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La grande notizia della serata è stato l’annuncio di Pròdromos che riparte per Volos. Evidentemente ha parlato con Sevastì e hanno deciso di comunicarcelo durante la cena di famiglia.

Suo figlio ha smesso di mangiare e lo ha guardato inquieto e preoccupato. L’idea, si vede, non gli è piaciuta per niente. Finché i genitori sono stati ad Atene, si sentiva sicuro, perché li teneva costantemente sotto controllo. Ora che tornano a Volos teme che il padre faccia di testa sua e la madre glielo tenga nascosto.

“Quand’è che ti è venuta quest’idea di tornare a casa?” gli chiede.

“La sera che eravamo riuniti e la consuocera ha detto che fuori può anche piovere che Dio la manda ma noi cantiamo. In quel preciso istante mi è venuto in mente un altro detto che ripetiamo di frequente: ‘Chi è già bagnato non teme la pioggia.’ E ho capito che potevo tornare a Volos senza temere di bagnarmi.”

Sevastì si è resa conto che il figlio aveva ancora qualche dubbio ed è intervenuta per tranquillizzarlo.

“Fanis, siamo tranquilli ora, e abbiamo deciso. Andremo a stare in campagna finché il tempo è bello e fa caldo. Quando poi arriverà il momento di tornare a Volos, ne riparleremo.”

“A noi, comunque, dispiace che ve ne andiate. Ci mancherete molto,” le dice Adriana.

Alla fine ci accordiamo per andare anche noi in vacanza nella loro casa di campagna. Fanis e Caterina terranno i contatti con noi durante i fine settimana.

Io ho partecipato alla conversazione limitandomi solo a dire “sì”, perché avevo fretta di spedire tutti a casa e di andare a letto.

Mi sono addormentato subito e ho riaperto gli occhi solo dopo nove ore. Adriana era china su di me e scrutava da vicino la mia espressione.

“Che ti è successo?” le ho chiesto sorpreso.

“Che è successo a te, direi. Sei crollato, ieri sera.”

“Ero stanco, venivo da una notte in bianco.”

“Guarda di non ammalarti, perché con i tagli non si può neanche più contare sugli ospedali,” mi avverte prima di uscire dalla camera. “Se non mi credi, chiedi a Fanis.”

Esco di casa dopo aver salutato i consuoceri e aver augurato loro buon viaggio. Fanis gli aveva proposto di aspettare sabato perché così avrebbe potuto accompagnarli insieme a Caterina, ma Pròdromos ormai era sui carboni ardenti, come sempre capita a chi prende una decisione dopo averci molto pensato.

Koula mi interpella prima ancora che possa scartare la mia brioche.

“Il commissario Lambròpoulos ha detto di chiamarlo subito.”

Evidentemente, l’ammonimento di Adriana riguardo agli ospedali ha funzionato, perché decido di mangiare prima la brioche e poi di telefonare.

“Le lettere che cercavi sono indirizzate a un certo Franz?” mi chiede Lambròpoulos.

“Le avete trovate?”

“Come avevo previsto, erano state cancellate, ma le abbiamo recuperate in parte dall’hard disk. Ne vuoi una copia?”

“No, no. Io le ho già. Tienile tu, potranno servirci come elemento di prova.”

Bene, il mio sospetto, ossia che i collaboratori di Makridis fossero a conoscenza delle lettere, si conferma, ma ora c’è un altro problema. Le lettere sono in tedesco. C’era qualcuno che sapeva il tedesco tra di loro? La risposta è semplice: dato che Makridis aveva relazioni con ditte tedesche, è molto probabile che qualcuno del personale parlasse tedesco.

Telefono alla Risen, perché è la soluzione più semplice.

“Non so se c’era qualcuno che sapeva il tedesco nell’ufficio di mio fratello, signor commissario,” risponde alla mia domanda. “Io parlavo con tutti in greco. Posso darle il nome dell’avvocato che ha l’incarico di seguire gli affari dell’azienda di Andreas. Se ha altre domande si rivolga a lui. Io sono tornata in Germania e non mi voglio più occupare di queste cose. Aspetto solo che l’avvocato mi dica che cosa mi conviene: accettare l’eredità o rinunciarci.”

