3

 

Quando Wesley lo richiamò, alle diciotto e ventinove minuti, il tenente Hershel Mote non riuscì a dominare una sfumatura isterica nella voce.

«Dove si trova?» gli chiese di nuovo Benton.

«In cucina.»

«Tenente Mote, si calmi e mi dica esattamente dove si trova.»

«Sono nella cucina dell'agente Max Ferguson. Non posso crederci. Non ho mai visto niente del genere.»

«È solo o c'è qualcuno con lei?»

«Sono solo. A parte quello che c'è di sopra, gliel'ho già detto. Ho chiamato il coroner e l'ufficio mezzi. Stanno cercando qualcuno da mandare qui.»

«Non si agiti, tenente» ribadì Wesley, con l'impassibilità che gli era propria in questi casi.

Dal vivavoce sentii il respiro affannoso di Mote.

«Tenente Mote?» gli dissi. «Sono la dottoressa Scarpetta. Lasci tutto esattamente come si trova.»

«Oh, Dio» gemette. «L'ho toccato...»

«D'accordo...»

«Quando... quando sono entrato io... il Signore abbia pietà, non potevo proprio lasciarlo lì così.»

«D'accordo» lo rassicurai. «Ma che nessun altro lo faccia.»

«E il coroner?»

«Neanche lui.»

Gli occhi di Wesley erano puntati su di me. «Noi partiamo subito. Nel giro di poche ore saremo lì. Nel frattempo, lei si sieda e non si muova.»

«Sì, signore. Mi siederò qui e aspetterò che mi passino questi dolori al petto.»

«Dolori al petto? Quando sono cominciati?»

«Appena l'ho trovato. Ha cominciato subito a farmi male.»

«Ne aveva mai sofferto in precedenza?»

«Non che mi ricordi. Non così.»

«Me li descriva con precisione» dissi, allarmata.

«Sono proprio al centro del petto.»

«E il dolore si è esteso anche alle braccia o al collo?»

«No signora.»

«Ha le vertigini? Suda?»

«Sto sudando un po'.»

«Le fa male a tossire?»

«Non ho ancora tossito. Non so.»

«Ha mai avuto problemi di cuore o di pressione alta?»

«Non che io sappia.»

«Fuma?»

«Lo sto facendo.»

«Mi ascolti bene, tenente. Voglio che adesso spenga la sigaretta e cerchi di calmarsi. Sono preoccupata perché mi rendo conto che ha subito un forte shock: lei è un fumatore e, visti i sintomi, in questo momento le sue coronarie stanno correndo un brutto rischio. Considerata la distanza che ci separa, la prego di chiamare un'ambulanza, d'accordo?»

«Ma i dolori si stanno un po' calmando... e poi tra poco dovrebbe arrivare il medico legale... insomma, è pur sempre un dottore.»

«Jenrette?» chiese Wesley.

«È l'unico della zona.»

«Preferirei che non trascurasse questo disturbo, tenente Mote» ribadii in tono fermo.

«No signora, non lo trascurerò.»

Benton prese nota di alcuni indirizzi e numeri di telefono, quindi riappese e fece un'altra chiamata.

«Pete Marino è sempre lì fuori che corre?» chiese all'agente che gli rispose. «Gli dica che è urgentissimo. Si prepari una borsa con il cambio per qualche giorno e ci raggiunga immediatamente all'HRT. Gli spiegherò tutto di persona.»

«Senti, vorrei che venisse anche Katz» gli dissi, mentre si alzava dalla scrivania. «Nel caso in cui la situazione non fosse quella che sembra, potremmo avere bisogno di ricorrere ai vapori per cercare le impronte.»

«Buona idea.»

«Dubito però che a quest'ora lo troverai alla Fabbrica dei corpi. Magari prova col cercapersone.»

«D'accordo, vedrò se riesco a rintracciarlo» disse. Katz era un mio collega di Knoxville.

Quando, quindici minuti più tardi, raggiunsi l'ingresso, trovai Wesley già in attesa con una borsa a tracolla. Io avevo fatto appena in tempo a sostituire le scarpe décolleté con un paio più comodo e a mettere insieme lo stretto indispensabile, valigetta medica compresa.

