Epilogo
Astrid
Parigi
In teoria, non avrei dovuto essere io a farcela.
Mi si schiarisce la vista. Sono ancora in piedi di fronte alla carrozza della mostra al museo, a fissare la cuccetta vuota. Riesco quasi a percepire Noa distesa accanto a me, la guancia calda contro la mia mentre i nostri respiri salgono e scendono all’unisono.
Era ancora buio quando gli occhi di porcellana di Noa si chiusero per l’ultima volta. Avevo già visto corpi senza vita in passato – l’orologiaio e una volta anche un ammaestratore azzannato da una tigre. Ma Noa era un’altra cosa. I pesanti piloni che erano precipitati su di lei le avevano frantumato le gambe e probabilmente spezzato la schiena. Avrebbe potuto semplicemente fuggire quando era scoppiato l’incendio. E invece era tornata indietro a salvarmi. E aveva perso tutto.
Mi stropiccio gli occhi ora, al ricordo. Certo, ho avuto molti fratelli, ma io e lei eravamo più unite, era la sorella che non ho mai avuto. Avrei rinunciato alla mia libertà per lei. Ovviamente, con le sue ferite, la discussione era chiusa. Quando abbassai lo sguardo sul suo viso dolente e indifeso, sul suo corpo distrutto, l’idea di lasciarla mi parve insopportabile. Ero l’unica speranza per Theo, però. Così aspettai che gli occhi di Noa si chiudessero per l’ultima volta e poi mi incamminai verso l’arido campo, con Theo abbracciato e stretto a me. Mi tirai su più dritta, per la prima volta ero davvero sola.
La provvidenza sorrise a me e Theo durante la nostra fuga, come a dire che avevamo entrambi sofferto abbastanza. Riuscimmo ad arrivare a Lisbona per lo più con il treno, compiendo a piedi l’ultimo tratto. Il visto che mio fratello aveva preparato ci aspettava al consolato. Sebbene la città brulicasse di esuli alla disperata ricerca di una via di fuga, il denaro che Erich aveva depositato fu sufficiente per acquistare due posti a bordo di una nave a vapore. Piccoli colpi di fortuna, quando in precedenza ce ne erano stati così pochi. Forse era più di quanto meritassi.
La nostra nave raggiunse New York, poche settimane dopo ci arrivò la notizia che gli Alleati erano sbarcati e che erano diretti a Parigi. La fine della guerra era all’orizzonte. Fui presa dal dubbio: forse lasciare l’Europa era stato uno sbaglio. Avremmo potuto essere al sicuro. Ma non c’era possibilità di ritorno.
Non volai mai più dopo la notte dell’incendio. Ci rifacemmo una vita fuori Tampa, dove mio fratello Jules gestiva uno spettacolo itinerante. Lavorai sodo, vendendo biglietti e concessioni. Né io né Jules avremmo potuto sopportare di ritornare sul trapezio. All’inizio, temevo che una vita senza il brivido dell’esibizione potesse rivelarsi soffocante e strana come era stata con Erich. Ma ero senza legami, ed ero libera.
Solo ora sono tornata. Svuoto la mente dai ricordi e alzo lo sguardo sulla mostra sul circo, che celebra le gesta e gli spettacoli di quell’epoca andata. Ovviamente la mostra non fa menzione della più grande impresa del circo – salvare vite.
C’è una foto solitaria di Peter, risplendente nel suo costume da clown. Dietro il trucco bianco ci sono gli scuri e tristi occhi che solo io conoscevo. La didascalia sotto all’immagine recita: «Ucciso ad Auschwitz nel 1945». Non è proprio la verità. Peter, come avevo scoperto dall’archivio dello Yad Vashem decenni prima, era stato condannato da un tribunale nazista ad Auschwitz al plotone d’esecuzione. La mattina in cui le guardie erano andate a prenderlo, avevano scoperto che si era impiccato nella sua cella. Mi premo contro lo spesso vetro che copre la foto, maledicendolo perché si frappone tra l’immagine e la mia pelle.
E che ne è stato di Erich? Per qualche tempo, non sono riuscita a scoprire il suo destino. Mi chiedevo se fosse morto in combattimento o se magari fosse scappato in Sud America come quel macellaio nazista di Josef Mengele e gli altri bastardi che non furono mai consegnati alla giustizia. Poi, circa tre anni dopo la fine della guerra, ricevetti una lettera da un ufficio legale di Bonn che mi aveva trovato tramite il conto bancario di Lisbona. Mi informavano che Erich mi aveva lasciato una piccola eredità. Fu solo allora che venni a sapere che era rimasto ucciso quando il palazzo dell’appartamento in Rauchstrasse era stato colpito da un mortaio. L’edificio era stato bombardato il 7 aprile 1944, solo qualche giorno dopo che mi aveva inoltrato la lettera di Jules. Il raid aereo aveva attaccato la città all’alba, tutti gli abitanti erano ancora addormentati. Sarei stata a letto anche io, e sicuramente sarei morta, se Erich non mi avesse scacciata. Donai il denaro che mi aveva lasciato al Joint Distribution Committee.