Telefono all’avvocato e gli chiedo se tra gli incartamenti che ha ricevuto dalla Risen ci sono anche i curricoli dei collaboratori di Makridis.

“Penso che ci siano, da qualche parte,” mi risponde. “Ma la ricerca devono farla i suoi uomini. Oggi io sono troppo preso.”

Spedisco da lui Koula con Dermitzakis e tengo Vlasòpoulos e Papadakis.

La cosa peggiore dell’attesa è che non c’è verso di farla passare. Cerchi un modo per ammazzare il tempo, per non farti mangiare le budella dall’ansia, ma niente. Penso di salire da Ghikas con la scusa di informarlo, poi mi rendo conto che non ha senso. Non ho da dirgli nulla di nuovo, e la cosa più probabile è che mi rimbambisca con una serie di domande a cui non sono in grado di rispondere.

Passano circa tre ore prima che Koula e Dermitzakis siano di ritorno. Sui loro volti leggo che hanno trovato quel che cercavamo.

“La Gheorghiou sa il tedesco,” mi annuncia Koula. “Ha studiato al Goethe Institut e aveva allegato una copia del suo diploma.”

Me l’aspettavo, ma non potevo esserne sicuro. La Gheorghiou è l’anello di congiunzione tra Makridis e i suoi contatti in Germania. Di conseguenza, doveva per forza sapere il tedesco.

La constatazione mi porta a una seconda conclusione: la Gheorghiou aveva sempre la possibilità di accedere al computer di Makridis. E quindi può essersi imbattuta nelle lettere. Addirittura, potrebbe averle viste anche prima che il suo principale si suicidasse e averle tradotte, dopo il suicidio, ai suoi collaboratori.

La telefonata di Petròpoulos interrompe i miei pensieri.

“Ho buone notizie,” mi annuncia raggiante. “I due immigrati che avevamo arrestato perché sospettati degli omicidi di Mattheou e di Kontòpoulos hanno riconosciuto una persona tra quelle nelle foto che ci hai mandato.”

“Chi?” chiedo ansioso.

“Un certo Petros Kollas. L’hanno visto che chiacchierava ai caselli con il sorvegliante di Kontòpoulos. Dicono che lui gli ha parlato, ma loro hanno fatto finta di niente.”

Per questo durante l’interrogatorio mi avevano detto che gli albanesi non gli parlano.

“Hai raccolto la loro deposizione?”

“Ovviamente,” mi risponde un tantino piccato perché gli ho chiesto una cosa banale.

“Ti prego di mandarmela. E poi vorrei anche farti i miei complimenti, perché mi hai chiarito un grosso dubbio.”

“Eh, dài!, anche noi qui in provincia ci capiamo qualcosa,” mi risponde un po’ per scherzo, un po’ per punzecchiarmi.

Dico a Koula di controllare i tabulati delle telefonate di Kollas e del sorvegliante. Mi ritorna, dopo un po’, con le telefonate più interessanti.

“Ho calcolato che si sono scambiati dieci telefonate nei tre giorni prima dell’omicidio,” mi comunica. “E altrettante ne ha fatte il sorvegliante al marito di Anna.”

Ora sappiamo anche chi è l’assassino. Non può essere altri che il docente di matematica. Escludo il sorvegliante di Kontòpoulos, perché il rischio che qualcuno lo riconoscesse era troppo altro. Il marito di Anna, la donna delle pulizie, ha mandato Kollas dal suo parente. Lui gli ha mostrato le sue vittime. Kollas li ha uccisi ed è tornato ad Atene. Chi poteva notarlo in mezzo alla confusione del blocco dei caselli?

Evidentemente è lo stesso piano d’azione che è stato messo in opera nel caso di Nikitòpoulos. Kollas o Anna hanno dato il numero di telefono della vittima all’assassino. Questi ha chiamato Nikitòpoulos e ha fissato l’appuntamento. Dopodiché si è presentato e l’ha ucciso.

