Prologo

Parigi

Ormai mi staranno cercando.

Mi fermo sulla scalinata di granito del museo, appoggiandomi al corrimano per sostenermi. Il dolore, più intenso che mai, mi attraversa l’anca sinistra, non del tutto guarita da quando me la sono rotta l’anno scorso. Dall’altra parte di Winston Churchill Avenue, oltre la cupola di vetro del Grand Palais, il cielo di marzo è roseo al tramonto.

Sbircio al di là delle arcate di ingresso del Petit Palais. Dalle imponenti colonne di pietra pende uno striscione rosso alto due piani: Deux Cents ans de Magie du Cirque – Duecento anni di magia del circo. Lo striscione è decorato con degli elefanti, una tigre e un clown, nella mia memoria i loro colori sono molto più accesi che nella realtà.

Avrei dovuto dire a qualcuno che me ne stavo andando. Ma avrebbero cercato di fermarmi. Ho orchestrato bene la mia fuga, pianificandola per mesi, da quando ho letto sul «Times» dell’esposizione in programma: ho corrotto un inserviente alla casa di riposo per procurarmi la foto da mandare all’ufficio passaporti e pagato il biglietto aereo in contanti. Ho rischiato di essere scoperta quando il taxi ha accostato davanti alla casa di riposo nell’oscurità del mattino, strombazzando con il clacson. Ma la guardia all’ingresso non si è svegliata.

Ora comincio ad arrampicarmi, chiamando a raccolta tutte le mie forze, un doloroso passo alla volta. Nel foyer il galà di inaugurazione è già entrato nel vivo, uomini in smoking e donne in abiti da sera si radunano sotto la volta della cupola accuratamente decorata. Conversazioni in francese scoppiettano intorno a me come un profumo a lungo dimenticato che inalo con bramosia. Parole familiari stillano nella mia mente, prima come un ruscello poi come un fiume in piena, nonostante mi sia capitato di sentirle di rado nell’arco di mezzo secolo.

Non mi fermo alla reception a fare il check-in; non sono attesa. Al contrario, schivando i vassoi di hors d’oeuvres e lo champagne, mi faccio strada lungo i pavimenti a mosaico, costeggiando le pareti affrescate, verso la mostra sul circo. L’ingresso è segnalato da una versione in miniatura dello striscione che ho visto fuori. Ci sono ingrandimenti di foto, appesi al soffitto con dei cavi talmente sottili da essere invisibili: un mangiatore di spade, cavalli danzanti e altri clown. I nomi sotto ogni foto mi risuonano nella testa come canzoni: Lorch, D’Augny, Neuhoff – grandi dinastie circensi decadute con la guerra e con il tempo. L’ultimo di questi nomi mi fa bruciare gli occhi.

Dietro le foto è appeso un grande, logoro manifesto di una donna sospesa per le braccia a nastri di seta, con una gamba allungata indietro in un arabesque a mezz’aria. Faccio fatica a riconoscere il suo volto e il suo corpo, così giovanili. Nella mia testa, la melodia della giostra comincia a suonare metallica e sbiadita come quella di un carillon. Sento il calore delle luci sulla pelle, così rovente che quasi mi ustiona. Un trapezio volante pende sopra l’esposizione, fissato come nel mezzo di un’evoluzione. Ancora adesso, le mie gambe quasi novantenni palpitano dalla voglia di arrampicarsi lassù.

Ma non c’è tempo per i ricordi. Per arrivare qui c’è voluto più di quanto pensassi, come per ogni altra cosa ormai, e ogni minuto è prezioso. Mando giù a forza il groppo nella mia gola, mi spingo in avanti, costeggiando i costumi e le parrucche, artefatti di una civiltà scomparsa. Finalmente, raggiungo la carrozza. Alcuni dei pannelli laterali sono stati rimossi per svelare le minuscole cuccette all’interno. Sono colpita dalle dimensioni così ridotte, meno della metà della mia stanza alla casa di riposo. Le ricordavo molto più grandi. Abbiamo veramente vissuto lì dentro per mesi e mesi? Allungo la mano per toccare il legno marcio. Avevo capito subito che quella era la carrozza quando l’avevo vista sul giornale, ma fino a questo momento una parte del mio cuore era stata troppo spaventata per crederci davvero.

Le voci alle mie spalle si fanno più rumorose. Mi volto, un’occhiata veloce. Il ricevimento volge alla fine, i partecipanti si stanno avvicinando alla mostra. Ancora pochi minuti e sarà troppo tardi.

Mi guardo indietro l’ultima volta, poi mi accovaccio per scivolare sotto le corde. È come se una voce mi consigliasse di nascondermi, l’istinto a lungo sepolto nel mio animo torna in superficie ancora una volta. Invece, faccio scorrere la mano sotto la carrozza. Lo scomparto è lì, proprio come ricordavo. La porta è sempre bloccata, ma se la spingo nel modo giusto… Si apre di scatto e io immagino la corsa eccitata di una giovane ragazza in cerca di un messaggio scarabocchiato in fretta che invita a un rendez-vous segreto.

Ma dentro, le mie dita non trovano che uno spazio freddo e buio. Lo scomparto è vuoto, il sogno di trovare le mie risposte si dissolve come neve al sole.