9

Noa

Seguo Astrid fuori dal tendone. All’esterno, gli spettatori stanno ancora accorrendo, alcuni comprano i biglietti in un chiosco montato alla svelta, altri guardano gli operai piantare le tende più piccole. I capi urlano ordini, le loro voci aspre si intrecciano al clangore dei martelli che conficcano chiodi di metallo nella terra dura.

«Grazie», dico. Un tempo pensavo che Astrid non mi avrebbe mai accettata. Invece ha preso le mie difese – e pensa che io possa farcela.

Fa un gesto noncurante. «Non possiamo preoccuparci di queste sciocchezze ora. Dobbiamo prepararci per lo spettacolo. Si comincia tra un’ora».

«Così presto?», chiedo.

«Sono le quattro passate». Non mi ero resa conto che si fosse fatto così tardi, né che la parata e l’innalzamento del tendone fossero durati tanto a lungo. «Cominciamo alle sei. Prima di quanto avremmo fatto solitamente, per via del coprifuoco. Dobbiamo essere pronte per tempo».

«Pensavo che fossimo già pronte». Abbasso lo sguardo sul vestito che mi ha prestato un’ora fa sul treno. È così attillato che ai miei genitori sarebbe venuto un colpo se mi avessero visto.

Ignorandomi, Astrid mi conduce attraverso il campo affollato fino al punto in cui il treno si è fermato alla fine dei binari. «I campi vengono costruiti vicino ai binari, così possiamo dormire nelle carrozze del treno», spiega Astrid. Indica la direzione opposta, verso alcuni alberi. «Ci sono un po’ di capanne e tende che potremmo usare se facesse più caldo. Per noi questo non è un buon posto», aggiunge a voce più bassa. «Il sindaco si è avvicinato molto ai tedeschi».

«È un collaborazionista?», chiedo.

Astrid annuisce. «Ovviamente non lo sapevamo l’anno scorso quando abbiamo concordato le date». E cancellarle avrebbe sicuramente destato troppi sospetti. Perché ora è essenziale mantenere una parvenza di normalità. Più di ogni altra cosa. «Resteremo a Thiers per quasi tre settimane, però, perché si trova in una posizione centrale e la gente verrà da tutta l’Alvernia per vedere lo spettacolo».

Quando arriviamo al treno, Astrid mi guida fino a una carrozza in cui non ero mai stata. Il vagone è caldo e affollato, pieno di donne che indossano costumi e si truccano pesantemente. Mi fermo a guardare una delle acrobate che si dipinge le gambe per ottenere una sfumatura più scura. «Le sue calze sono troppo rotte per essere riparate», mi spiega Astrid, notando la mia curiosità. «Semplicemente non se ne possono avere delle altre. Vieni». Sceglie un costume dall’appendiabiti della carrozza e me lo appoggia addosso. Poi lo porge a una delle ragazze che si stanno vestendo e sparisce. Mi sballottano e mi passano di mano in mano come un sacco di patate, sono imbarazzata per il mio cattivo odore dopo così tante ore sul treno senza lavarmi. Una delle ragazze mi tira il vestito scelto da Astrid sopra la testa, un’altra dichiara che è troppo largo e inizia ad appuntarci degli spilli. Sto davvero per indossarlo? È persino più piccolo di un costume da bagno, è semplicemente un reggiseno con un pezzo di sotto. La mia pancia è più snella rispetto a quando sono arrivata a Darmstadt grazie a tutto l’allenamento che ho fatto, eppure è ancora lontana dalla perfezione. La carne fuoriesce dall’elastico superiore delle mutande. Il costume è riccamente ornato, di seta rossa decorata d’oro. È impregnato di un vago odore di fumo e caffè che mi spinge a chiedermi chi l’abbia indossato prima di me.

Astrid riappare all’improvviso e io sussulto. Il suo costume a due pezzi è praticamente un collage di fazzoletti intessuti. Fa sembrare sobrio il mio. Ma lei è nata per indossarlo – il suo corpo è cesellato nel granito, come una statua di una dea nuda in un museo.

«Vuoi che provi a eseguire dei salti mortali con una gonna di crinolina?», chiede, notando la mia reazione. Per lei la sfrontatezza dell’abbigliamento non ha importanza. Non indossa il costume per essere attraente, ma per esibirsi nel modo migliore.

Mi fa segno di sedermi su un cesto rovesciato. Prende un po’ di belletto e me lo applica sulle guance. Colora le mie labbra di rosso ciliegia, come quelle di un clown. A parte le poche volte in cui ho rubato un po’ della cipria di mamma per sembrare più grande agli occhi del tedesco, è la prima volta che mi trucco. Fisso la sconosciuta nello specchio scheggiato che qualcuno ha piazzato sopra a un baule da viaggio. Come sono finita qui?

Astrid sembra soddisfatta. Si gira dall’altra parte e inizia a truccarsi, per quanto non mi sembri affatto necessario, con quella pelle senza difetti e quelle ciglia lunghe. «Ho qualche minuto?», chiedo. «Voglio andare a controllare Theo».

Astrid annuisce. «Qualche minuto appena. Non stare via troppo». Mi avvio lungo lo stretto corridoio nella direzione del vagone letto, sperando di non spaventare Theo facendomi vedere conciata così. Ma mentre attraverso la carrozza successiva, mi fermo sentendo delle voci.

«Vogliono una dimostrazione della nostra lealtà come parte dell’esibizione». Allungo il collo per sentire meglio. È Herr Neuhoff, la sua voce è bassa e il suo tono brusco. «Forse una versione di Maréchal, nous voilà…».

«Impossibile!». Peter ringhia, rifiutandosi di interpretare l’inno di Vichy. Faccio un salto indietro per non farmi vedere. «Il governo non mi ha mai detto come devo esibirmi, neanche durante la Grande Guerra. Non mi sono prostrato davanti allo zar e sicuro come la morte non lo farò adesso. È una questione cha va oltre la mera politica. Si tratta dell’integrità dello spettacolo».

«Le cose sono diverse ora», insiste Herr Neuhoff. «E un po’ di indulgenza potrebbe essere molto utile per… agevolare le cose». Nessuna risposta, solo il suono di passi pesanti che si allontanano e di una porta che sbatte così forte da far tremare l’intera carrozza.

