14

Noa

«No, no!», grida Astrid mentre ci alleniamo la domenica seguente. La sua voce squillante penetra attraverso il tendone con tanta forza che uno dei giocolieri fa cadere a terra il suo cerchio d’argento. «Devi andare più in alto!».

Dondolo spingendo le gambe con più forza mentre Gerda mi lancia indietro verso la barra, cercando di ubbidire alle indicazioni di Astrid. Ma quando arrivo sulla pedana e guardo giù, la sua espressione è ancora insoddisfatta.

«Devi portare le gambe sopra la testa», mi rimprovera mentre scendo dalla scala a pioli.

«Ma hai detto che devo rimanere sempre in linea con il corpo, quindi pensavo che…», comincio a ribattere, poi mi fermo, sapendo che non me la darà vinta. Astrid è stata di cattivo umore in questi ultimi giorni, scatta a ogni cosa che dico e mi riprende per degli esercizi che qualche giorno fa andavano più che bene. Guardando le sue labbra arricciarsi per lo scontento, mi chiedo se sia ancora arrabbiata con me per essere stata rimossa dallo spettacolo. Quasi una settimana fa sembrava che mi avesse perdonato ma ora non ne sono tanto sicura.

«Cosa c’è che non va?», chiedo.

Lei apre la bocca come se volesse dirmi qualcosa. «No, non è niente», risponde alla fine, ma non mi sembra affatto convinta.

«Astrid, per favore», insisto. «Se è successo qualcosa, forse posso essere d’aiuto».

Lei sorride ma non c’è nessuna gioia nei suoi occhi. «Se solo fosse vero», dice, poi si allontana e comincia a salire sulla scala a pioli.

Quindi c’è davvero qualcosa che non va, penso, sapendo che insistere è inutile. «Continuiamo a provare?», chiedo invece, anche se ho paura di sentire la sua risposta.

Ma lei scuote la testa. «Per oggi abbiamo finito». Raggiunge la pedana e prende la barra, si tuffa senza preavviso. Sebbene non possa esibirsi nello spettacolo, questo non le ha certo impedito di volare, più velocemente e ardentemente che mai. Lavora senza qualcuno che la prenda ora, toccando a malapena la barra, in un modo che mi sembra impossibile anche se la sto vedendo con i miei occhi.

Attraverso la sala prove verso Peter, che ha smesso di allenarsi per guardare Astrid. «Dobbiamo fermarla», dico. «Si ammazzerà».

Ma nei suoi occhi c’è un misto di ammirazione e orgoglio e il suo linguaggio del corpo trasmette un senso di rassegnazione. «Non posso impedirle di essere grandiosa, di essere se stessa».

«Qui non si tratta di essere grandiosi – si tratta di suicidio», ribatto, sorpresa del mio stesso coraggio: ho trovato l’ardine di rivolgermi a lui con tanto impeto.

Peter mi fissa con una strana espressione. «Astrid non si ucciderebbe mai. Ha troppo da perdere». La sua voce ha un’eco inquieta. Forse lui sa cosa preoccupa Astrid. Ma prima che possa domandarglielo, se ne va.

Lancio un’ultima occhiata verso Astrid, indosso la mia gonna a portafoglio e la camicetta sopra al body da allenamento. Esco dal tendone e percorro i campi del circo. È domenica, di tardo pomeriggio, è passata poco più di una settimana da quando siamo arrivati a Thiers. Voglio dare da mangiare a Theo da sola e trascorrere più tempo possibile con lui prima che si addormenti. È arrivato il vagone dell’acqua e la gente si affretta a riempire i secchi sul retro. C’è un’infinità di secchi in ogni parte nel circo, per lavarsi e bere e per mille altri utilizzi. La prima volta che ne ho intravisti due con il mio nome sopra, in attesa di essere riempiti a Darmstadt, ho sentito di far parte del circo un pochino di più.

Riempio i miei secchi, uno per lavarsi e uno per bere, e li porto al treno, impaziente di cambiarmi e raggiungere Theo. Salgo le scalette della carrozza, facendo attenzione a non versare l’acqua. Il vagone letto, dove mi aspettavo di trovarlo al risveglio dopo il riposino, è vuoto. Theo non c’è.

Stai calma, dico a me stessa, avviandomi di nuovo all’esterno. Qualche volta le ragazze che badano ai bambini li portano fuori in modo che prendano una boccata d’aria fresca. C’è qualche bambino dietro al treno, che gioca a palla, mentre le due ragazze che dovrebbero tenerli d’occhio chiacchierano pigramente. Theo non è con loro.

