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Il primo a comparire è Dimitriou.

“Niente, signor commissario,” mi annuncia. “Non abbiamo trovato nulla.”

Me lo aspettavo perché sono passate più di ventiquattro ore e anche se ci fossero state delle tracce sarebbero già scomparse.

“L’unica cosa che posso dire con certezza è che l’assassino è arrivato a piedi,” continua Dimitriou, “perché da nessuna parte abbiamo trovato tracce di pneumatici. Le uniche sono quelle dei trattori delle vittime.”

“È stato proprio questo elemento che ci ha condotto ai due stranieri,” spiega Petròpoulos, che segue la conversazione. “I due erano lì, circolavano a piedi in mezzo ai trattori e conoscevano le vittime.”

Dal primo momento cerca di convincermi che non è una schiappa, cosa che non ho mai pensato. Semplicemente, non ha esperienza. E poi non escludo che l’idea dell’arresto sia stata del comandante, e lui si sia limitato a eseguire.

“Possiamo vedere i bossoli?” gli chiedo.

Apre il cassetto della sua scrivania, ne estrae un sacchettino di plastica con i due bossoli e me lo dà. Hai capito? commento tra me, si è tenuto i bossoli nel cassetto per mostrarli ai suoi nipotini fra trent’anni. Consegno il sacchettino a Dimitriou, che lo prende e gli dà un’occhiata.

“Li mando al laboratorio balistico, ma non ho alcun dubbio che si tratti della stessa arma,” dichiara.

“L’arma è una pistola americana, la Smith & Wesson modello ‘Victory’,” spiego a Petròpoulos. “Sono armi che l’esercito americano forniva all’esercito greco negli anni ’50. Non c’è alcun dubbio che gli assassini siano greci. Gli immigrati stranieri che provengono dai paesi ex comunisti una Smith & Wesson neanche se la sognano.”

“D’accordo, ma questi Greci degli anni ’50 quanti anni avranno oggi?” si chiede Petròpoulos, manifestando la perplessità che ci accomuna tutti.

“Non è sicuro che gli assassini appartengano alla generazione degli anni ’50,” spiega Vlasòpoulos. “Potrebbero essere i figli o i nipoti che si nascondono dietro la generazione degli anni ’50 per trarci in inganno.”

“L’altro elemento in comune che hanno tutti gli omicidi è la Guerra civile,” spiego a Petròpoulos. “In tutti i casi, fino a ora, abbiamo evidenziato un rapporto tra le vittime e la guerra. Sai per caso se le famiglie degli agricoltori uccisi avevano qualche relazione con la Guerra civile?”

Petròpoulos fa spallucce.

“Non ne ho idea. Io sono originario di Pyrgos, ma sono cresciuto in Tracia. Mio padre faceva parte della gendarmeria.”

“Il mio era brigadiere in Epiro,” gli dico e per la prima volta un sorriso compare sulle sue labbra. Il fatto che i nostri padri facessero lo stesso lavoro rompe il ghiaccio tra di noi.

“L’unica soluzione è andare a parlare con le famiglie delle vittime,” gli spiego. “Ma prima voglio fare un giro per i bar. Se l’assassino è venuto da Atene, è possibile che abbia preso informazioni sulle sue vittime.”

Ci previene, comunque, Ananiadis.

“I due omicidi sono copie conformi di quelli di Atene,” dichiara. “Secondo me non c’è dubbio che si tratti della stessa mano.”

Dico ad Ananiadis che può tornarsene ad Atene con il furgone della Scientifica, insieme a Dimitriou. Non ha senso trattenerlo, dal momento che ora ci aspetta la corvée del giro a piedi per i bar e poi per le case.

Petròpoulos ci dice che i bar frequentati dagli agricoltori si trovano nei paesi intorno a Kalamata. Tengo per me il più frequentato, e spedisco i miei aiutanti a far visita agli altri in compagnia di agenti della polizia locale.

Petròpoulos guida l’autopattuglia mentre io sono seduto al suo fianco.

“Comunque, non aspettarti di venire a sapere chissà cosa,” mi avverte.

“Perché?”

“Perché è una società chiusa. Anche se sanno qualcosa se la tengono per sé e con i forestieri sono una tomba. Non credere alle favole sull’ospitalità. Anch’io, dopo cinque anni di permanenza qui, quando entro in un locale capisco che le chiacchiere si interrompono di punto in bianco e prendono un altro argomento.”

So che ha ragione. L’unica possibilità è che parlino perché gli farò domande che riguardano persone che non sono del luogo.

Il bar dove mi porta Petròpoulos è nella piazza centrale del paese. Gli agricoltori sono fuori a chiacchierare, ma si interrompono bruscamente quando ci vedono uscire dall’autopattuglia.

“Buongiorno,” esordisce Petròpoulos con aria amichevole.

Per tutta risposta, riceviamo un grugnito generale che potrebbe anche essere interpretato come un saluto.

Petròpoulos finge di non essersi accorto dell’accoglienza non particolarmente calorosa.

