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Il buon senso vorrebbe che andassi direttamente a casa. L’ansia e la tensione insieme al caldo torrido mi hanno sfinito, e ora che ho recuperato un po’ di calma sono sul punto di crollare.

D’altra parte, però, voglio sapere che cosa è riuscito a cavare Vlasòpoulos dalla deposizione dei due clienti di Caterina. Mi chiedo se il mio senso del dovere è professionale o paterno, e opto per la seconda. In fondo né noi né l’Antiterrorismo ci saremmo mossi se i criminali di Alba Dorata avessero aggredito una qualunque sconosciuta invece di Caterina.

Salgo sull’autobus con i vestiti che mi si appiccicano addosso. Il mio primo pensiero è di rimettere in circolazione la Seat. L’ho parcheggiata nel garage della Centrale ormai da mesi: a causa delle terribili misure economiche che siamo costretti a subire non ha senso spendere denaro per la macchina quando posso circolare gratis con i mezzi pubblici. Ora però che all’itinerario casa-lavoro-casa si aggiunge anche l’ospedale e, tra poco, la casa di Caterina, almeno finché non si sarà rimessa, andare in giro in autobus mi prenderebbe troppo tempo.

E poi posso addurre come giustificazione Caterina, il che mi va a pennello perché a dire il vero sono in cerca di un pretesto per rimettere in moto la Seat e l’ansia paterna fa perfettamente al caso mio.

Davanti al mio ufficio ci sono i due africani in attesa.

“State ancora aspettando di testimoniare?”

“Aspettiamo Caterina,” risponde uno dei due.

“Come sta?” chiede l’altro.

“Per fortuna non è nulla di grave. Però l’hanno colpita con un tirapugni ed è ancora dolorante.”

“Noi Caterina nostra sorella. Vogliamo molto bene,” dice il primo.

L’affetto che dimostrano è commovente, anche se Caterina lo sta pagando con il ricovero in ospedale.

“Entrate.”

Mi seguono in ufficio, ma nello stesso momento irrompono anche i miei tre aiutanti: Koula, Dermitzakis e Papadakis. Gli africani si fermano, discretamente, sulla porta.

“Come sta Caterina, signor commissario?” mi chiede Koula.

Ripeto anche a loro il breve racconto che ho fatto ai due africani.

“Grazie a Dio le è andata bene,” commenta Koula facendosi il segno della croce.

“È stata fortunata nella sfortuna,” aggiunge Dermitzakis.

“Ma possibile che non sia intervenuto nessuno?” Papadakis non riesce a digerirlo.

“Nessuno.”

“Ovvio: visto che si è messa con i negri, le sta bene,” commenta con ironia amara, confermando così la posizione della tipa con gli auricolari.

Mi fanno gli auguri e si ritirano, mentre io invito gli africani a entrare. Aspettano il mio segnale per sedersi, ma prima telefono al responsabile dell’officina e gli chiedo di dare un’occhiata alla Seat.

“Perché eravate al Palazzo di Giustizia con Caterina?” chiedo subito dopo.

“Rotto negozio amico mio, Maurice,” risponde il secondo indicando il suo compagno.

“Dov’è il negozio?”

“Angolo tra la Lefkados e la Acharnòn. Maurice riconosciuto due che ha rotto. Andati polizia detto di fare denuncia, ma successo niente. Allora andati Caterina e Caterina fatto plaint.”

“E sarebbe?”

“Denuncia,” spiega Maurice. “Oggi c’era processo,” conclude usando il termine giusto.

Almeno, ora so qual era il movente degli aggressori. Alba Dorata ha colpito Caterina perché gli accusati erano dei loro.

Mi interrompe una telefonata di Stella.

“La vuole.”

“Salgo tra due minuti.”

Evidentemente, Ghikas desidera esprimermi la sua solidarietà per Caterina.

“Sua figlia molto buona. Tutti ci aiuta,” mi dice Maurice.

Mia figlia è una gran testona e prima o poi finirà per spaccarsela, la testa, rispondo tra me e me.

“La prossima volta andiamo tanti insieme, così non possono picchiare,” dichiara risolutamente l’amico.

“Come ti chiami?” gli chiedo.

“Cedric.”

“Non pensarci neanche, Cedric. Se lo fate, ne uscirete con le ossa rotte. Lascia stare: ora che lo sappiamo ce ne occuperemo noi.”

“Possiamo vederla?” mi chiede Maurice.

“Sì, ma non oggi. Domani mattina.”

Li congedo e salgo da Ghikas. Non appena mi vede, Stella balza in piedi:

“Auguri per Caterina… Ma che cosa tremenda!”