Non mi sono mai più sposata. Mi ero ripresa una volta dopo Erich, ma perdere Peter era stato semplicemente troppo. Il mio cuore era stato spezzato due volte, ed è un dolore che basta per tutta la vita.
Vedo nella mente il viso di Noa. Non c’è nessuna sua foto alla mostra, si intravede solo una parte del suo volto dietro a uno degli acrobati in una foto del circo al completo durante l’inchino finale. Si era esibita per così poco tempo, una nota a piè di pagina priva di nome nei secoli di storia circense. Ma io la vedo, giovane e bellissima sul trapezio, che vive l’esperienza meravigliosa di volare per la prima volta. Anche lei ha scoperto cosa vuol dire avere il cuore spezzato, anche se la sua vita non è stata che una piccola frazione della mia. Mi sono sempre chiesta perché Luc non si sia presentato all’appuntamento con Noa quell’ultima notte. Lo disprezzavo, sì, eppure sembrava sinceramente preso da lei. Cosa gli ha impedito di incontrarla?
È stata questa domanda, più di ogni altra cosa, a portarmi qui. Questa domanda, e la vaga idea di dove avrei potuto trovare la risposta, appena mi sono resa conto che la carrozza ritratta sulle pagine del «Times» era proprio la stessa. Fisso di nuovo il vagone, lo sguardo focalizzato sul cassone sotto la parte posteriore della carrozza. Noa e Luc si lasciavano dei messaggi lì, pensando che nessun altro sapesse di quel posto. Io li vidi, però, che si scambiavano confidenze là come bambini. Sciocchi! Se qualcun altro l’avesse scoperto, avrebbero messo a repentaglio tutti noi. Ma io attesi in silenzio, lasciai che si divertissero, osservandoli con attenzione per assicurarmi che nessun altro scoprisse il loro segreto. Quando ho letto l’articolo sulla mostra circense e ho scorto il vagone che, per quanto fosse una coincidenza assurda, era proprio il nostro, ho pensato che forse il ragazzo aveva lasciato un messaggio per Noa lì, con una spiegazione.
Solo ora ho trovato il cassone vuoto.
Mi piego contro un lato del vagone, premendo la testa piatta contro il legno consunto. Come se tenessi una conchiglia all’orecchio per ascoltare il mare, l’eco di voci che non ci sono più. Poi faccio qualche altro passo per la mostra.
C’è un dipinto a olio che non ho mai visto prima, ritrae una giovane donna su un trapezio. Resto senza fiato. La pallida, sottile figura è senza dubbio Noa, il costume di lustrini è uno dei miei. Da dove arriverà? Se qualcuno avesse dipinto il suo ritratto mentre era insieme al circo, l’avrei sicuramente saputo.
Mi avvicino e do un’occhiata alla piccola placca sotto al quadro:
Dipinto a olio trovato in possesso di un giovane non identificato, rimasto ucciso sotto i bombardamenti tedeschi di una roccaforte della resistenza vicino Strasburgo nel maggio del 1944. La sua relazione con il circo e con il soggetto del quadro sono sconosciute.
Mi blocco, il sangue mi si gela. Noa una volta mi aveva detto che Luc voleva fare il pittore. Non sapevo che fosse così pieno di talento. L’immagine è stata resa con grande abilità, si vede che l’artista nutriva il più puro amore per il soggetto rappresentato. Osservando l’opera di Luc, sono certa adesso che non avrebbe mai abbandonato Noa.
Lei mi aveva detto anche che Luc progettava di unirsi al Maquis, e che aveva cercato di raggiungere una cellula della resistenza non lontana dai campi del circo. E adesso sento il rumore delle bombe che piovvero dal cielo la notte della nostra ultima esibizione e capisco perché non si presentò all’appuntamento. Noa e Luc morirono la stessa notte, solo a qualche chilometro di distanza, entrambi all’oscuro della sorte dell’altro. Le lacrime mi annebbiano gli occhi, scorrono senza freni.
Fisso il quadro di Noa, messo sotto vetro per proteggerlo dal tempo e dall’usura. «Lui non ti ha abbandonata dopotutto», sussurro.
Nel riflesso, vedo qualcuno che si muove dietro di me. Una donna è in piedi alle mie spalle, ha dei morbidi capelli bianchi. Noa, penso, anche se so che è impossibile. Ruoto nella sua direzione, fantasticando che lei sia qui, che possa chiederle perdono per tutto quello che ho fatto.
