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Dormire in piedi non mi era mai capitato prima. Tanto meno aggrappato alla maniglia del filobus.
L’unico rimedio di cui dispongo è raddoppiare il numero di caffè che prendo di solito, nella speranza che mi si aprano gli occhi e il cervello si rimetta in moto. Bevo il primo nel bar della Centrale e il secondo in ufficio. Mi sciacquo il viso con acqua fredda e poi chiamo Petròpoulos a Kalamata.
“Voglio sapere i nomi degli albanesi che sorvegliano i braccianti a Kalamata. E cerca anche di scoprire i nomi di quelli che erano ai caselli. So che è difficile, ma fai un tentativo, magari la fortuna ci sorride.”
“Le indagini stanno andando avanti?” mi chiede.
“Ci sono alcuni indizi interessanti, ma non so ancora dove ci porteranno,” gli rispondo tenendomi sul vago, perché così mi impongono i vaghi risultati delle indagini.
Prima di convocare i miei collaboratori, faccio una seconda telefonata. A Uli, stavolta.
“Quante lettere di Makridis ti mancano?”
“Un’altra. L’ultima.”
“Posso chiederti di tradurmela al più presto possibile?”
“Ha trovato qualcosa che potrebbe aiutarla?”
“Tanto per cominciare, ho trovato un uomo che corre a tutta birra verso la follia.”
“Verso la disperazione,” mi corregge. “Per questo si è suicidato. Le traduco subito l’ultima lettera. Ma deve rivederla Mània, che oggi è strapresa.”
“Cerca l’abito da sposa?” lo stuzzico.
“Mània?” e scoppia a ridere.
Termino le mie conversazioni telefoniche e convoco la squadra. Dermitzakis mi dice che la famiglia Vranàs non ha niente a che fare con gli albanesi. Gli unici che vedono sono quelli che circolano a Malakasa.
Vlasòpoulos mi porta un elenco che gli è stato dato dalla Steriadi, la segretaria del centro studi di Nikitòpoulos. Getto una rapida occhiata e mi ricordo subito della donna delle pulizie albanese. Le avevo parlato dopo l’omicidio del suo datore di lavoro e mi aveva detto che c’era stata una telefonata e Nikitòpoulos aveva fissato un appuntamento per la sera in cui poi era avvenuto l’omicidio.
Papadakis mi conferma quello che avevo letto appreso dalla lettera di Makridis. Tutti i suoi collaboratori, nessuno escluso, erano albanesi che aveva assunto nello stesso periodo.
“Dobbiamo muoverci con metodo,” dico ai miei collaboratori. “La prima cosa da fare è una visita alla Steriadi, per conoscere l’indirizzo della donna delle pulizie albanese e convocarla qui a deporre. Per ultima lasciamo la segretaria di Makridis.”
Prendo con me solo Vlasòpoulos e lascio gli altri a spulciare il resto dei nomi; chissà che non scopriamo qualche collegamento.
In viale Alexandras non c’è traffico e ancor meno in via Ioulianoù.
“Dovremmo chiedere per curiosità al ministero dei Trasporti quanti ateniesi hanno restituito le targhe delle macchine perché sono a corto di soldi per pagare benzina e tasse di circolazione,” mi fa Vlasòpoulos.
“Io, comunque, la soluzione l’ho trovata,” gli rispondo. “Non ho restituito la targa, ma ho posteggiato la Seat nel garage della Centrale e l’ho trasformata in mezzo di trasporto per casi di emergenza.”
“E viene in ufficio in filobus?”
“Sissignore.”
“Lei è più vicino. Io vado e torno ogni fine settimana con il pullman della KTEL a Chalkida per vedere i figli.”
All’angolo tra la Kokkinaki e la Vlastoù regna la calma, così come all’Istituto Chronos. La Steriadi nel vederci si stupisce.
“Come mai da queste parti?” mi chiede sorpresa. “Pensavo ci aveste dimenticati.”
“Abbiamo bisogno di un’informazione e ci siamo ricordati di lei,” le rispondo. “Ci può dire quanti albanesi sono impiegati nella scuola?”
