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Astrid

Dodici metri. La distanza tra la vita e la morte, un frammento sottile.

Sono tornata in pista come avevo annunciato e ho finto di provare per Noa, e mi sono lanciata come se nulla fosse cambiato. Lei è sparita, però, lasciandomi da sola, e quindi ritorno alla pedana. Volare in aria un tempo era tutto per me. Ora ogni oscillazione è come un pugnale nel cuore. Lo spazio cavernoso in alto sopra la pista, che prima era la mia casa, mi è quasi insopportabile.

Scruto oltre il bordo della pedana, come se fosse un precipizio, fisso l’abisso della rete al di sotto. Ho già provato a uccidermi una volta, quando Erich mi ha detto di andarmene. Lui è uscito dall’appartamento, probabilmente per darmi il tempo di fare le valigie e partire. Non ce la faceva a guardarmi, o forse voleva evitare scenate di isteria che considerava così incivili. Sono corsa alla credenza e ho afferrato una manciata di pillole e una bottiglia di vodka, mandando giù impulsivamente quanta più roba potevo. Immaginavo Erich che trovava il mio corpo e scoppiava a piangere per quello che aveva fatto. Ma dopo qualche minuto mi sono resa conto che lui non sarebbe tornato indietro a controllare. Mi aveva già tagliata fuori dalla sua vita. Istantaneamente piena di rimorsi, mi sono messa le mani in gola e ho rigettato la brodaglia mezza digerita. Ho giurato di non vivere mai più per un uomo. Questa perdita è più grande, però – è tutto.

Scaccio il ricordo, mi lancio e provo a volare un’altra volta. Ma qui non c’è più nulla per me. Salta, lascia andare tutto. I pensieri ticchettano ritmicamente nella mia testa a ogni movimento. Non posso sopportare ulteriormente tutta questa sofferenza, mi lancio verso la pedana una seconda volta. Mi tremano le gambe mentre guardo giù. È stato così per l’orologiaio? Lo vedo penzolare dalla corda con il collo rotto, la bocca aperta, gli arti rigidi. Potrei saltare, farla finita come sicuramente ha fatto Metz. Se muoio qui, sarà alle mie condizioni, non per mano di altri. Allungo un piede oltre il bordo della pedana, per provare…

«Astrid?». Noa mi chiama da sotto. Trasalendo, barcollo, aggrappandomi alla scala a pioli per tenermi in equilibrio. Ero così presa dai miei pensieri che non l’ho vista tornare. Il suo viso è una maschera di inquietudine. Ha capito cosa stavo pensando di fare? L’ha indovinato?

Ma forse non si è accorta di niente. Mi fa segno di raggiungerla, guardandomi scura in volto mentre scendo dalla scala a pioli.

«Cosa c’è che non va?», le chiedo, e la mia inquietudine cresce. «Dimmelo».

Lei mi porge una busta. «È arrivata una lettera per te».

Mi blocco. Le lettere possono solo significare brutte notizie. La prendo con mani tremanti, preparandomi a ricevere il colpo di atroci novità su Peter. Il timbro è di Darmstadt, però. La tengo a distanza, come se il suo contenuto potesse essere contagioso. Solo per un momento voglio rimanere sospesa nel tempo, al sicuro da qualsiasi cosa sia scritta lì dentro.

Ma non sono mai stata molto brava a nascondermi dalla verità. La apro. All’interno c’è un’altra busta, indirizzata a me, non presso il Circo Neuhoff ma agli ex alloggi invernali della mia famiglia. Da Berlino. I caratteri squadrati di Erich si allungano verso di me come le dita di una mano. Ingrid Klemt, ha scritto lui, usando il mio nome da nubile. Non il suo. Perfino dopo così tanto tempo, il suo rifiuto mi ferisce ancora. Chiunque abbia inoltrato la lettera ci ha fatto una croce sopra e ha aggiunto il mio nome d’arte, Astrid Sorrell. Lascio cadere la busta. Noa la raccoglie in fretta e me la porge. Cosa potrà mai volere Erich?

«Vuoi che la apra per te?», chiede Noa dolcemente.

Scuoto la testa. «Posso farlo io». Strappo la busta, che è macchiata e logora. Un foglio di carta svolazza fuori. I miei occhi si riempiono di lacrime appena lo alzo e compare una grafia familiare. Non è di Erich.

 

Carissima Ingrid,

prego che questa lettera ti abbia raggiunta, e che ti trovi in salute e al sicuro. Sono fuggito da Montecarlo prima dell’invasione e non ho avuto tempo di scrivere. Ma ho raggiunto la Florida e ho trovato lavoro in uno spettacolo itinerante.