«Il dottor Katz sta partendo adesso da Knoxville» mi annunciò Benton. «Ci incontreremo sul posto.»

La notte calava sotto una falce di luna lontana e gli alberi stormivano nel vento con un rumore di pioggia battente. Risalimmo il viale di fronte al blocco Jefferson e attraversammo la strada che separava il complesso di edifici dell'Accademia da una distesa di uffici operativi e poligoni di tiro. Non lontana da noi, fra gli alberi, i barbecue e i tavoli da picnic della zona smilitarizzata, scorsi una figura familiare così fuori luogo, lì, che per un attimo pensai di aver preso un abbaglio. Poi ricordai che Lucy mi aveva raccontato delle sue occasionali e meditative passeggiate serali, e sentii il cuore balzarmi in petto alla consolante prospettiva di porgerle le mie scuse.

«Benton» dissi, «torno subito.»

Il mormorio della conversazione mi raggiunse mentre mi avvicinavo ai margini della boscaglia, e per qualche strano motivo pensai che mia nipote stesse parlando da sola. Se ne stava appollaiata su un tavolo ed ero già sul punto di chiamarla, quando mi accorsi che in realtà un'altra persona era seduta accanto a lei, più in basso, sulla panca. Erano così vicine, che sembravano formare un unico profilo. Mi paralizzai all'ombra di un pino alto e folto.

«Perché tu continui a farlo» stava dicendo Lucy in un tono ferito che conoscevo molto bene.

«No, perché tu continui a pensare che io lo stia facendo.» La voce dell'altra donna era dolce e suadente.

«Be', e allora tu non darmene l'occasione.»

«Senti, Lucy, perché non cerchiamo di passare oltre? Per favore.»

«Dammene una, dai.»

«Preferirei che tu non cominciassi.»

«Non sto cominciando. Voglio solo fare un tiro.»

Udii lo sfrigolio di un fiammifero che veniva acceso, poi una minuscola fiammella bucò l'oscurità. Per un attimo intravidi il profilo illuminato di mia nipote che si sporgeva verso l'amica, la cui faccia restò invece nascosta. La punta della sigaretta brillò mentre se la passavano dall'una all'altra. Mi girai, allontanandomi in silenzio.

Quando lo ebbi raggiunto, Wesley riprese a camminare a lunghi passi. «Qualcuno che conoscevi?»

«Così credevo» risposi.

Superammo in silenzio alcuni campi di tiro deserti, con le loro file di bersagli e le sagome in acciaio eternamente sull'attenti. Più in là, una torre di controllo si ergeva al di sopra di un edificio interamente costruito con pneumatici, dove i membri dell'HRT, i Berretti Verdi, si esercitavano in manovre ad armi cariche. Un Bell JetRanger bianco e blu aspettava sull'erba come un insetto addormentato, mentre il pilota parlava con Marino.

«Ci siamo tutti?» si informò al nostro arrivo.

«Sì. Grazie, Whit» rispose Wesley.

Whit, un perfetto esemplare di maschio virile in tenuta di volo nera, aprì i portelli dell'elicottero aiutandoci a salire. Allacciammo le cinture, Marino e io sui sedili posteriori, Wesley su quello davanti, quindi indossammo le cuffie, mentre le pale cominciavano a ruotare e il motore si scaldava.

Qualche minuto più tardi la terra scura era già lontana sotto i nostri piedi e noi ci innalzavamo al di sopra dell'orizzonte, con le bocchette di ventilazione aperte e le luci della cabina spente. Le voci rimbalzavano a intermittenza dalle cuffie alle nostre orecchie. Facemmo subito rotta a sud, verso una minuscola cittadina di montagna dove c'era stata un'altra vittima.

«Non poteva essere arrivato a casa da molto» commentò Marino. «Sappiamo se...?»

«No.» La voce di Wesley gracchiò dal sedile del secondo pilota. «È partito da Quantico subito dopo la riunione. Si è imbarcato al National all'una in punto.»

«A che ora è atterrato ad Asheville?»

«Intorno alle quattro e mezzo. Per le cinque forse era già a casa.»

«A Black Mountain?»

«Esatto.»

«Mote lo ha trovato alle sei» dissi io.