Suona un campanello: Astrid mi ha spiegato che è il segnale che ci convoca nel cortile, l’area dietro il tendone dove ci raduneremo e ci terremo pronti per l’esibizione. Sposto il mio sguardo carico di desiderio lungo il corridoio della carrozza. Non c’è tempo per vedere Theo.

Quello che prima era il campo spoglio intorno al tendone è stato trasformato, ora è riempito da una mezza dozzina di tende più piccole che sembrano essere spuntate come funghi.

La via centrale trabocca di uomini con cappelli di paglia, donne e bambini con gli abiti buoni della domenica. All’ingresso del tendone è appeso il programma del giorno, che pubblicizza i numeri che si potranno vedere all’interno. Giocolieri e mangiatori di spade improvvisano spettacolini minori per attirare la folla. Una banda di ottoni suona melodie vivaci per le persone in fila alla biglietteria, alleggerendo il peso dell’attesa. Nell’aria si sente il profumo dolce dello zucchero filato e delle noccioline. Adesso che c’è il razionamento e così tante persone hanno difficoltà a mangiare, certe prelibatezze sembrano impossibili. Per un momento mi sento leggera, di nuovo una ragazzina. Ma queste squisitezze sono riservate ai pochi fortunati che hanno due soldi da spendere – certo non a noi.

Costeggio il bordo del tendone. Una manciata di ragazzini distesi a terra cercano di sbirciare sotto la tenda, ma uno dei lavoratori stagionali li caccia via. Il lato esterno è tappezzato di cartelloni delle esibizioni di maggior richiamo. Una giovanissima Astrid si staglia sopra di me, sospesa a mezz’aria a funi di raso. Sono folgorata dalla sua immagine. Avrà avuto più o meno l’età che ho io adesso. Chissà come sarebbe stato conoscerla!

Supero la birreria che è stata montata alla fine della via centrale, sembra un fermalibri che tiene la giostra dall’altro lato. Dall’interno esplodono risate chiassose di uomini. È un equilibrio delicato, ha spiegato Astrid: vogliamo inebriare il pubblico in modo che si goda lo spettacolo, ma non troppo, perché dobbiamo evitare che diventi indisciplinato e rovini tutto.

Peter, che ho visto appena qualche minuto fa con Herr Neuhoff, sgattaiola fuori dalla tenda della birra con una fiaschetta in mano. Come avrà fatto ad arrivare qui così velocemente? Mi rivolge uno sguardo esitante. «Solo una bevuta veloce prima di iniziare», dice, e poi si allontana con passo tranquillo. Sono sorpresa – non immaginavo che gli artisti avessero il permesso di bere prima di uno spettacolo. Chissà cosa direbbe Astrid!

Raggiungo il cortile. I miei occhi corrono nervosamente verso il soffitto della tenda. È incredibile come riesca a sostenere l’imponente struttura del trapezio, e anche noi, pur essendo solo un mucchietto di stoffa e pali.

Astrid, vedendomi preoccupata, viene verso di me. «Non c’è pericolo». Ma nella mia testa rimarrà sempre il ricordo di quel giorno in cui ho rischiato di schiantarmi a terra e morire. «Come va?», chiede. Senza aspettare la mia risposta, ricontrolla le bende avvolte intorno ai miei polsi e tira fuori la scatola di pece greca per cospargermi un’altra volta. «Non vogliamo certo che tu rimanga uccisa», dice. «Non dopo tutto il lavoro che abbiamo fatto», aggiunge con un sorriso, cercando di farla passare per una battuta. Ma la sua espressione è grave, preoccupata.

«Allora non pensi che possa farcela?», mi arrischio a chiedere, ma non sono sicura di voler sentire la risposta.

«Certo che sì». Sto ben attenta a captare ogni inflessione della sua voce, cercando di valutare se sia forzata o meno. «Hai lavorato sodo. Hai un talento naturale. Ma questa è una faccenda seria per tutti noi. Non c’è spazio per gli errori». Annuisco, comprendo bene il senso di quello che mi sta dicendo. Il pericolo è reale per me quanto per lei, anche dopo tutti questi anni.

Sbircio dentro il tendone buio, che si erge imponente come una gigantesca caverna. C’è una pista nel mezzo, del diametro di dodici metri circa, separata dal pubblico da una bassa recinzione. Ho sentito gli altri artisti parlare dei circhi americani, quelli grandiosi come Barnum, che hanno tre piste. Ma qui tutti gli occhi saranno puntati sul numero principale. Le prime due file di sedili sono ricoperte di velluto color rubino con una stella di raso dorato su ogni sedia: sono i posti migliori, quelli importanti. Dietro ci sono panche di legno grezzo disposte in cerchi concentrici che arrivano quasi fino alle travi esterne. Solo adesso capisco davvero cos’è il circo, con pista e spettatori da ogni lato. Non c’è nessun modo di nascondersi o di sottrarsi agli occhi della folla, gli sguardi arrivano da ogni angolo.

La folla comincia a entrare nella tenda poco alla volta e io mi tiro indietro per non farmi vedere. Gli uscieri e i manovali che distribuiscono il programma sono in realtà artisti che si esibiscono in numeri minori e che possono filare via di corsa per truccarsi e prepararsi quando l’auditorium si riempie. Studio gli spettatori mentre prendono posto: cittadini benestanti seduti nelle prime file, operai nelle panche più in alto. Hanno cercato di mettersi in ghingheri ma sono comunque un po’ a disagio, come se si sentissero fuori luogo. Hanno a malapena qualche franco per comprarsi da mangiare eppure sono riusciti lo stesso a trovare un modo per prendere il biglietto per lo spettacolo. Loro sono quelli fortunati, possono permettersi di dimenticare per qualche ora le difficoltà che li attendono oltre i lembi sventolanti della tenda.