“Il signor commissario è venuto da Atene e vuole farvi qualche domanda riguardo agli omicidi di Haràlambos Mattheou e di Iannis Kontòpoulos,” gli spiega.

Mi affrontano mantenendo un’ostentata indifferenza. Decido di metter fine al gioco del silenzio. Salgo sulla scalinata e mi piazzo in mezzo a loro.

“Vorrei che mi diceste se, quando eravate ai caselli, vi ha per caso interpellato qualche straniero per chiedervi informazioni riguardo alle vittime.”

Si guardano l’un l’altro, innanzitutto per capire se c’è qualcuno che effettivamente ha visto qualche forestiero, e in secondo luogo per decidere chi parla per primo.

“Lì dov’ero io non ci ha chiesto niente nessuno,” mi risponde, infine, un cinquantenne.

“Neanch’io ho parlato con gente di fuori,” interviene un altro, più anziano di lui.

“Ma perché avrebbero dovuto cercarci dei forestieri, se quelli che hanno ammazzato Iannis e Lambis sono immigrati che facevano i braccianti?” chiede un giovanotto. “Figuriamoci se c’è un misterioso mandante straniero.”

“C’è la possibilità che gli omicidi dei due vostri compaesani abbiano a che fare con altri due omicidi che sono avvenuti ad Atene e su cui stiamo indagando,” gli spiego.

“In altre parole, Petròpoulos, pure stavolta non ci avete preso neanche di striscio,” commenta il giovanotto sarcastico, e la cosa mi fa girare le scatole.

“Ascoltate, ci sono due modi per affrontare la questione,” spiego loro con un tono piuttosto deciso. “O ne parliamo qui, tranquillamente, tra un caffè e un’aranciata, oppure noi torniamo in sede e poi vi convochiamo a uno a uno per una deposizione. Che cosa preferite?” Dopodiché mi rivolgo al giovanotto: “Il commissario Petròpoulos non poteva sapere degli omicidi ad Atene. Per questo siamo venuti noi.”

“Ragazzi, c’è qualcuno che ha parlato con gente di fuori nei due giorni in cui siamo stati ai caselli?” chiede un quarantenne. “Se c’è, lo dica una buona volta così potremo berci il caffè in santa pace.”

La risposta dell’assemblea è un coro di “no”.

“Bene, questo l’abbiamo chiarito,” e stavolta uso un tono amichevole. “C’è qualcuno che potrebbe dirmi qualcosa riguardo al passato di Mattheou e di Kontòpoulos?”

“Quale passato?” mi chiede il cinquantenne che aveva parlato in precedenza. “Lambis era Lambis e Iannis era Iannis. Ci conoscevamo da piccoli.”

“Parlo di un passato più lontano. Della Guerra civile,” spiego.

“Chi si ricorda più queste vecchie storie?” interviene il sessantenne. “Siamo sempre vissuti insieme, parlando di semine e raccolti, di concimi e del tempo. Cosa votavi non importava a nessuno. Tanto, è sempre la stessa merda.”

“Bene. Abbiamo finito. Grazie a tutti,” concludo, e mi accingo ad andarmene.

“Va’ con Dio e non tornare,” mi saluta il quarantenne, mentre il giovanotto sorride con aria ironica.

Almeno sappiamo che, probabilmente, non c’è stato nessun forestiero a raccogliere informazioni sulle due vittime, ragiono tra me mentre ci dirigiamo verso la macchina. Per tirare le somme aspetterò di aver sentito se i miei hanno ottenuto risposte diverse, ma non ho molte speranze. Se la mia idea è giusta, l’assassino aveva le sue fonti e sapeva già chi colpire.

“Credi che dai parenti potremmo ottenere qualche informazione sul passato delle vittime?” chiedo a Petròpoulos quando entriamo nell’autopattuglia.

Non mette in moto, ma ci pensa su un po’.

“Ti porto io da uno che sa sicuramente qualcosa, ma resterò in auto perché se mi vede non apre bocca.”

Parte ed esce dal paese. Tutto intorno ci sono campi e Petròpoulos guida quasi senza guardare tanto conosce bene i sentieri, fino a quando arriva a una curva e si ferma. Mi indica un vecchio casolare sul cocuzzolo di una collina che ci sta davanti. Il casolare è circondato da un piccolo appezzamento di terreno.

“Sali a piedi fino al casolare,” mi dice Petròpoulos. “Ci abita Lagouràs. È l’unico che sa qualcosa sulle due famiglie, ma ha tagliato i ponti con tutto il paese e non parla con nessuno. Lui disprezza il paese e il paese disprezza lui.”

Scendo dall’autopattuglia e prendo la salita. La porta della cascina si apre e ne esce un vecchio con una sedia. Si sorprende di vedermi e per un momento resta in piedi con la sedia in mano. Quindi la appoggia a terra e vi si siede. Deve avere intorno ai novant’anni, ma da come si muove direi che sta bene.

