa arrivava fino in cima alla collina, dove la vista spaziava sulla vallata successiva, con le fattorie sparse e la cava in lontananza. L'acqua piovana scorreva giù per i fossi, e al passaggio di Stella le pecore si ammucchiavano belando dietro le spesse siepi potate. A parte qualche contadino, non incontrava mai un'anima. Sì, ogni tanto passava Trevor Williams, che andava chissà dove sulla sua Land Rover arrugginita e incrostata di fango. Le faceva un cenno di saluto, ma non si fermava mai. Trasportate dal vento, le foglie cadute si raccoglievano in mucchi fradici lungo i canali di scolo. L'acqua gocciolava dai rami spogli degli alberi. Una volta Stella era in cima alla collina, nel vento, lo sguardo a occidente; all'improvviso le nuvole si diradarono, e il sole fece una breve apparizione. Quello splendore acquoso le sembrò un miracolo, una piccola visione celestiale. Portava degli stivali di gomma che la riempivano di vesciche, e un lungo impermeabile grigio. Erano settimane che non andava da un parrucchiere, ma non gliene importava nulla, tanto non vedeva mai nessuno. Cercò di immaginare Edgar lì nei dintorni, che si avvicinava, che la veniva a prendere.
Il sabato andavano a fare la spesa tutti e tre insieme. Stella detestava i weekend: la casa le sembrava invasa, le dava fastidio tutto quel rumore, e di cucinare aveva sempre meno voglia. Ormai si era abituata a mangiare la prima cosa che le capitava e alle ore più strane; per questo stava ingrassando. Non vedeva l'ora che arrivasse lunedì, quando intorno a sé avrebbe avuto di nuovo il vuoto e il silenzio. Ogni tanto prendeva un tè in cucina con Mair, che non la disturbava, perché nessuna delle due sentiva il bisogno di fare conversazione.
La prima volta che andò a letto con Trevor Williams fu a metà novembre. Non fu Stella a prendere l'iniziativa, non si era mai neppure sognata di vedere Williams in quella luce. Successe la mattina che Mair partì per andare qualche giorno da sua madre. Stella sfogliava distrattamente una rivista al tavolo di cucina, davanti a una tazza di tè. Sentendo bussare si affacciò alla finestra del lavandino e lo vide. Benché fosse ancora in vestaglia aprì, e Williams chiese se poteva entrare un minuto: ricevuto il permesso, andò dritto alla finestra di fronte e si mise a guardare la vallata. Era uno di quei giorni in cui sulla campagna regnava un silenzio di morte. Non c'era una bava di vento, sembrava che gli alberi auscultassero immobili il respiro della terra, o forse l'urlo del sangue, il sangue rappreso dei gallesi morti, dei figli trucidati di Owen Glendower. A Stella quel silenzio metteva i brividi, si sentiva minacciata da cose innominabili. Stava davanti ai fornelli a braccia conserte e guardava Williams.
«Perché è tutto così immobile? Non lo sopporto».
Lui si girò. «Davvero, Stella?».
Era la prima volta che la chiamava così, in realtà, non l'aveva mai chiamata in nessun modo. Di colpo capì perché era venuto. Si chiese meccanicamente cosa fare. Adesso Williams era in piedi di fronte a lei. Stella era ancora a braccia conserte.
«Sei una gran bella donna» le disse.
La voce di Williams, col suo greve accento gallese, era bassa e roca. Stella sentì una specie di piccola contrazione, la debole fiammella di un desiderio indagatore, una reazione così automatica e impercettibile che avrebbe potuto reprimerla in un secondo. Invece aspettò. Lui le disse chiaro e tondo che cosa aveva voglia di fare. La fiammella si ravvivò, e Williams se ne accorse. Le sfiorò i capelli, passandole una mano dietro la nuca. Poi le si avvicinò fino a toccarla, e mentre con l'altra mano le cercava il seno fece per baciarla. Stella si allontanò leggermente. Aveva sentito una fitta di calore; ma si rendeva conto di provare solo una blanda, distaccata curiosità per quell'uomo, quel rozzo contadino che si era presentato nel bel mezzo del mattino a parlar di sesso.
«Qui da voi si usa così?» domandò Stella.
«Cosa?».
Il pube di lui premeva appena contro il suo. Lei gli appoggiò le mani sulle spalle come per respingerlo. Williams aveva la pelle sbiancata dal vento. Gli occhi grigio ardesia erano piccoli e infossati e il fiato sapeva di tabacco.
«Chiedevo se qui da voi usate così. Entrate e dite subito quello che volete».
Lui non rispose, ma guardandola fissa negli occhi cominciò ad accarezzarla nella piega dell'inguine, finché senza neppure volerlo Stella allargò leggermente le gambe. Lui le infilò le dita sotto la vestaglia; poi premette, delicatamente. Stella pensò che tutto sommato poteva anche dargli quello che voleva, perché no? In fondo lui ne aveva una voglia tremenda, e poi le sembravano secoli dall'ultima volta che si era sentita anche solo lontanamente viva da quel punto di vista, e a parte tutto sarebbe stato troppo complicato fermarlo. Come niente l'avrebbe violentata.
«Se vuoi andiamo di sopra» gli disse, e lui le lanciò uno sguardo volpino, come se fosse riuscito a fregarla.
Quando furono in camera Stella si inginocchiò sul letto, aggrappata alla testiera, e rispose ai colpi di lui con forza, a occhi chiusi, senza pensare a niente; aprì bocca solo per dirgli che non poteva venirle dentro: da qualche settimana, convinta che non le sarebbe più servito, aveva buttato via il diaframma.
«Non lo fai con Mair?» gli disse dopo, mentre lo guardava rimettersi i calzoni.
«Non tanto. E tu con lui non lo fai per niente».
Non gli rispose neanche. Lui si mise a sedere sul letto e la studiò con l'aria di uno che calcola le sue entrate. Stella avrebbe giurato di sapere sotto quale voce compariva sul libro mastro di Williams: donna disponibile a portata di mano.
«Tipo fortunato, eh? Non credevi che sarebbe stato così facile».
«Me n'ero accorto che ti sentivi sola».
«Io non mi sento sola».
Subito dopo Williams se ne andò. Cercò di prendere degli «accordi», ma Stella non gli diede retta. Passi il libro mastro, ma l'agenda proprio no. Ora che aveva appagato la curiosità, provava di nuovo un'assoluta indifferenza; anche se continuava a meravigliarla che un uomo potesse entrare in pieno giorno nella cucina di una donna, dirle che cosa voleva fare, e farlo. Ma forse non c'era niente di così strano.
Max tornò a casa nervoso, come se sapesse di essere stato di nuovo tradito, mentre in realtà era solo irritato dalla questione dei letti. Adesso dormiva in camera di Charlie, una sistemazione per lui scomodissima. Siccome nell'armadio non c'era abbastanza posto gli toccava tenere i vestiti in camera di Stella, che, per non essere svegliata, lo costringeva a prendere alla sera quello che gli sarebbe servito al mattino. Non aveva neppure un angolo per lavorare, e non poteva nemmeno sistemare le sue carte sul tavolo del soggiorno, perché la parete della stanza confinava con le scale e ogni volta che qualcuno saliva al piano di sopra lo disturbava.
