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La trovo riversa a terra, in via Evelpidon, davanti all’ingresso del Palazzo di Giustizia. Ha gli occhi chiusi. Una donna le ha messo sotto la testa la sua borsa come cuscino e, inginocchiata accanto, le fa aria con dei fogli di carta.
È ormai l’una, in piena canicola, e il caldo mozza il respiro. Sul suo volto brillano gocce di sudore. Mi chino su di lei e le sussurro:
“Caterina, mi senti?”
“Comunque, il polso è regolare,” mi dice la donna.
Sarà anche, fatto sta che Caterina non risponde e non apre gli occhi. Sento il marciapiede infuocato sotto le suole incandescenti e temo che si ustioni, ma non oso sollevarla. Uno sconosciuto porta una bottiglia d’acqua. Bagno un fazzolettino di carta e le rinfresco il viso e le guance.
“Le cattive notizie sono come la grandine,” diceva il mio povero papà. “Arrivano quando meno te le aspetti.” Ero in riunione con Ghikas e Gonatàs dell’Antiterrorismo, quando Stella, la segretaria di Ghikas, ci ha interrotto.
“Signor commissario, ha chiamato Koula. Le chiede di scendere subito. È urgente.”
“Che succede?”
“Non lo so. Non mi ha dato particolari.”
Koula mi aspettava in corridoio.
“Che succede? Parla!”
“Hanno telefonato dal posto di guardia al Palazzo di Giustizia. Hanno aggredito Caterina davanti al tribunale.”
“E ora dov’è?”
“Ancora lì. Ho chiesto se era grave, ma non hanno saputo rispondermi. In ogni caso, però, hanno chiamato l’ambulanza.”
“Di’ a Vlasòpoulos di trovare subito un’autopattuglia.”
Mentre aspettavo l’auto ho telefonato a Fanis. Ho pensato anche di chiamare Adriana, ma ho scartato subito l’idea. Meglio rendermi conto personalmente della situazione prima di annunciare una disgrazia, magari senza ragione.
Da lontano sento la sirena dell’ambulanza e stringo i denti aspettando l’arrivo di Fanis.
“Caterina, mi senti?” torno a chiederle.
“Ti sento,” mi sussurra stavolta, ma sempre senza aprire gli occhi.
L’ambulanza si ferma davanti all’ingresso del Palazzo di Giustizia. Il pubblico dei curiosi si scosta e vedo scendere per primo Fanis. Mi lancia uno sguardo di sfuggita e corre da Caterina. Si inginocchia al suo fianco e le apre un occhio con le dita. Poi le prende il polso e le ripete la mia stessa domanda.
“Caterina. Sono Fanis. Puoi parlarmi?”
“Mi hanno picchiato, Fanis,” risponde lei.
Vedo che Fanis chiude gli occhi e lascia andare un sospiro di sollievo.
“Sì, me ne sono accorto. Ora ti porto con me in ospedale per farti visitare. So che ti senti male, ma tra poco starai meglio.”
Fa un cenno ai portantini che distendono Caterina sulla barella e la trasferiscono sull’ambulanza.
“È grave?” chiedo a Fanis, anche se so che è troppo presto per avere una risposta.
“A prima vista, non sembra. Ma non posso esserne certo senza una TAC.”
Rimando ancora la telefonata a Adriana – devo calmarmi in qualche modo – e mi guardo intorno. Lo spettacolo è finito e gli spettatori se ne vanno. Oltre a me, sono rimasti la donna che è accorsa per prima, i due piantoni di guardia all’ingresso del Palazzo di Giustizia, Vlasòpoulos e due immigrati africani. Un po’ più in là una tipa formosa attaccata al telefonino ci costringe ad ascoltare la sua conversazione, dato che parla a voce altissima.
“Voi chi siete?” chiede Vlasòpoulos ai due africani.
“Clienti avvocato Charitou,” risponde uno dei due.
“Venuti insieme tribunale,” aggiunge l’altro.
“Di dove siete?” chiedo io.
“Senegal,” risponde il primo.
“Dovete venire in Centrale per testimoniare,” li avverte Vlasòpoulos.
Vedo il piantone togliersi un paio di manette dalla tasca posteriore dei pantaloni e dirigersi verso l’africano.
“Che cosa fai?” gli chiede Vlasòpoulos sorpreso.
“Chi ti dice che non siano stati loro ad aggredirla?” risponde il piantone con aria di sufficienza.
“Se l’avessero aggredita sarebbero rimasti qui a farsi arrestare, collega?”
Il piantone non sa cosa rispondere, cerca di replicare però non gli vengono in mente altre scemenze e quindi torna a infilarsi le manette in tasca. Ma è il suo collega che vuol continuare a ogni costo a fare l’intelligentone.
“Se vuoi il mio parere, sono rimasti qui proprio per passare per innocenti,” dice a Vlasòpoulos.