«Cristo.» Marino si girò dalla mia parte. «Ferguson deve avere cominciato a masturbarsi appena arrivato...»

«Se volete possiamo mettere della musica» intervenne il pilota.

«Volentieri.»

«Che genere?»

«Classica.»

«Merda, Benton.»

«Sei in minoranza, Pete.»

«Ferguson non era rincasato da molto. Su questo non c'è dubbio, qualsiasi cosa sia successa dopo» ripresi io, mentre le note di Berlioz si diffondevano nelle cuffie.

«Ha tutta l'aria di un incidente. Una pratica autoerotica finita male. Ma non si sa ancora niente.»

Marino mi diede una gomitata. «Hai un'aspirina?»

Frugai nella mia borsa, al buio, quindi estrassi una minitorcia dalla valigetta medica e ripresi a cercare. Quando gli feci segno che non potevo aiutarlo, Marino biascicò un paio di commenti profani, e soltanto allora mi accorsi che indossava ancora i pantaloni della tuta, la maglia con il cappuccio e gli scarponi che aveva in Hogan's Alley. Assomigliava a un allenatore avvinazzato di qualche squadra di terz'ordine, e io non resistetti alla tentazione di illuminare alcune eloquenti macchie di vernice rossa sulla sua schiena e sulla spalla sinistra. Lo avevano colpito.

«Sì, be', avresti dovuto vedere gli altri» risuonò improvvisa la sua voce nelle cuffie. «Ehi, Benton. Hai un'aspirina?»

«Mal d'aria?»

«No, mi sto divertendo troppo per pensarci» rispose Marino, che odiava volare.

Le condizioni meteorologiche erano favorevoli. Procedendo a una velocità di circa centocinque nodi, l'elicottero si apriva tranquillamente un varco nella notte serena. Sotto di noi le macchine scivolavano come occhiuti zanzaroni d'acqua, mentre le luci della civiltà tremolavano fra gli alberi simili a piccoli fuochi. Se soltanto i miei nervi non fossero stati tesi come corde di violino, quella vibrante oscurità avrebbe potuto accompagnarmi dolcemente nel sonno. Ma il mio cervello era in fermento, le immagini si affollavano, le domande restavano senza risposta.

Rividi il faccino di Lucy, la curva delicata della sua mascella e della sua guancia, mentre si chinava verso il fiammifero tra le mani a coppa dell'amica. Le loro voci emozionate mi riecheggiavano nella memoria, e non capivo la ragione del mio stupore, perché dovessi sentirmi così coinvolta. Mi chiesi fino a che punto Wesley fosse informato. Mia nipote si trovava a Quantico dall'inizio del semestre autunnale: lui l'aveva avuta sotto gli occhi molto più a lungo di me.

Arrivammo alle montagne senza incontrare raffiche di vento, e per un po' la terra mi parve un'unica distesa nera come la pece.

«Saliamo a quota millequattrocento» annunciò la voce del pilota. «Tutto bene là dietro?»

«Immagino sia vietato fumare» rispose Marino.

Alle nove e dieci il cielo color inchiostro era punteggiato di stelle, la catena delle Blue Ridge appariva come un oceano corvino gonfio e silenzioso. Seguimmo le ombre fitte delle foreste, piegando infine dolcemente verso un edificio in mattoni che immaginai essere una scuola. Oltre un angolo, in corrispondenza di un campo da football, i fari delle macchine della polizia e alcuni segnali luminosi dai riflessi ramati rischiaravano con zelo eccessivo la nostra zona d'atterraggio. Iniziammo la discesa, mentre dalla pancia del Bell JetRanger si irradiava il potente fascio da trenta milioni di candele del Nightsun. Whit ci depositò a terra con la dolcezza di un gabbiano.

«Home of the Warhorses» lesse Benton su alcune bandiere drappeggiate lungo il recinto. «Spero stiano giocando una stagione migliore della nostra.»

Mentre le pale rallentavano il loro turbinio, anche Pete guardò fuori dal finestrino. «Non vado a una partita del liceo da quando avevo l'età per parteciparvi.»

«Non sapevo che avessi giocato a football» dissi.

«Certo. Numero dodici.»