Il cielo si fa grigio e il momento di iniziare lo spettacolo si avvicina. In cortile il silenzio cancella il chiacchiericcio e tutti quanti assumono espressioni concentrate, quasi cupe. Gli acrobati fumano l’ultima sigaretta. Sono sbalorditivi con i loro lustrini e i loro copricapi. Il trucco e le acconciature sono impeccabili, nessuno potrebbe immaginare le condizioni primitive nelle quali ci siamo preparati. Astrid cammina avanti e indietro in un angolo in lontananza, assorta nei suoi pensieri. Di fronte all’intensità della sua espressione non oso disturbarla. Ovviamente, io non ho un mio rituale prima dello spettacolo. Resto in disparte, cercando di comportarmi come se non fosse la prima volta.

Astrid mi fa un cenno con la mano. «Non startene lì impalata, i tuoi muscoli si raffredderanno», mi ammonisce. «Devi riscaldarti». Si piega e mi fa segno di metterle una gamba sulla spalla, un esercizio che abbiamo fatto così tante volte. Si tira su lentamente, sollevandomi la gamba, e io provo a non digrignare i denti ma a respirare, ad alleviare il familiare e fastidioso bruciore che viaggia su per la parte inferiore della coscia.

«Vuoi che ti aiuti ad allungare i muscoli?», chiedo non appena abbiamo finito anche con l’altra gamba. Scuote la testa. Seguo la direzione del suo sguardo attraverso il cortile, fino al punto in cui Peter sta provando per conto proprio. Si è cambiato e ora indossa una giacca e dei pantaloni più grandi di qualche taglia. Le sue guance, ispide fino a qualche minuto fa, sono ora una distesa ininterrotta di cerone bianco. «Astrid…», comincio a dire.

Lei mi guarda come se si fosse quasi dimenticata della mia presenza. «Che c’è?». Esito. Per un attimo penso di raccontarle della discussione che ho sentito tra Peter e Herr Neuhoff sul treno. O magari potrei rivelarle che ho visto Peter uscire dalla tenda della birra. Ma non voglio impensierirla un attimo prima di iniziare.

«Sei nervosa», dice con voce piatta.

«Sì», ammetto. «Tu non lo eri al tuo primo spettacolo?».

Ride. «Ero così piccola che non riesco neanche a ricordarlo. Ma è normale essere nervosi. È un bene, perfino. L’adrenalina ti terrà sempre all’erta, ti eviterà di commettere degli errori». O mi farà tremare così tanto le mani che non riuscirò a tenere la barra, penso.

All’interno della tenda, le luci sono state abbassate e tutto il pubblico è stato gettato nell’oscurità. Un faro si accende, creando una pozza dorata sul terreno nel centro della pista. L’orchestra attacca un pezzo incalzante. Compare Herr Neuhoff, maestoso con il papillon e il cappello a cilindro. «Mesdames et messieurs…», prorompe la sua voce in un microfono.

La polka Sotto Tuoni e Fulmini comincia a risuonare, i cavalli piumati fanno il loro ingresso in pista con ampi passi coreografici. I cavallerizzi, tra i quali ci sono donne con costumi riccamente decorati, non hanno la sella ma cavalcano a pelo. Eseguono esercizi muovendo le gambe da una parte all’altra della groppa, sfiorandola appena. Un cavaliere è in piedi su un cavallo e compie delle capriole all’indietro atterrando su una seconda bestia. Anche se ho visto il numero alle prove, trattengo il fiato insieme alla folla.

Il programma del circo, mi ha spiegato una volta Astrid, è studiato accuratamente – un numero veloce, poi uno lento e di nuovo uno veloce, con i leoni e altri gli animali pericolosi intervallati dagli spettacolini comici. «Ci vogliono dei bocconi leggeri dopo tanta serietà», ha detto, «come se ci si ripulisse il palato dopo ogni portata». Ma ci sono anche aspetti pratici: per esempio, serve tempo per portare dentro e fuori le gabbie degli animali, quindi i numeri di questo tipo devono essere eseguiti vicino alle pause.

Guardando attentamente, mi rendo conto che anche il tendone è ideato con un criterio ben preciso. Le panche sono sistemate a un’angolazione spiovente, per dirigere lo sguardo del pubblico verso il basso. La posizione circolare dei sedili fa sì che le reazioni della folla siano esse stesse uno spettacolo, il cerchio ininterrotto di persone è come un cavo elettrico che scorre attraverso la tenda. Il pubblico siede immobile, ipnotizzato dalla rete di colori, luci, musica e arte. Gli occhi degli spettatori danzano seguendo l’arco che compiono in aria le palle dei giocolieri, il valzer dei domatori con i leoni toglie il fiato a tutti. Astrid aveva ragione: perfino con la guerra che infuria, la gente deve continuare a vivere. In fin dei conti, comprano da mangiare e badano alla casa, no? Allora perché non continuare a divertirsi con il circo come succedeva quando il mondo era ancora tutto intero?

Il prossimo è il numero del funambolo. Una ragazza chiamata Yeta è in cima a una piattaforma, con una lunga asta tra le mani per tenersi in equilibrio. Mi terrorizza anche più del trapezio e ho ringraziato Dio diverse volte per non essere stata scelta da Herr Neuhoff per quel numero. La musica rallenta in un adagio, poi fa una pausa drammatica. Quando Yeta fa il suo primo passo sul cavo, la melodia tuona all’improvviso con nuovo vigore e l’intera tenda sembra rabbrividire.

Il piede di Yeta scivola e lei si dimena per ritrovare l’equilibrio. Eppure è un numero che ha provato dozzine di volte, perché commette un errore proprio ora? È quasi riuscita a raddrizzarsi, poi barcolla di nuovo, ma questa volta va troppo oltre, impossibile recuperare. Un urlo di spavento collettivo risuona nel tendone mentre cade urlando e agitando le braccia come se stesse cercando di nuotare in aria. «No!», grido. Il suo crollo mi fa rivivere il giorno in cui Astrid mi ha spinta.

Faccio un passo in avanti. Dobbiamo aiutarla. Ma Astrid mi tira indietro. Yeta atterra nella rete, che affonda giù fino al suolo. Rimane lì, immobile. Il pubblico sembra trattenere il respiro, come se fosse indeciso se preoccuparsi o meno. Alcuni di sicuro pensano che la caduta faccia parte dello spettacolo. Gli addetti ai lavori corrono verso di lei per portarla via dalla pista, lontano dagli sguardi della folla. Vedendo il corpo inerte di Yeta, il terrore mi assale. Potrebbe succedere anche a me. Yeta viene condotta fuori di corsa, verso una Peugeot parcheggiata dietro il tendone. Mi aspettavo un’ambulanza, ma gli operai la caricano sui sedili posteriori, mettono in moto e la portano via.

