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Astrid

Una maniglia che gira cigolando, mani che spingono sul legno massiccio. All’inizio, mi sembrano parte di un sogno che non riesco a capire bene.

I suoni arrivano di nuovo, però, più forti questa volta, seguiti dal raschiare di una porta che si apre. Con grande sforzo mi metto a sedere. Il terrore mi attraversa come una lama. Sono tornata da quindici mesi e le ispezioni sono sempre arrivate senza preavviso, a opera della Gestapo o della polizia locale che esegue fedelmente tutti i suoi ordini. Non mi hanno ancora notata, né mi hanno chiesto l’ausweis che mi ha rimediato Herr Neuhoff – il documento identificativo che, temo, servirà a ben poco. La mia reputazione di artista circense è una benedizione e una maledizione a Darmstadt: mi dà le risorse per sopravvivere ma allo stesso tempo rende fragile la mia falsa identità, un velo sottile che rischia di volare via in ogni momento. Quando gli ispettori arrivano io sparisco sul fondo di uno dei carri coperti dai teloni, o se non c’è tempo, nel bosco. Ma il piccolo alloggio di Peter ha una sola porta, senza scantinato. Sono in trappola qui dentro.

Una profonda voce maschile fende l’oscurità. «Sono io, tranquilla». Le mani di Peter, che in questi mesi ho sentito così spesso durante la notte e che mi distolgono da sogni del passato che non voglio lasciar andare, mi massaggiano dolcemente la schiena. «C’era qualcuno nella foresta».

Mi giro. «Chi l’ha trovato? Tu?», chiedo. Peter non dorme praticamente mai, di notte passeggia, aggirandosi per la campagna come un coyote irrequieto anche in pieno inverno. Allungo la mano per sfiorargli la guancia ispida, noto con preoccupazione le occhiaie nere, sempre più profonde. «Ero giù vicino al ruscello», risponde. «Pensavo fosse un animale ferito».

Le vocali di Peter sono super-arrotondate, alcune consonanti si confondono. Il suo accento russo non si è diluito con il passare del tempo, come se non avesse lasciato Leningrado anni fa ma solo da qualche settimana.

«Quindi naturalmente ti sei avvicinato», dico, in tono di rimprovero. Io me ne sarei andata senza pensarci su due volte.

«Sì». Mi aiuta ad alzarmi. «Non erano coscienti così li ho portati qui». Sento una vaga traccia di liquore nel suo alito, deve aver bevuto di recente.

«Non erano?», ripeto, stupita dal plurale.

«Una donna». Una punta di gelosia mi attraversa al pensiero di lui che tiene un’altra tra le braccia. «C’era anche un bambino». Tira fuori dalla tasca una sigaretta fatta a mano.

Una donna e un bambino, da soli nel bosco di notte. È una cosa bizzarra anche per il circo. E non può venire niente di buono da avvenimenti strani – o da stranieri.

Mi vesto in fretta e indosso il cappotto. Sotto al bavero sento il ruvido contorno del filo strappato nel punto in cui un tempo era cucita la stella gialla. Seguo Peter fuori nella gelida oscurità, piegando il mento contro il vento sferzante. La sua villetta fa parte di un gruppetto di sei abitazioni disseminate per la valle, in lieve pendenza. Sono alloggi privati riservati agli artisti con più anzianità ed esperienza. Ufficialmente io risiedo nel lodge, un lungo edificio un po’ in disparte rispetto agli altri in cui dorme la maggior parte delle ragazze, però ben presto fermarmi da Peter è diventata la norma. Faccio avanti e indietro di notte e prima dell’alba appena ne ho l’opportunità.

Quando sono tornata a Darmstadt, ero intenzionata a restare solo il tempo sufficiente perché Herr Neuhoff trovasse un’altra acrobata e io capissi cosa fare. Ma l’accordo ha funzionato, e mentre mi preparavo a unirmi al circo per quel primo anno, pian piano i propositi di andarmene sono scemati. Poi ho conosciuto Peter, che si era unito al Circo Neuhoff nel periodo in cui ero lontana. Lui è un clown, anche se è ben diverso dal classico buffone che si immaginano i profani. Le sue esibizioni sono originali ed elaborate e combinano commedia, satira e ironia con una sapienza artistica che è del tutto nuova persino per me.