Max sentiva di aver subito un torto, e faceva sempre più fatica a nasconderlo. A poco a poco, l'equilibrio del loro rapporto cambiò. Libero dai doveri che il codice cavalieresco gli imponeva verso la peccatrice, Max sembrava preoccuparsi solo di Charlie, e Stella si rendeva conto che prima o poi non sarebbe stata più al sicuro. Un giorno, forse non domani, certo, ma un giorno Max l'avrebbe lasciata, portandosi via Charlie: e ora, nell'attesa, quel simulacro di vita familiare, per quanto superficiale fosse, era l'unica struttura, l'unica protezione che le rimanesse. La sola idea di perderla avrebbe dovuto terrorizzarla, eppure persino in quel momento, mentre sentiva che stava per sfuggirle di mano, non poteva fingere di provare per Max altro che indifferenza.
Adesso Max si comportava come se avesse messo da parte gli obblighi morali e anteponesse a tutto le proprie esigenze. Stella lo sorvegliava con una certa apprensione: lui non la degnava di uno sguardo, ai suoi occhi era come trasparente. Se poteva farne a meno non le rivolgeva neanche più la parola. Aveva smesso persino di avercela con lei. Era solo stanco, impaziente, irritabile, distratto. Si era arreso.
Per cambiare le cose Stella avrebbe dovuto fare uno sforzo, ma non ci riusciva. Viveva in una specie di nebbia, e le persone intorno a lei erano solo buie figure spettrali, fantasmi privi di una vera sostanza. Né lei sembrava averne ai loro occhi. Qualche giorno dopo Trevor Williams tornò a trovarla. Stella gli cedette come la prima volta, perché almeno con lui si sentiva viva a metà, e il sesso la calmava, le faceva venire sonno, e per un po' metteva a tacere la sua ansia.
Mair doveva aver intuito qualcosa. Conosceva abbastanza suo marito per sapere che una donna infelice sotto lo stesso tetto non gli sarebbe sfuggita a lungo. Ma non sembrava importarle granché. Veniva a trovare Stella come al solito, e come al solito sedevano davanti a una tazza di tè senza quasi parlare. A Stella era tutto sommato indifferente chi venisse dei due: sia lui che lei, ciascuno a suo modo, la aiutavano a sollevare, almeno per un po', la spessa coltre che soffocava il mondo, e scoloriva e offuscava tutto. Ogni volta che smetteva di piovere Stella, sempre con gli stivali di gomma e l'impermeabile, saliva su per la collina dietro casa, perché si era affezionata a quei sentieri solitari e ai fitti cespugli, e alle pecore, e agli alberi spogli e sgocciolanti, e ai muri di pietra coperti di licheni verde pallido e di piccoli, delicati funghi bianchi. Era tutto così bagnato! Nei rigagnoli ai bordi del sentiero l'acqua scorreva a valle sulle pietre, e quando un attimo prima di raggiungere la cima, si voltava a guardare la vallata sotto di lei vedeva i campi di stoppie, dove le strisce di acqua piovana luccicavano come vetro nei solchi dell'aratura. Allora si fermava e pensava: lui è qui, non so dove ma è qui. E mentre i corvi si levavano in volo dalla terra bagnata che il bestiame trasformava in fango, Stella attraversava i boschi in cima alla collina, ritrovandosi d'improvviso in radure scoscese circondate da alberi secolari. A volte le sembrava che la terra custodisse segreti antichissimi: e in qualche modo, stranamente, si sentiva a casa.
Una mattina, mentre era seduta in cucina con Mair, suonò il telefono. Chiamavano da scuola per dirle che Charlie non stava bene, e se, per favore, poteva andarlo a prendere. Quel giorno Max non aveva preso la macchina, e Stella rispose che sì, poteva. La voce maschile all'altro capo disse che non c'era ragione di spaventarsi, e Stella ribatté di non essere affatto spaventata. Mair si offrì di accompagnarla.
Le strade intorno a Cledwyn erano una distesa di fango e letame, e la macchina aveva fatalmente perso la sua aria chic; con tutte quelle incrostazioni sembrava una carretta da contadini. Come non bastasse, la settimana prima Stella aveva strisciato contro un muro, e non potevano rifare la fiancata perché costava troppo. Così quella che poco dopo la telefonata si fermò davanti alla scuola era una Jaguar sciatta e ammaccata, un po' come la madre che ne scese avviandosi verso il portone.
La scuola era un grande edificio vittoriano di mattoni a tre piani, con alti finestroni e un campo da gioco su un lato. Stella non ci aveva mai messo piede, e le incuteva un certo timore. Andò in segreteria, dove le dissero di accomodarsi in sala professori mentre cercavano l'insegnante di Charlie, un certo Mr Griffin. Dietro di lei, nel frattempo, erano comparsi parecchi bambini, ognuno col suo messaggio da recapitare in segreteria. Sembravano molto incuriositi da lei, e si parlavano all'orecchio lanciandole sguardi furtivi e ridacchiando fra loro. Stella si chiese che cosa avesse di così strano. Le gambe nude, forse, o l'accento inglese? Non che gliene importasse nulla. Entrando in sala professori notò che la segretaria si voltava verso i bambini e li zittiva con un'occhiataccia.
Qualche minuto dopo, mentre fumava una sigaretta leggendo gli avvisi affissi in bacheca, entrò Hugh Griffin. Si presentò, scusandosi di averla fatta aspettare. La stanza era tutta per loro. Griffin spostò una pila di sussidiaci da un divano e la invitò a sedersi. Era un ragazzo alto, con una folta massa di capelli biondi e ondulati. Aveva un lungo naso a punta e una giacca di tweed verde con i risvolti impolverati di gesso.
«Spero di non averla messa in agitazione» attaccò.
«Certo che no. Mi ha detto di non spaventarmi e io non mi sono spaventata».
«Bene».
Sentiva di aver fatto colpo. Gli piacevo, mi raccontò, e la cosa lo imbarazzava, un po' perché lei era la madre di ano dei suoi scolari e un po' perché era diversissima dalle maestre e dalle mogli dei fattori che in genere costituivano l'elemento femminile del suo mondo. Stella guardava divertita quel ragazzo allampanato, con le dita lunghe e i vestiti impolverati di gesso.
«Allora, Mrs Raphael. Perché Charlie è così infelice?».
«Infelice?» rispose Stella con una certa sorpresa. Non le era venuto neanche in mente che potesse dirle una cosa del genere. L'altro aggrottò la fronte e si guardò le scarpe passandosi una mano fra i capelli. Poi la fissò dritta negli occhi.
«È un ragazzino sveglio,» le disse «ma non si applica. Credo sia un fatto di ansia, ma a me non dice cosa c'è che non va».
«Non mi ero mai accorta che ci fosse qualcosa che non andava».
«Mi sta dicendo che non ha notato niente di strano?».
«Forse sarebbe meglio che parlasse con suo padre».
«Lei non può aiutarmi?».
«È lui lo psichiatra, sì o no?».