«Posizione?»

«Tight end.»

«Ti ci vedo.»

«Qui siamo a Swannanoa» ci informò Whit. «Black Mountain è un po' più a est.»

Ad accoglierci furono proprio due agenti in uniforme della polizia di Black Mountain. Sembravano troppo giovani sia per avere la patente, sia per portare armi, erano pallidi e si sforzavano di non guardarci con troppa insistenza. Sembrava che fossimo atterrati da un'astronave, avvolti da una girandola di luci e da una calma ultraterrena. Non sapevano cosa fare di noi né cosa stesse accadendo nella loro cittadina, così l'ultimo tratto di strada in macchina si svolse nel più completo silenzio.

Poco dopo parcheggiavamo in una stradina angusta, intasata da mezzi di soccorso e delle forze dell'ordine con le luci lampeggianti e i motori accesi. Contai tre macchine di pattuglia oltre alla nostra, un'ambulanza, due autopompe, due vetture prive di contrassegni e una Cadillac.

«Fantastico» mormorò Marino, chiudendo la portiera. «Ci sono proprio tutti. Manca solo mio zio.»

Il nastro di delimitazione della scena del delitto andava dalle colonnine della veranda fino ad alcuni cespugli, aprendosi a ventaglio su entrambi i lati della casa a due piani. Sul vialetto di ghiaia una Ford Bronco era posteggiata davanti a una Skylark da cui spuntavano le antenne radio della polizia.

«Le auto appartenevano a Ferguson?» chiese Wesley, mentre salivamo i gradini di cemento.

«Sì, signore, quelle lì sul vialetto erano sue» replicò l'agente. «Adesso si trova lassù, dove c'è la finestra d'angolo.»

Quando mi vidi davanti all'improvviso il tenente Mote, sulla porta d'ingresso, provai una sensazione di sgomento: era chiaro che non aveva seguito i miei consigli.

«Come si sente?» gli chiesi.

«Tengo duro.» Dal sollievo che manifestò nel vederci, quasi quasi mi sarei aspettata un abbraccio. Il suo volto però era grigio. Un alone di sudore gli rigava il colletto della camicia di cotone e gli luccicava sulla nuca e sulla fronte. I suoi abiti erano intrisi di fumo di sigaretta.

Ci trattenemmo nell'atrio, con la schiena rivolta verso le scale che portavano al secondo piano.

«È stato fatto qualcosa?» domandò Wesley.

«Il dottor Jenrette ha scattato delle foto, parecchie, ma non ha toccato nulla. Se avete bisogno di lui, è fuori che parla con gli uomini della squadra.»

«Ho visto molte macchine» intervenne Marino. «Dove sono finiti tutti quanti?»

«Un paio di ragazzi sono in cucina. Altri due stanno ispezionando il giardino e il boschetto sul retro.»

«Ma non sono saliti, giusto?»

Mote emise un lungo sospiro. «Insomma, va bene, non posso mettermi a raccontar storie proprio a voi. Sì, sono saliti e hanno dato un'occhiata. Però hanno tenuto le mani a posto, questo ve lo garantisco. L'unico a essersi avvicinato è stato Jenrette.»

Si avviò sui primi gradini. «Max è... è... Oh, al diavolo.» Si fermò e si girò a guardarci, gli occhi colmi di lacrime.

«Non ho ancora capito bene come ha fatto a scoprirlo» disse Marino.

Ricominciammo a salire, mentre Mote lottava per darsi un contegno. Il pavimento era ricoperto dalla stessa moquette color rosso scuro che avevo visto al piano di sotto, le pareti erano rivestite con pannelli di pino laccato color miele.

Si schiarì la voce. «Questo pomeriggio, verso le sei, ho fatto un salto per vedere se Max aveva voglia di uscire a cena. Poiché non è venuto ad aprirmi, ho pensato che fosse sotto la doccia o qualcosa del genere, così sono entrato.»

«Aveva mai notato nulla che potesse lasciar intuire abitudini di questo tipo?» si informò delicatamente Wesley.

«No, signore» rispose Mote con trasporto. «Non riesco a capire. Non riesco proprio a capire... Be', certo, a volte si sente parlare di persone che ricorrono a strane attrezzature. Io non so, non so a cosa potesse servire.»