Non mi aspettavo di stare di nuovo insieme a qualcuno, ancora meno di innamorarmi. Peter ha una decina d’anni più di me, ed è diverso dagli altri artisti. Proviene dall’aristocrazia russa, quando c’era ancora; qualcuno dice che è il cugino dello zar Nicola. In un’altra vita non ci saremmo mai incontrati. Ma il circo è una grande livella; la classe o la razza o la storia personale non hanno importanza, siamo tutti uguali qui, veniamo giudicati in base al nostro talento. Peter ha combattuto nella Grande Guerra. Non ha riportato ferite gravi, almeno nessuna visibile, ma gli è rimasta dentro una sorta di malinconia che suggerisce che non si sia mai ripreso del tutto. La sua tristezza rispecchia la mia. Ci siamo sentiti subito attratti l’uno dall’altra.

Mi avvio verso il lodge delle donne. Peter scuote la testa e mi guida in un’altra direzione. «Lassù». La punta della sua sigaretta brucia rossa come una torcia quando aspira.

I nuovi arrivati sono alla villa di Herr Neuhoff – un’altra cosa piuttosto insolita. «Non possono rimanere», sussurro, nonostante non ci sia nessun altro in giro.

«Certo che no», risponde Peter. «È solo un riparo temporaneo per non farli morire nella tormenta». La sua ombra si staglia su di me. È un uomo malinconico, una caratteristica a dir poco improbabile in un grande clown. E c’è dell’altro. Un giorno mi ha raccontato che la prima volta che aveva provato a unirsi a un circo lo avevano mandato via, dicendo che era troppo alto per fare il clown. Così aveva fatto pratica in un teatro a Kiev, sviluppando un personaggio ironico che si adattava al suo fisico spigoloso e alle sue gambe lunghe, e poi era passato da un circo all’altro, costruendosi una solida fama. Le pagliacciate di Peter, che spesso mostrano uno spassoso sprezzo per le autorità, sono molto conosciute. Negli anni della guerra, le esibizioni sempre più caustiche sono diventate la norma per lui e il suo odio per la guerra e il fascismo si è fatto meno velato. La sua reputazione di irriverente provocatore è cresciuta, così come il suo pubblico.

Peter apre la porta della villa. Da quando sono tornata ci sono entrata solo per la festa che Herr Neuhoff offre a tutto il circo ogni dicembre in occasione delle vacanze, e poi qualche altra rara volta. Ci infiliamo dentro senza bussare. Da sopra le scale Herr Neuhoff ci fa segno di raggiungerlo. In una delle stanze degli ospiti una ragazza con lunghi capelli biondi dorme in un letto a baldacchino di mogano. La sua pelle pallida è quasi trasparente contro le lenzuola bordeaux.

Sul basso tavolo di fianco a lei, un bimbo è disteso in una culla di fortuna, ricavata da un cesto di vimini. Mosè sul Nilo, che ci osserva con occhi scuri e curiosi. Il bambino non può avere più di qualche mese, suppongo, sebbene io non abbia alcuna esperienza di cose del genere. Ha lunghe ciglia e guance tonde come se ne vedono di rado in questi tempi di privazioni. Bello – ma non lo sono tutti a quell’età?

Herr Neuhoff indica il bambino con un cenno del capo. «Prima di perdere i sensi, la ragazza ha detto che è suo fratello».

Un maschio. «Da dove arrivano?», chiedo. Herr Neuhoff si limita ad alzare le spalle.

La ragazza dorme profondamente. Con la coscienza pulita, avrebbe detto mia madre. Ha folte trecce bionde, sembra uscita da un racconto di Hans Christian Andersen. Potrebbe essere una della Bund Deutscher Mädel, la Lega delle Ragazze Tedesche: giovani che camminano impettite lungo Alexanderplatz a braccetto, cantando spregevoli canzoni patriottiche e inneggiando all’uccisione degli ebrei. Peter mi ha detto che era una donna, ma non può avere più di diciassette anni. Mi sento così vecchia e stanca al confronto.