«Un incidente durante il primo spettacolo della stagione», dice una voce dietro di me. Sento un caldo alito speziato sulla mia spalla nuda. Anche se non abbiamo mai parlato, riconosco la donna dai fluenti capelli d’argento. È Drina, la gitana che predice la sorte nella via centrale prima dello spettacolo e durante gli intervalli. «Un terribile presagio».

«Sciocchezze», dice Astrid. Ma la sua espressione è grave.

«Yeta si rimetterà?», chiedo, quando Drina si allontana.

«Non lo so», risponde Astrid senza mezzi termini. «Anche se è viva, potrebbe non essere più in grado di esibirsi». Sembra quasi che per lei vivere senza lo spettacolo sia peggio che morire.

«Tu credi a quello che ha detto la chiromante?». Sento che sto facendo troppe domande. «Sul cattivo presagio, cioè».

«Bah!». Astrid fa un gesto con la mano. «Se può veramente vedere il futuro, allora che ci fa bloccata qui?». Non ha tutti i torti.

Sbircio dentro la tenda dove la folla rimane in attesa, incerta. Di sicuro il resto dello spettacolo dovrà essere cancellato, no? Eppure gli artisti si tengono pronti a partire. «Clown, schnell!», chiama Herr Neuhoff, facendo segno di prepararsi velocemente per il prossimo numero. I clown si precipitano dentro, esibendosi in una scena urbana. Pagliacci gioiosi con grandi scarpe e piccoli cappellini. Numeri musicali. Buffoni che si burlano di tutto e tutti.

Peter non ha niente a che fare con nessuno di loro. Entra per ultimo, il suo viso è bianco e rosso con grandi linee nere, e guarda il pubblico come se fosse offeso per l’attesa. Non è un clown triste, ma è serio, il suo umorismo è al vetriolo, i suoi sorrisi si conquistano a fatica. Mentre gli altri si esibiscono in scenette in tandem, Peter danza intorno alla pista, creando uno spettacolo tutto suo. Tiene prigioniero l’intero chapiteau, seducendo, provocando, percependo subito chi è reticente a seguirlo nel viaggio o perfino annoiato, attirando tutti. È come se costringesse il pubblico a reagire positivamente e ad applaudire per compiacerlo, quando in verità dovrebbe essere il contrario. In un angolo al buio, Astrid guarda Peter, rapita.

Anche Herr Neuhoff osserva da bordo pista, il suo volto non è sereno. Trattengo il fiato, aspettando che Peter si lanci nel caratteristico passo dell’oca che Herr Neuhoff gli ha proibito. Peter non ha incorporato nel suo numero l’inno a favore di Vichy come gli ha suggerito il proprietario del circo poco fa. Ma mantiene un tono leggero nella sua esibizione, come se percepisse che dopo la caduta di Yeta qualsiasi altra cosa risulterebbe fuori luogo.

Ai clown seguono gli elefanti con i loro copricapi di gioielli, l’orso e le scimmie in piccoli abiti non molto diversi dal mio. Lo spettacolo si interrompe per l’intervallo e si accendono le luci in sala. Gli spettatori abituali si fanno strada verso la via centrale per sgranchirsi le gambe e fumare. Ma la pausa non vale per noi. «Siamo le prossime», mi informa Astrid. «Dobbiamo prepararci».

«Astrid, aspetta…». Un’enorme voragine mi si è aperta nella pancia. Finora sono stata una semplice spettatrice, ho quasi dimenticato il motivo per cui sono qui. Ma uscire veramente di fronte alla folla… Dopo quello che è successo a Yeta, come posso farcela? «Non posso». La mia mente è annebbiata e ho dimenticato tutto quello che ho imparato.

«Certo che puoi», mi rassicura, mettendomi una mano sulla spalla. «Sei solo nervosa».

«No, ho dimenticato tutto. Non sono pronta». Il panico cresce nella mia voce. Qualcuno tra gli altri artisti si volta nella mia direzione. Una delle acrobate fa una smorfia compiaciuta, come se avesse avuto conferma dei dubbi che aveva su di me.

Astrid mi porta lontano e poi si ferma, mettendomi le mani sulle spalle. «Ora ascoltami. Tu sei brava. Potrei dire persino che hai talento. E hai lavorato sodo. Ignora il pubblico e fingi che ci siamo solo io e te come quando eravamo a Darmstadt. Sei in grado di farlo». Mi bacia con decisione su entrambe le guance, come se volesse imprimermi dentro un po’ della sua calma e della sua forza. Poi si volta e si dirige in pista.

Una campanella suona e il pubblico torna ai posti. Mentre sbircio oltre la tenda la folla in trepidante attesa, le mie gambe si fanno pesanti. Non posso uscire là fuori. «Vai», ringhia Astrid, spingendomi fuori bruscamente quando sente la battuta d’entrata della musica.

Appena le luci si abbassano un altro po’, corriamo a piccoli passi all’interno della pista. Nei quartieri invernali, la scala a pioli era fissata al muro con i bulloni. Ma qui penzola dal soffitto, e la parte inferiore rimane ferma a stento. Mi sforzo di non cadere per il dondolio. Impiego più del previsto ad arrampicarmi e ho appena raggiunto la pedana quando la luce dei riflettori si solleva. Lambisce la parete della tenda, e finisce su di me. E mi rivela agli occhi della folla. Ho i brividi. Perché i clown possono nascondersi dietro il cerone mentre noi siamo quasi nude, con indosso niente più che una mutandina di nylon a coprirci da centinaia di sguardi indiscreti?

La musica rallenta, segnalando l’inizio del nostro numero. Poi scende il silenzio, seguito da un rullo di tamburi che cresce sempre di più e mi dà l’imbeccata per lanciarmi. «Vai!». Dall’oscurità arriva la chiamata di Astrid. Dovrei partire subito dopo, ma non lo faccio. Astrid dondola, aspettandomi. Un altro secondo e sarà troppo tardi e il numero sarà un fallimento.

