12
Alle quattro e mezzo, sebbene fosse un po' presto per un aperitivo, Wesley e io andammo al Red Sage. Il fatto è che non ci sentivamo per niente in forma.
Trovandoci nuovamente soli, però, notai che mi era difficile guardarlo negli occhi, e dentro di me speravo fosse lui a parlare per primo di quello che era accaduto fra noi qualche notte addietro. Non volevo pensare di essere l'unica a dare importanza alla cosa.
«Se ti piace la birra» disse Wesley, mentre io studiavo il menu, «qui ne hanno un'ottima qualità alla spina.»
«Bevo birra solo in piena estate, dopo aver lavorato come un mulo per almeno due ore, quando muoio di sete e di voglia di pizza» risposi, leggermente offesa dal fatto che non sembrava conoscere questo lato di me. «In realtà la birra non mi piace e non mi è mai piaciuta. La bevo solo se proprio non c'è nient'altro, e anche così non la trovo affatto buona.»
«Be', non capisco perché ti arrabbi tanto.»
«Non sono arrabbiata.»
«Però dai l'impressione di esserlo. E poi non mi guardi in faccia.»
«Va tutto bene.»
«Kay, studiare la gente è il mio mestiere, e ti posso garantire che non va affatto tutto bene.»
«Studiare gli psicopatici, ecco qual è il tuo mestiere» ribattei. «Certo non ti occupi di donne capo medico legale che vivono nel pieno rispetto della legge e hanno semplicemente voglia di rilassarsi dopo una lunga e intensa giornata di riflessioni su bambini assassinati.»
«Trovare un posto in questo ristorante non è per niente facile.»
«Mi rendo conto. Grazie mille per la fatica.»
«Ho dovuto esercitare qualche pressione.»
«Non ho dubbi.»
«Allora, vino per cena. Sono sorpreso che abbiano l'Opus One. Forse ti farà sentire meglio.»
«Costa troppo e assomiglia a un Bordeaux, un po' pesantino a stomaco vuoto. Ma non avevo capito che avremmo cenato qui. Il mio aereo riparte fra meno di due ore. Credo che mi accontenterò di un bicchiere di Cabernet.»
«Come preferisci.»
In quel momento non sapevo affatto cosa preferivo, né cosa volevo.
«Domani tornerò ad Asheville» continuò Wesley. «Se tu volessi fermarti stanotte, potremmo ripartire insieme.»
«Perché ci ritorni?»
«Avevano già chiesto il nostro intervento prima che Ferguson morisse e Mote fosse colpito da infarto. La polizia di Black Mountain non sa che pesci pigliare e si trova in una situazione di emergenza. Io mi sono impegnato a fare tutto il possibile per aiutarla: e se scoprirò che è necessario mobilitare altri agenti, non mi tirerò certo indietro.»
Wesley aveva l'abitudine di farsi sempre dire il nome del cameriere e di usarlo per tutta la durata del pranzo; quel pomeriggio avevamo a che fare con uno Stan, e mentre discutevano insieme di vini fu un vero tripudio di Stan qui e Stan là. Sebbene fosse l'unica debolezza, la sola affettazione nel modo di fare di Benton, in quel momento la cosa mi irritava particolarmente.
«Sai, questo non significa che lui senta di avere un reale rapporto con te. Anzi, mi sembra un atteggiamento un po' condiscendente.»
«Che cosa?» Non capiva proprio di cosa stessi parlando.
«Il fatto che lo chiami per nome. Continuamente, intendo dire.»
Mi fissò.
«Non ti sto facendo una critica» insistetti, peggiorando la situazione. «Te lo dico da amica, visto che non lo fa nessun altro. Credo sia giusto che tu lo sappia. Insomma, un amico può permettersi di essere onesto, no? Un vero amico.»
«Hai finito?»
«Be', sì» dissi con un sorrisetto forzato.
«Adesso vuoi dirmi cosa ti agita, o preferisci che tiri eroicamente a indovinare?»
«Non c'è proprio niente che mi agita» ripresi, mettendomi a piangere.
«Santo cielo, Kay.» Mi offrì il suo tovagliolo.
«Ho il mio.» Mi tamponai gli occhi.
«È per l'altra notte, vero?»