“Per fortuna le è andata bene.”

“Ormai è una giungla! Una giungla!” commenta.

Annuisco ed entro nell’ufficio di Ghikas. Appena mi vede interrompe il suo andirivieni e mi si avvicina.

“Come sta?” mi chiede con sincera preoccupazione perché ha una particolare simpatia per Caterina.

“Non ha subìto gravi danni, ma è ancora piena di dolori per i colpi. Il peggio è lo choc.”

“Ma com’è andata?”

Gli racconto rapidamente l’essenziale. Del resto, tanti particolari non ce ne sono.

“Posso andare a trovarla?”

“Aspetti domani, perché con ogni probabilità la dimettono.”

“Sono belve,” commenta. E lo sottolinea: “Belve, animali.”

Il tassista ci ha chiamati “pesci di fondale”, Stella ci ha spostati nella giungla e Ghikas ha introdotto anche le belve feroci. Il Regno di Grecia si era trasformato in Repubblica Ellenica e ora procede a passo spedito verso il Regno Animale Greco.

“Che cosa pensi di fare?” mi chiede Ghikas.

“Niente. Non abbiamo neanche il numero di targa della moto. Di conseguenza, diciamo che è stata una disgrazia e andiamo avanti.”

Mi batte amichevolmente la mano sulla spalla per esprimermi la sua comprensione.

Scendo in garage a prendere la Seat. Prima di tornare a casa voglio passare ancora una volta dall’ospedale. La Seat parte subito. Appena mi immetto in viale Mesoghion squilla il cellulare. Mi prende l’ansia, perché chi ha la scabbia se la gratta, come diceva mia madre. La voce è quella di un uomo che non conosco.

“Stai attento a tua figlia, perché andrà davvero a finire male, commissario,” mi dice e riattacca.

Giustamente avevo pensato al peggio, anche se quel che mi sento dire è diverso da quel che mi aspettavo. Come fanno a conoscere il mio numero di cellulare, questi delinquenti? Se mi avessero telefonato al commissariato, la cosa si sarebbe spiegata in modo semplice. Ma quelli che conoscono il mio numero di cellulare si contano sulla punta delle dita: Adriana, Caterina, Fanis, Mània, Zisis e qualche collega della Centrale. Di conseguenza, hanno avuto il numero da qualcuno della Centrale.

Non voglio illudermi. So bene che Alba Dorata ha molti agganci dentro la polizia. Come so che ci sono poliziotti corrotti, so anche che ci sono poliziotti che appartengono ad Alba Dorata. Ma dare il mio numero di cellulare è tutto un altro paio di maniche. E allora, sicuramente non si limiteranno a questo. Distribuiranno anche altri dati, profili e chissà cosa ancora.

Con questi pensieri per la testa arrivo all’ospedale civile e salgo in camera da Caterina. Adriana è seduta su una sedia in corridoio e chiacchiera con Fanis. Dal tono capisco che va tutto bene.

Adriana me lo conferma.

“Dorme.”

“Le abbiamo dato degli analgesici e un calmante,” mi spiega Fanis.

Apro la porta della camera senza fare rumore. Caterina dorme tranquilla sul fianco destro. Richiudo la porta e torno da mia moglie e da mio genero.

“Quando la dimetti?” chiedo a Fanis.

“Domattina voglio farla vedere da qualche collega. In particolare da un otorino perché mi ha detto che le fischia l’orecchio destro. Può essere la botta, ma c’è stata anche la commozione cerebrale e questo mi preoccupa un po’: meglio che la veda uno specialista. Poi la porto a casa, e spero di riuscire a convincerla a restare tranquilla qualche giorno senza correre subito in ufficio.”

“Vedrai che andrà a lavorare,” dichiara categorica Adriana. “Ha la zucca dura del padre.”

“È sempre colpa mia, eh?” commento ridendo.

“Cosa vuoi che ti dica, Kostas? Se non l’avessi messa al mondo io direi che l’hai fatta con un’altra donna. Da me non ha preso nulla.”

“Di queste cose è meglio se parlate a casa vostra. Non c’è bisogno che le sappia anche vostro genero,” aggiunge Fanis ridendo, anche per evitare la discussione famigliare.

“Il fatto è che stasera Adriana resta a dormire qui e ha paura di non ricordarsi la predica fino a domani,” spiego.

Adriana mi lancia uno dei suoi soliti sguardi dall’alto in basso, ma non replica.

Esco dall’ospedale sollevato e tranquillo. Se non fosse per la questione del numero del cellulare che continua a tormentarmi.