Con un profondo respiro, mi lancio dalla pedana. Improvvisamente sotto i miei piedi non c’è niente tranne l’aria. Sebbene abbia volato decine di volte nelle prove, per un secondo provo un terrore puro, come se fosse di nuovo la prima volta. Dondolo più in alto, scacciando la paura e assaporo l’aria che mi soffia intorno.

Astrid vola verso di me, con le braccia allungate. Devo lasciarmi andare al vertice dell’arco se voglio che l’esercizio abbia successo. Il momento della presa continua a terrorizzarmi però, ora più che mai dopo aver visto quello che è successo a Yeta. Astrid mi ha già lasciato cadere una volta, anzi l’ha fatto di proposito. Lo farà di nuovo?

I nostri occhi si incollano, si fondono. Fidati di me, sembrano dire i suoi. Lascio andare la barra e mi libro nell’aria. Le mani di Astrid agguantano le mie, facendomi dondolare sotto di lei per una frazione di secondo. Sollievo ed eccitazione mi scoppiano dentro. Ma non c’è tempo di festeggiare. Un secondo dopo, Astrid mi scaglia indietro. Mi sforzo di concentrarmi ancora una volta, di ruotare come mi ha insegnato lei. Poi volo lontano, non oso guardare. Astrid mi ha allineata alla perfezione, e la barra finisce nelle mie mani e la folla esulta. Dondolo su fino alla pedana, il mondo torna al suo posto sotto i miei piedi.

Ce l’abbiamo fatta! Il mio cuore si riempie di gioia, non riesco a ricordare l’ultima volta che sono stata così felice. Il numero non è finito però, e Astrid mi sta aspettando, la sua espressione è severa, il suo sguardo inflessibile. Ci esibiamo nel secondo passaggio, questa volta Astrid mi prende dai piedi. L’applauso mi solleva più in alto ora. Un altro passaggio, si torna indietro e poi è finita. Per un istante, sono quasi più triste che sollevata.

Mi raddrizzo sulla pedana quando il riflettore mi illumina. Il pubblico applaude e lancia grida di incoraggiamento. Per me. Non si sono accorti minimamente di tutto il lavoro fatto da Astrid. Capisco quanto sia stata dura per lei rinunciare alle luci della ribalta, quanto abbia dovuto sacrificare perché prendessi parte al numero.

Le luci si abbassano e Peter si prepara a entrare in pista di nuovo, questa volta da solo. A differenza degli altri artisti che si esibiscono una o due volte a sera, i suoi intervalli si ripetono continuamente tra un numero importante e l’altro, come se fossero il filo conduttore che tiene insieme tutto lo spettacolo. Ora distrae la folla, dando tempo agli addetti ai lavori di posizionare le gabbie della tigre e dei leoni, che sono state trasportate dentro approfittando del buio sotto di noi.

Io e Astrid scendiamo e ci affrettiamo a uscire nel cortile quasi completamente immerso nell’oscurità. «Ce l’abbiamo fatta!», esclamo, gettandole le braccia al collo. Aspetto che mi riempia di complimenti. Sicuramente ora sarà fiera di me. Ma lei non risponde e un secondo dopo faccio un passo indietro, abbattuta.

«Sei stata brava», dice finalmente. Ma il tono della sua voce sminuisce le sue parole, e sul suo volto c’è un’espressione preoccupata.

«Lo so che ero in ritardo nel primo passaggio…», comincio a dire.

«Shh». Mi caccia via, fissando l’interno del tendone. Seguo la direzione del suo sguardo fino a scorgere un uomo seduto in una delle file frontali – un uomo con un’uniforme delle SS. D’improvviso provo un senso di nausea. L’avrei certamente notato se fosse stato seduto lì durante la prima metà dello spettacolo. Deve essere arrivato nell’intervallo. Eccitata com’ero fino a un attimo fa, non l’avevo visto.

«Sono sicura che sia qui solo per lo spettacolo», dico per rassicurare Astrid. Ma non c’è la minima convinzione nelle mie parole. Che diavolo ci fa un ufficiale tedesco qui? Ha un’espressione rilassata mentre osserva l’ammaestratore che spinge i felini a fare gli esercizi. «Devi comunque mettere in guardia Peter, meglio che non faccia quel pezzo nel suo prossimo numero…». Mi fermo, rendendomi conto che non mi sta ascoltando. Sta ancora sbirciando attraverso le tende, come rapita.

«Lo conosco». Astrid ha un tono di voce calmo, ma è impallidita.

«Il tedesco?». Lei annuisce. «Sei sicura?», chiedo sentendo la mia gola serrarsi. «Sembrano tutti così simili con quelle orribili uniformi».

«È un collega di mio marito». Ex-marito, vorrei correggerla, ma in questo momento non sarebbe certo saggio.

«Non puoi andare là fuori di nuovo», dico agitata. Anche se io ho finito, Astrid ha un secondo numero con la corda spagnola. Mi si stringe il cuore. «Devi dirlo a Herr Neuhoff».

«Mai!», risponde quasi sputando fuori la parola. Sembra più arrabbiata che spaventata ora. «Non voglio che debba preoccuparsi di avermi nella sua squadra. Se non posso esibirmi, non ho nessun valore per lo spettacolo». E a quel punto la protezione di Herr Neuhoff sarebbe solo un gesto caritatevole. Mi fissa a lungo. «Sarebbe la fine per me. Devi giurare di non dire una parola. Nessuno deve saperlo».

«Fammi andare al tuo posto», imploro. Ovviamente la mia offerta è insensata – non mi sono mai allenata alla corda né per nessun altro numero a parte il trapezio.

Mi volto e mi guardo alle spalle, disperata. Peter potrebbe convincerla a rinunciare. Se riesco a trovarlo, naturalmente. «Astrid, per favore aspetta…». Ma è troppo tardi – entra a grandi passi in pista, le spalle dritte, determinata. In questo momento, comprendo appieno tutto il suo coraggio. La ammiro – e allo stesso tempo sono pietrificata dalla paura.