Lo disse con più livore di quel che avrebbe voluto, e la risatina che fece subito dopo suonò falsa persino a lei. Hugh Griffin si sporse sul bordo della sedia, le lunghe gambe distese e le mani fra le ginocchia. Le ricordava Nick.
«Con lei il ragazzo non parla, Mrs Raphael? E come mai non parla con sua madre? Potrebbe essere questo il problema».
«Ma lei di che diavolo si impiccia?» rispose Stella scattando in piedi. Poi frugò nella borsa alla ricerca di una sigaretta.
«Si sieda, prego» disse quel villano di un maestrino con la sua servile vocetta gallese.
«Non ho tempo» rispose Stella. Ora gli dava le spalle, fissando la bacheca senza vederla e fumando avidamente la sua sigaretta. L'altro sospirò. Non voleva lasciarla andare. Stava per aggiungere qualcosa quando la porta si aprì ed entrarono due donne che stringevano al petto una pila di quaderni e parlavano ad alta voce. Andarono in fondo alla stanza e lanciarono un'occhiata distratta a Hugh Griffin e a Stella. Alla fine il maestro si alzò stancamente e disse che andava a prendere Charlie.
Raggiunsero la macchina quasi di corsa, e Stella era ancora talmente arrabbiata con quell'uomo che riusciva a malapena a parlare. Subito dopo, uscendo sulla statale, mancò per un pelo un'altra macchina, e dovette fermarsi un attimo a riprendere fiato e riacquistare il controllo dei nervi. Non si sentiva volare una mosca. Sulla via del ritorno, senza neppure voltarsi, Stella disse a Charlie che secondo il maestro non si impegnava abbastanza.
Charlie non le rispose.
«Dice che è perché sei infelice» aggiunse Stella.
Silenzio.
«Io gli ho detto che mi sembrava tutto a posto».
Stella gettò un'occhiata a Mair, che era seduta al suo fianco e guardava davanti a sé.
«Charlie, sei infelice?».
Il bambino scrollò le spalle e si mise a guardare fuori dal finestrino. Per il resto del viaggio rimasero in silenzio. Una volta a casa, Charlie salì in camera senza dire una parola. Stella chiese a Mair se voleva una tazza di tè, ma lei disse di no, e a quel punto si sedette da sola in cucina a guardare fuori dalla finestra. Dopo un po' si versò da bere. Sapeva che cosa le stava succedendo. Cominciava a vedere Charlie come un'estensione del padre, anche lui parte di un complotto ai suoi danni. Non avrebbe voluto pensare al bambino in quel modo, sapeva che non era giusto, ma non poteva farci niente.
Quando la sera Max tornò a casa Stella non gli disse che cosa era successo. Preferiva che glielo raccontasse Charlie a modo suo, e che fosse poi Max a parlargliene. Ma quando Max scese di sotto, dopo aver dato la buona notte a Charlie, si sedette in soggiorno per conto suo, con una rivista di medicina.
Stella passò la notte in bianco. Era sicura che anche Max fosse sveglio, e la sentisse passeggiare avanti e indietro. Fuori soffiava il vento, la casa era tutta uno scricchiolio, e, nonostante il maglione sulla camicia da notte, i calzettoni di lana e la vestaglia, Stella aveva freddo. Rimase a lungo alla finestra, rabbrividendo. Guardava il cielo stellato fumando una sigaretta dopo l'altra, mentre i pensieri correvano a briglia sciolta. Rivide i bambini che avevano riso di lei davanti alla segretaria, e il maestro che le diceva che stava rendendo infelice suo figlio. Poi pensò a Trevor Williams, che dormiva dall'altra parte del muro, e a quelle loro gelide scopate. Da quando sua moglie era tornata, Williams aveva trascinato Stella un paio di volte in un capanno di pietra, dove l'aveva fatta piegare su un mucchio di balle di fieno. Che bel culo bianco che hai, le aveva detto. Sembrava ce l'avesse sempre duro. Tutte e due le volte, attraversando il cortile per rientrare, Stella non se l'era sentita di alzare gli occhi per paura di vedere Mair alla finestra, ma se anche ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla, a quanto pare, perché veniva sempre a bere il tè.
Pensò a Edgar, e alle loro settimane a Londra, e si rese conto che i suoi ricordi cominciavano a scolorirsi come vecchie foto. Per mantenere una sorta di contatto con lui le rimanevano solo i fenomeni naturali che avevano vissuto insieme - certe formazioni di nuvole, il canto di alcuni uccelli particolari, certi fiori - e che Stella ora considerava come un privato sistema di segni. Ogni volta che andava a fare la spesa, da sola o in compagnia, a Cledwyn o a Chester, frugava con gli occhi ogni angolo di strada nella speranza di vedere spuntare Edgard. Almeno una decina di volte si era detta eccolo, è lui, ma era sempre rimasta delusa. Eppure quell'attimo di emozione, quel colpo al cuore le bastavano, anche se a suscitarli era stata l'ampia schiena nera di un corpulento fattore del Galles che entrava ai grandi magazzini con la moglie.
Si rimise a letto, ma senza riuscire a prender sonno. Mentre si rigirava da una parte e dall'altra cominciò a singhiozzare. Nessuno venne alla porta. Nessuno bussò sussurrando: «Cosa succede? Tutto bene?». Stella pensò a suo padre, e si ricordò di quando scivolava nel sonno mentre quell'uomo forte e massiccio, seduto sul bordo del letto, le accarezzava i capelli ascoltandola mormorare gli ultimi pensieri della giornata. Poi pensò di nuovo a Edgar, e al loro ballo all'ospedale - due dèi che danzavano fra i mortali -, e non sentì alcun rimpianto, alcun rimorso: potendo, avrebbe rifatto tutto, assolutamente tutto.
Vide il cielo impallidire, poi si addormentò. Si svegliò nella tarda mattinata, fece un bagno e si preparò una tazza di tè con tre cucchiaini di zucchero e uno spruzzo di gin. Dopo si sentì meglio. Riempì un termos e se lo portò in cima alla collina, dove trascorse il resto del pomeriggio.
Charlie tornò a casa con una lettera del maestro. Stella gli domandò se aveva parlato di lei con Griffin, o se Griffin gli aveva chiesto qualcosa. Charlie scosse la testa. Sembrava terrorizzato, come se non riconoscesse più la persona che aveva davanti. Stella gli chiese se quel cenno voleva dire sì o no, e lui rispose che voleva dire no. La lettera era molto educata. Griffin si scusava ancora di averla disturbata, e ripeteva di volere solo il bene di Charlie. Poi chiedeva se il dottor Raphael e lei erano disposti a prendere un appuntamento con lui per parlarne. No, pensò Stella. Appallottolò la lettera e la gettò via.
Passarono le settimane, e passò anche Natale. Stella disse di averlo trascorso da sola, a ubriacarsi. Max e Charlie erano andati tre giorni a Londra, da Brenda. Al ritorno, Max era in uno stato pietoso; di sicuro Brenda non si era lasciata sfuggire l'occasione di insistere perché la lasciasse. Lui tuttavia non prese iniziative, e la vita continuò come al solito. Hugh Griffin non si era fatto più sentire, anche se secondo Stella aveva scritto a Max in ospedale. Il sospetto le era nato da una discussione che avevano avuto una sera, dopo che Charlie era andato a dormire.