“Anna, che è la donna delle pulizie, e Petros Kollas, un docente di matematica,” mi risponde. “Petros ha studiato a Ioannina e ha la cittadinanza greca. Insegna qui in attesa di una cattedra.”
“Ci sono figli di albanesi, nell’istituto?” le chiede Vlasòpoulos.
“La figlia di Anna e il figlio di Petros. Entrambi abitano da queste parti. Abbiamo anche due ragazzi georgiani. Gli altri sono tutti greci.”
“I figli della donna delle pulizie e del docente studiano gratis?” le chiedo.
“No. Gli abbiamo fatto uno sconto, ma non studiano gratis. Nikitòpoulos diceva sempre che le cose gratis non fanno bene né all’istituto né ai genitori. Sosteneva che se si fosse aperto a questa politica avrebbe finito per chiudere.”
“Vorremmo un elenco degli iscritti,” le chiede Vlasòpoulos.
“Volentieri. Glielo stampo subito.”
La Steriadi recupera l’elenco nel computer e ce lo stampa.
Mentre Vlasòpoulos prende l’elenco, a me viene un’idea che mi costringe a cambiare itinerario. Se convoco la donna delle pulizie in Centrale, è molto probabile che lo venga a sapere il docente, sia direttamente sia attraverso i figli, e quindi se poi volessi interrogarlo potrebbe mostrarsi reticente. E questo vorrei evitarlo, almeno finché non avrò interrogato la segretaria di Makridis per farmi un’idea più precisa riguardo agli albanesi che lavoravano nella sua azienda.
“La donna delle pulizie si trova qui in questo momento?” chiedo alla Steriadi.
“Sì, è di sopra. Vuole che gliela chiami?”
“Lasci stare, saliamo noi. Del resto, abbiamo bisogno di chiarire degli elementi che riguardano ciò che ci ha detto nella sua prima deposizione.”
Troviamo Anna al piano di sopra, intenta a pulire l’ufficio di Nikitòpoulos.
“Buongiorno, Anna,” la saluto amichevolmente. “Chi siede ora al posto di Nikitòpoulos?”
“La signora Ghiota,” mi risponde. “È lei che dirige l’istituto, ora.”
“Con chi ti trovi meglio?” le chiede Vlasòpoulos con un sorriso.
Anna solleva le spalle con indifferenza.
“Sia con il signor Chronis sia con la signora Ghiota per me non cambia. Prendo gli stessi soldi e gli stessi soldi pago per far venire qui mia figlia Margarita.”
“Ricordi che qualcuno ha telefonato perché voleva incontrare Nikitòpoulos il giorno in cui è stato ucciso?” le chiedo.
“Certo che lo ricordo. Lui aveva detto a quel qualcuno di passare di qui la sera.”
“Ricordi chi aveva risposto?”
“Il signor Chronis. Forse direttamente, forse può averglielo passato la signora Dina. Tutti gli altri erano impegnati a lezione.”
“Potresti aver risposto tu e magari ora non te ne ricordi?” le chiede Vlasòpoulos.
“Impossibile,” risponde sicura. “Al telefono potevano rispondere solo il signor Chronis o la signora Dina. Se loro non c’erano o se erano impegnati, lo lasciavamo suonare finché non scattava la segreteria telefonica.”
Non abbiamo altro da chiederle, e quindi la lasciamo al suo lavoro. Sulla strada del ritorno, cerco di riordinare le varie informazioni che abbiamo raccolto. A dire il vero, non è che siano così tante da aver bisogno di un riordino. Ora sappiamo che, oltre alla donna delle pulizie, c’è anche un docente albanese nella scuola e che i loro figli frequentano come studenti.
Koula mi dice che Vasilikì Gheorghiou, la segretaria di Makridis, è nel suo ufficio e mi aspetta. Le dico di farla accomodare da me.
Entra con il sorriso sulle labbra.
“Buongiorno, signor commissario,” mi saluta amichevolmente e a suo agio.
Le mostro la poltroncina davanti a me.