Dove sarà? Il mio cuore martella. Si sarà perso? Lo avranno preso? Attraverso il cortile per raggiungere di nuovo Astrid. Lei saprà cosa fare. Poi in lontananza sento una risatina. I miei occhi guizzano in direzione del recinto dove vengono tenuti gli animali. Theo è lì vicino, tra le braccia di Elsie, una delle ragazze che si occupa di lui. Mi rilasso un po’.

Ma appena mi incammino attraverso il campo erboso, Elsie si dirige verso la gabbia del leone. La vedo parlare con Theo, gli indica uno degli animali mentre si avvicinano. La gabbia qui non è sicura – poche sbarre di metallo, con troppo spazio a separarle. Non c’è niente che protegga Theo dalle bestie feroci. Elsie accompagna il piccolo dritto alla gabbia con noncuranza e senza timore. Lui allunga la mano come per accarezzare un cane.

«No!», urlo, ma la mia voce si perde nel vento. Theo mette la mano nella gabbia, le sue dita sono a pochi centimetri dalla bocca del leone.

«Theo!», corro verso di lui, i piedi pestano sulla dura terra, prendo a calci zolle di erba e sollevo nubi di polvere.

Raggiungo Theo e lo prendo dalle braccia della ragazza. Il leone, spaventato dal mio movimento improvviso, balza in avanti verso le sbarre con un ruggito, colpendo il punto esatto in cui Theo si trovava un attimo fa.

Faccio un salto indietro, inciampando e rotolando a terra. Theo lancia un grido. Una roccia affilata mi taglia il palmo della mano quando atterro sul suolo, ma ci faccio a malapena caso. Stringo Theo al mio petto, facendogli scudo. Respiro affannosamente, non mi rialzo, cercando di confortare Theo che è sconvolto come non l’ho mai visto. Un solo secondo in più e sarebbe stato troppo tardi.

«Shh», lo consolo, esaminandolo. Sebbene sia rosso in viso per il pianto, non sembra ferito. Poi mi alzo, pulendomi le ginocchia dalla terra. «Come hai potuto?», rimprovero Elsie, pallida in volto.

«S… stavamo solo giocando», mi spiega, agitata. «Volevo mostrargli il leone da vicino. Non intendevo fare alcun male».

Ma io sono ancora furiosa. «Quell’animale poteva uccidere Theo. E questo abbigliamento…». Tenendolo stretto, noto che Theo indossa un body di lustrini, fermato frettolosamente con degli spilli in modo che gli si adatti anche se è troppo grande per lui. «Come diavolo è vestito?».

Alle spalle di Elsie, vedo arrivare Astrid. Cammina a grandi passi, sul suo volto un misto di rabbia e preoccupazione. «Cos’è questa confusione?»

«Elsie stava tenendo Theo praticamente contro la gabbia del leone», dico, e la mia voce sale mentre rivivo il terrore appena provato. «Poteva lasciarci la pelle!».

Astrid mi prende Theo e lui smette di piangere, ma annaspa, fatica a respirare normalmente. «Mi sembra che stia bene. È ferito?»

«No», ammetto, scacciando via una delle tante mosche che ronzano perennemente intorno alle gabbie degli animali. Mi aspettavo che si schierasse dalla mia parte, nonostante sia arrabbiata con me. Come fa a non essere in preda all’agitazione per quello che ha fatto Elsie? «Ma guarda come è vestito!».

«Molto presto inizierà ad allenarsi», osserva Astrid con grande semplicità.

«Allenarsi?», ripeto, confusa.

«Per esibirsi», risponde lei. Non abbiamo mai discusso dell’eventualità che Theo si unisca allo spettacolo, eppure Astrid ne parla come se fosse un dato di fatto.

La fisso, mi ha lasciato senza parole. Non avevo mai immaginato che Theo si esibisse, né tantomeno avevo pensato a un futuro nel circo per lui. «È solo un bambino», dico. Theo squittisce, sembra che protesti anche lui.

«Io sono salita sul trapezio quasi prima di imparare a camminare», dice Astrid. «Ovviamente era un trapezio fisso». Rabbrividisco. Nel suo mondo, è perfettamente normale che un bambino si esibisca. Theo non imparerà il trapezio, però, né nessun altro numero circense. La sua vita – la nostra vita – sarà da qualche altra parte.

«È troppo piccolo», insisto, senza menzionare il fatto che io non lascerò mai che si esibisca.

Astrid non risponde. Sta guardando un punto oltre le mie spalle, ha scrutato qualcosa dall’altra parte del campo che conduce in città. «Sta arrivando qualcuno». Mi giro e seguo il suo sguardo.

«Luc», dico ad alta voce, rivolta più a me stessa che ad Astrid. È passata quasi una settimana dalla notte in cui è venuto al circo. Pensavo che dopo quell’episodio si fosse arreso, o che si tenesse lontano per timore. Non mi aspettavo di rivederlo.