«Nella masturbazione, il laccio a capestro ha lo scopo di esercitare una pressione sulla carotide» spiegai. «In questo modo si comprime l'afflusso di ossigeno e sangue al cervello, il che dovrebbe favorire l'orgasmo.»

«Lo chiamano anche "andare mentre si viene"» puntualizzò Marino con il suo proverbiale tatto.

Mote ci lasciò proseguire da soli verso una porta illuminata in fondo al corridoio.

L'agente Max Ferguson aveva una camera da letto maschile e modesta, con una cassettiera in legno di pino e una rastrelliera piena di carabine e fucili da caccia appesa sopra una scrivania con avvolgibile. La pistola, il portafoglio, distintivo e documenti e una confezione di preservativi Rough Rìder erano appoggiati sul comodino accanto al letto con piumone; l'abito che indossava a Quantico quella mattina era ordinatamente ripiegato su una sedia, con le scarpe e le calze per terra lì vicino.

A metà strada tra il bagno e l'armadio c'era uno sgabello da bar, a pochi centimetri dal suo corpo sul quale era stata stesa una coloratissima coperta all'uncinetto. Sopra la sua testa, un cavo di nylon tranciato pendeva da un gancio avvitato nel soffitto di legno. Dalla valigetta medica estrassi un termometro e un paio di guanti. Mentre rimuovevo la coperta da quello che doveva essere stato il peggior incubo di tutta la vita di Ferguson, sentii Marino imprecare sottovoce. La prospettiva di una pallottola non gli avrebbe fatto altrettanta paura, ne ero sicura.

Giaceva riverso, con un enorme reggiseno nero imbottito di calze dall'odore vagamente muschiato. Gli slip neri di nylon erano abbassati intorno alle ginocchia pelose, e un preservativo penzolava ancora dal suo pene ormai floscio. Alcune riviste sparse lì attorno rivelavano la sua predilezione per le donne legate, con seni straordinariamente rigonfi e capezzoli grandi quanto piattini da caffè.

Esaminai il laccio di nylon stretto intorno alla salvietta che gli fasciava il collo. Il cavo, vecchio e spelacchiato, era stato tagliato appena sopra l'ottavo giro di un cappio perfetto. Aveva gli occhi semichiusi, la lingua sporgente.

«L'attuale posizione del corpo quadra con l'ipotesi che fosse seduto sullo sgabello?» Marino guardò il segmento di corda ancora appeso al soffitto.

«Sì» risposi.

«Quindi si stava masturbando ed è scivolato?»

«O forse prima ha perso conoscenza e poi è scivolato» dissi.

Marino andò verso la finestra e si chinò su un bicchiere pieno di un liquido ambrato che si trovava sul davanzale. «Bourbon» sentenziò. «Liscio o quasi.»

La temperatura rettale era di trentotto gradi, come c'era da spettarsi se Ferguson era morto circa cinque ore prima in quella stanza e il suo corpo era rimasto coperto. Nelle fasce muscolari minori si era già instaurato il rigor mortis. Il preservativo era di tipo borchiato, con un grosso serbatoio ancora asciutto. Andai a controllare la confezione sul comodino: ne mancava uno, ed effettivamente nel cestino dei rifiuti in bagno trovai la relativa bustina color porpora.

«Interessante» commentai, mentre Marino apriva i cassetti in camera.

«Cosa?»

«Avrei detto che il preservativo se lo fosse messo mentre era già legato.»

«Infatti.»

«E allora la bustina non avrebbe dovuto essere vicino al corpo?» La ripescai dai rifiuti, toccandola il meno possibile, e la infilai in un raccoglitore di prove in plastica.

Visto che Marino non replicava, aggiunsi: «Be', immagino dipenda tutto da quando si è tirato giù gli slip. Forse prima di mettersi il cappio».

Tornai in camera. Marino se ne stava a quattro zampe di fianco alla cassettiera e fissava il corpo con un misto di incredulità e disgusto.

«E dire che avevo sempre pensato che la cosa peggiore fosse tirare le cuoia seduti sul cesso» commentò.