Astrid si arrampica su una scala a pioli diversa da quella che ha usato prima. Questa volta è appesa a una singola fune di raso, pare fluttuare a mezz’aria. Trattengo il respiro, studiando il volto dell’ufficiale. L’ha riconosciuta? Ma lui guarda Astrid come se fosse ipnotizzato, sembra che non sospetti nulla. Lei racconta una storia, tesse un arazzo con i suoi movimenti. Tiene il tedesco – e tutto il pubblico – in suo potere. Io rimango atterrita, però, incapace di respirare. Questo numero mette in risalto la bellezza di Astrid e il suo talento leggendario, rischiando di tradire la sua vera identità.

«Nascosta in bella vista», riflette Astrid quando esce e si lascia alle spalle l’applauso scrosciante del pubblico. C’è una nota di compiacimento nella sua voce, una parte di lei ha tratto una grande soddisfazione dall’inganno ai danni del tedesco. Ma le sue mani tremano mentre disfa le fasciature.

Poi è finita. L’intero circo entra in pista per l’ultimo inchino, tutti i componenti dello spettacolo si piegano davanti al pubblico per farsi ammirare una volta ancora. Mi arrampico sulla scala a pioli, come Astrid mi ha ordinato a suo tempo, e insieme facciamo il nostro inchino finale dalle pedane opposte: non voliamo ma eseguiamo una specie di passo di danza sospeso in aria, allungando una gamba in avanti come ballerine. I bambini salutano con foga gli artisti luccicanti di sudore, che si inchinano con modestia, simili ad attori che rimangono calati nel loro personaggio.

Successivamente alcuni artisti firmano autografi alla folla che si è raccolta intorno al cortile. Guardo con ansia Astrid che rimane a prendersi i complimenti della gente. Forse non dovrebbe attardarsi. Ma l’ufficiale tedesco non si fa vedere.

In lontananza scorgo Peter ai bordi dello spiazzo, non firma autografi, ma cammina avanti e indietro parlando tra sé e sé come prima dell’inizio dello spettacolo. Sta ripassando la sua esibizione, rivedendo gli errori commessi e tenendo a mente le cose che dovrà aggiustare per la prossima volta. Gli artisti circensi sono determinati esattamente come i ballerini di danza classica o i pianisti. Ogni piccola imperfezione è considerata un’enorme falla, anche se nessun altro l’ha minimamente notata.

Quando l’ultimo programma è stato autografato, ci dirigiamo di nuovo verso il treno, passando accanto agli addetti ai lavori che puliscono a fondo gli animali e danno loro da mangiare. «Una volta ci sarebbero stati i fuochi d’artificio dopo la prima sera di spettacolo», mi fa notare Astrid, fissando lo sguardo in alto verso l’oscurità del cielo.

«Oggi non ci sono più?», chiedo.

«Troppo costosi», risponde. «E nessuno trova le esplosioni piacevoli di questi tempi».

Poi la stanchezza mi travolge. Mi fanno male le ossa e il sudore che si asciuga mi raffredda la pelle. L’unica cosa che desidero è tornare da Theo e crollare circondata dal dolce tepore del suo corpo. Ma Astrid mi convince a seguirla di nuovo nella carrozza adibita a spogliatoio, dove appendiamo i nostri costumi e ci strucchiamo. Mi passa un unguento caldo sulle spalle, che profuma di pino e dà prurito. «Voglio solo dormire», protesto, cercando di scuotermela di dosso.

«I nostri corpi sono tutto quello che abbiamo per mandare avanti questa attività. Dobbiamo prendercene cura. Mi ringrazierai domani», promette, mentre le sue dita affondano pesantemente nel mio collo. I miei muscoli bruciano come se fossero infuocati.

«Sei stata bravissima», continua Astrid con sincerità, offrendomi quell’elogio che tanto desideravo poco fa. Il mio cuore si ferma per un secondo. «Certo, avresti potuto tenere le gambe più dritte nel secondo passaggio», aggiunge, riportandomi con i piedi per terra. Perché Astrid è pur sempre Astrid. «Possiamo sistemarle domani». Domani, penso: giorni di allenamento e spettacolo senza interruzione si profilano davanti ai miei occhi. «Sono fiera di te», aggiunge, e sento le guance che vanno a fuoco.

Stiamo per trasferirci dalla carrozza adibita a spogliatoio verso il vagone letto. Poi mi fermo. Sono ancora preoccupata per l’ufficiale tedesco che ha visto Astrid. Lei non ha intenzione di parlarne con nessuno, ma forse dovrei farlo io. Sposto il capo in direzione del vagone di Peter. Ci tiene davvero a lei, lo so, e sarebbe la persona migliore per proteggerla. Se andassi da lui, però, lo direbbe ad Astrid. E Herr Neuhoff? Ci ho parlato poco da quando sono arrivata nel circo, ma è sempre stato gentile. È il suo circo. Sicuramente saprà cosa fare. Vedo l’espressione torva di Astrid, sento la sua voce: Nessuno deve saperlo. Si infurierebbe se scoprisse che l’ho tradita. Ma Herr Neuhoff gestisce il circo; lui è la mia speranza di tenere Astrid al sicuro.

Voglio follemente raggiungere Theo. Starà dormendo, però – e c’è un’altra cosa che devo fare. «Ho dimenticato una cosa», dico, tornando indietro prima che Astrid possa chiedermi spiegazioni.

 

Busso alla porta del vagone di Herr Neuhoff, l’ultimo prima delle carrozze del personale. «Avanti», risponde lui da dentro, e io apro la porta. Non sono mai stata qui prima. L’arredamento è elegante, una tenda separa il letto dalla zona giorno. Herr Neuhoff è seduto a una scrivania, la sua figura corpulenta minaccia di schiantare la fragile sedia sotto di lui. Si è tolto la giacca di velluto che indossava in pista e ha slacciato il colletto dell’elegante camicia di lino increspato, che ora porta i segni del sudore. Dal portacenere, un mozzicone di sigaro emana un odore di bruciato. Sta rivedendo i libri contabili, con la testa china. Gestire un circo è un’impresa enorme che oltrepassa i confini della pista e perfino dei quartieri invernali. Herr Neuhoff è responsabile del benessere di ciascuno dei suoi impiegati. Non solo paga gli stipendi, ma provvede al vitto e all’alloggio dei suoi uomini. Comprendo allora la sua stanchezza, la gravità del peso che porta.