«Forse faresti meglio a dirmi quale altra notte. Forse tu di altre notti ne hai finché ne vuoi.»
Vidi che cercava di reprimere una risata senza però riuscirci. Per qualche minuto non ci scambiammo una parola, lui che rideva e io a metà tra il riso e il pianto.
Stan il cameriere tornò portandoci quello che avevamo ordinato, e prima di riprendere a parlare bevvi una lunga sorsata d'incoraggiamento.
«Senti» dissi infine, «mi dispiace. Ma sono stanca, questo è un caso orribile, Marino e io non andiamo d'accordo e Lucy è nei guai.»
«Ce n'è abbastanza per far piangere chiunque» commentò Wesley, ma si vedeva che il fatto di essere stato escluso dalla lista lo rattristava. E quella fu la mia perfida rivincita.
«Comunque, sì, sono agitata per quanto è successo nel North Carolina» aggiunsi a quel punto.
«Sei pentita?»
«A che serve metterla su questo piano?»
«Mi farebbe bene sapere che non è così.»
«Non posso dirlo» risposi.
«Allora sei pentita.»
«No.»
«Allora non sei pentita.»
«Oh, maledizione, Benton, lascia perdere.»
«Neanche per sogno» ribatté lui. «C'ero anch'io.»
«Scusa?» chiesi con aria interrogativa.
«La notte in cui è successo, ricordi? In realtà era mattina presto. Per farlo bisogna essere in due, Kay. Io c'ero. Non sei stata l'unica a ripensarci per tutti questi giorni. Perché non mi chiedi se io me ne sono pentito?»
«No» dissi. «Perché tu sei sposato.»
«Se ho commesso adulterio, l'hai commesso anche tu. Le cose si fanno in due» ripeté.
«Il mio aereo parte tra un'ora. Devo andare.»
«Avresti dovuto pensarci prima di iniziare questa conversazione. Non puoi prendere e andartene via così proprio adesso.»
«Invece sì.»
«Kay?» Mi guardò negli occhi, abbassando la voce. Poi allungò un braccio attraverso il tavolo e mi prese la mano.
Quella notte presi una stanza al Willard. Wesley e io chiacchierammo a lungo, risolvendo la questione abbastanza da riuscire a razionalizzare il ripetersi dell'evento peccaminoso. Quando il mattino seguente uscimmo dall'ascensore nell'atrio, eravamo molto cauti e gentili l'uno con l'altra, come se ci fossimo appena conosciuti ma avessimo già molto in comune. Prendemmo un taxi fino al National Airport e un aereo per Charlotte, dove feci una telefonata di un'ora con Lucy. «Sì» confermai, «ti sto cercando qualcuno. Anzi, ho già mosso qualche passo» le dissi nella sala dell'USAir Club.
«Devo fare subito qualcosa» mi ripeté lei.
«Ti prego, cerca di essere paziente.»
«No. Io so chi mi sta facendo tutto questo e devo trovare una soluzione.»
«Chi?» domandai, allarmata.
«Quando verrà il momento, lo saprai.»
«Lucy, per favore, chi ti ha fatto che cosa? Ti prego, dimmi di cosa stai parlando.»
«Adesso non posso. Prima devo agire. Quando torni?»
«Non lo so. Ti chiamerò da Asheville non appena avrò tastato il polso della situazione.»
«Allora posso usare la tua macchina?»
«Certo.»
«Tu non ne avrai bisogno per almeno un paio di giorni, giusto?»
«Non credo. Mi dici che cos'hai in mente?» Ero sempre più allarmata.
«Potrei dover fare un salto a Quantico, e in quel caso volevo essere sicura che non ti dispiacesse.»
«No, non mi dispiace» risposi. «Però stai attenta, Lucy, per favore. E l'unica cosa che mi importa.»
L'aereo era un modello a elica, troppo rumoroso per consentire qualsiasi conversazione, così Wesley dormì e io me ne restai tranquillamente seduta a occhi chiusi, mentre il sole che penetrava dall'oblò mi infuocava l'interno delle palpebre. Lasciai vagare ì miei pensieri e da oscuri angoli della memoria riemersero immagini ormai dimenticate. Vidi mio padre e l'anello d'oro bianco che portava all'anulare sinistro al posto della fede nuziale, che aveva perso sulla spiaggia e non si era potuto permettere di ricomprare.