Guardai il gancio ad anello piantato nel soffitto: impossibile dire da quanto tempo fosse lì. Stavo per chiedere a Marino se aveva trovato altro materiale pornografico, quando trasalimmo nell'udire un pesante tonfo in corridoio.

«Che diavolo...?» esclamò lui.

Si lanciò fuori dalla porta, e io dietro di lui.

Il tenente Mote era crollato vicino alle scale, cadendo a faccia in giù sulla moquette e giaceva immobile. Quando mi inginocchiai al suo fianco e lo voltai, era già livido.

«Ha un arresto cardiaco! Chiama quelli dell'ambulanza!» Gli tirai in avanti la mascella, per evitare un'ostruzione delle vie respiratorie.

Quindi, mentre i passi di Marino rimbombavano giù per le scale, appoggiai le dita sulla carotide di Mote: nessun battito. Gli premetti il torace, ma il suo cuore si ostinava a non rispondere. Iniziai a praticargli la respirazione cardiopolmonare, comprimendogli il torace una, due, tre, quattro volte, quindi gli rovesciai la testa all'indietro e gli insufflai dell'aria nella bocca. Il petto si sollevò. Ricominciai: uno, due, tre, quattro, aria.

Mantenni un ritmo di sessanta pressioni al minuto, mentre il sudore mi colava dalle tempie e il mio stesso battito cardiaco accelerava all'impazzata. Mi facevano male le braccia, le sentivo già indurirsi come sassi, quando finalmente allo scoccare del terzo minuto udii i passi affrettati del personale paramedico e della polizia salire su per le scale. Qualcuno mi afferrò per il gomito tirandomi da parte. Delle mani guantate estrassero dei lacci, presero un flacone e attaccarono una flebo. Udii voci che urlavano ordini e annunciavano ogni operazione nell'impietosa foga tipica degli interventi di salvataggio e delle sale di pronto soccorso.

Mentre mi appoggiavo al muro cercando di recuperare il fiato, notai un giovane basso, con i capelli biondi, in grottesca tenuta da golf, che osservava il trambusto dal pianerottolo. Dopo aver lanciato diverse occhiate nella mia direzione, si fece timidamente avanti.

«Dottoressa Scarpetta?»

Dalla fronte in giù, evidentemente risparmiata dalla visiera di un cappello, il suo viso appariva ustionato dal sole. Mi venne in mente che poteva essere il proprietario della Cadillac parcheggiata davanti a casa.

«Sì?»

«James Jenrette» disse, confermando i miei sospetti. «Si sente bene?» Estrasse un fazzoletto accuratamente piegato e me lo offrì.

«Sì, grazie. Sono felice che lei sia qui» risposi in tono sincero, visto che non me la sentivo nel modo più assoluto di affidare Mote alle cure di qualcuno che non fosse un medico. «Potrebbe occuparsi del tenente Mote?» Mi asciugai la faccia e il collo, con le braccia che mi tremavano ancora.

«Certamente. Andrò con lui in ospedale.» Quindi mi porse il suo biglietto da visita. «Nel caso in cui avesse bisogno di me, mi chiami pure al cercapersone.»

«Effettuerà l'autopsia su Ferguson domattina?» gli chiesi.

«Sì. Se desidera assistere, è la benvenuta. Poi potremo parlare di questa faccenda.» Lanciò un'occhiata nel corridoio.

«Ci sarò. Grazie.» Riuscii persino a sorridergli.

Jenrette seguì la barella verso l'uscita, e io tornai nella camera in fondo al corridoio. Dalla finestra guardai le luci rosse che pulsavano sanguigne sulla strada, mentre Mote veniva caricato sull'ambulanza. Mi chiedevo se ce l'avrebbe fatta. Alle mie spalle avvertii la presenza di Ferguson con il suo flaccido preservativo e il reggiseno imbottito: niente di tutto questo mi sembrava reale.

I portelloni posteriori sbatterono. Prima di iniziare i loro soliti ululati, le sirene sbottarono quasi in segno di protesta. Non mi resi conto che Marino era entrato nella stanza fin quando mi toccò un braccio.

«Katz è di sotto» mi informò.

Mi voltai lentamente. «Avremo bisogno di un'altra squadra di soccorso» dissi.