Alza lo sguardo dal leggio davanti a lui, con le sopracciglia ancora aggrottate. «Sì?», dice, in tono sbrigativo ma non scortese.

«La disturbo?», riesco a dire.

«No», risponde, ma la sua voce è piatta, i suoi occhi sono più incavati di qualche ora fa. «La caduta di Yeta è un brutto affare. Devo presentare un resoconto alle autorità».

«Si rimetterà?», chiedo, anche se in realtà non sono sicura di volerlo sapere.

«Non lo so», dice. «Andrò all’ospedale alle prime luci del giorno. Ma le autorità hanno richiesto il pagamento di una tassa domani. Un’imposta sui “vizi”, l’hanno definita». Come se quello che facciamo – fornire intrattenimento – fosse immorale. «Sto solo cercando di capire da dove tirare fuori il denaro». Sorride debolmente. «È il prezzo per mandare avanti gli affari. Cosa posso fare per te?».

Esito, non voglio dargli altri problemi. Una piccola radio suona in un angolo. Sono proibite adesso, non sapevo che ne possedesse una. Noto anche una risma di carta e delle buste sulla sua scrivania. Herr Neuhoff segue il mio sguardo. «Vuoi che scriva a tuo padre per fargli sapere che stai bene?». Ci ho pensato un sacco di volte, mi sono chiesta che cosa penserebbero di me i miei genitori. Sono preoccupati o mi hanno voltato le spalle una volta per tutte? E che cosa potrei dire? Che mi sono unita a un circo e che adesso ho un bambino, così simile a quello che mi è stato portato via? No, nella vita che vivo non c’è nulla che loro potrebbero capire. E se sapessero dove mi trovo, una parte di me desidererebbe sempre che venissero a prendermi – e il cuore mi si spezzerebbe di nuovo.

«Potrei scrivere io per te», si offre. Scuoto la testa. «E allora come posso esserti utile?».

Prima che abbia modo di spiegargli perché sono venuta, Herr Neuhoff emette un rantolo, la sua tosse è così profonda da sembrare un latrato. È peggiorata da quando eravamo nei quartieri invernali. Allunga la mano per prendere un bicchiere d’acqua. Quando l’accesso si placa, ingoia una pillola. «Sta bene, signore?». Spero che la domanda non sia troppo sfrontata.

Lui fa un gesto con la mano, come se scacciasse una mosca. «Un disturbo di famiglia. Ne ho sempre sofferto. L’umidità primaverile non aiuta. Ora, avevi bisogno di qualcosa?». Insiste per sapere il motivo per cui sono qui, desideroso di tornare ai libri contabili.

«Si tratta di Astrid», inizio esitante. Con un profondo respiro, gli racconto del tedesco in prima fila.

Il suo volto si oscura. «Temevo che una cosa del genere potesse capitare prima o poi», dice. «Grazie per avermi informato». Capisco dal suo tono che mi sta congedando.

Mi volto, mi arrischio a disturbarlo di nuovo. «Signore, un’ultima cosa… Astrid si infurierebbe se sapesse che gliel’ho detto».

Osservo l’indecisione sul suo viso, vorrebbe promettermi che manterrà il segreto, ma non può dire nulla senza mentire. «Non le rivelerò che l’ho saputo da te». L’offerta non è molto confortante. Io sono l’unica a saperlo. Sento l’ansia colpirmi nello stomaco mentre esco dalla carrozza.

Quando raggiungo il nostro vagone, Astrid è seduta al buio, tiene in braccio Theo, che sta dormendo. Combatto l’istinto di dargli un colpetto con le dita per svegliarlo e vedere i suoi occhi scuri che mi guardano. «È crollato pochi minuti fa», dice Astrid. Sapere che mi sono persa di poco la possibilità di vederlo sveglio peggiora le cose. Astrid gli accarezza le guance delicatamente.

«Volevo chiederti», comincia lei. Rimango pietrificata, pensando a una scusa plausibile da inventare per la mia assenza. «Tornando indietro, hai visto Peter?»

«Non da quando abbiamo lasciato il cortile. Stava provando», dico, anche se so che non è proprio il termine giusto per definire l’opera di messa a punto che si fa dopo lo spettacolo.

«Mi piacerebbe andare da lui. Ma preferisce dormire da solo una volta che abbiamo iniziato a esibirci». I suoi occhi vagano in direzione della carrozza di Peter, carichi di desiderio. «Dopo aver visto il collega di Erich…». Affonda il mento, giù fino al petto. «È che non voglio stare da sola». Le sue mani tremano sulla schiena di Theo.

Soffre la solitudine, me ne rendo conto. Io mi sono abituata a stare per conto mio nei mesi in cui ho lavorato alla stazione di Bensheim. Essendo cresciuta senza fratelli o sorelle, non è stato così difficile. Ma Astrid è passata dalla sua numerosa famiglia circense a Erich, e poi ha subito trovato Peter. Malgrado sia una donna fiera, non ce la fa a sopportare il peso.

«Non sei sola», dico, sentendomi un ripiego, inadeguata. La cingo con un braccio. «Ci sono io». Lei si irrigidisce e per un secondo mi chiedo se si ritrarrà. Da quando sono arrivata nel circo, sono sempre stata io ad aver avuto bisogno di Astrid, a dipendere da lei. Ora sembra che i ruoli si siano ribaltati.

Astrid si stende sulla cuccetta tenendo Theo tra le braccia. Scivolo accanto a lei, il suo corpo è caldo. Appoggiamo le teste l’una contro l’altra, come gemelle nel grembo materno, respiriamo insieme come se fossimo un’unica entità. Mi sento al sicuro come non mi era più capitato da quando me ne sono andata di casa. Una volta Astrid ha scherzato sul fatto che, data la sua età, potrebbe essere mia madre. Ma è la verità. Vedo mia madre ora, distintamente come il giorno in cui mi ha guardato mentre andavo via. Avrebbe dovuto lottare per me, proteggermi a costo della sua stessa vita. Adesso che ho Theo, capisco l’amore che avrebbe dovuto provare per me e che invece le era sconosciuto.