Sarebbe stato meglio così, penso mentre si avvicina. È il figlio del sindaco e, come ha messo bene in chiaro Astrid, non ci si può fidare di lui. «Cosa ci fa qui?», chiede lei, e la sua voce si inasprisce per il fastidio.

«Non lo so», dico, improvvisamente sulla difensiva. Non che io abbia fatto nulla per incoraggiarlo. Ma il mio cuore si gonfia malgrado tutto mentre Luc si avvicina, con un mazzetto di narcisi stretto in mano, i capelli neri scompigliati dal vento. «Ma lo scoprirò». Abbasso lo sguardo su Theo, esitando. Non voglio lasciarlo andare così presto dopo averlo trovato in pericolo, né ridarlo a Elsie. Odio chiedere un favore ad Astrid in questo momento, ma sono troppo curiosa. «Ti dispiacerebbe occuparti per un po’ di Theo?». So già cosa risponderà.

«Sono già la tua allenatrice… Ora dovrei farti anche da bambinaia?», dice brusca. Non rispondo. È irritata, ma allo stesso tempo adora Theo e non è in grado di dire di no. «Oh, va bene, se proprio devo. Vai. Non metterci troppo». Mi prende Theo dalle braccia e si avvia verso il treno.

Indietreggio mentre Luc mi raggiunge. «Ancora tu», dico, cercando di sembrare disinvolta. All’improvviso sono preoccupata per i miei capelli, tirati indietro frettolosamente, e per le mie guance, troppo arrossate per la fatica delle prove. «Continui a spuntare fuori».

Luc indietreggia per un secondo, guardando nervoso Astrid che si allontana con Theo alle mie spalle. «Spero che il mio arrivo non sia un problema».

«Suppongo di no», dico con un tono distaccato.

«Non sapevo se ti avrebbe fatto piacere», dice lui. «Non ti sei fatta vedere dopo lo spettacolo. Sono andato all’appuntamento come promesso e ti ho aspettato il più a lungo possibile. Non sei mai arrivata».

«Non potevo dopo tutto quello che era successo con la polizia», dico. «Inoltre, c’era il coprifuoco. La gente ci guardava. Non potevo uscire a dirtelo».

«Non importa», dice lui, perdonandomi all’istante. «Ti ho portato questi». Mi porge i fiori goffamente. Una dolce fragranza si diffonde intorno a me quando li prendo, e per un attimo le mie dita sfiorano le sue. Mi metto un fiore tra i capelli e ne sistemo un altro sul bottone più in alto della mia camicetta.

«Facciamo una passeggiata?». Luc si avvia ma io rimango ferma, con i piedi ben piantati. Non lo seguo. Lui si volta. «Non vieni?»

«Tuo padre», dico.

Un’espressione consapevole scende sul suo viso. «Mio padre cosa?»

«È il sindaco. Perché non me l’hai detto?», chiedo.

«Perché non è uscito fuori il discorso», replica lui inquieto.

«Com’è possibile che non sia uscito fuori il discorso?», insisto. «Sei il figlio del sindaco».

«Hai ragione», ammette, con un tono mortificato. «Avrei dovuto parlartene, e l’avrei fatto se avessi avuto l’opportunità di passare un po’ di tempo con te. Credo che sperassi semplicemente che la cosa non avesse importanza». O forse non ha detto nulla perché sapeva che aveva una grande importanza, invece. «Ce l’ha?», chiede. «Ha importanza, cioè».

Esito, riflettendo. Non mi interessa che suo padre sia il sindaco, non nel modo in cui interessa ad Astrid e agli altri. Se suo padre simpatizza con i nazisti, però, cosa devo pensare di Luc? Sembra troppo buono per essere un simpatizzante in prima persona.

Mi sta ancora guardando con un’espressione preoccupata, a quanto pare tiene moltissimo a conoscere la mia risposta. «Suppongo di no», cedo finalmente. «Ma sarebbe stato meglio saperlo». In qualche modo, è il fatto che me lo abbia nascosto la cosa più grave. Ma io per prima ho i miei segreti, quindi chi mi dà il diritto di giudicare gli altri?

«Niente più segreti, lo prometto». Trattengo il respiro. Non posso fare la stessa promessa. Ma lui allunga la mano. «Possiamo passeggiare ora?».

Mi guardo alle spalle inquieta. Non dovrei andare con lui, penso, sentendo nella mia testa Astrid che mi avverte che fare amicizia con Luc potrebbe essere pericoloso. E voglio tornare da Theo il prima possibile. «Ma guarda come sono vestita», dico, sentendo il body ancora umido che mi si attacca sulla pelle.