La ragazza si muove. Le sue braccia si distendono, in cerca del bimbo con un gesto che riconosco fin troppo bene nei miei sogni. Poi percependo il vuoto, comincia ad agitarsi.

Osservo la sua disperazione e subito delle parole precise mi attraversano la testa: non c’è alcuna possibilità che sia suo fratello.

Herr Neuhoff solleva il bambino e lo posa tra le braccia della giovane, che si calma all’istante. «Waar ben ik?». Olandese. Sbatte le palpebre, poi ripete la domanda in tedesco. «Dove sono?». La sua voce è flebile, esitante.

«Darmstadt», risponde Herr Neuhoff. È evidente che questo nome non le dice nulla. Non è di queste parti. «Ti trovi con il Circo Neuhoff».

Sbatte le palpebre. «Un circo». A noi sembra una cosa perfettamente normale – del resto per più di metà della mia vita non ho conosciuto nient’altro – ma per lei sarà di sicuro un’assurdità, come se fosse finita in una storiella di fantasia, circondata da fenomeni da baraccone. Mi irrigidisco, in un istante regredisco alla ragazzina sulla difensiva che fronteggiava sguardi ostili nel cortile della scuola. La sbatto fuori nella neve se crede di essere meglio di noi.

«Quanti anni hai, ragazzina?», chiede dolcemente Herr Neuhoff.

«Ne compio diciassette il mese prossimo. Sono fuggita da casa di mio padre», spiega, il suo tedesco è più fluente ora. «Mi chiamo Noa Weil e lui è mio fratello». Parla troppo velocemente, risponde a domande che nessuno le ha posto.

«Come si chiama?», chiedo.

Un attimo di esitazione. «Theo. Veniamo dalla costa olandese», dice dopo un’altra pausa. «Le cose andavano molto male. Mio padre beveva e ci picchiava. Mia madre è morta di parto. Così ho preso mio fratello e ce ne siamo andati». Cosa ci fa qui, a centinaia di chilometri da casa? Nessuno fuggirebbe dall’Olanda per venire in Germania adesso. La sua storia non ha senso. Attendo che Herr Neuhoff le chieda se ha i documenti.

La ragazza studia il viso del bambino con occhi inquieti. «Sta bene?»

«Sì, ha mangiato a sazietà prima di addormentarsi», la rassicura Herr Neuhoff.

La ragazza corruga le sopracciglia. «Ha mangiato?»

«Ha bevuto, per la precisione», si corregge Herr Neuhoff. «Il nostro cuoco gli ha dato un po’ di latte con miele e zucchero». Come mai è così sorpresa? Saprebbe senz’altro di cosa stiamo parlando se fosse abituata a prendersi cura del bambino.

Faccio un passo indietro verso Peter, che si è accomodato su una sedia accanto alla porta. «Sta mentendo», dico a bassa voce. Probabilmente questa sciocca si è fatta mettere incinta da qualcuno. Ma di certe cose non si parla.

Peter alza le spalle con noncuranza. «Deve avere le sue ragioni per scappare. Tutti le abbiamo».

«Sei la benvenuta se vuoi rimanere», dice Herr Neuhoff. Lo fisso esterrefatta. Che cosa gli passa per la testa? Lui continua: «Dovrai lavorare, ovviamente, quando ti sarai rimessa».

«Ovviamente». La ragazza si tira su a sedere, si irrigidisce, sembra offesa, come se volesse puntualizzare che non si aspetta proprio alcuna carità. «Posso pulire e cucinare». Mi viene da ridere per la sua ingenuità. Me la immagino in cucina che prepara frittelle e pela patate per centinaia di persone.