«Mamma?».
Mi volto. «Petra». La mia bellissima ragazza. Eccola, la figlia che avrei dovuto perdere tanti anni fa. Sollevo la mano sulla mia pancia, risentendo il colpo che me l’ha quasi portata via, come innumerevoli altre volte nel corso degli anni. Il mio miracolo.
«Secondo te come potevo mai immaginare di trovarti qui?». Non c’è rabbia nella sua voce. Solo un sorriso su quelle labbra piene e in quegli occhi scuri che vedrò sempre come se fossero celati da un velo di cerone bianco. Durante un’esibizione.
In un primo momento, non avevo mentito sull’interruzione della gravidanza. Avevo sentito un dolore violento e avevo perso molto sangue quella notte terribile in cui la guardia mi aveva picchiata. A causa di quei colpi mi ero convinta di aver perso il bambino. Ma pochi giorni dopo, mentre ero in piedi in cima al trapezio e prendevo in considerazione l’idea di saltare giù, sentii tornare la nausea familiare. Riconobbi all’istante cosa fosse: mia figlia, sprezzante, che insisteva per vivere.
Non lo dissi a Noa – non avrebbe mai preso il lasciapassare se avesse saputo che ero ancora incinta. Non che non volessi la libertà o non desiderassi di vivere per mia figlia. Lo volevo, eccome, con tanta forza che potevo sentire quasi il sapore del desiderio sulla lingua. Ma Noa era più giovane, e non era altrettanto forte. Doveva essere lei ad andarsene, e portare Theo con sé: senza il circo, non avrebbe avuto nulla. Io potevo cavarmela, tirare avanti, trovare qualche altro posto in cui esibirmi e sopravvivere. Ma lei era a malapena in grado di prendersi cura di sé e di Theo, pur con tutto il nostro aiuto. Non ce l’avrebbe mai fatta per conto suo. Così mentii.
Il mio piano era buono e avrebbe potuto funzionare se non fosse stato per Luc e per l’incendio. Se la sorte gli avesse donato una possibilità. Come era scoppiato l’incendio, però? Nel corso degli anni mi sono chiesta se fosse stato appiccato volontariamente da un operaio del circo scontento o addirittura da Emmet, che voleva liberarsi definitivamente di tutto. O magari un pezzo vagante di shrapnel. Ancora oggi non lo so.
Alla fine dei conti, non ha importanza. Il fuoco, non la guerra, portò via Noa, con la stessa arbitrarietà con cui Herr Neuhoff era stato tradito dal suo cuore. Io non ebbi altra scelta, dovetti prendere il lasciapassare e salvare Theo.
E mia figlia. Petra ha i lineamenti di suo padre, ma è piccola e graziosa come me, una chirurga di un metro e cinquanta di Medici Senza Frontiere, una vera forza della natura. Allungo la mano sulla transenna e le libero gli occhi dalla frangetta istintivamente, come se avesse sei anni. Solo che i suoi capelli sono quasi completamente bianchi. Quant’è strano vedere invecchiare la propria figlia! Petra, al sicuro dentro di me, è nata in America, non sa nulla delle difficoltà che abbiamo vissuto. Quasi nulla. Mia figlia è nata con un occhio cieco, l’unica ferita che la guardia le inflisse la notte che Peter venne portato via.
Quando Petra fa un passo avanti per abbracciarmi, un uomo più alto compare dietro di lei. «Mamma, vieni fuori». Obbedisco e mi sporgo per abbracciare Theo, che supera di una spanna la sorella ma ha i suoi stessi capelli grigi e ispidi. Sebbene non siano fratello e sorella di sangue, si assomigliano in modo sorprendente.
«Sei venuto anche tu?», chiedo in tono di rimprovero. «Non hai dei pazienti di cui prenderti cura?»
«Siamo una sorta di pacchetto completo, noi», risponde lui, mettendo un braccio intorno alle spalle della sorella. È vero – non potrebbero essere più legati.
Sono diventati entrambi medici. Petra, a cui non è stato risparmiato il gene del viaggiatore, ha girato il mondo per la sua professione, e Theo, che invece è sempre contento di rimanere fermo dove sta, ha fatto il chirurgo nell’ospedale del paese in cui li ho cresciuti, con la moglie e le mie bellissime tre nipoti. Adesso sono cresciute anche loro. I miei due figli non sono della stessa stoffa, eppure sono così simili. E la medicina è una sorta di lavoro di famiglia per loro, quanto il circo lo è stato per me e i miei fratelli. Chiudo il cassone con il fondoschiena per non farmi vedere da Petra e Theo, mi lascio condurre via.
«Come hai fatto ad arrivare così velocemente?», chiedo a Theo. «Ho lasciato New York solo due giorni fa».