Luc sorride. «Allora non andremo in un posto elegante».

«Va bene», cedo. Nonostante le mie riserve, Luc mi incuriosisce – e sento il bisogno di fuggire solo per un po’ dalla confusione e dall’intensità del circo.

Mi conduce verso il margine del bosco, sullo stesso sentiero che mi ha mostrato Astrid il giorno che sono andata in paese. Mi affretto a seguirlo fuori dal terreno del circo per non farmi vedere. Mi guardo alle spalle in direzione del vagone, immaginando Astrid che mette Theo a dormire. Non voglio caricarla di un peso eccessivo e poi non ho quasi mai l’occasione di vedere Theo. «Temo di avere solo qualche minuto a disposizione».

«Gli altri non mi vogliono tra i piedi, non è vero?», chiede Luc.

«Non è questo». La verità è che pensano che in qualche modo lui porti guai, e mi pare un’affermazione difficile da mandare giù e troppo offensiva per rivelarla senza mezzi termini. «Sono solo un po’ diffidenti nei confronti degli estranei. Suppongo che lo siamo tutti di questi tempi».

«Non voglio causarti dei problemi», dice. «Forse avrei dovuto tenermi alla larga».

«No», replico seccamente. «Cioè, sono in grado di prendere delle decisioni da sola».

«Allora andiamo», dice. Continuiamo in silenzio attraverso un passaggio tra gli alberi che formano un piccolo boschetto. Presto raggiungiamo l’estremità della foresta. Scorgiamo la sponda del ruscello, questa volta ci dirigiamo lontano dal paese, che si staglia dietro di noi e sembra guardarci con disapprovazione. Desideravo rimanere sola con Luc, ma ora che ci siamo soltanto noi due è strano, quasi spiacevole.

Lui si ferma e si siede su un cumulo di terra che sporge sul ruscello come uno scoglio, poi libera un po’ di spazio da qualche canna e lo spiana per farmi sedere al suo fianco. Mi lascio cadere sul terreno umido, sentendo l’aria che si è fatta fredda ora che il sole è sceso in basso dietro le colline distanti. «Ti ho portato questa». Tira fuori un’arancia dalla tasca.

Non vedevo un frutto miracoloso come quello da prima della guerra. «Grazie», dico dolcemente. Come avrà fatto a rimediarla? Tramite la carica di suo padre – una carica che danneggia altre persone. Gli restituisco il frutto corrotto. «Ma non posso accettarla».

Mentre gli porgo l’arancia, noto che il suo indice è piegato a una strana angolazione, in qualche modo è deformato. Si rimette l’arancia in tasca, con un’espressione avvilita. Poi tira fuori qualcos’altro, avvolto in una carta marrone. «Prendi questo, allora. L’ho comprato con la mia tessera annonaria, è la verità». Lo apro e scopro un pezzo di formaggio stagionato Cantal tra due fette di pane integrale. Vacillo. Una cosa è rifiutare del cibo per me, tutt’altra è respingere una fonte di sostentamento in più per Theo. «Grazie», dico, commossa dalla sua generosità e dall’altruismo che dimostra nei miei confronti, anche se per lui sono solo un’estranea. Riavvolgo il cibo nella carta e me lo infilo in tasca.

Un suono ci interrompe, il rombo di un furgone che si fa sempre più rumoroso. Mi alzo in fretta, non voglio che qualcuno mi veda. «Devo andare», dico, in preda al panico: quante domande si solleverebbero se qualcuno mi vedesse con Luc!

Ma lui mi prende la mano, fermandomi. «Vieni». Mi conduce rapidamente di nuovo nel bosco, seguendo un sentiero che si insinua in un’altra direzione. Quando raggiungiamo una radura rallentiamo e lui si guarda intorno. «Via libera», dice.

Il mio cuore batte ancora all’impazzata e mi tornano alla mente tutte le ragioni per cui dovrei stare alla larga da Luc. «Quei poliziotti che sono venuti allo spettacolo per arrestare l’uomo e la bambina… lavorano per tuo padre, non è vero?»

«Sì». Abbassa la testa. «Mi dispiace così tanto. Non avevo idea che sarebbe successo. Sono certo che sia stato un ordine proveniente da qualcuno molto più in alto. Probabilmente non ha avuto scelta».

«C’è sempre una scelta».

Tiene gli occhi bassi, si rifiuta di guardarmi. «Se adesso non vorrai più vedermi per via di quello che è successo, lo capirò».

«Non è affatto così», rispondo, forse un po’ troppo in fretta.

«Allora vieni». Le mie dita si scaldano al suo tocco quando mi prende nuovamente la mano e si rimette in cammino.