«Non hai motivo per odiare anche Charlie» aveva detto Max senza preamboli.
Erano in cucina. Lei stava lavando i piatti, e Max, seduto al tavolo, sfogliava un giornale.
«Hai parlato col maestro?» gli chiese Stella.
«No, perché?».
Stella non gli credeva, ma non disse nulla, e si rimise a lavare i piatti.
«Perché, con te ha parlato?» domandò Max.
«Non di recente».
«E quando, scusa?».
«Oh, che noia. Ci siamo visti in autunno, quando non me lo ricordo, prima di Natale. Ha cercato di dirmi che Charlie era infelice per colpa mia».
«Ma tu non te ne accorgi che sta male?».
Lei scrollò le spalle.
«Stella, davvero non te ne accorgi?».
Stella fece finta di non aver sentito.
«Cristo!» esclamò Max. Lei si voltò. Lui si sforzava di mantenere la calma. «Ascolta,» disse «io rimango qui, con te, per una sola ragione, e cioè perché penso che il bambino abbia bisogno di una madre. Ma se non sei in grado di dargli un po' di calore non ha molto senso. Mi segui?».
Lei lo guardò in silenzio.
«Mi segui, Stella?».
«È tuo figlio» rispose Stella. «Per me prova quello che provi tu, o meglio, quello che tu gli hai insegnato a provare».
«Queste sono stronzate».
«È la verità».
«La mia pazienza si sta esaurendo. È da settimane che sei così. Non servi a niente, né a me né a lui».
«Avevamo detto che mi sarei occupata della casa» rispose Stella.
«È vero, ti occupi della casa, ma in realtà sei da un'altra parte. Possibile che tu non riesca a venirne fuori? E se proprio non ci riesci, perché devi prendertela col bambino?».
«Perché tu gli hai insegnato a odiarmi».
In quel momento si resero conto che Charlie era in piedi in fondo alle scale, in pigiama, pallido e sgomento. Max fulminò Stella con lo sguardo, poi andò da lui e lo prese per mano.
«Avanti, giovanotto, è ora di andare a letto» gli disse.
Mezz'ora dopo scese di nuovo in cucina.
«Non capisce» disse. «Non capisce perché sei così. Per amor di dio, Stella, parlagli. Non rimane molto tempo».
Stella non era per niente convinta, ma per stanchezza acconsentì. Max andò alla finestra e guardò fuori, serrando ritmicamente i pugni come faceva sempre quando era nervoso. Si vedeva benissimo che non riusciva a tollerare questo fallimento; l'idea che Charlie soffrisse perché il matrimonio dei suoi genitori stava andando in pezzi lo metteva in un enorme imbarazzo. Stella salì di sopra senza aggiungere altro. La porta della camera di Charlie era aperta, e lei si fermò sulla soglia. Il bambino era a letto, di schiena. Sapeva che era sveglio, e che l'aveva sentita, ma siccome non si girava esitò, poi andò in camera sua e chiuse la porta.
Il pomeriggio dopo stava sbucciando le patate davanti al lavandino quando Charlie, di ritorno da scuola, entrò di corsa, gettò la cartella su una sedia e si sedette per cambiarsi le scarpe.
«Che si mangia?» disse.
«Stufato».
«Mami?».
«Cosa c'è?».
«Posso chiederti una cosa?».
«Se vuoi».
Stella continuò a pelare le patate. La finestra sopra il lavandino dava sulla rimessa dall'altra parte della strada, dove Trevor Williams teneva il trattore. In alto c'era una finestra senza vetri. Un corvo si posò sul davanzale con un frullo di ali e fece qualche saltello becchettando. Poi Trevor Williams uscì dalla rimessa. Nella luce fioca del tramonto, e dietro la finestra della cucina, forse non la vedeva neppure; in ogni caso si portò la mano alla patta dei pantaloni e se la strofinò. Stella non poté fare a meno di sorridere.
«Mami».
«Insomma, si può sapere che c'è?».
Trevor aprì il recinto del campo sotto la rimessa, dove aveva appena portato le vacche. Stella non capiva perché le spostasse in continuazione; doveva essere un problema di pascolo. Williams si richiuse il cancello alle spalle e si avvicinò alla mandria, che si era raccolta dalla parte opposta.
«Voglio che siamo amici».
Stella si voltò, commossa da quella richiesta così struggente, ma fece finta di volerci pensare su.
«Sei sicuro?».
«Sì».
«Mmm. Ti ha mandato papà a dirmelo?».
«No».
«È stato Mr Griffin?».
«No».
Stella tirò su col naso, si voltò di nuovo verso il lavandino e cominciò a tagliare le patate sul ripiano. Conosceva bene l'espressione cupa e adirata di Charlie: era quella di Max. Ci fu un altro lungo silenzio mentre Stella riempiva una pentola d'acqua, ci metteva dentro le patate e aggiungeva il sale, voltandosi ogni tre secondi per guardare Charlie con le sopracciglia esageratamente aggrottate. Il bambino non capiva bene fino a che punto sua madre stesse scherzando. Nel buio sempre più fitto, Stella sentiva la mandria rumoreggiare.
«Accendi la luce,» disse «non ci vedo più».
Si mise a tagliare una cipolla. Aspettava lo scatto dell'interruttore, ma niente. La stanza rimaneva buia e silenziosa.
«Charlie!» disse girandosi, e vide dal tremolio del suo visino che stava per piangere.
«Oh, amore!» gridò gettandoglisi addosso e prendendolo fra le braccia. «Certo che voglio che siamo amici! Non lo eravamo già? Io credevo di sì!».
L'indomani Stella, davanti a casa, guardava il panorama. Come al solito c'era molto vento, ma non pioveva. Stormi di nuvole bianche passavano davanti al sole, che qua e là bagnava di luce slavata una collina, lasciando quella dopo immersa nell'ombra. Era un cielo irrequieto, mosso, e Stella rimase a guardarlo per qualche minuto con un senso di felicità. I piloni della luce, installati da poco, marciavano per la vallata e salivano in fila indiana verso le colline in lontananza. Quando ci passava sotto li sentiva crepitare e ronzare. Adesso il sole era più alto nel cielo; la primavera era alle porte. Il fumo bianco che usciva dai camini andava verso est. Per la prima volta da mesi, Stella provò qualcosa di simile alla speranza.
Quella sera chiese a Max perché non cercava lavoro a Londra. Con un evidente fremito di piacere, lui le rispose che intendeva rimanere dov'era per almeno altri due anni.
«E quindi, mi sa che devi fartene una ragione» aggiunse.