È una domanda aperta se Anna era al centro studi quando Nikitòpoulos è stato ucciso, ma non ha poi tanta importanza. La domanda cruciale è se abbiamo uno, due o ancora più assassini. È impossibile che sia stato Kollas a uccidere Nikitòpoulos. Deve essere stato qualcun altro. E, inoltre, è molto probabile che abbiano utilizzato una terza persona anche per l’omicidio di Vranàs.

Il metodo che hanno utilizzato è molto intelligente. Anche se avessimo individuato uno degli assassini, sarebbe stato impossibile dimostrare che è l’esecutore degli altri, perché si sarebbe munito sicuramente di un alibi di ferro. Solo la pistola è sempre la stessa, mentre l’esecutore è sempre diverso.

Questo significa che dobbiamo trovare a tutti i costi la Smith & Wesson. Le buone notizie sono che hanno minacciato di continuare a uccidere, quindi è impossibile che se ne siano liberati. Le cattive notizie sono che abbiamo a che fare con una grossa banda che ha diversi esecutori, e quindi non possiamo sapere dove si nasconde l’arma. Se facessimo un’irruzione e non la trovassimo, sicuramente la farebbero sparire.

Non posso decidere da solo e quindi chiamo a raccolta i miei aiutanti per trovare una soluzione tutti insieme. Spiego la mia ricostruzione e resto in attesa di qualche suggerimento, ma regna il silenzio.

“L’unica è bloccare tutti contemporaneamente,” sostiene alla fine Vlasòpoulos. “È la nostra unica speranza di trovare l’arma. Altrimenti la faranno sparire, come dice lei.”

“D’accordo, ma in pratica è impossibile. Nessun pubblico ministero darà il mandato di perquisizione per dieci case contemporaneamente. Ci chiederà di conoscere gli elementi che abbiamo e ci darà i mandati per le situazioni più probabili.”

“Posso dire la mia opinione?” chiede Papadakis.

“Perché credi che ti abbia convocato, Papadakis? Per portarci il caffè?” gli rispondo piuttosto brusco, perché ho i nervi a fior di pelle.

“Io comincerei a cercare nelle case di Kollas e della Gheorghiou,” risponde con calma, senza far caso al mio scatto.

“Della Gheorghiou? E perché mai?” gli chiede Dermitzakis perplesso.

“Ora ti spiego. Ci sono due possibilità. Una è che l’arma passi da un esecutore all’altro. In questo caso, l’ultimo dovrebbe essere Kollas. L’altra possibilità è che l’arma la custodisca la persona meno sospettabile di tutto il gruppo. E questa persona è la Gheorghiou.”

“Mi piace la tua riflessione, Papadakis,” esclamo con entusiasmo forse un po’ eccessivo, ma è per compensare lo scatto di irritazione di prima. “Koula, troviamo gli indirizzi di Kollas e della Gheorghiou.”

Telefono subito a Ghikas per chiedergli di farci avere i mandati di perquisizione.

“Quante probabilità abbiamo?”

“Non è solo una questione di probabilità. È che non abbiamo una soluzione più sicura,” gli rispondo. Quindi gli comunico gli indirizzi e mi dice che chiederà subito i mandati che, in effetti, nel giro di mezz’ora sono pronti.

Dato che l’irruzione deve avvenire in perfetta sincronia, ci dividiamo. Vlasòpoulos e Papadakis si occuperanno della casa della Gheorghiou, mentre Dermitzakis e Koula restano con me per andare a casa di Kollas.

“Voglio che sia presente anche Kollas quando faremo la perquisizione,” spiego ai miei collaboratori. “Se dovessimo trovare la Smith & Wesson, voglio fargli subito qualche domanda.”

“Andiamo a far visita al centro studi e se lo troviamo, glielo portiamo,” propone Dermitzakis.

“E se Kollas non ci fosse?” chiedo. “Sono sicuro che lo informeranno, o la Steriadi oppure Anna, e quindi potrebbe sparire o informare gli altri.”

“Lasci che me ne occupi io,” dice Koula e telefona subito al centro studi con il mio telefono. “Buongiorno,” saluta con voce mielosa. “Vorrei parlare con il professor Kollas.” Aspetta una risposta e quindi continua: “Mi chiamo Antonopoulou e vorrei che il professor Kollas desse qualche lezione privata a mio figlio. Va in terza superiore e l’anno scorso non sa che cosa abbiamo passato, per fargli avere la sufficienza in matematica. Quest’anno vorremmo premunirci.” Resta ancora in attesa di una risposta. “È a lezione, in questo momento? Quando posso richiamarlo?” Dopodiché riattacca con il classico: “La ringrazio molto.”