Mio padre non aveva mai frequentato il college, e ricordavo di avere sempre sperato che la pietra rossa incastonata nel suo anello del liceo fosse un rubino vero. Eravamo così poveri che pensavo che forse l'avremmo potuta vendere e vivere meglio. Rammentavo ancora la delusione cocente provata quando alla fine lui mi rivelò che non ci avrebbe fruttato nemmeno abbastanza benzina per arrivare dall'altra parte della città. Dal modo in cui lo disse, capii che la fede non era andata veramente persa.
L'aveva venduta in un momento di disperazione, ma confessarlo alla mamma sarebbe equivalso a distruggerla. Erano molti anni che non ripensavo a quella storia e immaginavo che mia madre conservasse ancora l'anello, a meno che non lo avesse sepolto con lui, e probabilmente era così. La memoria non mi poteva aiutare, in quel caso, perché quando mio padre morì io avevo solo dodici anni.
Entrando e uscendo dai ricordi, assistetti a una silenziosa parata di persone che apparivano semplicemente senza essere state invitate. Un'esperienza davvero singolare. Per esempio, non capivo per quale motivo suor Martha, la mia maestra di terza elementare, dovesse comparirmi all'improvviso nell'atto di scrivere col gesso sulla lavagna; o perché una ragazzina di nome Jennifer dovesse uscire da una porta mentre dei chicchi di grandine rimbalzavano nel cortile della chiesa come una pioggia di milioni di biglie bianche.
La processione svanì mentre scivolavo sempre più nel sonno, ma un'ondata di malinconico dolore si sollevò, restituendomi la consapevolezza del braccio di Wesley. ci stavamo sfiorando. Quando mi concentrai sul punto di contatto preciso, sentii l'odore della sua giacca di lana riscaldata dal sole e immaginai lunghe dita affusolate, pianoforti, penne stilografiche e calici da brandy vicino a un caminetto acceso.
Credo fu proprio allora che capii di essere innamorata di Benton. E, poiché avevo perso tutti gli uomini che avevo amato prima di lui, evitai di aprire gli occhi fino a quando l'assistente di volo ci pregò di raddrizzare i sedili e di prepararci all'atterraggio.
«Verrà a prenderci qualcuno?» gli chiesi, come se quello fosse stato il mio unico pensiero durante tutta l'ora di viaggio.
Mi guardò per un lungo momento. In condizioni di luce particolari, i suoi occhi avevano il colore della birra in bottiglia; poi, quando l'ombra delle preoccupazioni tornava a velarli, diventavano nocciola a macchioline dorate, e quando il peso dei pensieri si faceva addirittura insopportabile, semplicemente distoglieva lo sguardo.
«Immagino che torneremo al Travel-Eze» dissi poi, mentre lui prendeva la valigetta portadocumenti e si slacciava la cintura prima del dovuto. L'assistente fece finta di non vedere: Wesley era in uno dei momenti in cui emetteva segnali capaci di mettere a disagio chiunque.
«Hai parlato a lungo con Lucy, a Charlotte» commentò.
«Sì.» Superammo un manicotto segnavento floscio e malinconico.
«Allora?» Si girò verso il finestrino, e i suoi occhi tornarono a riempirsi di luce.
«Allora pensa di sapere chi c'è dietro a tutta la faccenda.»
«Cosa significa chi c'è dietro?» Aggrottò le sopracciglia.
«Credo che il senso della frase sia abbastanza chiaro» ribattei. «A meno che tu non ritenga che non possa esserci dietro nessuno perché la vera colpevole è lei.»
«La sua impronta è stata rilevata alle tre di notte, Kay.»
«Su questo non c'è dubbio.»
«E un'altra cosa su cui non c'è alcun dubbio è che l'impronta non potrebbe essere stata rilevata se sullo scanner non si fosse fisicamente appoggiato il suo pollice, il che certamente necessitava della sua intera presenza fisica all'ora registrata dal computer.»
«Lo so, così sembrerebbe» dissi.