“Signora Gheorghiou, quando mi ha fatto visita la signora Risen, la sorella di Andreas Makridis, mi ha consegnato una serie di lettere che il fratello aveva scritto a un suo amico in Germania. Lei era a conoscenza dell’esistenza di queste lettere?”
“No. Non me le hanno mai mostrate né il signor Makridis né sua sorella.”
“Sa se Makridis aveva assunto nuovo personale poco prima del suicidio?”
“Non prima del suicidio, signor commissario, un anno e mezzo fa. Anch’io sono tra gli assunti di quel periodo. E adesso mi ritrovo disoccupata. Ma era solo una questione di tempo.”
“Perché dice che era una questione di tempo?”
“Perché tutto andava male. Ossia, non è esatto dire che le cose andavano male, più che altro il signor Makridis non riusciva a adattarsi alla realtà greca. Credeva di vivere in Germania. Non riusciva assolutamente a venire a patti con i ritmi della Grecia, non riusciva a capire gli impiegati pubblici con cui aveva a che fare e affondava ogni giorno di più nella disperazione. Quando ha cacciato via Vranàs gli ho detto che aveva commesso un errore e lui si è infuriato. ‘Io lavoro alla luce del sole e non mi piacciono i parassiti e le cose fatte di nascosto,’ mi ha risposto. Se si fosse affidato a Vranàs, avrebbe risolto ogni problema.”
“Ma perché non ha mollato tutto e se n’è tornato in Germania?” le chiedo con sincera perplessità.
Si mette a ridere.
“Perché si sentiva greco, pur senza esserlo. Voleva fare qualcosa per il suo paese, ma non conosceva il suo paese.”
In due parole, la sua spiegazione, per quanto semplice, regge.
“L’azienda ha chiuso. Sa per caso dove si trovano i documenti e gli archivi?”
“Questo può dirglielo la signora Risen. Credo abbia affidato tutto a un avvocato.”
Sto per chiederle, e ce l’ho sulla punta della lingua, se anche lei è albanese, ma mi trattengo. Se lo è, potrebbe insospettirsi e informare gli altri. E io, invece, voglio affrontarli senza dar loro il tempo di prepararsi. Del resto, se è stata assunta insieme all’ultima infornata di personale, è molto probabile che sia albanese anche lei.
Appena la Gheorghiou se ne va, chiamo i miei per informarli.
“Dobbiamo chiedere alla Risen il nome dell’avvocato.”
“Perché coinvolgere la Risen?” ribatte Koula. “Makridis era tedesco. Avrà iscritto tutti al Servizio sanitario nazionale. Lasci stare, me ne occupo io.”
“È giusto quello che dici, ma se ci provi da sola perderemo molto tempo, e nel frattempo I Greci degli anni ’50 minacciano di uccidere ancora. Lascia stare: chiederò a Ghikas di intervenire.”
Salgo direttamente da Ghikas e quando entro vedo che fa una smorfia.
“Spero proprio che non mi porti ancora cattive notizie,” mi avverte.
“No. Però ho bisogno del suo aiuto. Deve intervenire presso il Servizio sanitario per farci dare l’elenco degli impiegati nell’azienda di Makridis. Dalla sua ultima lettera emerge che erano tutti albanesi.”
“Credi che siano coinvolti degli albanesi?” mi chiede. “Gli albanesi, negli anni ’50, erano in Albania. Anche se qualcuno fosse riuscito a venire da noi, ora avrebbero la stessa età che hanno i nostri Greci degli anni ’50.”
“Non lo so. Per adesso sto ancora cercando. Quel che è certo è che me li trovo sempre davanti. Prima al casello autostradale di Kalamata, poi sui campi, ora vengo a sapere che Nikitòpoulos non aveva solo una donna delle pulizie albanese, ma anche un docente di matematica. Inoltre Makridis aveva personale albanese nella sua azienda. Troppa roba, per essere solo una coincidenza.”
Non insiste.
“D’accordo. Telefonerò al responsabile del Servizio sanitario e gli chiederò di mandarmi l’elenco via email.”
Scendo in ufficio chiedendomi che cosa mi rivelerà l’ultima lettera di Makridis.