Ecco il secondo fossile vivente risalente al periodo dei Greci degli anni ’50, dopo il padre di Vranàs, penso tra me.

“Buongiorno,” lo saluto quando gli arrivo a portata di voce.

Mi guarda dall’alto in basso, ma non fa lo sforzo di restituirmi il saluto. Ha sentito che mi presentavo, ma il suo sguardo vaga lontano, verso i campi.

“Mi hanno detto che potresti darmi delle informazioni riguardo alle famiglie dei due agricoltori che sono stati uccisi l’altro giorno ai caselli dell’autostrada.”

Si volta a guardarmi.

“Chi ti ha mandato qui?”

“La persona che mi ha mandato mi ha detto di non dirti come si chiama,” cosa che è in parte vera.

“E perché dovrei raccontare a uno sbirro la storia di Lambis Mattheou e Iannis Kontòpoulos?”

“Perché c’è un assassino in circolazione tra Atene e Kalamata, e non sappiamo quanta altra gente ha intenzione di ammazzare.”

“Ammazza comunisti?” mi chiede.

“Ha ammazzato il figlio di Nikitòpoulos.”

“Quello delle Brigate di Sicurezza?”

“Sì.”

“E perché dovrei darti delle informazioni per arrestare uno che uccide i miei nemici?”

Ed ecco che ho un’intuizione, anche se un po’ in ritardo: “I due morti sono per caso gente di sinistra?” gli chiedo.

“Erano farabutti,” mi risponde brusco. “I farabutti non sono né di destra né di sinistra. Sono farabutti e basta.”

La stessa cosa mi aveva detto a suo tempo Vranàs riguardo al figlio. Lagouràs ha lo sguardo inchiodato su di me e pensa.

“Con Christos Mattheou e Fanis Kontòpoulos eravamo compagni,” mi dice. “Abbiamo combattuto insieme nell’Esercito Democratico ed eravamo insieme a Meligalàs dove abbiamo avuto la nostra grande vittoria contro i collaborazionisti. Poi insieme siamo stati processati dalla corte marziale e ci hanno mandato al confino. E dopo siamo tornati tutti qui di nuovo. Abbiamo resistito alle persecuzioni, al terrorismo, alle brigate dei collaborazionisti e alla gendarmeria…” Si ferma e mi guarda. “Questa è l’unica battaglia che ho vinto in vita mia: ho resistito a tutto. I ragazzi di Christos e Fanis a scuola, erano isolati come se avessero la lebbra. Le cose hanno cominciato ad ammorbidirsi un po’ negli anni ’60, ma non abbiamo fatto in tempo a tirare il fiato che è arrivata la dittatura dei Colonnelli. Altre persecuzioni. Christos e Fanis sono morti. I loro figli, invece, dagli anni ’80 in poi si sono buttati sui soldi come avvoltoi e hanno arraffato dove hanno potuto. Prima con i finanziamenti, poi con le cooperative e alla fine si sono messi anche a derubare i braccianti stranieri. E poi, al bar, non facevano altro che raccontare la storia dei loro padri e schiumavano contro la destra. L’unica cosa su cui avevano ragione è che se la destra fosse stata al potere loro non avrebbero potuto affondare le dita nel miele fino a quel punto, e almeno non con le cooperative.”

Si lascia andare a un sospiro che proviene dal profondo e poi tace, forse anche perché si è stancato.

“Mia moglie è morta e figli non ne abbiamo avuti. Per fortuna, altrimenti sarebbero diventati dei farabutti anche loro. Comunque, se c’è un Dio, di me non ha pietà. Mi lascia qui a tormentarmi mentre potrebbe spedirmi nella tomba una volta per tutte e sarebbe finita anche per me.”

Si alza dalla sedia e torna in casa. Chiude la porta senza neanche dirmi “ciao”.

Discendo il sentiero e penso ai figli. Il figlio di Nikitòpoulos, il figlio del mangiacomunisti Vranàs, i figli di Mattheou e di Kontòpoulos erano diventati uccelli rapaci e sono stati assassinati. Il figlio di Makridis era tornato in Grecia e si è suicidato, e sua sorella è diventata tedesca per salvarsi.

“Hai trovato qualcosa di interessante?” mi chiede Petròpoulos quando rientro nell’autopattuglia.

Gli racconto quello che mi ha detto Lagouràs.

“E che conclusione ne trai?”

“C’è del positivo e del negativo. Positiva è la conferma che gli omicidi hanno a che fare con la Guerra civile. Mentre negativo è che fino a oggi credevo che qualcuno stesse uccidendo i figli dei nazionalisti per vendicarsi dei padri. Adesso, invece, questa teoria è miseramente crollata.”

I miei aiutanti mi aspettano alla direzione della polizia della Messenia. Non hanno saputo nulla, ma quello che ho appreso io, nel frattempo, mi basta, e possiamo tornarcene ad Atene.

La chiave ce l’hanno i figli. Fino a lì sono sicuro, ma non ho ancora capito quale serratura apre questa chiave.