Herr Neuhoff agita la mano. «Abbiamo già cuochi e addetti alle pulizie. No, basta guardarti per capire che sarebbe uno spreco. Voglio che tu ti esibisca». Peter mi lancia uno sguardo interdetto. I nuovi artisti vengono reclutati in giro per l’Europa e oltre; i posti vengono assegnati dopo una serrata competizione. La lotta è dura, solo chi ha spalle larghe e ha passato una vita intera ad allenarsi può sperare di farcela. Il talento non si trova semplicemente per strada – o nella foresta. Herr Neuhoff lo sa. Si gira verso di me. «Hai bisogno di una nuova acrobata aerea, giusto?». Dietro di lui, la ragazza spalanca gli occhi.

Esito. Un tempo lo spettacolo avrebbe potuto contare su una dozzina di acrobati aerei e anche più, che si lanciavano uno dietro l’altro in volteggi alle parallele e salti mortali a mezz’aria. Ma siamo solo in tre ora e da quando sono tornata mi limito soprattutto alla corde lisse e alla corda spagnola. «È vero, ma non si è mai esibita. Non posso certo insegnarle il trapezio volante così in quattro e quattr’otto. Forse può andare a cavallo o vendere il programma». Ci sono dozzine di lavori più facili. Perché Herr Neuhoff pensa che possa esibirsi? Di solito riesco a riconoscere un talento a chilometri di distanza. In lei invece non vedo niente. Herr Neuhoff sta cercando di trasformare un anatroccolo in un cigno e un piano del genere non può che andare incontro al fallimento.

«Non abbiamo tempo di trovare un’altra acrobata prima di metterci in viaggio», risponde. «Lei ha il fisico e il volto giusti. Abbiamo quasi sei settimane prima di partire per il tour». Non mi guarda negli occhi mentre parla. Sei settimane sono un battito di ciglia paragonate alle dure vite di allenamento che il resto di noi si porta sulle spalle. Mi sta chiedendo di compiere l’impossibile e lo sa.

«È troppo grossa», dico, valutando il suo corpo con occhio critico. Anche sotto al piumone, è pienotto intorno ai fianchi e alle cosce. È una ragazza debole e fragile, con un’innocenza che suggerisce che non abbia mai conosciuto il duro lavoro. Non sarebbe sopravvissuta alla notte nella neve se Peter non l’avesse trovata. E non arriverà alla fine della settimana qui.

Sento il rumore di qualcuno che trascina i piedi, mi giro. Il figlio di Herr Neuhoff, Emmet, ci osserva sulla soglia, la sua bocca grassoccia è arricciata in una smorfia mentre assiste al nostro battibecco. È sempre stato un bambino strano, faceva scherzi di cattivo gusto e si metteva nei guai di continuo. «Non vuoi che lei ti metta in ombra, non è vero?», sogghigna guardandomi.

Mi volto, ignorandolo. La ragazza è più graziosa di me, devo ammetterlo. Passo in rassegna le sue fattezze e le metto a confronto con le mie, come fanno tutte le donne. Ma il suo bell’aspetto non le sarà di alcun aiuto qui. Quello che conta nel circo sono il talento e l’esperienza – e lei non ha nessuno dei due.

«Non può rimanere», dice Peter dalla sua sedia. La potenza della sua voce mi fa fare un salto. Herr Neuhoff è un uomo gentile, ma è il suo circo e neppure gli artisti celebri come Peter osano contraddirlo apertamente. «Voglio dire, quando si sarà rimessa se ne dovrà andare», chiarisce.

«Dove?», domanda Herr Neuhoff.

«Non lo so», ammette Peter. «Ma come può restare? Una ragazzina con un bimbo… la gente si metterà a fare domande». Sta pensando a me, agli ulteriori sospetti e ai pericoli che i nuovi arrivati potrebbero portare. Anche se la gente del circo conosce bene la mia identità e il mio passato, con gli estranei siamo riusciti a tenere in piedi la messinscena – almeno finora. «Non possiamo rischiare di attirare l’attenzione».

«Non sarà un problema se fa parte del nostro spettacolo», replica Herr Neuhoff. «Gli artisti si uniscono ai circhi di continuo».