«Per pura fortuna ero a una conferenza a Bruxelles quando ho ricevuto la chiamata della casa di riposo», mi risponde. «Ho chiamato Petra e lei ha preso un volo da Belgrado». Petra ha passato la maggior parte del suo tempo nell’Europa dell’Est, aiutando i rifugiati. È stata richiamata, a quanto pare, in quella parte del mondo da cui abbiamo cercato di scappare con tanti sforzi.
Guardo i miei figli, in adorazione. Nei loro volti posso scorgere il passato con la stessa sicurezza con cui Drina una volta leggeva il futuro: Peter è così riconoscibile in nostra figlia, la maggior parte dei giorni è come se mi stesse vicino e camminasse al mio fianco. Theo non è nato da Noa, ma in qualche modo ha assorbito le sue sembianze, come per osmosi, le sue espressioni e perfino il suo modo di parlare. Lei lo amò con tanta forza nei pochi, brevi mesi che si prese cura di lui: Theo non sarebbe potuto essere suo figlio più di così, nemmeno se lo avesse dato alla luce lei stessa.
Poi c’è quell’altro volto, sempre nella mia mente, anche se non l’ho mai incontrato e non ho mai avuto una sua fotografia. Il figlio di Noa, quello che le è stato portato via appena nato. Lo vedo vicino a Theo, mi chiedo così spesso come sarebbe stato da uomo.
«Mamma…». La voce di Theo si insinua dentro i miei pensieri. «Te ne sei andata da casa così. Eravamo talmente preoccupati».
«Dovevo vedere la mostra», è la mia debole spiegazione.
Theo fa un passo indietro, notando il ritratto di Noa. «È lei, non è vero?», chiede, con la voce rotta. Lui e Petra sanno di Noa. Quando sono stati abbastanza grandi ho detto ai miei figli la verità su Noa e sul modo in cui salvò Theo. Ma non ho detto nulla di come arrivò nel circo né dell’altro fratello che forse è ancora là fuori da qualche parte. Be’, alcune cose è meglio che rimangano taciute. Annuisco. «Era bellissima».
«Sì, bellissima», ripeto. «In molti modi che non saprai mai, penso. Questo quadro è stato dipinto da un giovane uomo che lei frequentò mentre era con il circo. Si conobbero solo per un breve periodo, ma si amarono moltissimo. Non ho mai saputo cosa ne sia stato di lui – almeno fino a ora».
Fissiamo il quadro per diversi secondi senza parlare. «Sei pronta ad andare?», chiede Petra gentilmente.
«No», rispondo con fermezza. «Non sono pronta a lasciarmi tutto alle spalle».
«Mamma», dice Theo pazientemente, come se parlasse con una bambina. «So che il circo è stato una parte enorme della tua vita. Ma tutto questo non c’è più ora. Ed è tempo di andare a casa».
Mi schiarisco la gola. «Prima», dico, «c’è qualcosa che devo dirvi».
Petra corruga le sopracciglia in quel modo che mi ricorda tanto suo padre. «Non capisco».
«Venite». Indico una panca. Mi siedo e prendo le loro mani, li avvicino ai miei fianchi, uno per lato. «C’è una parte della storia che nessuno di voi due conosce. Prima di trovare Theo, Noa ebbe un figlio».
«Davvero?». La voce di Petra è solo lievemente sorpresa. Cose del genere sono normali di questi tempi – tutt’altro che scandalose come quando eravamo giovani noi.
«Sì», rispondo. È il capitolo mancante della storia, l’unico che non è mai stato raccontato. Io sono la sola che lo conosce e non ci sarò ancora molto a lungo. Devo dirglielo ora, così che la verità non venga perduta per sempre.
«Era una madre nubile e il padre era un soldato tedesco, quindi il Reich le portò via il bimbo. Non seppe mai cosa ne fu del figlio. Poi trovò te, Theo, e fu come avere una seconda occasione. Ti amò come se fossi figlio suo», aggiungo in fretta, dandogli una pacca affettuosa sulla mano. «Ma non dimenticò mai il suo primogenito. Mi dispiace non avervelo detto prima. Il segreto… non toccava a me rivelarlo».
«Perché ce lo stai raccontando ora?», chiede Petra.
«Perché io non ci sarò per sempre. Qualcuno deve conoscere la storia e tramandarla». Alzo lo sguardo sul dipinto di Noa una volta ancora. «Sono pronta ora».
Petra si alza e mi tende la mano. «Allora andiamo».
Le prendo la mano e le nostre dita si intrecciano. Theo mi sta accanto dall’altra parte. Mi piego verso il mio bellissimo ragazzo e lui china la testa fino a che le nostre fronti si toccano. «Andiamo insieme, ancora una volta», dico. Lascio che mi conducano lentamente fuori dal museo, percependo le mani invisibili che ci guidano.