Presto usciamo dalla foresta, e in fondo a un campo aperto, la sagoma scura di un fienile si staglia contro il cielo buio. Luc si avvia in quella direzione.

«Luc, aspetta…», dico, a disagio mentre ci avviciniamo alla porta del fienile. Fare una passeggiata insieme è una cosa. Ma entrare con lui mi sembra qualcosa di più. Mi sto spingendo troppo in là? «Devo tornare», dico. Immagino Astrid, che sa perfettamente dove sono e guarda l’orologio arrabbiata.

«Solo per qualche minuto, per stare lontano da occhi indiscreti», cerca di persuadermi.

La porta di legno scricchiola quando Luc la apre. Fa un passo di lato, facendomi segno di entrare per prima. All’interno, il locale è vuoto, l’aria è pregna dell’odore di legno marcio e fieno umido.

«Come hai trovato questo posto?», chiedo.

«Qui siamo al margine estremo della proprietà della mia famiglia. Non preoccuparti», aggiunge, vedendo la mia espressione allarmata. «Nessuno ci viene più ormai tranne me».

Indica in alto, verso il solaio. «Nessuno ci troverà qui».

Guardo in su dubbiosa, d’improvviso mi rendo conto che ci siamo soltanto noi due, lontano dal circo, da tutto e da tutti. «Non so…».

«Stiamo solo parlando», dice, e nel suo tono avverto una piccola sfida. «Che male ci può mai essere?».

Luc si arrampica sul solaio, poi mi aiuta a salire. Sento le sue dita umide sul mio polso. Lo spazio è piccolo e rettangolare, forse due metri per tre, il tetto spiovente del fienile incombe sulle nostre teste.

Le tavole di legno grezzo sono ricoperte di fieno che mi solletica le gambe attraverso la gonna. Luc fa scorrere indietro il pannello di legno di una finestra, rivelando le colline ondeggianti che conducono al villaggio, le chiazze di colore dei campi interrotti dai tetti ricoperti di muschio delle fattorie. Le luci scintillano dietro alcune delle finestre prima che le tende vengano tirate per l’oscuramento: sembra quasi che vengano soffiate via come delle candele. Regna la pace – tutto è così incontaminato, per un momento è quasi possibile dimenticare la guerra.

Luc indica un piccolo campanile all’orizzonte, la sagoma si staglia contro il sole che tramonta. «Sono andato alla école lì», dice e io sorrido, figurandomelo da bambino. Ha vissuto tutta la vita proprio in questo villaggio, un po’ come avrei fatto io nel mio paese se le cose fossero andate diversamente. Poi prosegue: «Ho due sorelle più grandi, entrambe sono sposate e vivono non molto lontano da qui. Anche i miei nonni vivevano con noi, quando ero piccolo. C’erano sempre tante risate e baccano». C’è una nota nostalgica nella sua voce che mi fa capire che quei tempi sono finiti da un pezzo.

Allunga la mano sotto un mucchio di fieno e tira fuori una bottiglia di vetro scuro, mezza vuota. «Un po’ di Chablis dalla cantina di mio padre», dice con un sorriso malizioso. Mi passa la bottiglia e ne bevo un sorso. Non so nulla di vino, ma è chiaro che è di una buona annata, il sapore è complesso, speziato e profondo.

Nell’angolo in cui era nascosto il vino, noto degli oggetti ancora mezzi coperti dal fieno. Incuriosita, mi avvicino. Ci sono una grossa tavolozza e una serie di colori. «Sei un artista», commento.

Lui ride, stringendosi le ginocchia tra le braccia. «È una parola grossa. Scarabocchio, quando riesco a rimediare della carta. Dipingo, anche se non più così tanto. Mia madre amava l’arte e mi portava sempre a visitare le gallerie ovunque andassimo in vacanza. Un tempo avrei voluto andare a Parigi per studiare alla Sorbona». I suoi occhi si animano mentre parla di arte e della sua infanzia.

«È lontana? Parigi, intendo». Mi vergogno di non avere una migliore conoscenza della geografia.

«Di questi tempi ci vogliono circa quattro ore di treno con tutte le fermate. Ci sono stato con mia madre, a vedere i musei. Lei amava l’arte». C’è una nota di tristezza nella sua voce ora.

«Vivi ancora con i tuoi genitori?», chiedo.

«Solo con mio padre. Mia madre è morta quando avevo undici anni».

«Mi dispiace», dico. Anche se i miei genitori sono ancora vivi, la sua perdita sembra rievocare la mia, rafforzando il dolore che ho cercato di seppellire con tutte le mie forze. Vorrei toccargli il braccio per confortarlo, ma poi mi dico che non lo conosco abbastanza. «Hai ancora in programma di studiare arte?», chiedo invece.