Lo facevano un tempo, lo correggo nella mia testa. Nel corso degli anni era capitato spesso che nuovi artisti entrassero a far parte del circo – una volta avevamo avuto un addestratore serbo, un’altra un giocoliere dalla Cina. Ma tutto è cambiato negli ultimi tempi. In questo periodo semplicemente non c’è abbastanza denaro per portare avanti più numeri.

«Una cugina che viene da uno degli altri circhi», suggerisce Herr Neuhoff, spiegando il suo piano. Certo, i nostri artisti non se la berrebbero, ma questa storia potrebbe soddisfare la curiosità dei lavoratori stagionali. «Se la ragazza sarà già pronta a esibirsi, a quel punto nessuno ci farà caso», aggiunge. È vero che gli spettatori non vi presterebbero alcuna attenzione; vengono fedelmente ogni anno, ma non si interessano alla persona che sta dietro l’esibizione.

«È molto gentile da parte sua offrirmi un posto», interviene la ragazza. Si sforza di tirarsi su dal letto senza lasciar andare il bimbo, ma quel semplice gesto è troppo faticoso per lei, rimane senza fiato e si appoggia indietro un’altra volta. «Ma non vorremmo esservi di peso. Ci basta un po’ di riposo; quando il tempo migliorerà proseguiremo per la nostra strada». Riesco a vedere il panico nei suoi occhi. Non hanno nessun posto dove andare.

Ancora più sicura di me, mi giro verso Herr Neuhoff. «Lo vedi, non ce la può fare».

«Non ho detto questo». La ragazza si raddrizza di nuovo, sollevando il mento. «Sono una grande lavoratrice e sono sicura di essere in grado di esibirmi con un allenamento sufficiente». D’improvviso sembra ansiosa di mettersi alla prova. Eppure un minuto fa non voleva neanche tentare! Riconosco in lei la mia stessa audacia. Mi chiedo se abbia la minima idea di cosa l’attende.

«Ma non c’è alcuna possibilità che sia pronta», ripeto, mentre cerco un altro argomento che possa convincere Herr Neuhoff ad abbandonare la sua idea.

«Ce la puoi fare, Astrid». C’è una nuova determinazione nelle sue parole. Non è un ordine ma gli assomiglia molto. Vuole imporsi, più che convincermi. «Tu hai trovato un rifugio qui. Devi fare quello che ti chiedo». I suoi occhi ardenti mi bruciano l’anima. Dunque è così che dovrò ripagare il mio debito. L’intero circo ha messo a rischio se stesso per nascondermi, ora devo fare la stessa cosa per questa estranea. L’espressione di Herr Neuhoff si addolcisce. «Due innocenti. Se non li aiutiamo, moriranno sicuramente. Non voglio questa responsabilità». Non può mandare via la ragazza e il bimbo, proprio come non ha mandato via me.

I miei occhi incontrano quelli di Peter. Apre la bocca per protestare, vorrebbe sottolineare ancora una volta che stiamo mettendo a rischio ogni cosa. Ma poi rinuncia. Sa, come lo so io, che è perfettamente inutile trascinare più in là la discussione.

«Va bene», dico alla fine. Ma c’è un limite a quello che Herr Neuhoff può chiedermi. «Sei settimane», dico. «Cercherò di fare in modo che sia pronta per il momento in cui ci mettiamo in viaggio. E se non sarà così, allora dovrà andarsene». Non l’ho mai sfidato così apertamente, e per un istante è come se fossimo di nuovo alla pari. Ma quei tempi sono andati ormai. Sorreggo il suo sguardo, mi costringo a non battere ciglio.

«D’accordo», cede, con mia grande sorpresa.

«Cominciamo domani all’alba», dichiaro. Sei settimane o sei anni, non fa alcuna differenza – non sarà in grado di farcela in ogni caso. La ragazza mi guarda e io aspetto che protesti in qualche modo. Ma rimane in silenzio, un accenno di gratitudine nei suoi occhi enormi e pieni di paura.

«Ma era quasi congelata», protesta Herr Neuhoff. «È esausta. Ha bisogno di tempo per riprendersi».

«Domani», insisto. La ragazza fallirà e così avremo chiuso con lei.