“Non l’hanno picchiata loro. L’hanno picchiata i tuoi compari, quelli di Alba Dorata,” sbotta all’improvviso la donna che ha soccorso Caterina. “Li ho visti con i miei occhi.”
“Che cosa hai detto? Ripetilo,” la minaccia il piantone, avvicinandosi a lei.
“Smettetela, non è il momento di litigare,” esclamo. Il piantone si ferma. “Che cosa ha visto, di preciso?” chiedo alla donna.
“Ero qui all’ingresso in attesa del mio avvocato. La ragazza stava uscendo con i suoi clienti. All’improvviso, dal nulla sono sbucati su una moto due giovani che indossavano delle magliette nere. Sono saliti sul marciapiede, uno dei due è sceso dalla moto si è lanciato sulla ragazza e ha cominciato a picchiarla con un tirapugni. I due africani hanno cercato di ostacolarli, ma l’altro, dalla moto, gli ha gridato: ‘Non muovetevi perché siete morti, sporchi negri.’ Quando la ragazza è caduta per terra il picchiatore l’ha lasciata andare, è risalito in moto e tutti e due sono scomparsi nel traffico.”
“Voi non avete visto niente?” chiede Vlasòpoulos ai piantoni.
“Noi pensavamo al nostro lavoro. Poi anche se c’è gente non ci facciamo caso perché davanti all’ingresso del tribunale c’è sempre qualcuno.”
“E non abbiamo sentito nulla,” aggiunge il secondo.
“Questo è vero,” conferma la donna. “Anch’io non ho gridato, perché ho avuto paura che mi aggredissero.”
“Ha notato il numero di targa della moto?” le chiedo.
“Quando si è fermata, la targa non era visibile, e poi è ripartita come un razzo.”
Vlasòpoulos si dirige verso la signora che parla al cellulare con l’auricolare, casomai sappia qualcosa di più.
“No, io sono arrivata dopo,” risponde la donna e commenta, “ma quella benedetta ragazza doveva proprio andarsi a trovare dei neri come clienti? Non ce ne sono di greci?”
Una volta attaccavamo i malati alle macchine per guarirli, ora ci attacchiamo al telefonino per parlare al vento.
Neanche gli africani ricordano la targa.
“Noi guardavamo Caterina,” mi risponde uno dei due.
“Da voi voglio un rapporto scritto,” dico ai due piantoni. Poi mi rivolgo agli altri tre testimoni. “E voi andate con il vicecommissario in Centrale per deporre.”
“Posso venire domani?” chiede la donna. “Se mi rimandano l’udienza, prima che me ne fissino un’altra, perdo sei mesi, come minimo!”
Vlasòpoulos raccoglie i suoi dati e le concede di passare in Centrale l’indomani. I due africani vanno insieme a lui con l’autopattuglia.
“Viene anche lei, signor commissario?” mi chiede.
“No, io vado in ospedale.”
Prima di mettermi in cammino trovo un angolo tranquillo e telefono a Adriana. Cerco di descriverle la situazione nel modo meno preoccupante possibile.
“A prima vista non sembra in condizioni critiche.”
“E ora dove si trova?”
“È con Fanis che le sta facendo gli esami per assicurarsi che sia tutto a posto.”
Non le racconto dell’ambulanza.
“Ma non c’è la polizia al Palazzo di Giustizia?” mi chiede.
“Sì, c’è, ma l’hanno aggredita all’esterno, sul marciapiede.”
“Vado in ospedale.”
“D’accordo. Ci troviamo lì,” le rispondo e fermo un taxi.
Durante il tragitto mi tormentano due interrogativi. Il primo è come facevano a sapere i picchiatori che Caterina oggi sarebbe stata in tribunale. Una possibilità, la più semplice, è che la pedinassero e che abbiano dato il segnale quando l’hanno vista entrare in via Evelpidon. L’altra, più complessa, è che Alba Dorata abbia degli informatori all’interno del Palazzo di Giustizia e siano stati loro ad avvertirli. Preferisco la prima ipotesi che è più logica e anche meno preoccupante.
Il secondo interrogativo riguarda le sue “guardie del corpo”. Sono ormai mesi che Caterina è minacciata da Alba Dorata per il fatto che difende gli immigrati. Per questo Zisis le aveva spedito qualche vecchietto dal centro di accoglienza per i senzatetto dove lavora come volontario con l’idea che i picchiatori di Alba Dorata non avrebbero osato prendersela con degli anziani per non correre il rischio di alienarsi le simpatie della gente. Oggi, però, i vecchietti non c’erano. Perché? Questo potrà dircelo solo Caterina quando sarà in grado di parlare.
“Come la vedi la situazione, amico?” mi chiede il tassista.
“Come la vedi anche tu,” rispondo secco, non ho voglia di chiacchiere da caffè, anche se trasferite in un taxi e senza caffè.
“Amico, stiamo affondando,” insiste il tassista. “Tra poco voi sarete i pesci di fondale e noi i taxi sottomarini che vi porteranno in giro per il Golfo Saronico.”