«Non mi sembra più possibile». Fa un gesto verso la campagna sotto di noi con le sue lunghe dita affusolate.

«Ma lo desideri ancora», insisto.

«Dipingere mi pare un’attività così frivola adesso», risponde. «Non so proprio che cosa fare – non voglio stare seduto qui e basta. Papà vuole che entri nella LVF, ma io non voglio combattere per i tedeschi. Lui dice che il figlio del sindaco non può non offrirsi volontario: la cosa non sarebbe vista di buon occhio, e non posso esimermi ancora a lungo. Scapperei, ma non voglio lasciare papà da solo».

«Ci deve pur essere un altro modo», suggerisco, sebbene non sia sicura di crederci davvero.

«È solo questa dannata guerra», dice lui, la sua voce è agitata per la frustrazione. Sono sorpresa di sentirlo imprecare. «Ha cambiato tutto». Si volta dall’altra parte. «Quello che è successo allo spettacolo l’altro giorno con l’uomo e la bambina… non è la prima volta. C’erano famiglie ebree a Thiers, abitavano qui da quando sono nato. Vivevano sul lato est del paese, appena dopo il mercato. Uno dei ragazzi, Marcel, era un mio amico della école».

«Tuo padre. Ha ordinato lui alla polizia di fare la retata?», chiedo.

«No!», scatta, poi velocemente si riprende. «Mio padre esegue gli ordini. Mantiene la facciata, sostiene i tedeschi solo al fine di proteggere il villaggio».

«E se stesso», sbotto, incapace di trattenermi. «Come puoi sopportare una cosa del genere?»

«Davvero, non è così», continua Luc, più calmo adesso, in tono di supplica. «Papà era diverso prima che mia madre morisse. Una volta ha dato a una famiglia una casa senza farsi pagare l’affitto per un anno intero». Luc ha bisogno di credere che suo padre sia un brav’uomo, e mi sta chiedendo di crederci anch’io. A me è capitata la stessa cosa. Quando mio padre mi ha buttato fuori, mi sono tornate in mente le mattine in cui passeggiavamo fino al paese per andare a prendere il pane fresco, solo noi due, e lui fischiettava durante il tragitto. Mi comprava un croissant in più. Io ero ancora quella bambina, però. Che cosa era cambiato?

Luc continua: «Ho implorato mio padre di aiutare almeno la famiglia di Marcel. Ma mi ha detto che non c’era nulla da fare». Le sue parole vengono fuori come un fiume in piena, come se fino a questo preciso momento non avesse potuto condividere con nessuno le cose a cui ha assistito.

«È dura quando le persone che amiamo commettono azioni terribili», dico.

Restiamo entrambi in silenzio, il cielo ormai buio attenua la luce in solaio. Noto che la sua mascella è squadrata e forte, una leggera barba incolta di fine giornata la scurisce.

«Da dove vieni?», chiede, cambiando argomento.

Mi sposto a disagio. Finora, sono riuscita a non dire molto di me stessa. «Dalla costa olandese. Il nostro villaggio era così vicino al mare che si poteva camminare fino alla fine della strada e pescarsi da soli la cena». Sembra così strano parlare della vita che ho perso. Voglio raccontargli tutto, di come i miei genitori mi hanno buttato fuori e di come ho trovato Theo. Ma ovviamente non posso.

«Perché te ne sei andata?», chiede Luc improvvisamente.

Non importa quante volte mi è stata fatta questa domanda, mi coglie sempre impreparata. «Mio padre era molto crudele, quindi quando mia madre è morta sono fuggita con mio fratello», dico, ripetendo il racconto ormai consueto. Non sono pronta a dirgli la verità.

«È dura perdere la propria madre», dice, guardandomi gravemente negli occhi. Odio me stessa per le bugie che ho raccontato. Ma in questo momento, anche se mia madre non è morta, averla persa mi sembra più reale e doloroso che mai. «E poi ti sei unita al circo?», chiede.

«Sì. Solo qualche mese dopo». Prego che non voglia sapere del periodo di mezzo.

«È eccezionale che tu abbia imparato a fare tutte quelle acrobazie così velocemente». La sua voce è piena di ammirazione e meraviglia.

«Mi ha allenato Astrid», dico.

«Quella donna arrabbiata?». Mi sforzo di non ridere per l’idea che ha di lei.

Allo stesso tempo sento di doverla difendere dalle critiche di uno sconosciuto. «È fantastica», dico.

«Non si è esibita durante lo spettacolo», nota Luc, ma io non rispondo. Non posso raccontargli il resto della storia, né il motivo per cui è furiosa con me, senza rivelare che è ebrea. «Forse è invidiosa perché tu fai parte dello spettacolo e lei no», azzarda Luc.