 

«Chi è?», chiede Noa.

«Jules». Il mio fratello minore, il più debole, quello che aveva meno possibilità di farcela, è in qualche modo sopravvissuto. Deve avermi mandato la lettera a Berlino ed Erich l’ha rispedita.

«Pensavo che fossero tutti…».

«Così pensavo anch’io». Il mio cuore batte più velocemente ora. Jules è vivo. In America.

«Ma come?», chiede Noa.

«Non lo so», replico. Faccio fatica a elaborare le mie stesse domande, non ho proprio tempo per quelle di Noa. «Jules stava dirigendo il circo nel sud della Francia quando è scoppiata la guerra. In qualche modo ce l’ha fatta». Continuo leggendo in silenzio.

 

Ho scritto a mamma e papà per mesi ma non ho ricevuto alcuna risposta. Non so se l’hai saputo, ma con il cuore spezzato devo dirti che sono morti in un campo in Polonia.

 

«Oh!», mi copro la bocca per fermare il singhiozzo che mi lacera la gola. Nel mio cuore sapevo da lungo tempo che i miei genitori non potevano assolutamente essere scampati alla morte, eppure una qualche parte di me si aggrappava ancora alla speranza. Ora devo guardare la verità in faccia, ed è molto, molto peggio.

«Cosa c’è?», chiede Noa. Si piega a leggere la lettera. Poi mi cinge con le braccia da dietro e mi culla dolcemente. «Astrid, mi dispiace così tanto». Non rispondo, rimango a sedere in silenzio. Le mie peggiori paure si sono tramutate in realtà.

«C’è anche altro», dice delicatamente Noa diversi secondi dopo. Indica il foglio che giace accartocciato sul mio grembo, mostrandomi delle righe più in basso: io ho smesso di leggere subito dopo aver saputo dei miei genitori. Scuoto la testa. Non posso. Lei prende i fogli e si schiarisce la gola, poi comincia a leggere:

 

Non sono riuscito a rintracciare i gemelli. Forse siamo rimasti solo io e te adesso. So che non vuoi lasciare tuo marito, ma ho trovato il modo di procurarmi un visto al consolato svizzero di Lisbona. Dicono che sia valido per quarantacinque giorni. Puoi venire da me, almeno finché la guerra non sarà finita, e poi potrai tornare. Per favore, pensaci. Io ho solo te adesso, e tu hai solo me.

Tuo, Jules

 

Provo a elaborare tutte queste nuove informazioni mentre Noa mi porge la lettera. Sulla busta ci sono i timbri ufficiali di Berlino. Jules l’ha mandata all’appartamento che una volta io ed Erich condividevamo. Erich deve averla letta e inviata tramite corriere. Ha fatto del suo meglio perché mi arrivasse. L’ha inoltrata a casa della mia famiglia a Darmstadt: in qualche modo sapeva che sarei andata lì. Ma non c’è più nessuna residenza invernale per la mia famiglia, quindi il postino deve averla recapitata alla tenuta Neuhoff. Forse Helga, che rimane lì ogni anno per badare alle residenze invernali in nostra assenza, ha corretto il mio nome e l’ha re-inoltrata verso la nostra prima tappa a Thiers.

«Come ha fatto ad arrivare fin qui?», chiedo.

Noa si schiarisce la gola. «Inoltrata da Thiers», dice. Annuisco. Il circo lascia a ogni tappa l’indirizzo della sua destinazione successiva per le ricevute e altra posta. Così tante fermate lungo la strada – avrei potuto non riceverla mai. E invece è arrivata.

«La mia famiglia», dico a voce alta. Non sono più sicura di cosa significhi questa parola. I singhiozzi che ho trattenuto per così tanti mesi vengono fuori squarciandomi la gola. Piango per il fratello che è sopravvissuto e per gli altri – tanti, così tanti – che non ce l’hanno fatta. I miei genitori e i miei fratelli, tutti morti.

O almeno così ho pensato in tutti questi mesi. Ma Jules è vivo. Ricordo il nostro addio alla stazione di Darmstadt qualche anno fa, un saluto precipitoso a causa dell’impazienza di Erich di salire sul treno. Come sarà Jules adesso? Me lo immagino un po’ più vecchio, ma sempre lo stesso. Da qualche parte persiste un minuscolo pezzo della dinastia circense della nostra famiglia, come un seme trasportato in una nuova terra, pronto per essere piantato.

Abbasso di nuovo lo sguardo sulla busta. Non dovrebbe essere così spessa, se fosse completamente vuota. «C’è un’altra cosa». Due cose, a dire la verità. Tiro fuori una specie di ricevuta bancaria. Ma è in una lingua sconosciuta, riconosco solo il mio nome. «Che diavolo?».