«A cosa stai pensando?», chiede Astrid. È la prima volta che dimostra un vero interesse verso le mie riflessioni.

«Al mare», mento, troppo imbarazzata per ammettere che sento la nostalgia della famiglia che mi ha ripudiata.

«Al mare, o alle persone che vivono lì vicino?», chiede, come se mi avesse letto nel pensiero. «La tua famiglia – li ami ancora, non è vero?»

«Suppongo di sì». Questa ammissione mi fa sentire debole.

«Di notte piangi per loro», dice. Arrossisco. Sono felice che non possa vedere il mio volto nell’oscurità. «Io sogno ancora Erich», mi confida. «E provo ancora qualcosa per lui».

Sono sorpresa. «Nonostante ti abbia…».

«Voltato le spalle? Respinto? Sì, nonostante tutto questo. Amiamo le persone che erano prima, a prescindere dalle cose terribili che le hanno portate a fare ciò che hanno fatto, non credi?».

Ha ragione. Nella tristezza della sua voce riesco a percepire quanto abbia sofferto per Erich. «Ma ora hai Peter», le ricordo. Voglio alleviare il suo dolore.

«Sì», ammette, «non è proprio la stessa cosa, però».

«Lui tiene molto a te», insisto.

Sento che si irrigidisce. «Peter ama la mia compagnia. Questo è tutto».

«Ma Astrid… è evidente quanto ti voglia bene… e quanto tu ne voglia a lui». Lei non risponde. Com’è possibile che Astrid non veda la realtà, non capisca quello che Peter prova per lei? Forse dopo tutto quello che ha passato, ha paura di desiderare qualcosa di più.

«Comunque, stavamo parlando di te», dice, cambiando argomento. «So che la tua famiglia ti manca. Ma il passato è passato. In alto la testa, spalle in fuori. Hai Theo adesso, non tornerai mai indietro». La sua voce è decisa. «Devi accettarlo se vuoi salvare te stessa e lui. A meno che, ovviamente, tu non trovi la sua famiglia. Vuoi trovare la sua famiglia, vero?», insiste.

Una lama di dolore mi attraversa. «Certo. Sarebbe un grande sollievo», rispondo, con voce falsa. Ho pensato alla famiglia di Theo, ho pregato per loro, ma non potrei mai pensare di lasciarlo andare. Lui è mio ora.

«Oppure, potrebbe essere adottato. Non è tuo figlio. Deve stare con una famiglia. Tu sei giovane e hai tutta la vita davanti. Un giorno dovrai lasciarlo andare».

Sono io la sua famiglia, penso. Indico nell’oscurità il vagone intorno a noi. «È questa la mia vita». Non ho in programma di rimanere con il circo per sempre. Devo portare Theo più lontano, fuori dalla Germania una volta per tutte. Ma al momento è difficile immaginare qualcosa di diverso.

«Un giorno potresti cambiare idea», risponde. «Alle volte la vita che crediamo di dover vivere per sempre non dura così a lungo».

Le sue parole sembrano riecheggiare nell’immobilità del vagone letto. Mi mordo le labbra per impedirmi di ribattere. Ho rinunciato a mio figlio una volta e sono quasi morta di dolore. Non potrei sopravvivere di nuovo a una cosa del genere.

Ovviamente Astrid non lo sa. Il mio passato è ancora un segreto che tengo nascosto. Un segreto che ora sembra ingrandire lo spazio tra noi, allontanandoci e trasformando la nostra amicizia in una bugia.

«Astrid», comincio. È giunto il momento di raccontarle il motivo per il quale mi trovavo in quella stazione la notte in cui ho preso Theo. Devo dirle del soldato tedesco. Questo segreto non può continuare a infettare il nostro rapporto.

«Se si tratta del numero, possiamo discuterne domani mattina», dice assonnata.

«Non è questo».

«Allora cosa c’è?», chiede, sollevando la testa. Io deglutisco, incapace di parlare. «Grazie», dice Astrid prima che io possa rispondere. C’è una vulnerabilità nella sua voce che non ho mai sentito prima. «Cioè, non credo di averti detto che apprezzo quello che stai facendo. Senza di te, non potrei continuare a esibirmi». Tecnicamente, non è vero. Potrebbe continuare con la corda spagnola o con un altro numero da solista. Ma il suo cuore è su quel trapezio volante, ed è la mia presenza qui che rende possibile il suo sogno. La mia volontà di raccontarle tutto evapora e viene spazzata via come polvere. «Cosa stavi per dire?»

«Niente. Cioè… si tratta di Peter». Non posso sopportare di dirle tutta la verità sul mio passato ora. Ma per salvaguardare il mio segreto, ne sputo fuori un altro: «Ha bevuto prima dello spettacolo». Faccio una smorfia, non sono più certa che dirglielo fosse la cosa giusta. Non sono affari miei. Ma da qualche parte dentro di me sento che deve saperlo.

Astrid non risponde subito e io percepisco la sua tensione. È preoccupata. «Sei sicura?», chiede. «Si comporta sempre in modo strano prima di un’esibizione». Sento l’inquietudine nella sua voce, non vuole accettare una verità che dentro di sé già conosce.

«Sono sicura. L’ho visto uscire dalla tenda della birra».

«Oh». Non sembra sorpresa, solo triste. «Ho provato in tutti i modi a farlo smettere».

Prova ancora, vorrei dirle. Com’è possibile che una persona così forte in tutto il resto come Astrid non sia in grado di fronteggiare Peter?

«È che mi sento così inutile», dichiara, con la voce rotta. Mi aspetto che pianga, ma trema soltanto. Mi avvicino e lei si getta tra le mie braccia, Theo rimane così schiacciato tra noi che ho paura che si svegli e protesti. «Così inutile», ripete, e io so che non si riferisce solo a Peter.

Finalmente, il suo tremore si placa e lei si rannicchia più vicino a me. «Lo spettacolo è l’unica cosa che conta», aggiunge, sempre più assonnata. «Finché potremo continuare a esibirci, andrà tutto bene».

La mia mente torna alla conversazione con Herr Neuhoff. Ricordo il suo sguardo inquieto quando gli ho detto del tedesco che forse ha riconosciuto Astrid.

E non posso evitare di chiedermi se ho commesso un terribile errore.