“È a lezione,” ci rassicura.

“Dermitzakis, tu vai al centro studi e portalo a casa.”

Dermitzakis parte alla volta dell’istituto mentre Koula e io ci dirigiamo verso casa sua.

Kollas abita in viale Ionias, all’altezza di Àghios Elefthèrios, in una casa di quelle costruite per i profughi dell’Asia minore negli anni ’20.

“Ma quali Greci degli anni ’50?” commenta ridendo Koula. “Qua si parla della generazione del ’22.”

Entriamo in un minuscolo giardino che però sembra una giungla, tanto è pieno di alberi e piante, e suoniamo il campanello. Non ci apre nessuno.

“Che cosa facciamo?” mi chiede Koula.

“Aspettiamo Kollas.”

Dermitzakis lo porta lì un quarto d’ora dopo. Kollas ci guarda tutti con aria interrogativa, ma non ha perso il sangue freddo.

“Non capisco. Perché tutto questo dispiegamento di forze?” chiede con un tono leggermente infastidito. “Ho l’aria di un mafioso albanese?”

“No, ha l’aria di un Greco degli anni ’50, e abbiamo un mandato di perquisizione,” gli rispondo.

Fa spallucce.

“Perquisite pure, anche se non ho idea di chi siano questi Greci degli anni ’50?”

“Sua moglie non è qui?” gli chiedo.

“No, è andata insieme a mio figlio dai suoi, ad Argirocastro.”

Questo elemento aggrava la sua posizione, penso tra me. Evidentemente, ha spedito moglie e figlio in Albania per non averli qui mentre andava a uccidere i due agricoltori.

La casa ha tre stanze, cucina e bagno. Le stanze sono piccole, come di regola nelle case per i profughi del ’22. La libreria di Kollas e il suo computer sono nel soggiorno, che evidentemente usa anche come studio.

Cominciamo dallo studio, quindi setacciamo la cucina che, di solito, è un nascondiglio piuttosto sfruttato perché ha molti cassetti, molti angoli bui. Cerchiamo con metodo anche in camera da letto e finiamo nella camera del ragazzo. Quando abbiamo terminato la perquisizione siamo sicuri che la Smith & Wesson non si trova in casa.

Il che mi demoralizza e, contemporaneamente, mi preoccupa, perché credevo davvero alla prima ipotesi proposta da Papadakis, ossia che l’arma cambiasse di mano da un assassino all’altro. Decido comunque di sottoporre Kollas a un rapido interrogatorio, se non altro per non andarmene a mani vuote.

“Signor Kollas, lei si trovava presso i caselli di Kalamata una settimana fa, quando gli agricoltori avevano bloccato i caselli dell’autostrada?” gli chiedo.

“Sì, sono passato di lì. Volevo andare a trovare un mio amico di Kalamata, dato che i miei erano andati via ed ero solo.”

“Forse l’amico che ha visitato era parente del marito di Anna, che lavora come donna delle pulizie al centro studi?”

Sulle sue labbra si dipinge un sorriso ironico.

“Vedo che avete cercato bene,” commenta. “Sì, si chiama Zafiris Salafis ed è cugino del marito di Anna.”

“E perché non è andato a casa sua, ma è andato ai caselli?”

“Perché Zafiris voleva dare un’occhiata alla festa di paese e farla vedere anche a me.”

“E proprio nel momento in cui lei si trovava ai caselli hanno ucciso due agricoltori, Mattheou e Kontòpoulos, quest’ultimo datore di lavoro del suo amico.”

“Pensate forse che il mio amico abbia ucciso i due agricoltori, il suo datore di lavoro e l’altro?” mi chiede come se gli avessi detto qualcosa di completamente assurdo.

Non faccio in tempo a rispondergli perché mi squilla il cellulare.

“Abbiamo trovato la pistola, signor commissario,” mi dice la voce trionfante di Papadakis.