Stella si attaccò al gin. A volte la crudeltà di Max era come una pugnalata, disse. Oh, era diventato bravissimo, ormai sapeva insinuare la lama fra le piastre della sua corazza e arrivare dritto al cuore. E riusciva a farla sentire una stupida. Come aveva potuto dimenticare anche solo per un attimo che la loro era una sfida all'ultimo sangue, un duello mortale? Dopo cena si riempì il bicchiere, infilò il cappotto e uscì a guardare le stelle. Rimase appoggiata al cancello per un pezzo, poi, quando il freddo diventò insopportabile, si trasferì in cucina, dove continuò a bere piazzando una sedia davanti alla finestra, appoggiando i piedi sul davanzale e dondolandosi, con la bottiglia sul pavimento, a portata di mano. Aveva un solo problema con l'alcol: la faceva pensare a Edgar, e pensare a Edgar le faceva venire la lacrima facile. Quando Max scese in cucina gli disse che era un pezzo di merda, e lui, con la solita voce venata di furore freddo, le rispose che la sua pazienza era quasi al limite, il che scatenò un'altra raffica di insulti da parte di Stella e un rapido ripiegamento di Max alla volta delle sue riviste di medicina. Ecco, adesso Stella piangeva di nuovo, ma non un cane che si scomodasse a venire a vedere come stava, in fondo cos'era mai, solo la troia giù in cucina, la troia che aveva rovinato le loro vite e tracannava gin dalla bottiglia frignando per il suo amante pazzo.
Fece un'ultima sortita - al culmine della quale si mise a tempestare di pugni la porta dei Williams, chiamando a gran voce Trevor - e una sosta in soggiorno, dove era stata tentata di scaraventare dalla finestra la bottiglia del gin, così, tanto per vedere la faccia di Max tirato giù dal letto. Poi, pensandoci meglio, decise che non valeva la pena di sprecare tutto quel gin per una stupidaggine simile, e con una risata rumorosa salì faticosamente di sopra, addormentandosi senza neppure spogliarsi.
Al mattino Max era furibondo, tanto che Stella si sentì in dovere di chiedergli scusa. Per fortuna bussando alla porta dei Williams nel cuore della notte aveva evitato di dire perché voleva Trevor.
Ecco com'erano i giorni a Plas Mold, mi disse.
E che fine aveva fatto Edgar, il pazzo, il suo amante perduto? Per un lungo periodo, con mia profonda costernazione, non ne avevo saputo più nulla. Sembrava scomparso dalla faccia della terra, tanto che più di una volta lo avevo dato per morto. Fui dunque molto sollevato quando finalmente mi giunse una segnalazione attendibile: Edgar era stato visto dalle parti della stazione di Euston. Siccome tutto lasciava supporre che fosse diretto a nord, chiamai subito Max. Gli dissi che sospettavamo avesse scoperto dove vivevano lui e Stella, ma ammesso che stesse davvero cercando di raggiungere Cledwyn, sulle sue intenzioni potevamo solo fare delle ipotesi. Gli parlai delle misure precauzionali che la polizia stava comunque prendendo, e riuscii almeno in parte a rassicurarlo. In effetti erano notizie tutt'altro che rassicuranti e non gli nascosi che ero anch'io piuttosto inquieto.
Poi gli domandai di Stella. Le avevo parlato da poco al telefono, e non mi sentivo tranquillo; mi sembrava abbandonata a se stessa. Max si tenne sulla difensiva, ma mi bastò sondare un po' il terreno per percepire subito, nella sua voce, l'immenso peso della collera repressa. Cercai quindi di incoraggiarlo, con tutta la delicatezza possibile, a adottare una prospettiva differente, più distaccata: in altre parole, una prospettiva psichiatrica. Gli dissi che Stella aveva attraversato una fase di isteria, che stava cercando di elaborare uno schiacciante senso di colpa e che da sola rischiava di non farcela. Aveva bisogno di tutto il suo aiuto.
Max non disse nulla, e io presi il suo silenzio per un assenso.
Mi aspettavo che riferisse a Stella quello che la polizia aveva scoperto su Edgar, ma in seguito scoprii che non gliene aveva neppure accennato, forse per un malinteso senso di protezione.
O forse piuttosto per mera aggressività passiva: altrimenti perché nasconderle che un uomo stava venendo da lei con l'intenzione pressoché certa di ucciderla?
Qualche giorno dopo arrivò un'altra lettera di Hugh Griffin. Stella stava quasi per gettarla via senza neppure aprirla, immaginando che fosse un'ennesima esortazione a coccolare più spesso il suo bambino, o qualche altra sciocchezza del genere, ma poi pensò a quel lungagnone piegato in avanti sulla sedia che la fissava intrecciando le dita ossute, e cambiò idea. Era in cucina, ancora in vestaglia, col bollitore sul fuoco. Aveva appena lavato un paio di calze e le aveva messe ad asciugare sullo schienale della sedia, perché non aveva nessuna voglia di andare a stenderle fuori. Si sedette a leggere la lettera: il maestro non la esortava a essere più sensibile e comprensiva, né le chiedeva un appuntamento per «parlarne». Voleva semplicemente invitarla a una gita scolastica a Cledwyn Heath, una zona di brughiera a qualche chilometro dal paese, che rientrava nel programma sulla flora e la fauna del posto. Lì per lì Stella non ci pensò neppure, ma poi, mentre beveva il tè guardando fuori dalla finestra, decise che quasi quasi, se fossero stati molto gentili con lei, si sarebbe lasciata convincere.
Lo annunciò quella sera stessa, a tavola, scatenando l'entusiasmo di Charlie, che evidentemente aveva considerato pressoché nulle le sue possibilità di presentarsi alla gita con almeno un genitore. Anche Max si tirò un po' su; poveraccio, l'aveva ridotto proprio male durante l'inverno, benché fosse disposta ad assumersi solo una parte di responsabilità per la depressione in cui era sprofondato da settimane: il resto, ne era sicura, dipendeva dal lavoro. Sapeva ad esempio che nel reparto di Max le pazienti erano in gran parte schizofreniche, donne di mezza età, se non decisamente anziane, internate da tempo immemorabile, quindi senza alcuna speranza concreta di miglioramento. Certo non era la situazione ideale per uno come lui, che aveva costantemente bisogno di stimoli. Max avrebbe preferito vedersi affidare i pazienti più giovani e con disturbi più acuti, ma John Daniels, il direttore, proprio colui che gli aveva fatto intravedere la prospettiva di un lavoro interessante, se ne occupava di persona. John Daniels è un mio vecchio amico. Quando gliene parlai mi disse che Max era arrivato tardi, tutto qui.
La situazione rimase immutata fino alle prime due settimane di febbraio. La polizia non aveva ricevuto altri rapporti, e Max non aveva detto a nessuno che Edgar poteva essere da quelle parti. La famiglia conservava quel suo delicato equilibrio esplosivo, tirando avanti alla giornata, senza far deflagrare le spaventose energie distruttive che si annidavano al suo interno. Chi ne soffriva di più, naturalmente, era Charlie; quando non poteva star fuori passava il tempo chiuso in camera, e a tavola era triste e silenzioso.
Poi giunse una notizia ovviamente destinata a esacerbare una situazione già tesa; a Max suonò come un presagio di sventura, mentre a Stella scatenò un soprassalto di sarcasmo. Brenda era in arrivo. Max ricevette la telefonata in ospedale, un martedì mattina, e la sera stessa ne parlò a Stella.