Inforcò gli occhiali da sole e ci alzammo. «E io sono qui per ricordartelo» mi bisbigliò all'orecchio, seguendomi nel corridoio tra i sedili.
Ad Asheville ci saremmo potuti trasferire in qualche albergo più lussuoso del Travel-Eze, ma dovevamo incontrarci con Marino al Coach House, un ristorante inspiegabilmente famoso, e la questione dell'alloggio passò in secondo piano.
Una strana sensazione mi assalì non appena l'agente di Black Mountain venuto a prenderci in aeroporto ci ebbe scaricati nel parcheggio del ristorante e se ne fu andato senza aprire bocca. La Chevrolet superaccessoriata di Marino era vicina all'ingresso e lui se ne stava seduto a un tavolo d'angolo come cercano sempre di fare coloro che hanno avuto guai con la legge.
Quando entrammo non si alzò per accoglierci, ma ci guardò indifferente continuando a mescolare con un cucchiaio il tè freddo che aveva nel bicchiere. Sì, avevo proprio la sensazione che lui, il Marino con cui lavoravo da anni, l'onesto e semplice nemico dei potentati e del protocollo, ci avesse a nostra insaputa convocati per una riunione. I modi freddi e cauti di Benton mi dicevano che anche lui aveva notato la stranezza della situazione. Tanto per cominciare, Marino indossava un abito scuro nuovo di zecca.
«Pete» lo salutò Wesley, prendendo una sedia.
«Ciao» gli feci eco io, prendendone un'altra.
«Fanno dell'ottimo pollo fritto» esordì lui, distogliendo lo sguardo. «Ma se preferite qualcosa di più leggero, ci sono le insalate dello chef» aggiunse, probabilmente a mio esclusivo beneficio.
La cameriera ci riempì i bicchieri d'acqua, distribuì i menu e recitò macchinalmente l'elenco dei piatti del giorno prima ancora che avessimo il tempo di dire una parola. Quando se ne andò con i nostri svogliati ordini, la tensione intorno al tavolo era insopportabile.
«Abbiamo parecchie informazioni che penso troverai interessanti» iniziò Wesley. «Ma, prima, perché non ci aggiorni tu?»
Marino, triste come non l'avevo mai visto, prese il bicchiere di tè freddo e lo riappoggiò senza berne nemmeno un sorso. Si palpò la tasca della giacca, in cerca delle sigarette, poi raccolse il pacchetto che era già sul tavolo. Non disse una parola finché non se ne fu accesa una, e il fatto che continuasse a evitare i nostri sguardi mi inquietava. Si comportava come se fossimo dei perfetti sconosciuti, e ogni volta che in passato mi ero trovata in circostanze analoghe con qualcuno c'era sempre qualche brutto guaio in vista, Marino aveva chiuso le finestre affacciate sulla sua anima per impedirci di vedere cosa si agitava dentro.
«La questione principale, in questo momento» esordì finalmente, sbuffando una nuvola di fumo e scrollando la cenere con fare nervoso, «riguarda il bidello della scuola di Emily Steiner. Si chiama Creed Lindsey, maschio, razza bianca, trentaquattro anni, da due bidello della scuola elementare.
«In passato è stato custode della biblioteca pubblica di Black Mountain, e prima ancora bidello in una scuola elementare di Weaverville. E potrei aggiungere che, nel periodo in cui lavorava a Weaverville, un ragazzino di dieci anni fu investito da una macchina che poi si dileguò. Dissero che forse Lindsey era coinvolto...»
«Un momento» si intromise Wesley.
«Un investimento con omissione di soccorso?» esclamai io. «Cosa significa "forse era coinvolto"?»
«Aspetta, aspetta» disse Wesley. «Tu hai parlato con questo Lindsey?» Lanciò un'occhiata a Marino, che subito guardò altrove.
«Ci stavo appunto arrivando. Quell'idiota è scomparso. Appena gli è giunta voce che volevamo parlargli, e che il cielo mi maledica se so chi diavolo ha aperto bocca, puf, era già sparito. Non si è presentato al lavoro e non è tornato a casa.»
Accese un'altra sigaretta. Quando la cameriera comparve all'improvviso dietro di lui portando ancora del tè, Marino le annuì con aria complice, come fosse un cliente abituale del ristorante e le avesse sempre lasciato ottime mance.