Io rido forte. «Astrid, invidiosa di me? Non è possibile». Astrid ha talento, è famosa, è potente. Ma poi mi vedo con i suoi occhi, una donna più giovane con il bambino che il destino le ha negato, che si esibisce mentre a lei un simile privilegio non è concesso. Forse l’idea non è così ridicola, in fin dei conti. «Non è come credi», aggiungo. «Astrid è un’acrobata aerea famosa. È solo molto passionale. Peter dice che è un pericolo per se stessa», aggiungo.

«Peter sarebbe il clown?», chiede Luc.

Annuisco. «Lui e Astrid stanno insieme».

«A lui di certo non piaccio», mi dice Luc con un mezzo sorriso.

«È molto protettivo nei confronti di Astrid», spiego. «Lei pensa che la loro relazione soddisfi solo il reciproco bisogno di compagnia, ma non riesce a vedere la profondità dei sentimenti che Peter nutre nei suoi confronti».

Luc mi guarda intensamente. «Me lo immagino».

Io distolgo lo sguardo, sentendomi arrossire. «Lo spettacolo… non mi hai mai detto come ti è sembrato». Mi preparo alle critiche che di certo mi schiacceranno.

«Eri bellissima», mi lusinga e io arrossisco. «Sei stata fantastica». Fa una pausa per un momento, poi aggiunge: «Solo che ero triste per te».

«Triste?». La mia felicità svanisce subito.

«Non ti infastidisce?», chiede. «Tutte quelle persone che ti guardano, voglio dire». Ha un tono preoccupato. Ma c’è anche pietà nella sua voce. «Non sei obbligata a farlo, lo sai», aggiunge.

Non posso spiegargli che sono un’altra persona quando mi trovo sotto i riflettori. In ogni caso, come si permette di giudicarci? «Ho trovato qualcosa in cui sono brava», dico sulla difensiva, incrociando le braccia. «Un modo per prendermi cura di me stessa e di Theo. Non mi aspetto che tu possa capirlo».

All’improvviso il peso di questo momento da sola con lui e di tutte le bugie che ci separano diventa insopportabile. «Devo andare», dico bruscamente. Mi alzo in piedi così in fretta che perdo l’equilibrio, per poco non cado dal solaio.

«Aspetta». Luc mi afferra la gamba per tenermi, il calore del suo braccio passa attraverso il tessuto del mio vestito. Guardo di sotto. L’altezza è risibile rispetto al trapezio, eppure non c’è nessuna rete e sono paralizzata dalla paura. Che cosa ci faccio qui?

Luc mi tira giù sul fieno un’altra volta, più vicino a lui ora. Mi posa una mano sulla guancia. «Noa», dice dolcemente. I nostri volti sono distanti qualche centimetro, sento il suo alito caldo sul labbro superiore. Ondate di confusione turbinano intorno a me. Io gli piaccio; adesso lo so. Non riesco ad andarmene.

Luc mi bacia. Per un secondo, mi irrigidisco. Dovrei dire di no per decine di ragioni diverse: è irrispettoso da parte sua, presuntuoso e troppo affrettato. Astrid direbbe che non dovrei neanche essere qui. Ma le sue labbra sono delicate e dolci di vino. Le sue dita calde mi carezzano la guancia, sembra quasi che mi sollevino da terra. I nostri respiri si fondono. Per un momento sono di nuovo solo una giovane ragazza spensierata. Mi avvicino, spingendo via con decisione il passato mentre mi abbandono a lui.

Quando Luc si tira indietro è senza fiato e mi chiedo se questo sia stato il suo primo vero bacio. Si allunga verso di me di nuovo, desidera di più. Ma io gli metto una mano sul petto, fermandolo.

«Perché io?», chiedo senza mezzi termini.

«Tu sei diversa, Noa. Ho vissuto tutta la vita in questo villaggio con le stesse persone. Le stesse ragazze. Mi fai vedere il mondo con occhi nuovi».

«Non rimarremo qui ancora a lungo», protesto. «E poi ci rimetteremo in marcia. Verso il prossimo paese». Non ha importanza quanto ci piacciamo, io me ne andrò e non c’è niente da fare. Tutto quello che abbiamo è qui e ora.

«Non voglio andarmene», dico senza riflettere, imbarazzata. Sento l’ardore del mio stesso sguardo. Ho perso così tanto in passato: i miei genitori, un figlio. Luc, un ragazzo che conosco appena, non dovrebbe contare nulla per me.

«Non sei obbligata», dice, attirandomi più vicino. «Possiamo fuggire insieme».