«E dove pensa di alloggiare?» gli chiese lei.
«Ha prenotato una stanza al Bull».
«Mmm, che tatto!».
Stella immaginava benissimo la strategia della suocera. Brenda non intendeva in alcun modo permettere che suo figlio si rovinasse la vita e la carriera marcendo in un buco gelido come quello, un posto abbandonato da dio, e poi nel Galles, figurarsi. Però sapeva di avere due nemici, l'inerzia e Stella. Queste erano le forze che avrebbe dovuto combattere, se voleva che l'astro di Max tornasse a splendere nel firmamento psichiatrico. Tutto considerato, quindi, non le rimaneva che intervenire: doveva impedire a tutti i costi che l'inerzia, e Stella, trascinassero Max in un pantano di mediocrità da cui non sarebbe più stato in grado di risollevarsi. La cosa che mi fa più paura, mi disse Brenda, è che quella donna me lo involgarisca. Io avevo cercato di dissuaderla in tutti i modi, non mi sembrava davvero il caso che andasse, ma Brenda, quando prendeva una decisione, aveva una volontà d'acciaio.
A pagare il prezzo più alto, naturalmente, era Max. Fin dall'inizio aveva faticato non poco per mantenere una qualche armonia fra sua moglie e sua madre, e ora che Brenda poteva dire di aver visto giusto, adesso che era chiaro a tutti che Stella era una poco di buono, una troia, una madre indegna, che cosa avrebbe potuto ribattere: come avrebbe potuto sostenere che intendeva restare con lei, continuare a sacrificarsi per una donna che non lo meritava? Max annaspava, e Stella si godeva lo spettacolo. Gli propose di invitare Brenda a cena.
«Ma neanche per sogno!» sbottò lui.
«Perché no?».
«Lo sai benissimo. Non rigirare il coltello nella piaga».
Rigirare il coltello nella piaga. Era questo che stava facendo? Almeno Charlie era contentissimo, lui voleva bene a quella nonna che lo riempiva di soldi e dimostrava continuamente di stravedere per lui. Era davvero felice, Stella non lo vedeva così vispo da un sacco di tempo. Certo, per Max era diverso. A lui quella visita faceva solo paura.
Un sabato di pioggia Max e Charlie andarono a prendere Brenda alla stazione di Chester. A quanto pare la prima cosa che la irritò furono le condizioni della macchina; non la vedeva da quando erano partiti per il nord, e un inverno di strade di campagna non le aveva fatto granché bene. D'altra parte non poteva essere entusiasta dell'umore di Max, e Cledwyn non le aveva certo strappato nessun commento favorevole. E meno male, mi disse Stella, che non l'avevano portata a casa, perché neppure nelle sue fantasie più cupe Brenda avrebbe immaginato uno sfacelo simile, con le pile di piatti sporchi nel lavandino, le calze stese sullo schienale della sedia, e sua nuora ancora in vestaglia alle undici e mezzo del mattino che si beveva un bel tè corretto.
Brenda aveva avanzato fin da subito richieste eccessive, cui Max non era stato in grado di opporsi. La prima era che suo figlio cenasse con lei tutte le sere, e siccome aveva già visto che a Cledwyn non c'era uno straccio di ristorante degno di questo nome dovevano andare fino a Chester, cioè a quindici chilometri. Inoltre voleva assolutamente vedere l'ospedale e conoscere il direttore, senza capire che ora la posizione di Max era molto diversa da quella di un tempo. In ogni caso fecero come voleva, e Max la portò a conoscere John Daniels.
E Stella? E quella piagnona, quella poco di buono di una nuora fradicia di gin? Voleva incontrare anche lei? No grazie, preferiva di no. Per Stella, fra parentesi, era meglio così; neppure lei moriva dalla voglia di vedere Brenda. Avrei detto che neanche Max auspicasse un loro incontro, ma qui mi sbagliavo. Max infatti aveva intuito (giustamente, come poi mi confidò Brenda) che il vero obiettivo della venuta di sua madre a Cledwyn era quello di dividerli: sperava che passando un po' di tempo con suo figlio e suo nipote, ed escludendo Stella, sarebbe riuscita a porre le basi di una struttura familiare alternativa. Voleva dimostrare a Max che questa famiglia alternativa era realizzabile, che lei avrebbe potuto prendere il posto di Stella e occuparsi di tutti e due, di lui e di Charlie. Fra le righe, gli fece capire di essere pronta ad aiutarli come prima.
A Max quell'accenno di ricatto non piacque, e comunque aveva escogitato una soluzione migliore. La spiegò a Stella una sera dopo cena. La sua intenzione era quella di prendere in contropiede la madre, tentando di ribaltare il suo tentativo di esclusione: provare, provare adesso, subito, a farcela tutti e quattro insieme. Fu il suo ultimo, coraggioso, disperato tentativo di salvare la sua famiglia. Se la invitiamo a cena da noi, concluse, sono certo che arriveremo a una riconciliazione.
Che strano effetto le fece sentirgli dire «noi». Perché la voleva ancora? Perché non accettava l'offerta di Brenda, perché non afferrava al volo l'idea di una famiglia alternativa, perché non la abbandonava alle sue tenebre? Dio sa se se l'era meritato, e dio sa se Max non avrebbe avuto una vita migliore sotto l'ala protettiva di sua madre piuttosto che sul seno freddo di sua moglie. In ogni caso, Stella promise che ce l'avrebbe messa tutta.
Max sapeva che convincere Brenda sarebbe stato tutt'altro che facile. Quando gli avevo parlato a gennaio, e avevo colto il furore represso con cui parlava di Stella, l'avevo esortato a mettere da parte i sentimenti e a rendersi conto che sia la storia con Edgar Stark sia tutto quello che era successo in seguito andavano visti nel quadro clinico dell'isteria; ragion per cui, in primo luogo, Stella non si poteva considerare del tutto colpevole, e in secondo luogo, più che di un castigo aveva bisogno di affetto e attenzioni. Allora sarebbe stata meglio.
Con Brenda Max adottò una linea molto simile. Non era un punto di vista che lei potesse condividere fino in fondo, e infatti, con i suoi tipici giri di frase, tentò di sostenere che la psichiatria non poteva risolvere tutto. Ma Max, va detto a suo onore, tenne duro, le spiegò che Stella aveva avuto un esaurimento nervoso e che adesso ci volevano molta pazienza e molta comprensione. Accettare la proposta, da parte di Brenda, fu un indubbio segno di affetto per suo figlio, ma si dà il caso che io la sapessi scettica almeno quanto Stella circa i risultati.
Fu quindi deciso che Brenda sarebbe andata a cena da loro. Per il momento le rovinose sbronze di Stella erano dimenticate, così come era dimenticato tutto il resto, la sua feroce indifferenza ai sentimenti altrui, la sua sciatteria, la sua egoistica espropriazione della camera da letto. No, adesso l'unica cosa importante era che preparasse la cena, la servisse in tavola e facesse il possibile per dimostrare di essere ancora parte di una famiglia con qualche problema, ma sostanzialmente solida. Con grande sollievo di suo marito, Stella si dedicò di buon grado all'ideazione e alla preparazione di quell'evento decisivo, scelse il menu e fece di persona la spesa, e già solo questo, Max cercava di convincersi, era segno che stava migliorando, e lasciava intravedere un possibile, graduale ritorno alla normalità.