«Racconta dell'incidente» dissi.
«Quattro anni fa, a novembre, un ragazzino di dieci anni mentre sta andando in bicicletta viene investito da uno stronzo che esce da una curva viaggiando al centro della strada. La vittima muore sul colpo, e tutto quello che la polizia riesce a scoprire è che, più o meno all'ora dell'incidente, nella zona c'era un pick-up bianco che circolava a velocità sostenuta. Ah, e sui jeans del ragazzo trovano tracce di vernice bianca.
«Ora, Creed Lindsey ha un vecchio pick-up bianco, marca Ford, e spesso percorre la strada dov'è avvenuto l'incidente. Inoltre, nei giorni di paga la fa per andare al negozio dei liquori, e guarda caso quando il ragazzo viene investito si tratta proprio di un giorno di paga.»
I suoi occhi non stavano fermi un istante, comunicando anche a noi un profondo senso di agitazione.
«Ma quando i poliziotti lo vanno a cercare per interrogarlo, puf, lui è sparito» continuò Marino. «Non si fa vedere per ben cinque settimane, dopodiché racconta di essere stato a trovare qualche parente malato o un'altra stronzata del genere. Nel frattempo, il pick-up è diventato azzurro. Tutti sanno che è stato quel figlio di puttana, ma nessuno ha le prove.»
«Okay.» Il tono imperioso di Wesley ordinò a Marino di fermarsi. «Tutto ciò è molto interessante, e forse questo bidello era coinvolto nell'incidente. Ma dove vuoi arrivare con questa storia?»
«Be', mi sembra piuttosto ovvio, no?»
«No, Pete. Aiutami a capire, per favore.»
«A Lindsey piacciono i bambini, è così semplice. E cerca sempre lavori che lo tengano in contatto con loro.»
«Io pensavo che avesse accettato di fare il bidello perché l'unica cosa che gli riesce è spazzare un pavimento.»
«Merda. Una cosa così può farla anche nel negozio di alimentari, all'ospizio o dove gli pare. Invece, tutti i posti in cui ha lavorato pullulavano di bambini.»
«D'accordo, allora mettiamola così: il nostro uomo spazza pavimenti solo dove ci sono bambini. E poi?» Wesley lo studiava con attenzione, ma Pete aveva una teoria da cui non si sarebbe lasciato distogliere tanto facilmente.
«E poi, quattro anni fa, uccide il primo ragazzino, e con questo non voglio dire che l'abbia fatto apposta. Succede e basta. Allora mente, ed è schiacciato dai sensi di colpa, e a un certo punto il segreto che si porta dentro lo fa uscire di testa. E così che spesso iniziano le altre cose.»
«Le altre cose?» chiese Wesley. «Quali altre cose, Pete?»
«Si sente colpevole nei confronti dei bambini. Ogni maledetto giorno ce li ha intorno, li guarda e vorrebbe uscire allo scoperto, ottenere il loro perdono, avvicinarsi, tornare indietro... merda, non lo so neanch'io.
«Invece, le cose vanno avanti e un giorno si ritrova a osservare questa ragazzina. Le si affeziona, ha una gran voglia di avvicinarla. Forse la vede anche la sera in cui sta tornando a casa dopo la riunione in chiesa. Forse addirittura le parla e, be', certo non è un problema per lui scoprire dove vive, in questo buco di posto. E così parte all'attacco.»
Bevve un sorso di tè, si accese la terza sigaretta e ricominciò a parlare.
«La rapisce perché, se riesce a tenerla con sé per un po', magari riuscirà a farle capire che non ha mai avuto intenzione di fare del male a nessuno, che è buono. Vuole che lei diventi sua amica. Vuole che lei gli voglia bene, perché se lei gli vorrà bene lo riscatterà dalla sua terrìbile colpa passata. Ma le cose non vanno così. Lei non collabora. È terrorizzata. Quando vede che le sue fantasie non si realizzano, il nostro uomo perde la testa e la uccide. Così, maledizione, l'ha rifatto: due ragazzini assassinati.»
Wesley fece per ribattere, ma proprio in quel momento le nostre ordinazioni arrivarono su un grande vassoio.