Noa fa un passo avanti. «Posso vedere?». Le porgo il documento. «Non riesco a capire cosa ci sia scritto, ma sembra che sia del denaro per il tuo viaggio, presso il tuo conto bancario di Lisbona». Mi restituisce la lettera.

La fisso, interdetta. «Ma io non ho nessun conto».

«Sembra sia stato aperto tre settimane fa circa», aggiunge lei, indicando la data. «È stato tuo fratello?».

Studio il documento. «Non penso». Risulta un’unica transazione, un deposito da Berlino. Diecimila marchi, abbastanza per andare ovunque, anche in America.

«Allora chi?».

Faccio un respiro profondo. «Erich».

Erich ha letto la lettera di Jules e voleva assicurarsi che avessi le risorse per raggiungere mio fratello in America. Mi ha fatto l’ultimo regalo, l’unico che poteva concedermi – una possibilità di scampo. Scuoto la busta un’ultima volta e tiro fuori una piccola tessera. Un permesso di lasciare la Germania, anch’esso compilato con i caratteri squadrati di Erich, con il sigillo ufficiale del Reich. Erich ha pensato a tutto. Voleva essere sicuro che potessi uscire dai territori occupati e raggiungere la salvezza con Jules. Sarà stato mosso dai sensi di colpa o dall’amore? Sebbene faccia parte del mio passato prima di Peter – così tanto tempo fa che mi sembra quasi un sogno – una piccola frazione del mio cuore non può fare a meno di soffrire per quell’uomo. L’affetto che provava per me è stato sufficiente a spingerlo a fare tutto questo, ma non a farlo combattere per noi.

«Astrid, puoi andare da tuo fratello». L’espressione di Noa si riempie di speranza. Poi sul suo volto leggo il conflitto interiore. Ha capito che se lo faccio lei rimarrà sola.

«Non posso lasciarti», dico. Improvvisamente mi sembra ancora più giovane e vulnerabile del giorno in cui è arrivata. Come potrebbe cavarsela senza di me?

«Tu andrai, invece. Io e Theo staremo bene», risponde, cercando senza successo di nascondere il tremolio nella sua voce. Poi, esaminando nuovamente i documenti, aggrotta le sopracciglia. «La lettera di tuo fratello dice che il visto è valido per quarantacinque giorni. Ha impiegato più di un mese per arrivare qui. E non c’è modo di sapere quanto tempo impiegherai tu per arrivare a Lisbona, o negli Stati Uniti da lì. Devi andartene immediatamente. Stanotte. Andrai, non è vero?», chiede Noa, con la voce che in qualche modo è piena di speranza e paura allo stesso tempo.

Senza rispondere, mi avvio verso il treno.

«Ma Astrid», mi chiama Noa alle mie spalle. «Pensavo che ci saremmo allenate. Certo, se stai partendo…».

Non ha più alcuna importanza, finisco la frase al posto suo in silenzio. «Vai avanti senza di me», dico. «Le ultime novità sono un peso troppo grande».

Torno verso il casotto in cui Elsie sta badando a Theo. «Mio bel ragazzo», dico. Un ampio sorriso gli illumina il viso quando mi riconosce. Faccio per prenderlo dalle braccia di Elsie, e per la prima volta in assoluto lui allunga le sue manine verso di me. Qualcosa prorompe nel mio animo, un’altra ondata di tristezza che cresce e minaccia di travolgere tutto. La ricaccio indietro. Più tardi ci sarà tempo per le lacrime. Ora devo capire cosa fare.

Prendo Theo, con un braccio tengo lui e stringo il lasciapassare nell’altra mano, come a bilanciarli, a valutare il peso del foglio e del bimbo. Come posso abbandonare lui e Noa? Dopo la scomparsa di Peter, sono tutto quello che mi rimane al mondo – o così credevo, fino all’arrivo della lettera di Jules. Ora devo pensare anche a lui. Ha perso tutta la sua famiglia a parte me. E si è dato così tanto da fare per ottenere questo visto, la mia unica possibilità di salvezza; sprecarlo sarebbe un crimine.

Theo mi colpisce il mento con la sua minuscola mano, interrompendo il corso dei miei pensieri. I suoi occhi scuri si alzano verso di me, scrutandomi. L’idea di lasciare Noa e Theo da soli ad affrontare un destino incerto è inaccettabile. Ci deve essere un altro modo.

I miei occhi corrono alla brandina. Sotto, il mio baule e quello di Noa sono allineati ordinatamente uno accanto all’altro. Metto Theo sul letto, poi cerco la mia borsa.