Stella aveva deciso cosa avrebbe cucinato: rognone.
Fu un disastro. Max era andato a prendere sua madre in albergo, e appena entrata in casa Brenda non era riuscita a mascherare il disgusto che il loro stile di vita le ispirava. Aveva attraversato il cortile con aria schifata, anche perché Trevor Williams stava concimando da giorni, e il tanfo era insopportabile. Brenda entrò in cucina, diede un bacio a Charlie e salutò Stella con una freddezza appena attenuata da una punta di compassione; questo naturalmente per far contento Max, che aveva continuato a insistere sul tema della sua «malattia», del suo «esaurimento». Stella si era messa un vestito vecchio e liso, con sopra il grembiule. Max propose di bere qualcosa in soggiorno, e Brenda accondiscese a salire di sopra.
Poi insistette per fare il giro della casa, e scoprendo come dormivano le venne quasi un colpo. Max non l'aveva preparata alle camere separate. Che suo figlio, uno psichiatra di prim'ordine, fosse ridotto a vivere come uno scolaro! Quando Stella li raggiunse trovò Brenda appollaiata su un angolo del divano, come se avesse paura di prendersi, al contatto, una malattia infettiva. Sua suocera le rivolse uno sguardo smarrito; era la prima volta che Stella la vedeva in difficoltà.
«Mia cara,» disse «non avevo idea che le case gallesi fossero così spartane».
Stella rise allegramente. «Eh già, prima eravamo molto viziati, con tutte quelle grandi stanze. Adesso ci tocca arrangiarci, come tutti gli altri».
«Eh già, vedo».
Le prime stilettate. Max era sul chi vive, e intervenne tempestivamente.
«Non ci troviamo male» mormorò. «Ci sono posti molto peggiori dove abitare».
«Ah sì?» disse Brenda. Era evidente che stentava a crederlo.
«Sì» disse Max. «I gallesi sono gente abituata a vivere nascosta, appena possono costruiscono ai piedi delle colline, o in mezzo ai boschi. Hanno una specie di passione per tutto ciò che è cupo. Questa casa almeno cupa non è».
Sulla fronte marmorea di Brenda un sopracciglio si inarcò di un millimetro. Era il segno di un crescente scetticismo.
«John Daniels mi diceva» aggiunse Max «che in questa parte del Galles c'è il più alto tasso di depressione di tutta Europa. Scandinavia a parte, naturalmente».
Se l'era inventato lì per lì. Stella l'aveva capito dal tono. Max doveva essere già alle corde.
«Quel John Daniels non mi ha fatto una grande impressione» disse Brenda. «Dove ha studiato?».
«A Edimburgo».
«Ah, ma pensa».
Madre e figlio cominciarono a discutere dei dipartimenti di psichiatra delle varie università inglesi, e Stella li lasciò soli. Scese in cucina a dare un'occhiata al rognone e a riempirsi il bicchiere da una bottiglia nuova.
Quando li chiamò a tavola aveva finito la bottiglia e ne aveva attaccata un'altra. Dio sa se ne ho bisogno, stasera, si era detta. Il problema, naturalmente, era che bere le calmava l'ansia, ma influiva anche sul suo autocontrollo; dopo tre o quattro bicchieri diventava «disinibita». L'espressione era di Max, e Stella me la ripeté con una smorfia sarcastica. Comunque, mentre portava in tavola la zuppa di porri e patate si sentiva esattamente così, disinibita.
«Non è precisamente quello a cui sei abituata, Brenda,» disse Stella «ma la necessità aguzza l'ingegno».
«Eppure la cucina regionale può riservare delle sorprese, mia cara, non credi?». Brenda si mise il tovagliolo sulle ginocchia e prese il cucchiaio. «Bene, bene,» disse speranzosa «ha proprio un bell'aspetto».
Stella si servì per ultima e si mise a sedere, slacciandosi il grembiule e lanciandolo all'inarca verso la zona dei ganci.
«Certo,» disse «se puoi permetterti gli ingredienti. Non che ci sia molto da comprare da queste parti. E con quello che guadagna Max è già tanto riuscire a portare qualcosa in tavola».
«Adesso stai un po' esagerando, cara» intervenne Max.
«Di solito ai ragazzi preparo dei bei panini al montone freddo. E la domenica cavolo. Per festeggiare» disse Stella.
Lanciò un'occhiata a Charlie, che si agitava sulla sedia ridacchiando. Almeno lui si stava divertendo.
«Ci prendi in giro, cara» disse Brenda conciliante. «Ma capisco cosa vuoi dire, la disponibilità degli ingredienti è spesso un limite. Quando il padre di Max e io viaggiavamo in Spagna, negli anni Quaranta, spesso cenavamo con una zuppa d'aglio e una fetta di pane. Non si trovava altro».
«Ma non mi dire» fece Stella. Aveva cercato di farle capire che erano poveri, ed eccoli lì a parlare di zuppe d'aglio spagnole. Max colse l'occasione per far notare a sua madre che tutte le storie della Spagna di un certo valore erano opera di autori inglesi. Stella non riuscì a capire se fosse un'altra invenzione.
«Già, interessante» disse Brenda.
«Per favore, Max, riempici i bicchieri» disse Stella. «Se si beve abbastanza si riesce a mandar giù senza farci tanto caso. Charlie, per favore, porta via i piatti».
Poi Stella si alzò e si mise a trafficare con i fornelli.
«Immagino che tu non abbia mai mangiato in cucina, vero Brenda?» disse senza girarsi. «Be', così vedi come vivono gli altri».
«Nei primi anni di matrimonio Charles e io ci siamo spesso trovati in ristrettezze» disse Brenda.
«Mi riesce un po' difficile immaginarlo» disse Stella e, mentre si girava per portare in tavola il tegame del rognone, sorprese lo sguardo, accompagnato da un sospiro sommesso, che Brenda lanciava a Max. La cena non stava andando come lui aveva sperato.
E non migliorò. Senza arrivare a una vera e propria lite, continuarono a punzecchiarsi per tutta la sera, spezzettando la conversazione che Max faceva l'impossibile per sostenere. Tutta colpa di Stella, naturalmente, che era disinibita; e verso la fine addirittura delusa per non essere riuscita a trascinare Brenda in una bella scenata. Ma sua suocera era troppo scaltra per raccogliere le sue provocazioni.
«Buona notte, mia cara» le disse quando Max fu pronto per riaccompagnarla al Bull. «Spero che presto starai meglio».
E con questo si infilò in macchina.
Un'ora dopo Max rientrò inferocito e trovò Stella ancor più disinibita di prima. Attraversò la cucina come una furia e andò a piazzarsi schiumando davanti alla finestra. Stella era ancora a tavola fra i piatti sporchi, a bere vino e a fumare.
«Non sei solo egoista» disse Max con la voce arrochita dall'ira. «Sei anche cretina».