La cameriera, una donna non più giovane, con le gambe appesantite e stanche, ci mise parecchio a distribuire i piatti. Desiderava più che mai soddisfare l'importante forestiero che quel giorno sedeva al tavolo in un completo blu nuovo di zecca.
Si profuse in una quantità di "sì, signori" e parve alquanto compiaciuta quando la ringraziai dell'insalata, che peraltro non intendevo affatto mangiare: avevo già perso l'appetito prima ancora di arrivare al Coach House. Proprio non riuscivo a guardare quell'insieme di prosciutto a striscioline, cheddar e tacchino, e soprattutto le fettine di uova sode. Anzi, mi davano la nausea.
«Manca qualcosa?»
«No, grazie. Va bene così.»
«Uhm, questi piatti hanno un'aria invitante, Dot. Le spiacerebbe portarci ancora un po' di burro?»
«Certo, signore, provvedo subito. E lei, signora? Desidera forse più condimento?»
«Oh, no, grazie. Va benissimo così.»
«Molto gentile. Siete così gentili. La vostra presenza ci è tanto gradita. Se vi interessa, tutte le domeniche dopo la messa organizziamo un buffet.»
«Terremo senz'altro presente.» Wesley le sorrise.
Sapevo che le avrei lasciato almeno cinque dollari di mancia, se solo avesse potuto perdonarmi per non aver toccato la sua insalata.
Wesley stava cercando di pensare a qualcosa da dire a Marino, e io mi resi conto che era la prima volta in cui assistevo a una scena simile tra loro.
«Quel che mi chiedo è se quindi hai abbandonato del tutto la tua teoria iniziale» riuscì alla fine a commentare.
«Quale teoria?» Marino tentò invano di tagliare la bistecca con la forchetta, quindi prese il pepe e la salsa piccante.
«Temple Gault. Mi pare che tu abbia praticamente smesso di cercarlo.
«Non ho detto niente del genere.»
«Senti» mi intromisi io, «cosa c'entrava questa storia dell'incidente stradale?»
Sollevò una mano, chiamando la cameriera. «Dot, ho bisogno di un coltello affilato, grazie. La storia dell'incidente e dell'omissione di soccorso è importante perché conferma i trascorsi violenti di questo individuo. La gente del posto ce l'ha su parecchio con lui proprio per quella faccenda e anche perché rivolgeva troppe attenzioni a Emily Steiner. Tutto qui. Volevo solo aggiornarvi sulla situazione.»
«E la tua teoria come spiegherebbe i lembi di pelle umana trovati nel freezer di Ferguson?» chiesi. «Ah, a proposito, il gruppo sanguigno è lo stesso di Emily. Per l'analisi del Dna dovremo aspettare ancora qualche giorno.»
«Non la spiega punto e basta.»
Dot ritornò con un coltello seghettato, che lui affondò subito nella bistecca. Wesley sbocconcellava svogliatamente la sua sogliola ai ferri, con gli occhi incollati al piatto ogni volta che il collega riprendeva la parola.
«Insomma, per quanto ne sappiamo, a uccidere la ragazzina è stato Ferguson. Ma indubbiamente non possiamo escludere la possibilità che Gault sia in città, e io non dico certo che dovremmo farlo.»
«Che altro sappiamo sul conto di Ferguson?» chiese Wesley. «Lo sai che l'impronta rilevata dagli slip che indossava è di Denesa Steiner?»
«Be', certo, quella roba l'hanno rubata in casa sua la notte del rapimento. Ricordate? Ha detto che mentre si trovava legata nello sgabuzzino ha sentito l'aggressore frugare nei cassetti, e in seguito le è venuto il sospetto che avesse preso qualcosa.»
«Questo fatto e la pelle nel freezer mi fanno venire voglia di scavare più a fondo nella vita di Ferguson» disse Wesley. «Nessuna possibilità che in passato avesse avuto a che fare con Emily?»
«Vista la sua professione» intervenni io, «senza dubbio doveva essere a conoscenza dei casi verificatisi in Virginia, di Eddie Heath. Con l'omicidio Steiner potrebbe aver cercato di imitare un esempio. O forse si è solo ispirato ai fatti della Virginia.»