Tiro su la testa – devo aver capito male, sicuramente. «È una follia. Ci siamo appena conosciuti».

Lui annuisce con decisione. «Tu vuoi andare via. Anche io. Potremmo aiutarci a vicenda».

«Dove potremmo andare?»

«Nella Francia del Sud», risponde. «Nizza forse, o magari Marsiglia».

Scuoto la testa, ricordando la storia di Astrid sulla sua famiglia e il loro tentativo fallimentare di sfuggire al Reich. «Non è abbastanza lontano per noi. Dovremmo andare ancora più a sud, attraversare i Pirenei e arrivare in Spagna». Noi. Mi fermo, percependo la parola che mi è sfuggita di bocca senza che me ne rendessi conto. «È assolutamente impossibile». Una favola incantevole, una di quelle che potrei inventare per far addormentare Theo. Dei bambini che giocano a vivere un’avventura. Ho sempre avuto il progetto di prendere Theo e andarmene. Ma adesso l’idea di abbandonare tutto è difficile anche solo da immaginare. «Devo andare con il circo nel prossimo paese. Sono in debito con loro».

«Ti troverò», promette arditamente, come se i chilometri e i confini fossero irrilevanti.

«Non sai nemmeno dove andremo», protesto.

In lontananza, la campana della cattedrale suona. Ascolto, allarmata. Nove rintocchi. Si è fatto davvero così tardi?

«Devo andare», dico, spingendolo via con riluttanza.

Lui mi segue giù per la scala a pioli e fuori dal fienile. Nessuno di noi due parla mentre ci facciamo strada attraverso il bosco. Il coprifuoco è già iniziato e in lontananza in paese tutto è serrato e immobile. Mi fermo ai margini del terreno del circo, dietro al treno. Non voglio che qualcuno mi veda con Luc a quest’ora di notte. «È meglio che vada da sola da qui in poi».

«Quando ci rivedremo?», mi incalza lui.

«Non lo so», dico, e il suo volto è il ritratto della delusione. «Voglio vederti», aggiungo frettolosamente. «Solo che è così difficile liberarsi».

«Non abbiamo tanto tempo. Possiamo incontrarci domani notte, dopo lo spettacolo?»

«Forse», dico, incerta. Non so se ci riuscirò. «Ci proverò. Ma se non potessi…». Se solo ci fosse un modo di comunicare. Non ho nessuna possibilità di raggiungerlo. Scruto i campi del circo, riflettendo.

Il mio sguardo si posa sul retro del treno. Al di sotto di ogni carrozza c’è un cassone, ricordo. In alcune carrozze gli operai li usano per tenere gli attrezzi a portata di mano. Apro uno di quelli sotto il vagone letto. È vuoto.

«Qui», dico. «Se non riesco a liberarmi ti lascerò un messaggio». Una cassetta della posta segreta di cui nessun altro sa niente.

«Domani, allora». Mi bacia con passione sfrontata, poi si allontana furtivamente, guardandosi intorno con circospezione per assicurarsi che nessuno lo veda.

Io torno di corsa all’accampamento, senza fiato. Stare con Luc mi dà un’emozione che non avevo mai provato prima. Non era stato così con il soldato. Ora capisco che il tedesco si è approfittato di me, e ha rubato una parte della mia giovinezza che non recupererò mai. Con Luc, però, il passato sembra un brutto sogno, qualcosa che non è mai accaduto. È mai possibile una cosa del genere?

Prima non comprendevo come Astrid potesse amare di nuovo dopo che suo marito l’aveva cacciata via. Adesso mi sembra di avere una seconda possibilità anche io. Improvvisamente tutto quello che mi è successo acquista un senso. Un tempo sognavo di non avere mai incontrato il tedesco. Ma se non fosse stato così non avrei mai trovato Theo, non sarei mai arrivata qui e non avrei mai conosciuto Luc.

Come mi piacerebbe poterne parlare con Astrid. Nei suoi rari momenti di gentilezza è quasi come una sorella maggiore e io so per certo che potrebbe aiutarmi a guardare tutto in prospettiva. Non passerà mai sopra alla questione del padre, però, e non capirà mai chi è veramente Luc.

Appena raggiungo la porta del vagone, vedo Elsie. Il suo viso è pallido e stravolto dalla preoccupazione.

«Grazie al cielo sei qui». Sono ancora irritata con lei per aver lasciato che Theo si avvicinasse tanto agli animali. La supero ed entro nella carrozza. Ma il posto in cui Theo dorme sempre al mio fianco è vuoto un’altra volta, e Astrid non si vede da nessuna parte.

Mi si ghiaccia il sangue. «Cosa succede? Che c’è che non va?»

«Theo. Sta male e ha bisogno di aiuto».