Stella appoggiò i gomiti sul tavolo. Teneva il bicchiere davanti a sé, guardando Max da sopra l'orlo senza dire nulla.
«Ti rendi conto di quello che hai fatto?».
«Che cosa ho fatto, Max?».
Pensava di sentirsi dire che per colpa sua non avrebbero più avuto un soldo da Brenda. Ma stavolta Max la sorprese.
«Hai sprecato la tua ultima occasione» disse con una voce improvvisamente placata.
Stella non riusciva a calarsi nell'atmosfera melodrammatica del momento.
«La mia ultima occasione» disse. «E cioè?».
Max fece un sorrisetto sgradevole. Ci fu un breve silenzio. Poi Stella sbuffò.
«Cosa vuoi dire, Max?».
«Voglio dire che d'ora in poi dovrai cavartela da sola».
«Io me la sono sempre cavata da sola».
«Ma fammi il piacere. Io vado a dormire».
«Che cosa diavolo stai dicendo?».
Si era alzata in piedi. Tutta quell'aria grave, definitiva, non le piaceva neanche un po'. Senza muoversi da dov'era lo afferrò per la manica, mentre lui cercava di raggiungere le scale. Max la guardò con una rabbia, se possibile, più fredda del solito.
«Lasciami» le disse.
Stella si aggrappò ancora di più alla sua manica, stringendo nel pugno un pezzo di stoffa con un sorrisetto.
«Ti ho detto lasciami!».
Per divincolarsi, Max perse leggermente l'equilibrio. Poi inciampò, e si aggrappò alla ringhiera.
«Ma come siamo disinibiti!» gli gridò Stella.
Max cominciò a salire.
«Che cazzo dici, Max?» gli urlò dietro Stella. «Che cazzo vuoi dire devi cavartela da sola? Io sono sempre stata sola! Nel caso non te lo ricordassi, ho sposato te!».
Max scese qualche gradino.
«Adesso taci, va bene? Dei dettagli parleremo domattina, ma non voglio che svegli Charlie».
«Quali dettagli?».
Rimasero a fissarsi così, lei in fondo alle scale, lui a metà, ma voltato verso il basso. E fu Stella ad accorgersi per prima che sul pianerottolo c'era Charlie, in pigiama, che si stropicciava gli occhi con aria imbronciata.
«Tesoro, ti abbiamo svegliato? Scusaci, papà stava solo facendo finta di essere un imbecille».
Max si precipitò su per le scale. «Avanti, tu,» lo sentì dire «fila a letto». Scomparvero entrambi, e Stella tornò al tavolo della cucina a scolarsi tutto quello che riuscì a trovare. Quando Max tornò di sotto le comunicò brutalmente la notizia che aveva tenuto in serbo per lei tutto il giorno. Edgar Stark era nelle mani della polizia. Lo avevano preso quella mattina. A Chester.
Per il momento lo avrebbero trattenuto lì.
I due giorni successivi furono irreali. Stella represse il suo dolore e lo incanalò nell'ira per quello che aveva dovuto subire: era stata esibita davanti a Brenda, in modo che quella carogna, constatando di persona la sua malattia, ricominciasse a foraggiare Max. Quanto a Max, non lo aveva mai visto così calmo. Avevano litigato con una tale ferocia che evidentemente lui non vedeva più alcun futuro per il loro matrimonio. Max aveva abbandonato anche la prospettiva psichiatrica, e come dargli torto? Tuttavia, quando tentò di parlarle di separazione, Stella si rifiutò di ascoltare e uscì dalla stanza.
«Così non risolverai niente» disse Max.
Ma Stella non se la sentiva di affrontare un'altra lite. E dal momento che Max non voleva parlarne con Charlie in casa, Stella riuscì a evitare quell'esame dei dettagli in cui lui sembrava così smanioso di addentrarsi.
Non quello che si dice una famiglia felice, insomma. Ogni volta che usciva, Stella pensava che al ritorno avrebbe trovato la serratura cambiata. Ne parlò con Trevor Williams, notando uno strano lampo passargli negli occhi. Lascia solo che ci provi, le disse. Poi le assicurò che nessuno poteva cambiare la serratura tranne lui, il che parve rassicurarla. In qualche modo, le forme esteriori della vita familiare erano rimaste in piedi. Nonostante l'abisso fosse ormai spalancato, Stella continuava a occuparsi della casa, e cucinava, ma solo perché le dava una specie di sollievo che non aveva nulla a che vedere con nessuno, solo con lei, col fatto di conservare alle sue giornate una qualche struttura, un senso di ordine di cui sembrava avere più bisogno che mai. Non le restava altro. Riusciva a tollerare il silenzio e l'odio, la disperazione e la vacuità, ma il disordine no. Il caos no. La casa sporca e la tavola vuota no.
Perché ormai si reggeva a un filo. Si sentiva travolgere da improvvise ondate di disperazione, e in quei momenti avrebbe solo voluto coricarsi e morire, ma resisteva, non avrebbe ceduto, non si sarebbe arresa, non ancora, a costo di intaccare le ultime riserve di energia rimastele. Era questo rifiuto convulso di cedere che la costringeva a continuare la solita routine, a fare il letto e il bucato e a preparare la cena. Non lo faceva per gli altri due, lo faceva per se stessa. Per questo si aggrappò ai lavori di casa: per non perdere la ragione.
* * *
Tutte le sere mangiavano in silenzio, e dopo cena, se non pioveva, Max e Charlie andavano a fare una passeggiata. Stella sparecchiava e lavava i piatti, e beveva ancora un bicchiere seduta davanti alla finestra. Guardava la luce spegnersi a poco a poco, perché ora faceva buio più tardi. Fra tre ore dormirò, si diceva, e avrò passato un altro giorno senza impazzire. Si stava abituando a considerarlo un risultato. Non pensava al futuro, perché pensare al futuro ha senso solo se si desidera qualcosa, e lei ora non desiderava niente, le bastava arrivare in fondo alla giornata senza diventare pazza.
Lui era a Chester. A quindici chilometri.
In mano alla polizia.
Tutto perduto. I sogni di evasione e di fuga non avevano più senso. Tutto, tutta la struttura era crollata. In senso strettamente clinico, la depressione di Stella cominciò in quel momento.
Una sera, a tavola, Charlie era irrequieto. Lanciava continue occhiate a Max, e Stella capiva che gli stava chiedendo di dirle qualcosa.
«Be', cosa c'è? Non ce l'hai la lingua?».
Charlie lanciò uno sguardo sconsolato a Max, che sospirò pulendosi le labbra col tovagliolo.
«Charlie ha paura che tu ti sia dimenticata la sua gita scolastica di domani».
«Vuoi sempre venire?» le chiese Charlie.
Stella si alzò, andò al lavandino, posò il piatto sull'asciugatoio e si appoggiò al ripiano dandogli le spalle. Dalla finestra vedeva il cielo a occidente, isole merlettate di nuvole che passavano sul sole al tramonto, e una luminescenza dell'arancio più tenue immaginabile. Passò qualche secondo. Sentì il buio invaderla.
«Sì, direi di sì».