«Ferguson era un tipo strano» sentenziò Marino, tagliando un altro pezzo di carne. «Di questo potete stare sicuri, ma qui nessuno sembra saperne più di tanto.»
«Da quanto tempo lavorava per l'Ufficio investigativo di stato?»
«Da dieci anni. Prima era nella polizia a cavallo, e prima ancora nell'esercito.»
«Divorziato?» chiese Wesley.
«Perché, esiste qualcuno che non lo sia?»
Wesley non rispose.
«Due volte. Una ex moglie nel Tennessee e una a Enka. Quattro figli, tutti grandi e sparsi per il mondo.»
«E i parenti cos'hanno detto di lui?» domandai.
«Be', mica lavoro qui da sei mesi.» Riprese la salsa piccante. «In una giornata posso parlare solo con un certo numero di persone, e questo se sono così fortunato da beccarle per telefono al primo o al secondo colpo. E visto che voi non c'eravate e che il peso è rimasto tutto sulle mie spalle, spero non la prenderete come un'offesa personale se vi dico che una fottuta giornata è fatta solo di ventiquattr'ore.»
«Lo sappiamo, Pete» rispose Wesley nel tono più comprensivo possibile. «Ed è per questo che adesso siamo qui. Siamo perfettamente consapevoli che c'è un sacco di lavoro da fare. Forse anche più di quanto non pensassi all'inizio, perché non c'è un solo conto che torni. A quanto pare il caso potrebbe prendere almeno tre direzioni diverse, e purtroppo non vedo molti indizi. Per ora so solo che intendo indagare meglio su Ferguson, perché le uniche prove scientifiche a nostra disposizione riguardano lui: la pelle umana nel freezer, piuttosto che gli slip di Denesa Steiner.»
«Qui fanno un ottimo dolce alle ciliegie» disse Marino, cercando con lo sguardo la cameriera, che era ferma davanti alla porta della cucina e lo osservava in attesa di un suo cenno.
«Quante volte sei già venuto in questo posto?» gli chiesi allora.
«Da qualche parte dovrò pur mangiare, giusto, Dot?» Alzò la voce, mentre il nostro angelo custode riappariva al tavolo.
Wesley e io ordinammo due caffè.
«L'insalata non era di suo gradimento?» si informò subito la donna, sinceramente dispiaciuta.
«No, era buonissima» le assicurai. «È solo che avevo meno fame del previsto.»
«Vuole che gliela confezioni per portarla via?»
«No, grazie.»
Quando si allontanò, Wesley riferì a Marino ciò che avevamo appreso dalle analisi di laboratorio. Per un po' discutemmo del midollo vegetale e del nastro adesivo, e ora che gli venne servito il dolce, che lo ebbe mangiato e che si fu riacceso una sigaretta, avevamo quasi esaurito tutti gli argomenti. D'altronde, nemmeno Marino aveva idea di cosa significassero quei nuovi sviluppi.
«Maledizione» bofonchiò a un certo punto, «è tutto assurdo. Non mi sono imbattuto in un solo indizio che collimi con quello che mi avete raccontato.»
«Certo» commentò Wesley, la cui attenzione cominciava a venire meno, «un nastro adesivo del genere è talmente fuori del comune, che qualcuno deve pur averlo notato. Ammesso che provenga da questa zona. E anche se così non fosse, ho una certa fiducia nel fatto che riusciremo a scoprire qualcosa.» Spinse indietro la sedia.
«Pago io» dissi, prendendo il conto.
«Guarda che qui non accettano l'American Express» mi avvertì Marino.
«Sono le due meno dieci.» Wesley si alzò. «Ci rivediamo in albergo alle sei per mettere giù un piano.»
«Odio dovertelo ricordare» dissi io, «ma è un motel, non un albergo, e in questo momento né tu né io abbiamo una macchina.»
«Vi porterò al Travel-Eze. La tua auto dovrebbe essere già lì ad aspettarti. Ma se pensi di poterne avere bisogno anche tu, Benton, possiamo procurartene una» intervenne Marino, come se fosse il nuovo capo della polizia di Black Mountain, o magari il nuovo sindaco.
«In questo momento non so ancora di cosa potrò avere bisogno» ribatté lui.